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“VECCHIE CONTRADE VENEZIANE DIMENTICATE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.”– n° 56.

“VECCHIE CONTRADE VENEZIANE DIMENTICATE.”

La TV sopra al frigorifero è accesa … calzettoni di lana, camicia bianca da notte, e capelli inguardabili sparati in aria da Medusa. Il tendalino del ristorante è disteso sopra i tavolini sparecchiati … La porta del retrobar sulla riva di fronte al di là del canale è illuminata, stanno già preparando tramezzini e panini per la giornata, mentre di fronte la serranda è ancora abbassata del tutto e le luci in sala sono soffuse. Lungo le Fondamenta e le Calli deserte, su molti bordi di scuri chiusi s’accendono contorni di luce … Per molti Veneziani inizia un’altra giornata … Nella hall disertata di uno dei tanti alberghi veneziani una TV elegantemente incorniciata e vestita da quadro barocco trasmette una serie di foto civettuole su Venezia … non c’è nessuno che la osservi. Nel suo cantuccio il portiere “pisola” nella penombra disteso dietro al bancone … Un’altra notte è quasi trascorsa.

Qualcuno sta frugando nel buio dentro a una barca ormeggiata “da notte” alla riva. Un’anziana signora di un umido e scrostato pianoterra con le finestre spalancate sta curva sulla tazza della colazione armata di grossi biscotti … con la mano sinistra accarezza un grosso gatto paffuto e baffuto bianco e nero che s’ingozza con la testa dentro alla sua ciotola.

Una guardia carceraria passeggia felpata e lentissima sui muri di cinta della Prigione addormentata di Santa Maria Maggiore. Da dentro al recinto illuminato non proviene un suono, una voce, un ronzio … Tutti gli ospiti dormono dietro alle finestrelle dalle sbarre a quadretti.  Santa Maria Maggiore era un monastero vivissimo e bellissimo dei tempi che furono. Lì dentro ne sono accadute tante … le monache ne hanno fatte di tanti colori. Anche quelli che adesso vi sono dentro ne hanno fatte tante di tutti i colori … La storia in qualche modo continua e si prolunga imitandosi, ripetendosi ...

Attraverso il Rio Terrà dei Pensieri … Già il nome mi piace tantissimo … Le chiome degli alberi producono un gioco di chiaroscuri e di ombre curiose … Non vedo più le donnine che un tempo si raccoglievano sotto alle fronde con le loro seggioline impagliate. Ciabatte e galosce, vestaglie consunte, larghe e fiorite, “da casa” …Rimanevano ore intere sedute a chiacchierare e spettegolare, mentre lavoravano a “impirare perle” o sferruzzavano a lana con i gomitoli che ballavano dentro alla busta di plastica posta per terra. Se ne stavano là, pacifiche e beate, senza sentire il bisogno di muoversi e andare in giro chissà dove. Lì avevano tutto il loro microcosmo, che bisogno c’era di muoversi ?

Mia suocera, ch’era donna genuina della Contrada dell’Anzolo, mi raccontava che ai tempi in cui era bambina il solo recarsi dall’altra parte di Venezia era una gita abbastanza rara. Un viaggio considerato spesso inutile, un limite da superare se proprio fosse stato necessario … Intorno al pozzo o alla fontanella della sua Corte o del Campiello c’era già tutto quello che serviva per vivere … Compreso il lavoro, che oggi tanto cerchiamo e bramiamo altrove e ovunque. I pescatori della Contrada tiravano in secco le loro “battelle” a pochissima distanza da casa sulla “Spiaggia di Santa Marta”… spesso dopo una notte infruttuosa di pesca in laguna o alle bocche di porto. Più che per guadagnare soldi la pesca serviva per mangiare e per vivere … e si arrostiva sulle braci e friggeva il pesce in compagnia davanti alla porta di casa, o in riva al canale vicino. Lo si vendeva anche a chi passava di là … mangiandolo a “scottadeo” sulla soglia di casa … seduti precariamente, in compagnia di qualcuno e di un “gotto” di vino più o meno di qualità.

Bastava alzare gli occhi, e compiere solo due passi, e si poteva accedere a tutti i servizi indispensabili per vivere. Tutta gente, esercenti e bottegai con cui si aveva confidenza, e che ti conoscevano fin dalla nascita. Il fruttivendolo con le ceste e il tendalino tirato sopra alle verdure e la frutta provenienti direttamente in barca dagli orti di Sant’Erasmo, la rivendita del Panettiere col garzone fischiettante che portava i dolci impilati in equilibrio sulla testa, e la gerla di pane profumato appena cotto e sfornato dal vicino Fornèr appena giù del ponte limitrofo. La porta seguente era quella del “Biavaròl” il pizzicagnolo, salumiere … Proprio di fronte c’era il “becchèr” il macellaio, che riceveva carne di “casada” direttamente dagli zii, cugini, parenti contadini e piccoli allevatori di animali da cortile residenti in Terraferma. Nella calletta accanto, solo a due passi, c’erano aperte dall’alba al tramonto le cupe botteguccie del “Fravo” fabbro, del “Caleghèr” calzolaio che faceva magie riciclando all’infinito le stesse scarpe e ciabatte, del“Marangòn” falegname tuttofare capace di costruirti un letto, un armadio, una sedia e qualsiasi altra cosa ti passasse per la testa. Era uno dei mestieri che si trasmettevano di padre in figlio, e in fondo alla bottega stava anche il nonno con la matita rosso-blu sull’orecchio e la pipa o la perenne sigaretta accesa sulla bocca. Proprio in fondo alla calletta che si faceva sempre più stretta e buia, c’era anche lo “Squero”il piccolo cantiere delle barche di Contrada, che sapeva miracolosamente riattare barche e barchette e per arrotondare s’ingegnava anche a produrre remi e forcole di bassa fattura per quelli che s’accontentavano di possedere qualcosa di funzionale seppure non perfettissimo. 

Superato solo un ponte, o più semplicemente aggirata una Fondamenta c’era la chiesa della Contrada dove si entrava e usciva per tutta la vita: in braccio alla madre appena nati … e a gambe distese il giorno del funerale. Ma suonavano sempre per tutti le stesse campane, accomunando tutti nello stesso destino all’ombra di Dio, della Madonna e dei Santi … e del vecchio Piovano grasso e burbero, che ne sapeva però una più del Diavolo e conosceva i segreti di tutti.
Proprio di fronte alla chiesa c’era anche la Spezieria dove si potevano trovare i rimedi per tutti i mali, e anche per tutte le spossatezze e le malinconie che possono assaltare l’esistenza. La figlia prosperosa del vecchio farmacista Ricardo faceva l’ostetrica, la levatrice, e aveva visto e fatto nascere sul letto di casa quasi l’intera Contrada. Quasi tutti erano “passati” per le sue abili mani.  Tutte le donne della Contrada consideravano “la Pia” come una sorella maggiore, e non avevano pudore e riserve a recarsi da lei in caso di bisogno a farsi controllare “di sotto” o le “tette” dietro alla tendina rossa e consunta del retrobottega della Spezieria. 

Viceversa, dalla parte opposta della Fondamenta ci si recava al Banco del Lotto, un’altra specie di piccola chiesa e santuario di Contrada dove si andava a invocare la dea Fortuna a suon di “palanche” per provare a cambiare e alleviare in qualche maniera quel destino misero e comune in cui si viveva da sempre. Sognare non costa nulla, o meglio viene a costare parecchio se ti lasci prendere dal gioco …  e qualcuno si giocava già a quei tempi anche la camicia … “Segna sul giazzo” dicevano a Berto del Lotto con la barba sempre sfatta e gli occhiali sulla punta del naso … E quello segnava i debiti su un suo quadernaccio unto e scuro. Tutti sapevano però che dovevano saldare i debiti entro fine mese, o al massimo per i più fidati entro quello successivo … perché altrimenti … C’era sempre una minacciosa paura per quello che sarebbe potuto succedere o era realmente accaduto a quelli che non pagavano quanto dovuto. Ogni tanto si vinceva, molto spesso si perdeva giocando un paio di numeri … un ambo, un terno su Venezia o su tutte le ruote … Non di più, visto che le tasche erano vuote … Ci si divertiva con “altro”… C’era anche la Marietta, brutta come la fame, che in cambio di “qualcosa dentro al letto” era disposta a lavare e stirare per qualche giovane che non era capace d’arrangiarsi o non ne aveva voglia … E c’erano quelli che ci stavano … Non c’erano televisioni, radio, giornali … Solo pochi sapevano leggere e scrivere…

C’era anche “el Relogèr”orologiaio, con l’eterno monocolo sull’occhio, il suo cucu’ e gli orologi appesi ovunque in bottega che scandivano le ore più strampalate a tutte le ore … Vendeva anche “ori” a bon prezzo, più vantaggioso degli Oresi esosi e ricchi di Rialto. Ma quelli erano anche garanzia di qualità e bellezza … in Contrada invece, era oro un po’ così … di seconda mano. Più avanti e in fondo, vicino alla calletta stretta che portava allo squero, c’era anche l’antro buio di Edoardo che vendeva legna e carbone, scope e scopette, saponi e i primi detersivi in polvere e a peso. In Contrada si lavava a mano fuori della porta di casa e dentro ai grandi mastelli di legno posti accanto alla fontana. Si stendevano i panni ad asciugare sulle corde tese da una parte all’altra della corte, issandole in aria con delle “forcade” di legno per tenerle alte sopra le teste di tutti. Ogni tanto il profumo di pulito e sapone si confondeva e sovrapponeva a quello del fritto, del pane, delle verdure e della pece, del salso e umido della laguna ...

La Corte apparteneva a tutti, era il palcoscenico della vita quotidiana comune, dove s’inscenavano le notizie e i pettegolezzi sulle vicende di tutti coloro che vivevano nei dintorni e anche oltre. In una corte si era tutti come una specie di grande famiglia allargata. Il passatempo più gradito delle mamme, ma anche delle nonne e di quasi tutte le donne era quello di rimanere lì a raccontarsela … magari lavorando a maglia, impirando perle di vetro per far collane, giocando a tombola, cantando qualche vecchia canzone e ripetendo all’infinito gli strambotti e i proverbi di sempre.

“Campieo campielletto …xe nato un porselletto …” e tutti si spupazzavano l’ultimo nato, legato stretto in fasce come un salame per farlo crescere robusto e dritto. Sulla corda tirata in corte s’assiepavano i “ciripà” per assorbire la pipì, lavati e messi ad asciugare ... “El xe piccolo … ma magna e beve, piscia e caga … come un drago …” confabulavano le donne sghignazzando …
In Corte ci s’incontrava, ci si innamorava a suon di sorrisi e di sguardi insospettabili … Gli uomini tornando dal lavoro icnontravano le donne sedute sulle loro seggiole impagliate col cuscino dei merletti in grembo.
Fiori e piante e rampicanti foderavano la corte … ed erano di tutti, come di tutti erano i reumatismi per la muffa, la salsedine, e l’umido che penetrava ovunque fin dentro alle coperte. Ogni tanto l’acqua alta nottetempo entrava fin sotto ai letti … ed era normale spazzarne fuori le lordure il mattino dopo continuando a vivere come il solito. Non c’era il gabinetto, la doccia, la vasca da bagno … ma un comodissimo “bocàl” tenuto in un angolo, con la “gamèla da notte” di raccolta da vuotare nel canale più prossimo il mattino dopo fra le prime incombenze del giorno.

Quando moriva qualcuno moriva un pezzettino di se stessi ... Quasi tutti nella Contrada finivano con l’essere Padrini o Madrini di qualche “fjosso o fjossa”, o Comare e Compare a qualche matrimonio. Accadeva una tacita protezione e solidarietà reciproca durevole e solida, quasi scontata, il campiello affratellava e univa fino a indurre alla condivisione. In corte si giocava anche a “mussa vegna” saltando uno sulla groppa dell’altro formando la lunga catena umana … oppure si faceva la carriola camminando sulle mani … o si giocava con le “balle de fragna”, a “sdoè”e con le “marocche” di vetro. Le bimbe giocavano a far da mamma con le “piavole”fatte in casa di pezza, con due bottoni per gli occhi, e un bel sorriso disegnato sul volto fatto di stoffa consunta.
Gli uomini invece frequentavano assiduamente l’osteria per giocare con le carte bisunte e perdersi dentro ai bicchieri delle “ombre” di vino. Carte da gioco e pochi soldi che passavano di tasca in tasca, a volte fino a tornare in quella di partenza dopo un lunghissimo giro. “In vino veritas”, e “Un gotto tira l’altro”… All’osteria veniva fuori di tutto, anche quello che a mente fredda non si avrebbe voluto dire.

“I politici sono tutti uguali … Cambia solo il colore e il fazzoletto … Sono tutti magnoni della vita e del sudore della povera gente …”

Per le grandi occasioni, invece, giù del ponte e dopo la calle c’era la Locanda nel Campo più grande … dove si andava a celebrare il pranzo di matrimonio o le ricorrenze della “Cassa Peòta”“Te fasso un bon presso”diceva sempre l’oste rubicondo e sorridente con lo stesso grembiulone bianco ocra sporco di cucina indosso…. E istintivamente si sfregava le mani che lavava raramente.

I liberi gatti erano i veri padroni del posto … più dei cani troppo obbedienti e sottomessi al padrone. Nelle gabbiette cantavano gli oseletti … In mezzo alla corte troneggiava il Capitello, perchè ricorrere all’Altissimo e ai Santi era rimedio bon per ogni male … Il Pronto Soccorso non esisteva … Si rimaneva a casa sotto sequestro, in quarantena…

Circa una volta al mese passava il “Guetta” che stendeva per terra i suoi coltelli e gli ombrelli … arrotava le lame di casa, aggiustava manici, faceva le cuciture difficili, e saldava le piccole falle domestiche … In casa d’inverno si gelava con tutto un campionario di “buganse” e geloni. Si dormiva in due, tre, quattro per letto … “da pìe”… Si stava stretti a letto a scaldarsi come l’asino e il bue nel presepio … Se le donne avevano i loro mal di pancia si potevano posizionare la borsa dell’acqua calda per la notte … La mia nonna me la passava nel letto per condividere un po’ di tepore … In un angolo delle camere basse e buie stava il “cantonàl” con le foto dei morti e dei giovani figli baldanzosi in divisa non più tornati dalla guerra o dal viaggio per nave.

Al mattino di buon’ora, con lo scialletto sulle spalle e indosso i guanti con le dita tagliate, si mettevano materassi, lenzuola, coperte a prender aria sulle finestre … soprattutto quelli della nonna malata che aveva sempre la “spissa, la grattariola e i brusòri” dappertutto. E poi si usciva in giro per far la magra spesa …
Il biavaròl incartava lo zucchero nella carta da zucchero blu, e vendeva l’olio travasandolo con l’impiria nella bottiglia apposita che si portava da casa. Non serviva lavare la tazza dopo la colazione, bastava porla sopra la “nappa” del camino, sopra al “foghèr” per chi ce l’aveva, per non sciupare lo zucchero ancora utile rimasto sul fondo.
Caleghèr, Curamèr, Pestrìnèr, Tagjapiera, Pistor, Fornèr, Bottèr, Scaletèr, Manganaro, Sartòr … e c’erano tanti altri mestieri intorno ... Le donne s’industriavano in casa a far da sarta acconciando, allungando, rattoppando, girando colletti e polsini delle camicie che passavano di padre in figlio, di fratello in fratello … Alle ragazze a volte si faceva la camicetta con la tela dei paracadute … I più fortunati avevano una casa su due piani, o vivevano all’asciutto ai piani di sopra, salendo per irte e buie scalette dai gradini consunti dal tempo e mangiati dall’umido e dal tempo.

“A-B-H la maestra fa la cacca ! … E’ così che t’insegnano a scuola ?”

Ma quale cultura, scuola, università fuori corso fino a quarant’anni a carico dei genitori, obbligo scolastico ? Qualche fortunato frequentava la seconda, i fortunatissimi fino alla quinta … Molti sapevano fare il disegno della firma senza conoscere il significato delle lettere che percorrevano sul foglio …

“Non è importante saper leggere … Basta saper far tornare il conto con i soldi … Troverai sempre qualcuno che potrà spiegarti il resto …”

Quante mille altre cose ci sarebbero da dire e aggiungere su queste vecchie contrade ormai scomparse. Oggi è deserto il campiello della vecchia contrada … Non sembra neanche più lui, è come uno scheletro di quel che è stato e accaduto lì dentro. Non c’è un vaso di piante negli angoli o fuori delle porte, non c’è un solo panno steso ad asciugare, non una sola porta è rimasta socchiusa o lasciata aperta e incustodita.

“Tanto chi vuoi che venga a rubare quello che non c’è ? … Tutto è di tutti, e le porte son sempre aperte, anche di notte ... Che cosa può accadere di brutto ? Che rapiscano la vecchia nonna malata dal letto di casa ?”
Ci si poteva quasi sempre fidare … salvo qualche rara eccezione che non mancava: “Perché la gente è viva … e a chi vive capita di sbagliare. Chi sbaglia: paga … e si perdona, e non se ne parla più …”

Le vecchie botteghe non ci sono più, c’è solo una lunga fila di saracinesche rugginose e abbassate, file di balconi di legno sbarrati che un tempo erano vetrine e mostre dei vari mestieri … Nella calletta non si sente più martellare né il “Fravo” sull’incudine e sui ferri, né in fondo gli “Squerajoli”sul fasciame delle barche ... Non si sente piallare il “Marangòn”, né picchiare freneticamente il ciabattino nel suo sottoscala odoroso. Non s’annusa l’odore della pece, del legno, del pesce, ma solo quello della spazzatura abbandonata e del piscio negli angoli e nel sottoportico. Osservando dagli ultimi gradini viscidi di alghe verdi che sprofondano sull’orlo del canale, non si vedono più le barche rovesciate sugli scali del cantiere, né quelle di mille tipi cariche di reti e aggeggi da pesca ormeggiate sulle paline infisse nel fango. C’è solo un elegante cabinato coperto da un telone cerato blu … mentre penzola in aria un cartello minaccioso: “Area videosorvegliata. Proprietà privata: Divieto d’accesso a chiunque. Attenti al cane che morde.”


Sotto al capitello buio e annerito dalle intemperie, coperto da una grata rugginosa e piena di ragnatele, sta una lampadina spezzata e divelta. Niente fiori, solo un vasetto vuoto di modesta fattura legato con un filo di ferro perché il vento non se lo porti via. Sopra al vasetto colmato dall’acqua piovana danza e volteggia una nuvoletta vorticosa di moscerini … inconsapevole come molti di noi del tanto che lì c’è stato e accaduto …


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