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“DI PASSAGGIO PER VENEZIA …”

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"Una curiosità Veneziana per volta."- n° 60.

“DI PASSAGGIO PER VENEZIA …”

Come abbiano ricordato più volte, Venezia è sempre stata città di mondo, porto aperto, tutto un andirivieni di gente e personaggi. Per secoli ha fondato la sua identità nell’essere emporio marittimo internazionale, una specie di ponte di raccordo quasi obbligato fra Oriente e Occidente e viceversa.
Martino Da Canal, nel 1200, descrive Venezia.

“ … le merci scorrono per quella nobile città come l’acqua dalle sorgenti … da ogni luogo giungono merci e mercanti, che comperano le merci che preferiscono e le fanno portare al loro paese …”

Tuttavia, si giungeva in Laguna non solo per mercanteggiare, ma anche diretti a visitare i “Luoghi Santi”, o di ritorno sulla via di Roma, Assisi, Loreto, il Santuario dell’Arcangelo Michele sul Gargano, e più di tutti: la Terrasantaoltremare.

I vecchissimi documenti narrano che ai pellegrini giunti a Venezia si vendevano i materiali per proseguire il viaggio: 

“ … cappelli per la pioggia e il sole, bordoni per i passi scoscesi, pellegrine da indossare, zucche per conservare l’acqua …”  

Per la strada si offriva loro: trippe e minestre calde a buon prezzo, e poi anche un buco dove andarsi a rifugiare, seppure sempre con una certa dignità … ma anche taverne, gioco e donne … Ai Pellegrini e Pellegrine servivano anche bagni, un focolare per scaldarsi, qualche luogo sicuro per posare la testa rilassati e sicuri, qualcuno fidato con cui scambiare i loro soldi stranieri ... E serviva altro ancora …

“Sono pur sempre uomini e donne vivi sti’ pellegrini e pellegrine ... No ?”

A Venezia oltre agli “Uomini alla cerca di Dio”, giungevano anche tante donne temerarie e coraggiose ... Mentre Treviso era crocevia strategico, una sorta di spartiacque sulla via dei “Romei” diretti a Roma, o dei “Michaelici” che si spingevano giù giù fino al Santuario dell’Arcangelo Michele sul Gargano di Puglia.

Di passaggio per l’Europa e per l’Italia i pellegrini attraversavano territori, paesi e città di cui rimanevano ammirati oppure sconcertati. Vedevano città sporche e fatte di legno e fango, ma anche città ricche, ben curate e governate. Giungendo e attraversando l’Italia erano ammirati dai campi coltivati, dai boschi verdi e dalle spiagge litorali piene di sabbia e sole. Erano, invece, provati dal valicare le Alpi innevate, nebbiose e piene di gelo, che procuravano loro molte insidie, smarrimenti di strada, incidenti … ma anche episodi curiosi. Come quello raccontato da un pellegrino in un suo diario in cui scrive d’essere stato portato giù a grande velocità per un pendio scosceso e ripido da un “marrone” pagando “una palanca”. Fra divertito e disperato raccontò di essere discesocon gran pericoloe intraprendenzasopra a delle lunghe tavolette di legno (sci, una slitta?) evitando un lungo giro che avrebbe dovuto intraprendere sulla neve.

Quelli che arrivavano in Laguna, erano però anche persone stressate e provate da un viaggio lungo e difficoltoso. Più di qualche volta i Pellegrini avevano dovuto attraversare e subire difficoltà che manco immaginavano quando avevano deciso d’intraprendere quelle imprese considerandole, a torto, solo di natura interiore e spirituale.

“Quel che i pellegrini ignorano, o non considerano a sufficienza, è che il mondo è pieno di lupi … La terra è aspra e selvaggia, le genti avide e vogliose di guadagno …  I Principi e i Signori sono desiderosi di gravare con le loro gabelle su chi transita per le loro terre … i Monaci sono ansiosi di pretendere il pedaggio da chi attraversa ponti, strade, acque e fiumi … Sono inderogabili nell’esigere il balzello da chi macina nelle loro rogge e molini, poco compatibili con i motti e le moine dello spirito, e la penitenza austera dei corpi … Ogni indulgenza e indulto ha un prezzo, ogni benedizione una sua logica da tradurre in moneta sonante … Ogni cantata diretta agli Angeli necessita di una controparte in obolo da versare, in cere da offrire, o orazioni da fare recitare … O se si vuol meglio dire con garbo: “L’elemosina è per la salvezza dell’Animo proprio, a favore dei Morti o dei vivi più cari … o per implorare il favore Eterno, porgere caritade ai miseri, sanare i deboli infermi e la melanconia dei derelitti … Ma la realtà del camminare è tosto diversa …”

Sulle strade della Marca Trevigiana le cronache antiche raccontano di Ospizi in luoghi pantanosi e ostili, superaffollati e luridi, di locande in cui si veniva maltrattati, ricovero d’ubriachi e mezzo bordello o tutto intero.

“Più che taverne erano tane di osti … “latrones et deppredatoris Romipetrorum” … Fossemo mal tratati, et ben pagassemo … Erano posti luridi, biscacie, luoghi di raggiro, d’estorsione e spogliazione, dove s’usavano monete e pesi falsi, e ogni genere di prodizione, inganni e intrallazzi …”

Gli Osti del Padovano e Ferrarese raggiungevano i Pellegrini Tedeschi e Danubiani fin sul Piave in territorio Trevigiano, e li dirottavano e spingevano con lusinghe, astuzie, e soprattutto per interesse sulla via diretta e alternativa dell’itinerario Padova-Rovigo-Ferrara, facendo di tutto per evitare che passassero per Venezia.

Venezia dopo tante traversie e incertezze, doveva presentarsi ai pellegrini come un’oasi sicura di pace e di ristoro.
Molto spesso i Pellegrini la descrivevano nelle loro carte in maniera entusiastica.

Il pellegrino Felix Faber la definiva:
“ … la città più mirabile, anomala e peculiare mai vista in tutta la Cristianità ...”

E Bertrando de la Broquiere, pellegrino giunto a Venezia per imbarcarsi per la Terrasanta:
“Venezia è una città molto buona, molto antica, bella e adatta alla mercatura, tutta circondata dal mare che pasa per la città e fra le sue isole … E’ governata molto saggiamente, perché non si può essere del Consiglio né ottenere cariche importanti se non si è gentiluomini e nativi della città. C’è un Doge, che quando muore viene sostituito da un altro eletto che sembra essere il più saggio e colui che ha più a cuore il bene comune …”

Non male come opinione sulla Venezia del 1432 !

Venezia, infatti, pullulava di ospizi e ostelli d’ogni sorta. Quasi tutti gli Ospedaletti sparsi per le contrade veneziane sono stati in origine strutture d’ospitalità nate per accogliere i pellegrini in transito per Venezia. E non solo in città, ma anche nelle isole circumvicine Monaci, Monache e Frati arrotondavano le rendite non sempre ricchissime fornendo appunto ospitalità, trasporto e sostentamento di qualche tipo a quella schiera periodica più o meno numerosa di devoti e devote in transito. L’isola di San Secondo, quella di San Giorgio in Alga, San Clemente, San Lazzaro degli Armeni solo per ricordare alcuni nomi … Posti diventati poi Lazzaretti, luoghi di contumacia o di riparo provvisorio sia per mercanti, che per soldati, religiosi, legazioni straniere o appestati di turno.

Ieri come oggi Venezia ha sempre avuto una vocazione disponibile e turistica e d’aperta ospitalità.

Venezia che possedeva: “… per pavimento il mare, per mura le onde, per tetto il cielo, per strade l’acqua marina …” , era considerata una tappa irrinunciabile di tutti quegli “Itinerari Santi”, e i Veneziani, da bravi opportunisti che sono sempre stati, hanno approfittato al massimo di quell’evenienza amplificando più che potevano il significato e i motivi per prolungare il più possibile la sosta a Venezia e in Laguna.
La Serenissima aveva abilmente racchiuso solo dentro a certe date e stagioni, e speciali “condizioni ambientali”, il “passaggio” per nave e per mare dei Pellegrini, costringendoli perciò a soste prolungate in città ... anche di mesi. Per far questo, Venezia si era organizzata alla grande, e per ingannare l’inevitabile attesa aveva creato dentro di se e delle sue Contrade una specie di Gerusalemme e Terrasanta Veneziana “fai da te e in miniatura” utile ad anticipare e qualche volta sostituire quanto di prezioso si desiderava raggiungere oltre le insidie costose del mare.

Esistevano tanti luoghi accuratamente sparsi e riconoscibili in tutta la città e la Laguna dove si ripeteva, ricordava e perpetuava tutto quanto era accaduto nella terra Biblica ed Evangelica. Moltissimi Monasteri, Oratori e chiese cittadine erano ricche d’insigni e autentiche Reliquie di ogni momento della Passione del Christo, ma non solo ... Erano fornitissime di “Memorie e resti” di ogni Santo e Martire, e della stessa Madonna Santissima … Nei giorni della lunga attesa dell’imbarco si poteva facilmente vedere, riconoscere, toccare con mano, celebrare e prolungare nei riti quanto si possedeva di caro nello Spirito.
Non c’era nulla oltremare che i Pellegrini in qualche maniera non potessero trovare già a Venezia. Anzi, qualora le loro risorse si fossero affievolite troppo durante quella lunga attesa per ripartire, si poteva perfino rinunciare al viaggio difficile e periglioso accontentandosi di soddisfare in qualche maniera il proprio proposito di Pellegrinaggio sostando solo a Venezia. A Venezia non mancava nessuno degli ingredienti utili per soddisfare i requisiti imposti dai voti del Pellegrinare. C’era abbondanza d’Indulgenze, possibilità di convertirsi e far penitenza, di praticare ogni Beatitudine ed elemosinare i poveri, e compiere ogni opera di evangelica memoria.

A Venezia c’erano folle di poveri e bisognosi che si potevano aiutare, migliaia di Preti, Frati, Monaci e Monache disposti a celebrare, condurre processioni e funzioni a cui ci si poteva aggregare. C’era tutto insomma, il massimo del desiderabile per soddisfare un impaziente e devoto Pellegrino.

Vi dicevo che Venezia era accorta e furba …

Accanto al “Santo”, a Venezia non mancava di certo anche il “profano”, per cui ci si poteva procurare per pochi o tanti soldi, secondo tasca e borsa, di che mangiare, bere, riposare e divertirsi “col corpo” e nello spirito, in attesa del ritorno in patria … ammesso che si avesse voglia e desiderio di tornare. Venezia formicolava di Locande, Osterie, Taverne e luoghi d’incontro per giocare, sostare e accompagnarsi con donne d’ogni prezzo, e magari procurarsi qualche buon affare commerciale ... Venezia era già allora Venezia, ossia un’occasione “ludico-economica” da non perdere.

A dire il vero, quella non era novità esclusiva della città lagunare. E’ risaputo che lungo tutta la Via Francigena che percorre e attraversa l’Europa, e lungo tutte le Vie e i percorsi di pellegrinaggio (vedi ad esempio tutte le strade per Santiago di Campostela e Finisterrae) esisteva tutta un’attività di sostegno che si prestava anche a compiere scambi ed attività di ogni tipo, commerciali e no. Pellegrinare avanti e indietro per l’intera Europa poteva diventare anche un’occasione di business ...

Consapevole di tutto questo, e non a caso, la furba Serenissima si premurava d’organizzare ogni anno la grande “Fiera della Sensa”(dell’Ascensione) in Piazza San Marco, che in qualche maniera segnava la riapertura stagionale delle rotte marittime e della Via per la Terrasanta. Venezia sapeva sposare abilmente il mare sua “materia prima” su cui contava, ma sposava altrettanto argutamente il portafoglio di tutti coloro che passavano per le sue Calli, Corti e Contrade ... grandi o piccoli che fossero … economicamente intesi.
Qualche esempio:

Gennaio 1390. “ Per venire incontro alle esigenze dei Pellegrini e dei viandanti, e in deroga alla delibera del 1377 che permetteva loro di svolgere le attività nelle festività solenni a partire dal primo giorno di Quaresima fino all’Ottava dell’Ascensione, il Dominio autorizza i prestatori che hanno i loro banchi in Piazza San Marco a tenerli aperti in tutti i giorni festivi fino alla fine dell’anno giubileo ricco di grandi indulgenze …”

Che sensibilità di Stato ! E che premura nei riguardi dei poveri Pellegrini e viandanti ! … e che guadagni per i Veneziani, soprattutto … Venezia era davvero sensibilissima e accogliente.
Nella prima metà del 1300 la Serenissima lasciò partire per recarsi in pellegrinaggio fino a Roma congedandoli per qualche giorno dal loro incarico: Fantino Dandolo Podestà di Torcello, il Consigliere della Repubblica Giovanni Contarini, Marco Istrigo Ufficiale-capo delle Saline di Chioggia, il Podestà di Rovigo Rizzardo Querini, Prete Bartolomeo della Contrada di San Simeon Profeta Scrivano presso gli Ufficiali Sopra Rialto, Giovanni Fontana “Ponderator ad stateram Rivolati”a patto che gli Ufficiali della Messeteria trovassero qualcuno capace e in grado di sostituirlo,  Guecello Premarino e Marino Ferro “Ufficiali agli Ori” desiderosi di lucrare un’indulgenza, il “Patrono dell’Arsenale” il Nobile Jacopo Dolfin, il maestro e medico chirurgo Bertuccio Da Ponte, Bartolomeo scrivano presso i “Signori di Notte”, perfino Jacopo Massaro dell’Arte dei Beccheri di Venezia, e  Bertrando Cervella Connestabile a Treviso “… per andare a Roma e restarvi un anno onde visitare tutte le chiese, e soddisfare voti e promesse per la salvezza dell’Anima soa”… e diede ordine di non importunare più riducendogli lo stipendio a Ecelino di Giordano, scrivano della Ternaria di Rialto che si era recato Pellegrino a Roma ... e questi sono solo alcuni casi, presi un po’ alla rinfusa fra i tantissimi disponibili.
Nell’aprile 1340, invece, gli Ufficiali del Catavere di Rialtofermarono un certo Samisso Ebreo Tedesco che era venuto dalla Germania fino a Venezia, e stava cercando un imbarco intorno alle Rive di San Marco per Cipro e per Giaffa con lo scopo di recarsi poi Pellegrino dalla parti di Gerusalemme .

“Un Ebreo pellegrino ?” si dissero incuriositi, ma non più di tanto alcuni Veneziani …
“Non c’è di che meravigliarsi …” fu la risposta degli Ufficiali di Rialto … “Anche per loro Gerusalemme è luogo Santo … come pure per i Saraceni … Sono gente devota pure loro …”
E infatti, gli trovarono nascoste appresso: 4 cinture d’argento, 12 vasi e piatti d’argento, 2 brocchette e 4 coltelli d’oro e d’argento, delle stoffe sempre d’argento per un valore di 80 ducati d’oro.  Ne derivò tutta una contorta trafila economica oltre che fiscale … che i Veneziani seppero gestire con disinvoltura e meticolosità.
Nel 1362, Nicoletto di Maffeo e Giovanni Longo detto il Giovane furono denunciati perché avevano trasportato clandestinamente sulle loro navi dei Pellegrini diretti in Terrasanta fra cui alcuni “propinqui” del Re d’Inghilterra.
Fra dicembre 1375 e febbraio 1376 si svolse la vicenda curiosa del trasporto andata e ritorno di un “cassone” da Treviso a Bologna passando per Venezia. L’aveva spedito un tale Notaio di Treviso Pietro da Piombino ai suoi figli Bartolomeo e Giovanni residenti come studenti a Bologna. Un fatto insignificante e qualsiasi, di normale amministrazione quotidiana, se non fosse stato per la serie di spese eccessive che si vennero ad accumulare, tanto che si finì tutti davanti ai Giudici del Tribunale di Treviso, compreso Giacomo Pietramala da Rimini che accompagnò il cassone per tutto il viaggio.
La lista presentata ai Giudici fu lunghissima, e bisogna ricordare che la giurisdizione del Podestà di Treviso giungeva fino alla gronda lagunare di Mestre, ossia fino al confine della Palada di San Zulian sul bordo estremo della laguna di Venezia.
La prima voce indicava le spese del barcarolo conduttore di burci che portò Pietramalla da Treviso fino a Venezia. Chiese 12 soldi di piccoli, e nell’occasione si pagarono altri 4 soldi piccoli alla Palada di controllo della Cigaya per l’entrata nella Laguna di Venezia ... Subito dopo, fu necessario far passare e valutare il “cassone”alle Tre Tavole del Dazio di Rialto dove si pagarono altri 6 soldi piccoli di tassa d’entrata. Per far poi portare il “cassone”da Rialto fino alla Riva di San Marco per l’imbarco in un altro burcio, si pagarono per trasporto con relativo carico e scarico altri 6 soldi piccoli.
Il noleggio del burcio, col carico del solito “cassone”, costò: 1 libbra e altri 16 soldi piccoli, e Pietramalla giunti al confine veneziano della Torre delle Bebbe, chiese come compenso delle ore utilizzate per accompagnare quel trasporto: altri 4 soldi piccoli. Giunti alla Torre Nova, si dovette procedere al pagamento di altri 9 soldi per il trasporto o Muda, associati ad altri 4 soldi per le spese da contribuire al solito Pietramala, che ne richiese nuovamente altri 6 giunti a Loreo.
Arrivati alla Catena di confine di Corbole di Sotto, si pagarono ancora per il trasporto al cambio 4 Aquilani e altri 3 Aquilani andarono di nuovo a Pietramalla. Giunti a Polesella, il “cassone” fu fatto scaricare dal burcio e caricato su di un carrettone da dei bastazi (facchini)che chiesero come compenso: 8 Aquilani, mentre Pietramalla intascò altri 3 Aquilani per le sue ore lavorate.
Il noleggio della “carettera”che portò il “cassone” fino a Ferrara costò 5 Aquilani, così come il visto d’entrata di Pietramalla in Ferrara costò 1 Aquilano, e la Gabella di Ferrara sul “cassone”richiese: 8 Aquilani ... Di nuovo, per condurre il famoso “cassone” dalla Gabella di Ferrara fino a un altro burcio in partenza per Bologna, si spesero altri 3 Aquilani fra carico e scarico, e per il nolo della barca che portò Pietramalla col “cassone” fino a Bologna, all’arrivo si pagarono 34 Bolognesi.
Alla “barriera”Bolognese di Bitifreddo, presentando i documenti di trasporto rilasciati a Ferrara, si pagarono altri 2 Bolognesi di tassa, e Pietramalla si pagò altri 2 degli Aquilani rimanenti per il lavoro svolto fino a lì, e spese 3 Bolognesi per cenare a Pegolla.
Sulla strada del ritorno, Pietramalla spese 10 Aquilani per pagare il burcio che lo portò da Bologna fino a Ferrara, aggiungenso altri 3 Aquilani come suo compenso, alla “barriera”di Bitifreddo ne aggiunse ancora 3, e per rientrare a Ferrara ne pagò ancora un altro. A Ferrara Pietramalla mangiò e dormì in un ostello spendendo in tutto 4 Aquilani per dormire altri 3 per mangiare “Alle fornaci”.
Per rientrare a Venezia, Pietramalla spese 16 soldi piccoli di noleggio di un burcio, pagò 3 Aquilani per passare a Corbolla di Sotto, e 5 soldi piccoli per cenare finalmente a Chioggia.
Insomma ! Quel “cassone”per viaggiare accompagnato fra Treviso e Bologna via Venezia spese più che una “cifra”. Forse un po’ troppo …
Nell’agosto 1398 il Doge Antonio Venier scrisse preoccupato a Giovanni Zorzi Podestà di Treviso invitando a reperire rapidamente, anche presso privati e con adeguata ricompensa, almeno dieci cavalli forniti di finiture e bardature da mettere a disposizione di tre Ambasciatori di Venezia che si voleva inviare incontro ad Alberto IV Duca d’Austria figlio di Alberto III diretto a Venezia per imbarcarsi come Pellegrino verso il Santo Sepolcro.
Fra 1300 e 1400, Francesco e Antonio Michiel erano proprietari di Galee che si occupavano di traghettare 150 per volta i circa 600, ma forse ben di più, Pellegrini presenti a Venezia e diretti in Terrasanta, e di reimbarcarli dopo circa dodici giorni di ritorno da Giaffa sullo stesso itinerario per una cifra di 30-40 ducati tutto compreso andata e ritorno (vitto, alloggio, tassa al Califfo, pedaggi … mentre eventuale ricorso ad una cavalcatura si pagava a parte e a carissimo prezzo).
Fra agosto e dicembre del 1406, il Senato di Venezia e il Doge Michele Steno si attivarono più volte coinvolgendo il Podestà di Treviso Giovanni Contarini per onorare degnamente il figlio del Re del Portogallo di passaggio per Treviso e Venezia diretto al Santo Sepolcro in Terrasanta con una comitiva di 25 persone e 120 cavalli.
Era importante l’amicizia col Portogallo per l’economia mercantile e marinara di Venezia. Era il “Portus Galiae”, il Porto per le Galee di passaggio sulle rotte dell’Atlantico, le Fiandre, l’Inghilterra, il Grande Nord e viceversa ...
Si concesse una deroga alla Legge del 1398 che vietava il trasporto di pellegrini non sudditi di Venezia sulle Galee di Mercato dirette ad Alessandria e Beirut in Siria, concedendo al Principe Portoghese di salire sulla Galea del Patròn Andrea Cappello facente parte della comitiva o Muda per “Baruti” ossia Beirut. Per l’occasione gli sarebbe stata riservata l’intera Galea liberandola dall’ingombro dei soliti mercanti.
Saputo che il Portoghese illustre sarebbe giunto a Venezia di sabato pomeriggio, si convinse il Podestà di Treviso di trattenerlo un po’ per farlo giungere a Venezia di domenica pomeriggio e riceverlo così in “pompa magna” come meritava.
Sarebbe stato necessario mettere a disposizione l’intero Palazzo del Vescovo, o in alternativa quello del Capitano di Treviso, “... provvedendo letti e suppellettili, arnesi e tutto quanto fosse stato necessario …”
In dicembre il Principe stava facendo ritorno dalla Terrasanta a Venezia, perciò lo stesso Doge fece richiesta urgente allo stesso Podestà di Treviso di organizzare alcune battute di caccia nel Trevigiano per procurare un buon quantitativo di cacciagione da utilizzare per l’ospite illustre. Sarebbe servita a Venezia, a dir del Doge, una buona quantità di: pernici, fagiani, cinghiali, lepri e caprioli.
Fra 1440 e 1450, prima il Doge Francesco Foscari e poi il Doge Pasquale Malipiero, saputo che i Pellegrini Romei (diretti a Roma) stavano pensando, malconsigliati, di preferire l’accesso diretto a Ravenna attraverso i luoghi di Padova e Ferrara saltando perciò la tappa lagunare, scrissero preoccupati prima a Giovanni Malipiero e poi ad Alvise Baffo Podestà di Treviso perché facessero il possibile per impedirlo. Non era veritiera la notizie che a Venezia e Ravenna c’era la peste, era solo una “trovata” per ridurre gli introiti veneziani, e secondo il Doge era essenziale, impensabile il contrario, che per Pellegrinare fino a Roma si dovesse per forza passare e sostare a Mestre e Venezia.
Infine, una chiesa scomparsa e cancellata nel Sestiere di Castello …
Fondata in periodo medievale, esisteva con annesso convento, riedificata nel 1500 in forma rinascimentale. Tutto è stato però demolito da un certo Napoleone nel 1810, come di frequente, assieme ad altre costruzioni della zona dove ora sorgono gli ameni Giardinetti Pubblici di Castello a Venezia.
La chiesa in questione, di cui rimane il solo arco della Cappella Lando, salvato (in realtà lasciato per 15 anni demolito e abbandonato a terra) perché ritenuto opera di Sansovino, è quella di Sant’Antonio di Castello dei Canonici Regolari ... Non Sant’Antonio da Padova … ma Sant’Antonio Abate detto anche Sant’Antonio di Vienna.
Per essere precisi, con la scusa di far posto ai Giardinetti i Francesi pensarono bene di demolire: chiesa e convento di San Domenico dei Domenicani, chiesa e convento delle Canonichesse di San Daniele, il complesso di San Nicolò di Bari che comprendeva anche un Seminario e una serie di Ospizietti dei Marineri e Capotteri, la Scuola degli Schiavi della Madonna del Soldo … Sì proprio “schiavi”, non Schiavoni, che in realtà raccoglieva in Fraterna alcune Maestranze dei Calafati dell’Arsenale … (schiavi spirituali quindi non privati di libertà, anche se a Venezia esistevano anche quelli)… e l’Hospedàl intitolato a Missier Gesù Christo.

Un bel “botto” non c’è che dire, per costruire un bel giardinetto pubblico. E bravo Napoleone ancora una volta !

Tornando a San Antonio Abate … Sulle stampe e mappe antiche si osserva un bel chiesotto con campanile, chiostri del convento, vigne e orti accanto e intorno cinti da alte palizzate, con ampia “cavanna” per le barche …
Vi cito questa chiesa distrutta non solo perché ci rimane un quadro di Vittore Carpaccio (visibile all’Accademia) che raffigura l’interno della chiesa, (quello che ho inserito in cima a questo post) … ma soprattutto perché sembra che da lì s’imbarcassero i Pellegrini per la Terrasanta dopo aver ricevuto (a pagamento ovviamente) l’ennesima benedizione alla fine di una solenne Processione alla quale partecipavano portando croci e indossando il loro costume d’ordinanza.

All’inizio, prima dell’anno mille e a cavallo fra storia e leggenda, quella zona di Castello a Venezia era detta Piombiola, ed era abitata dalla nobile famiglia Pisani imparentata col Doge Pietro Orseolo. Stanchi della gentaglia che viveva e occupava quel posto, di professione: banditi e malavitosi, col consenso del Doge si cercò di estirparli abbattendo tutte le loro casupole e rifugi, e costruendo sul luogo una chiesetta di legno dedicata a Sant’Antonio Abate … Riordino urbanistico, insomma … già allora.

I documenti storici invece, ricordano che con un rogito dell’agosto 1334 Marco Catapan e Cristoforo Istrigo ottennero dal Maggior Consiglio un appezzamento di terreno di 40 passi sull’estrema punta orientale della città di fronte all’isola di Sant’Elena“… affinchè l’avessero ad imbonire e palificare ...”

L’Istrigo la offrì a Fra Giotto degli Abbati, Fiorentino dei Canonici Regolari di Vienne per fondare chiesa e monastero sotto il titolo di Sant’Antonio Abate con cospicui aiuti e donazioni da parte delle nobili famiglie di Venezia: Lion, Pisani e Grimani.

Nel successivo 1346, il disinteressato e devoto Vescovo di Castello Nicolò Contarini diede il suo benestare per la costruzione della nuova chiesa e convento, aggiungendovi l’obbligo per i Canonici Regolari di Sant’Antonio di contribuire ogni anno, in perpetuo, offrendo ai Vescovi di Castello nel giorno della festa di Sant’Antonio il 17 gennaio: 1 libbra di cera e 2 grosse anfore di buon vino ... A sua volta, l’Abate di Ranversa da cui proveniva il Priore Fra Giotto, gli impose l’obbligo di pagare all’Abazia di provenienza una pensione annua di 20 fiorini.

Sorse perciò la chiesa, durante il dogado di Andrea Dandolo, a tre navate e con archi a sesto acuto uniti da catene di ferro nascoste dentro a travi decorati e dipinti ... Esisteva anche un Coro centrale sopraelevato e intarsiato, che divideva in 2 metà l’intera chiesa. Di sotto il Coro era sorretto da una serie di altari in legno che permettevano a più Frati di officiare più Messe contemporaneamente secondo le esigenze dei pellegrini in partenza.

Tre anni dopo, accadde il primo allargamento dei terreni del monastero ... e nel 1359 lo stesso Frate Giotto pagò 200 ducati a Marco Moro per un ulteriore terreno vendutogli l’anno prima.

Altri tre anni ancora, e Papa Urbano V concesse Indulgenza Plenaria a tutti coloro che visitassero la chiesa di Sant’Antonio di Vienne in Venezia: “… facendo opportuna e devota elemosina ...”

L’anno dopo, il Senato di Venezia concesse ai Canonici un ulteriore appezzamento di terreno paludoso di 40 x 25 passi con obbligo di costruirvi una buona palizzata, bonificare il paludo, e corrispondere al Doge 100 libbre di carne porcina annue … Il solito Frate Giotto venne eletto Rettore e Maestro dei “bailaggi” di Venezia, Marca Trevigiana, Grado, Chioggia, Torcello, Equilio (ossia Jesolo), Caorle, Vicenza, Padova, Ceneda, Feltre, Belluno, Concordia, Aquileia, Istria, Croazia, Dalmazia con pensioncina annessa di 500 Fiorini annui ... Però quel Frate Giotto !

Ancora nel 1380, sarà ancora lui, l’eterno Frate Giotto, a contestare alla Serenissima il pagamento di una Decima di 50 ducati richiesta da parte del Monastero ed Ospedale di Sant’Antonio Abate di Castello. Secondo lui i Frati dovevano al Doge al massimo 20 ducati, e non di più. Frate Giotto morì finalmente l’anno dopo, seguito nel Priorato di Sant’Antonio di Castello da Frate Ogerio Calusio, che venne subito usurpato da Frate Girardo Bolliaccio eletto dall’Antipapa Clemente VII di Avignone.

La Serenissima non ci pensò su due volte, e cacciò via l’usurpatore nel giro di un anno. A Venezia si sa bene chi comandava … altro che l’Antipapa di turno !
A dire il vero, quei Frati Canonici inizialmente erano simpatici ai Nobili, al Doge, ai cittadini, e perfino ai popolani Veneziani (il che era raro e difficile) per il loro modo schietto e smaliziato d’operare, tanto che in confidenza alla maniera tipica di Venezia li soprannominarono sinteticamente i “Frati del Porsèo” o “Porselètti”.

Infatti, non solo per la vicinanza alla riva per l’imbarco e al molo di San Marco, i Pellegrini li scelsero sempre come beneauguranti e adatti a benedire la nuova fase del loro itinerario verso la Terrasanta affollando la loro chiesa. I “Porseletti” erano famosi per la loro attenzione verso i miseri e gli ammalati soprattutto di malattie cutanee e della pelle, che sapevano abilmente curare con “complessi manufatti e unguenti” tratti dai loro maiali. Erano perciò sinonimo di efficace protezione dal Cielo, e di buon viatico per intraprendere il nuovo viaggio oltremare non privo d’inside e pericoli, primo fra tutti il naufragio.

Vittore Carpaccio rappresenta bene sul suo dipinto la chiesa dei “Porseletti”piena di ex voto, candele, oggetti da pellegrino, e perfino modellini di navi come memoria di traversate marine benedette andate a buon fine. Erano altri tempi … e per i Pellegrini certe cose contavano molto (rischiavano spesso la vita per il loro andare in giro per il mondo penitenziando). Non a caso prima di partire da casa facevano testamento davanti a un buon Notaio.

“… Chi poteva garantire loro di rientrare al loro familiare ostello ? … dovendo attraversare monti, mari, e tanti mali non ultimo i feroci corsari Cristiani o Saracini, che più che infedeli erano briganti da strada interessati più di ogni altra cosa alla borsa dei denari piuttosto che alla difesa e riconquista delle Porte Sante e dei Luoghi del Cielo …”

Nel 1408 Papa Bonifacio IX conferì il Priorato di Sant’Antonio di Castello a Bartolomeo Canali che dovette pagare 4000 Fiorini di arretrati per la sudditanza all’Abazia di Ranversa, e fu costretto a severe visite di controllo da parte dei superiori dei Regolari di Sant’Antonio ... A Venezia intanto era cresciuta la fama e la potenza economica dei Canonici. Il Doge emise una proibizione che vietava al Monastero di lasciare vagare liberi i loro maiali per la Contrada danneggiando orti e terreni … e perfino mangiando un bambino ... Tuttavia il Doge allo stesso tempo confermò la licenza data ai Frati“… di questuare liberamente a favore di Sant’Antonio in tutto il Dominio di Venezia …”

Cinquant’anni dopo, il Monastero di Sant’Antonio acquistò ancora una casa “… in Riello” accanto ad uno squero e a casette già di sua proprietà.

Negli anni 60 del 1400, Pio II obbligò tutte le Congregazioni compresi i Regolari di Sant’Antonio di Venezia a pagare metà delle loro rendite in aiuto alla nuova crociata da lui ideata. E già che c’erano, dovevano pagare alla Camera Apostolica il giorno dei Santi Pietro e Paolo ogni anno 1 libbra di cera lavorata ... I Canonici abbandonarono chiesa e monastero, e lo concessero a quelli di San Salvador che unificarono i loro due monasteri accettando di pagare 5 Fiorini annui alla solita Abazia di Ranversa ... I Papi ovviamente confermarono indulgenze, rendite e privilegi ... mentre il Monastero ottenne in eredità da parte di un certo Tedesco: tre nuove case e un terreno vacuo a Castello nella contrada di San Pietro.

Durante una peste nel 1511, dopo che un Frate malato s’era portato a morire lì, si chiuse il Convento di Sant’Antonio Abate … Gli altri Frati isolati finirono anche per soffrire per carenza di viveri quotidiani … Nel 1518 i Canonici furono esentati da dazi sia sulle elemosine che sui redditi delle possessioni ... mentre nel 1520 Papa Leone X concesse ai Canonici per un anno tutti i redditi delle questue Veneziane destinate a Roma … Il Monastero diventò a due piani con chiostro centrale e pozzo ... Si costruì un nuovo dormitorio, dei nuovi magazzini sulla riva, e si iniziò la costruzione delle foresterie per gli ospiti … Vettor Grimani depositò nella Procuratoria de Supra prima 500 ducati, e poi altri 122 ducati, e ancora 200 ducati per far costruire la tomba di Antonio Grimani nel presbiterio della chiesa di Sant’Antonio Abate. Per convincere la Serenissima e i Frati a concedergli quello speciale permesso, fece presente che la chiesa era stata fatta costruire dai suoi antenati nel lontanissimo 950 ... Leandro organaro figlio di Andrea Vicentino, residente a Venezia, assieme allo zio Giacomo rifecero l’organo di Sant’Antonio Abate di Venezia ... Si  supplicò la Serenissima perché concedesse il permesso di palificare l’intero orto del Convento.

E trascorrono altri anni …

Di nuovo nel 1644, i Padri Canonici affittarono a 70 ducati annui l’orto piccolo e grando a Mastro Bastian Mauricij … Il Monastero in quel tempo possedeva una rendita annua di 77 ducati proveniente da beni immobili posseduti in Venezia ... Giunti al 1666, si affittò a Mastro Antonio Mazzucconi la “caneva”(cantina) del Convento per 33 ducati annui, e il “granaro” sopra la caneva a Simon Burbon per altri 28 ducati annui ... Cinque anni dopo, la Serenissima proibì ai vascelli ed imbarcazioni di approdare sulle rive prospicienti il Monastero per non disturbarlo.

Raggiunto il 1712, il Monastero giunse a possedere rendite annue di 428 ducati da beni immobili posseduti in Venezia. Un bel incremento di rendite da immobili, non c’è che dire ! ... Tre anni dopo, i Fatebenefratelli che gestivano l’Ospedale di Messer Gesù Christochiesero al Papa di usare anche il vicino Monastero di Sant’Antonio Abate per accogliere feriti e soldati reduci dalla guerra col Turco dopo la perdita di Candia.

Infine, dopo alterne vicende, la Serenissima nel 1768 soppresse il Monastero facendolo diventare di Jus Pubblico, e i Canonici ritornarono alla fine delle Mercerie di San Salvador … I Querini acquistarono alcuni beni provenienti dai monasteri soppressi, compresi quelli del Monastero di Sant’Antonio di Castello, che poco dopo divenne Istituto di Luigia Pyrker Farsetti per raccogliere 70 povere figlie della città e istruirle nell’Arte di filare e tessere.


La zona di Sant’Antonio veniva chiamata dai marinai di Venezia: “Punta Verde” ed era un riferimento per il transito della navigazione Veneziana nel Bacino di San Marco e in entrata-uscita dal Porto di Venezia ... Con l’arrivo dei Francesi, il Convento ormai in disuso divenne ospedale e caserma della Marina Militare … Il resto lo sapete già. Ultima notizia: ancora nel 1817, il dipinto “Sposalizio della Vergine” di Palma il Giovane proveniente da Sant’Antonio di Castello realizzato per un altare dei Nobili Querini fu acquisito dal Demanio ... Poi silenzio e pietre abbandonate in mezzo all’erba dei Giardinetti Pubblici ... insieme ai ricordi degli antichi Pellegrini che vi passavano e ripassavano in quei posti cancellati, dentro a un tempo andato trascorso per sempre …


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