“Una curiosità veneziana per volta.” – n. 84.
“PIAZZA SAN MARCO … IN FILIGRANA.”
“E che diamine ! … Per chi ci prendi ? … San Marco è San Marco ! … Sappiamo tutti che cos’è, com’è, dov’è … Che ci sarà mai da aggiungere ?” mi direte un po infastiditi,“E’ da secoli e secoli che fiumane di gente di ogni razza si catapulta lì da tutto il mondo per ammirare la bella Piazza che è il “salotto buono” di casa nostra, e il cuore fascinoso della nostra città galleggiante e lagunare. Basta citarla soltanto, che subito nella mente di molti si accenderà in successione la mirabile visione delle vedute con cui Canaletto, Marieschi, Guardi, Bellotto e Bellini l’hanno ritratta … Subito penseremo all’insieme plastico e familiare della Basilica col Campanile, il Palazzo Ducale e tutto il resto ritratti mille volte in ogni dettaglio da infiniti disegni e fotografie ... Chi vuoi che non ricordi Piazza San Marco con la famosa scritta “Coca Cola” realizzata concentrando i colombi ? … o chi non ha mai visto la grande “Rosa Rossa” vista dall’alto nella celebre Piazza, composta da un nugolo di persone associate e compattate insieme ?
Dai ! Che vuoi aggiungere ? … San Marco è San Marco ! La Piazza calcata da Re, Papi e Imperatori … Quel formidabile gruppo chiuso dentro al rettangolo delle Procuratie, con la Torre dell’Orologio dei Mori, la Loggetta ai piedi del Campanile, la Biblioteca Marciana con la Zecca, il Ponte dei Sospiri, la Piazzetta con I Leoncini … E’ tutto quello insomma: la Piazza delle Piazze ! … Tutte cose che conosciamo bene e sappiamo già.”
Vero ! Avete ragione: è la Piazza special di Venezia, anzi: la “Piazza” per antonomasia, perchè l’unica in quanto tutte le altre pur essendo a volte ampie, non sono piazze, bensì solo: Campi, Campielli o piccole Corti … e anche questo lo sapete già. Su di un posto e tema del genere esistono già intere biblioteche e volumi ricchissimi, grossi “così”, dedicati a volte a uno solo dei dettagli di quel formidabile complesso monumentale. Su San Marco si è già detto tutto e di più, “in tutte le salse” e per tutte le occasioni, che potrò mai aggiungere ?
Niente.
Volevo solo ricordare di un ometto che ogni tanto, soprattutto con la bella stagione, ma a volte anche col freddo e la nebbia, si reca di mattina presto proprio lì, proprio in Piazza San Marco. Rimane poi lì in solitudine, perchè gli piace moltissimo “stare” dentro a quella Piazza deserta che sente profondamente sua come fosse la sua culla.
Attraversandola tutta, si reca ogni volta a sedere sulla stessa panchina in marmo dello “Stazio-Traghetto” dei Gondolieri posta “in Riva” su quello che è stato il famoso Molo di San Marco, proprio accanto alle due immense colonne granitiche di Marco e Todaro condotte in Piazza con certe caracche da Costantinopoli.
“Todaro tiene in mano lo scudo per difendersi, ossia la Repubblica intende rifiutare la Guerra, ma difende accanitamente i propri interessi ... Infatti, tiene pesto sotto ai piedi il suo nemico: il Dragone antico ... Il “Leone Marciano alato”, invece, guarda il Mare verso Levante: dove Venezia intende costruire il suo Impero sconfinato.”
Si dice che negli occhi del Leone Marciano in pietra, un tempo ci fossero due grossi rubini che rilucevano nella notte verso l’entrata del Porto come se fossero un faro. Oggi l’ometto vede solo due occhiaie di pietra vuote che lo inducono ogni volta a voltare lo sguardo lontano.
Lontano significa un po’ più avanti … dopo il ponte, verso il Traghetto del Ponte della Paglia o delle Prigioni di San Marco, che era uno dei “Traghetti de Dentro”, ossia uno di quelli che agivano prevalentemente sulle brevi tratte intracittadine Veneziane.
Il Traghetto aveva “Stazio”, ossia sede, ai piedi del Ponte de la Pagia che un tempo era in legno e liscio collegando come oggi il Molo di San Marco con la Riva degli Schiavoni. Nello stesso posto ormeggiavano anche le barche che rifornivano di paglia l’intera città, anche se lì era vietata la vendita diretta al minuto. Servendosi di “18 libertà”, ossia le singole autorizzazioni dei Gondolieri per traghettare, il Traghetto era attivo con 6 barche anche di notte offrendo: “barche a nolo per 3 bezzi" portando verso l'isola di San Zorzi Mazòr e la Zueccaal di là del Bacino di San Marco, e all’occorrenza a supplemento verso Traghetti vicini, e per ogni angolo della città e della Laguna seguendo un apposito tariffario esposto nello Stazio. Secondo la sia Mariegola, il Traghetto della Pagia ottenne fin dal 1576 l’autorizzazione di mantenere “… doi de loro barche alla detta Piazzetta davanti alle colonne de San Marco.” … ed è proprio lì che il nostro ometto va spesso a sedersi.
Vicino al Ponte della Paglia sorgeva fin dal 1373 anche l’“Osteria o Hospicium della Stella” che nel 1483 ospitò un’Ambasceria dei Turchi. Secondo il Garzoni nel 1500: “… il gestore della Stella era un Osto del mal tempo…”, e circa la categoria delle Locande di Venezia in generale, lo stesso Garzoni, forse un po’ con la puzza sotto al naso, lamentava:
“… i forestieri talhora gli rubano la penna del letto … i coltelli dalla tavola … i piatti di peltro … Qui scorgi l’hosto per cornuto, l’hostessa per vacca, le figliole per le porcelle, i servitori per assassini … In due parole onde veramente pare che le metamorfosi di Circe sia convertite addosso agli hosti e non ai forestieri … Qui odi parole di mille ruffianesimi, motti di sfacciatissime cortigiane, inviti di sciagurate meretrici, sporchezze di lingue disoneste et vili, bestemmie horrende, imprecazioni horribili, giuramenti falsissimi, promesse piene d’ìnganni e di fallacia in tutto … sugamani stracciati come tele di ragni, i lenzuoli tutti rappezzati, i letti duri come stramazzi, le coperte che san di tanfo per ogni banda …”
Poco più in là, sempre vicino all’Osteria della Stella e allo stesso Ponte della Paglia, sorgevano fin dal 1346 anche l’“Osteria “a pluri” alla Serpa o alla Cerva” dotata di buona stalla per cavalli, condotta nel 1365 da Giovanni de Anglia che ebbe una furiosa rissa con uno sconosciuto … e l’“Osteria “a pluri” alla Corona”, il cui gestore secondo il solito Garzoni era un furbo. Lì nel 1579, in tempo di peste, vi alloggiò un Ambasciatore dei Turchi perché per timore del contagio nessun Patrizio di Venezia l’aveva voluto ospitare.
Tornando al nostro ometto rimasto assorto ad osservare la lunga fila delle gondole “messe a notte” che beccheggiano sulle onde alzando e abbassando sull’acqua il loro “rostro lucido di ferro” che rappresenta i Sestieri, la Giudecca e le isole, lo vedremo ogni tanto girare la testa e lo sguardo osservando in fondo e in lontanza la“Torre dei Mori”.
Ogni volta ripensa alla leggenda che racconta di come è stato accecato col fuoco e poi gli sono stati strappati gli occhi all’autore di quell mirabile orologio perchè non potesse costruirne un altro di simile. E mentre pensa a questo, aspetta che i due Mori traballanti “battano le ore”, e che sotto “girino i numeri”dentro alla scenica festa astronomica e mitica delle Stelle, dello Zodiaco e degli Astri. Ripensa ancora a come la mitica Serenissima si sia preoccupata d’osservare a lungo il Cielo, abbia considerate l’Astrologia e l’Astronomia, gli anni, i mesi e i giorni valutandone il peso e il trascorrere potente, misterioso ed eterno … come desiderava essere lei.
“In bocha de Marzaria” (ossia all’uscita delle Mercerie) sorge come monumento trionfale la “Torre dell’Horologio multo excelente, fato cum gran inzegno et bellissimo” fabbricato a Reggio Emilia da ZuanPaolo Rainieri e suo figlio ZuanCarlo dal 1493 al 1496 … La “Torre dei due Mori con la Campana” venne costrutta per collocare il mirabile orologio … I due automi scuri vennero fusi in bronzo dal fonditore Ambrogio delle Ancore nel 1497, mentre la campana con sfera dorata e croce venne realizzata da un certo Simeone.”
La Torre dell’Orologio venne architettata forse da Mauro Codussi o da Pietro Lombardo che ne rifece di certo le parti laterali balaustrate demolendo i preesistenti fabbricati di fianco. Non essendovi ancora le Procuratie attuali, la Torre per più di un decennio rimase come monumento isolato sulla Porta di Piazza San Marco che ospitava il Potere Politico Serenissimo e la via del Porto e dei Moli di San Marco: “… la nuova Torre voleva essere una sorta di manifesto della nuova stagione dell'architettura urbana dell'Umanesimo Veneziano”.
In effetti l’orologio è bellissimo, un capolavoro di tecnica e meccanica, arricchito anche dall’originale meccanismo della Processione dei Magi che passano inchinandosi davanti alla statua dorata della Madonna col Bambino preceduti dall'Angelo Annunciante che suona una tromba uscendo e ripetendo il passaggio ogni ora.
(Ora lo spettacolo è visibile solo il giorno dell’Epifania e dell’Ascensione, e le attuali statue lignee dei Magi e dell'Angelo sono opera di GioBatta Alviero del 1755.)
Straordinarie sono le indicazioni astronomiche basate sull’antico Sistema Tolemaico: sul grande quadrante di 4,5 m di diametro, oltre alle fasi della Luna e alla posizione del Sole nello Zodiaco, si succedevano i cinque Pianeti conosciuti all’epoca, ossia: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio ruotando le loro posizioni nel tempo.
Dopo circa due secoli e mezzo il meccanismo del complesso orologio astronomico s’era guastato, perciò venne rinnovato dal meccanico Bartolammeo Ferracina con cinque anni di lavoro dal 1752 al 1757 apponendovi un pendolo, e in seguito ancora da Luigi De Lucia nel 1858 che vi aggiunse le “tàmbure rotanti” con i numeri ... esattamente cento anni prima che nascessi io.
Ancora il nostro ometto, sempre “in attesa di qualcosa”, tornerà ad osservare il profilo dei capitelli e delle colonne del Portico di Palazzo Ducale, e di nuovo giù in fondo oltre il ponte: la Riva degli Schiavoni con le Prigioni… Si ritroverà a pensare di come proprio lì per secoli si metteva “il Banco”per arruolare rematori e marinai e di come su quelle rive s’apprestava la partenza delle squadre delle Galee di Mercato, le famose Mudeche solcavano l’intero Mediterraneo recandosi fino ad Aleppo in Soria, Alessandria d’Egitto, nelle Fiandre, a Londra, Cadicee in mille altri porti dell’Adriatico, del Mare Egeo e fino alle Terre del Nord ... e chissà fin dove ? E non era tutto … perchè giunti in quei posti, i Veneziani si lanciavano a seguire e percorrere faticosamente le Vie della Seta, la Via dell’Incenso, la Via delle Spezie, la Via della Lana, la Via del Sale, dei legni pregiati, dell’oro e dei oggetti preziosi … I Mercanti-Esploratori Veneziani raggiungevano caravanserragli persi nel niente delle steppe immense, si spingevano fino alla Cinae alle Indie raggiungendo genti e posti inverosimili, e poi tornavano indietro carichi come muli per riempire Fondaci su Fondaci e inviare poi il tutto nel denso e ricco Emporio di Rialto: “caput mundi”, centro mercantile d’irradiazione da cui tutto ripartiva arricchendo ulteriormente Venezia Serenissima e l’Europa intera.
Fin dal 1300 ogni anno la Serenissima esportava per 10 milioni di ducati d’oro e importava per altrettanti con un guadagno di 4 milioni: 2 sulle esportazioni e 2 sulle importazioni ossia il 20% del capitale. Per realizzare la Mercandia, la Serenissima utilizzava un naviglio di 3.000 bastimenti con 17.000 uomini e fino a 45 Galee di Mercato costruite da più di 5.000 fra Arsenalotti e Calafatie governate da 11.000 Marinai.
“Una macchina economica formidabile !”, penserà il nostro ormai solito ometto “… e anche uno spettacolo umano da vedere, vivere e immaginare.”
All’ometto fantasioso sembrerà di vedere le balle delle mercanzie, le botti e i barili rotolati e issati sulle rive, le casse ammassate in attesa dell’imbarco su un groviglio di navi, cocche e galee, o scaricate giù sul molo da un nugolo di Marinai, Bastazi-Facchini, Senseri, Artieri e popolani qualsiasi, tutti assiepati davanti al Bacino di San Marco dove sostava alla fonda il mitico Bucintoro dorato del Doge, orgoglio e simbolo della Repubblica Serenissima.
Scrutando ancora i Moli di San Marco, l’ometto vedrà anche file di Pellegrini pronti a partire entusiasti, o di ritorno esausti ma soddisfatti dalla Terrasanta. Penserà a come come “stuolo devoto”veniva intrattenuto ad arte in città dai Veneziani “immagandoli” con le bellezze e le suggestion delle mille chiese e processioni, e soprattutto con le amenità attrattive della Fiera della Sensa che si allestiva proprio in Piazza San Marco.
Poi suoneranno finalmente “le ore”, prima quelle dei “Mori di Stato”, e subito dopo quelle dell’Orologio di Sant'Alipio collocato sull'angolo nord-occidentale della Basilica Marciana. Anche a Venezia si scandiva in parallelo il Tempo dello Stato e il Tempo della Chiesa, ciascuno scoccava la propria ora perché intendeva essere il depositario, il fautore e l’ispiratore della gestione del bene più prezioso e misterioso: il Tempo.
Il nostro ometto allora si riscuoterà dai suoi pensieri, e si alzerà finalmente dal suo posto entrando dentro alla Libreria di San Marco: la mitica Biblioteca Marciana,un tempo anche Zecca dello Stato Serenissimo. Lì s’intratterà a leggere e frugare faragginosamente dentro alle carte, assetato di saperne sempre un po’ di più su quello spettacolo affascinante di Venezia su cui non è mai stanco di posare gli occhi.
“La Zecca o Cecha di Venezia fin dal 1300 coniava più di 1 milione di ducati d’oro l’anno, 200.000 monete d’argento, 80.000 di rame. Più di 1.000 Nobili Patrizi di Venezia depositavano e investivano lì le loro ricche rendite ricavandonde ingenti profitti e ineteressi. Dentro alla Zecca agiva e lavorava un vero e proprio esercito d’Artieri e “Ovrieri”: Saggiatori, Pesadori, Bollatori, Fabbri, Mendadori, Fonditori e Cimentatori d’Argento e Oro, Cassieri e Scontri di Cassa e Fanti all’Oro e alle Monede … e i vari Nobili Rizzo, Premuda, Leone, Bernardo, Zorzi, Oltremonti, Foscarini e altri ancora facevano “carte false” e s’inventavano di tutto pur di collocarsi dentro a lavorare con i loro figli e per intere generazioni dentro a quella formidabile “Officina della Moneda” della Serenissima”.
Come spesso accadeva in posti del genere, non mancarono di succedere in Zecca episodi eclatanti, bancarotte, debiti, speculazioni, raggiri, imbrogli e delitti di vario genere e natura.
Il Senato accettò l’offerta di alcuni Mercanti Genovesi di depositare 100.000 ducati al 6% o a vita al 12% di cui 60.000 di fermo ossia depositate subito e 40.000 di rispetto ossia depositate a distanza di tempo.
Nell’autunno del 1602, Venezia venne invasa da moneta straniera di bassa qualità e da monete adulterate emesse da Zecche di piccoli Principi Italiani, mentre era uscita dallo Stato una quantità eccessiva di buona moneta d’oro e d’argento.
Alvise Zorzi, eletto poi Provveditore di Zecca, si scagliò a ragione contro Giacomo Foscarini che attraverso il Giro di Banco che gestiva s’era procuratoro degli interessi del 6-7% a suo favore sfruttando le operazioni di cambio della moneta. Accusò anche i Mercanti Fiorentini che facevano operazioni simili insieme a Mercanti Veneziani conniventi come Agostino Da Ponte e i Mercanti Prezzati. Divenuta pubblica “la cosa”, accadde in Venezia anche una sollevazione di 300-400 persone dell’Arte della Lana e dell’Arte della Seda perchè da quelle operazioni avevano riconosciuti lesi i loro interessi, ed erano stati costretti a licenziare diversi Garzoni e Lavoranti. Nello scandalo risultò coinvolto anche il Senatore Alvise Bragadin che aveva acquistato partite di monete di rame fuori commercio dello Stato Pontificiospeculandoci sopra a discapito delle Casse Pubbliche e delle economie della Serenissima.
Non fu di certo un caso, se nello stesso tempo venne assassinato anche Andrea Dolfin, a causa probabilmente delle sue attività finanziarie rischiose e di certo losche ... Nè fu ancora una casualità se il 13 settembre 1644 proprio davanti alla Zeccaper ordine del Consiglio dei Dieci si tenne l’esecuzione capitale per impiccagione di Domenico Fonditor di Zecca ... e che nello stesso anno s’impiccasse davanti alla stessa Zecca Mattio Bergamasco di anni 40, nonostante fosse stato già ammazzato dagli Sbirri nel prenderlo, perchè avva ucciso un Guardiano della Zecca provando a entrarvi dentro per rubare.
Nell’aprile 1630, poco dopo gli anni della terribile Peste del Voto della Madonna della Salute, ufficialmente risultavano depositati nella Zecca dello Stato: 2.662.131 ducati. In realtà: nelle Casse della Zecca c’erano depositati solo 265 ducati in contanti, perchè il resto consisteva in 2.062.202 ducati di debiti. Era accaduto che i Mercanti compravano da Nobili in difficoltà economica “Partite di Zecca” a sottocosto, che poi rivendevano a prezzo maggiorato del 20% con guadagni del 30% e piu’, mentre in realtà il valore di quelle partite era effimero, valeva quasi niente.
Ancora nel novembre 1756, Giovanni Francesco Magno di anni 68, Guardarnier al Marcato degli Ori et Argenti in Zecca, fu preso in contraffazion di bando a Mogiàn per intacco precedente fatto in Zecca e impiccato per ordine del solito Consiglio dei Dieci.
Uscendo di nuovo nel sole del mezzogiorno “con la testa piena di cose”, il solito nostro ometto, penserà che un tempo lì dentro, negli stessi luoghi attigui alla Zecca e alla Pubblica Libreria, fra 1557 e 1561 venne ospitata la strana e chiacchierata “Accademia Veneziana della Fama”.
Fu un’Associazione di Nobili che ebbe vita breve: solo tre anni. Venne chiusa obbligatoriamente su ordine del Senato della Serenissima con l’accusa di bancarotta fraudolenta, e il suo fondatore Federico Badoer, giovane politico promettente, già inviato da Venezia come Ambasciatore alla Corte dell’Imperatore, venne arrestato e gettato in prigione.
I Nobili che frequentavano quell’ Accademia che intendeva darsi una sembianza scientifica multidisciplinare, enciclopedica anche a sfondo religioso, politico e filosofico, erano tutti nomi di rango altisonanti: Agostino Valier già appartenente al cenacolo “Notes Vaticaneae”, Alvise Mocenigo, Bernardo Navagero, Francesco Barbarigo, Jacopo Surian.
“Io volo al cielo per riposarmi in Dio” era il motto dell’Accademia della Fama, e il palazzo di Federico Badoer era considerato il: “Teatro Universale del sapere”.
Il gruppo si considerava il depositario del “Sapere Veneziano e di una Nuova Rinascita Culturale”, e intendeva proporsi in questo in maniera superiore allo Stato stesso. Per essere concreta poi, l’Accademia aveva concepito un nutrito programma editoriale dentro al quale aveva pubblicato ben 300 volumi di cui 66 erano riedizioni di opere dei Classici, e altri 103 consideravano “moderni temi scientifici”.
Dietro a quel consesso Veneziano però, c’era lo “zampino” della Chiesa di Roma, e sapete bene come andavano le cose a Venezia in quei tempi: Doge e Papa erano un po’ come Peppone e don Camillo, il Diavolo e l’acqua santa. L’Associazione, infatti, godeva dell’appoggio e del favore in città del Nunzio Apostolico Facchinetti, rappresentante a Venezia del Papa, e di diversi Cardinali che le scrivevano entusiasti: il Cardinale d’Este, Gonzaga, Ghisleri e Carafae anche dello stesso Papa Pio IV che creò a Roma un sodalizio simile impiegando 10 dei suoi più svegli e dotati Cardinali.
In realtà l’Associazione rappresentava l’ennesimo schieramento politico di una delle due grandi fazioni e alleanze politiche dei Nobili Veneziani: quella Romanista-Papalista dedita a favorire la Sede Apostolica Romana a discapito di una Venezia piuttosto laica. Si trattava soprattutto di uomini e Casate Patrizie vecchie e aristocratiche, che nell’Accademia intrepretavano Matematica, Scienza, Metafisica e Diritto in modo conservatore, tutt’altro che innovatore e moderno. In una loro pubblicazione del 1553: “La Città Felice”ipotizzavano e idealizzavano una Repubblica Serenissima ordinata e obbediente, governata secondo una ragione santa e illuminata.
Di solito Doge e Governo della Serenissima non erano tenerissimi con la fazione dei Romano-Papalisti, ed escludevano tutti i Nobili che vi facevano parte dall’accesso a tutte le prestigiose e remunerative cariche pubbliche. I vari Nobili: Foscari, Barbaro, Badoer, Corner, Emo, Grimanie Pisani non si preoccuparono affatto per quell’esclusione in quanto si rifecero ampiamente facendosi investire dal Papa di ancor più ricche cariche e benefici Ecclesiastici soprattutto di Vescovadi in Terraferma. Anzi, quei Nobili facevano di tutto anche nella città lagunare per mettersi in mostra e guadagnarsi la stima dei Veneziani comissionando artisti e opere prestigiosissime da collocare nelle chiese e nei luoghi di pubblico raduno.
Nel 1558 l’Accademia si offrì al Senato Serenissimo per raccogliere e riordinare e ristampare tutte le Leggi e i Decreti della Repubblica formulando una qualche timida volontà di riforma legislativa. Inizialmente il Consiglio dei Dieci accolse favorevolmente l’idea, e concesse all’Accademia il privilegio di curare e provvedere alla stampa. Lo fece anche per aiutare Federico Badoer, per aiutarlo a sanare certi suoi debiti commerciali che aveva con gli Allemanni-Tedeschi, e per dimostrare nello stesso tempo che la Serenissima era aperta verso le nuove correnti ideologiche, culturali, umanistiche, scientifiche e teologico-religiose formulate dai Protestanti e dal resto dell’Europa moderna.
Due anni dopo, coerenti con le loro idee di considerarsi i “Depositari del Sapere Pubblico”, e volendo anteporsi ad altri circoli letterari Veneziani, gli associati chiesero ai Procuratori di San Marco di poter utilizzare come loro sede il vestibolo della Libreria Marciana dove Tiziano aveva appena dipinto “La Sapienza”.
Il Governo di Veneziano concesse, però fiutò dietro alle operazioni dell’Accademia l’influsso di stampo Papalista che intendeva intromettersi e interferire con le tradizioni, le consuetudini e le libere politiche di Venezia, e riconobbe infine anche tutta una serie di maneggi di Federico Badoer, dei suoi nipoti e dell’Abate Marlopino amico di famiglia, atti a favorire interessi economici personali tramite l’attività pubblica dell’Accademia.
Perciò: “Rivelato il mistero … Gabbato lo Santo” … la Serenissima fece “chiudere bottega”all’Accademia e sbattè il prigione il suo Presidente poco attendibile.
“Venezia Serenissima non si smentiva affatto …” pensò il solito ometto, e riflettè anche sul fatto che nel luogo della stessa Libraria di San Marco, sorgeva un tempo “di fronte a Palazzo Dogale”, l’ “Osteria Al Pellegrino”, un’altra delle “Osterie a pluri” che apparteneva ai Procuratori de Supra. Quando si costruì Zecca e Libraria nel 1554, l’osteria venne spostata in Corazzaria a cura dell’Oste Zuane de Pedrezin da Bergamoche spendeva 38 ducati annui per l’affitto.
A dire del solito Garzoni: “… il gestore del Pellegrino è un assassino … e “Al Pellegrin” è un Albergo di Satana, poco lusinghiero, una locanda che offre anche “letto guernito” ossia fornito di cortigiana o meretrice ... Il viaggiatore Adamo Ebert asserì di avervi trovato 2 dozzine di giovanotti Francesi che si davano ad amori diversi, e di essere stato piu’ volte da loro tentato …”
Nel 1544 la locanda dopo un grave incendio venne spostata in Spadaria, ricostruita addirittura sotto il controllo diretto del Proto della Procuratia Jacopo Sansovino.
Secondo la Gazzetta Veneta di Gasparo Gozzi dell’aprile 1760: “… la sera della domenica, essendo il tempo sereno e un bel chiaro di luna, erano, com’è usanza nelle stagioni migliori, molte brigate di uomini e donne a passeggiare in Piazza San Marco verso l’ora terza di notte. Qualc che si fosse la cagione, si appiccò una questione di parole fra l’Oste del Pellegrino e un’altra persona; e come suole avvenire riscaldandosi nello svillaneggiarsi e vituperarsi dall’una parte e dall’altra, vennero all’arme. I Custodi della Piazza, usciti della loro abitazione con certi sani bastoni che usano, si diedero a sedare gli animi de’ combattenti con la eloquente persuasiva del manare legnate quanto usciva loro dalle braccia, avendo prima per atterrire la calca sparato un archibuso in aria. Appena il tuono dell’archibusata ebbe tocchi gli orecchi delle donne, quelle sparirono di qua di là come colombe; onde gli uomini di civiltà per non lasciarle sole, volarono via con esse. In un momento nelle Botteghe da Caffè si gridò: “Acqua ! acqua !” e tutti i bottegai furono in faccende e si videro tazze per tutto, parte per dar da bere, e parte per gittare acqua nel viso dell’Oste mentre andava già condotto da Birri in prigione. Finita la zuffa, quelli che avevano più cuore, affacciavano il viso alla bottega e dicevano: “Non c’è altro ?” … ed alcuni sopravvenuti chiedevano: “Ch’è stato ?” … e già la storia è divenuta più storie, secondo le diverse lingue di chi la narrava. Poi la moglie dell’Oste, uscita dall’osteria con l’animo di donna spartana, andò ad assalire la Guardia con le parole e con un romore che quasi pose di nuovo un sospetto e scompiglio di genti. Se non che, veduto quel ch’era, le si fece intorno una numerosa calca, finch’essa sfiatata rientrò nell’Osteria … e venne l’ora che ognuno andò a casa a narrare l’avvenimento a suo modo …”
Lasciando perdere finalmente queste memorie, il nostro ometto riattraverserà ancora la stessa Piazza rivedendola ogni volta come in filigrana e trasparenza. Non dimenticherà di posare lo sguardo sul merletto della Porta della Carta di Palazzo Ducale, e dopo aver “ripassato con lo sguardo” il gruppo dei Tetrarchiincassato nel muro, vedrà anche le famose colonne dove s’inscenavano le condanne capitali.
Spinti avanti pochi passi, l’ometto non potrà non soffermarsi davanti allo splendido Portale della Basilica Doratacostruita con tutto quel “Ben di Dio”trafugato e saccheggiato dai Veneziani a Costantinopoli durante la “devota Crociata”, e “pianterà di nuovo gli occhi” sullo splendido capolavoro degli Arconi dei Mesi e delle Arti e Mestieri.
Come non poteva mancare d’incidere su Venezia il freddo Gennaio in cui si uccideva il maiale, o Febbraio, Marzo con I suoi risvegli, Maggio e tutti gli altri … così Venezia non poteva fare a meno dei suoi Botteri, Fabbri, Vignaioli, Orefici, Pescatori, Marinaie tutti le altre Associazioni d’Arte e Mestiere. Era un tutt’uno cosmico inscindibile.
La ricetta, il trucco di Venezia, era che tutto il corpo unito insieme, quel mirabile miscuglio di tutti, poteva far funzionare bene l’intera Repubblica … ovviamente con l’aiuto dell’immancabile Padre Eterno, dei Santi e della Madonna di cui non si sapeva nè si voleva fare a meno … come non si poteva rinunciare ai soldi, ai capitali e all’intraprendenza dei Mercanti di Venezia.
Al di là dell’aspetto prettamente artistico, quel Portaledei Mesi e delle Arti ha sempre avuto per i Veneziani una valenza davvero speciale, perchè in un certo senso in quella rappresentazione in pietra si condensava e riassumeva tutto quello che erano e in cui credevano i Veneziani e la loro Serenissima Repubblica insieme. Lì si poteva vedere inscenato il destino di Venezia, perchè dentro allo scorrere misterioso e arcano del Tempo con i Mesi e le Stagioni, si poteva vedere rappresentata come a completamento l’opera quotidiana della fatica di ogni Veneziano. Erano come due facce che sintetizzavano un’unica medaglia: quella del Tempo e quella della Vita vissuta e lavorata. Una ruota che si ripete all’infinito con le solite scadenze note del calendario, ma che si rinnova ogni volta inventando il futuro sempre nuovo.
In qualche maniera i Veneziani si rispecchiavano negli Arconi di San Marco.
E fermo lì col naso all’insù, lo stesso ometto di prima, non riesce ogni volta a fare a meno di buttare l’occhio sulla facciata della Chiesa, in alto sulla sinistra. Lì appare puntualmente il mosaico che rappresenta la Risurrezione di Cristo.
E allora l’ometto ogni volta si mette a sorridere, perchè ricorda la leggenda che è legata da sempre a quello splendido scenario mosaicato.
Si racconta che quando alla fine della Guerra di Chioggia l’Ambasciatore di Genova si portò a Venezia per trattare la pace, costui attraversò sussiegoso e gongolante Piazza San Marco diretto a Palazzo Ducale.
Giunto ai piedi della splendida Basilica, si dice che indicando il Gonfalone imbracciato dal Christo Vincitore e Risorto realizzato sul mosaico del fianco destrao della facciata: bianco con sovrapposta una croce rossa, in tutto simile al Vessillo della città di Genova, abbia affermato rivolto ai Veneziani che lo accompagnavano:
“Ecco ! Avete visto che anche il Padre Eterno sa bene da che parte sia giusto schierarsi !”
I Veneziani presi alla sprovvista non risposero … ma non dimenticarono.
Rimasto lungamente dentro a Palazzo Ducale alla presenza del Doge e della Signoria, si disse ancora, che si giunse alla conclusione che era meglio sia per Venezia che per Genova seguire la via della Pace. Uscito quindi dal Palazzo, l’Ambasciatore percorse la stessa strada a ritroso, ma giunto di nuovo sotto al mosaico del Risorto, lo stesso Nobile Veneziano di prima che ancora l’accompagnava lo fermò dicendogli: “Vede ! Anche il Padre Eterno a volte cambia opinione … Ci ha ripensato ! … Stavolta preferisce allearsi e appoggiarsi ad altri più meritevoli.” E gli fece notare che sul mosaico della facciata il Cristo Risorto imbracciava un nuovo Vessillo con al centro il simbolo del Leone di San Marco al posto della croce rossa sul fondo bianco. Per i mosaicisti non era stato difficile modificarlo durante il tempo della seduta dell’Ambasciatore a Palazzo.
Divertito da quella leggenda, il solito ometto di prima volgerà le spalle alla Basilica d’Oro e s’incamminerà verso il centro della Piazza. Oltre a gustare il tanto che è rimasto, ripenserà soprattutto al tanto di più che c’è stato e oggi non esiste più. Passando fra “Paròn de casa” ossia il Campanile e le Procuratie Nuove, ricorderà che un tempo li sorgeva un Ospedaletto.
Si trattava dell’Ospizio Orseolo o Ospedal da Comun o Hospitio de San Marco fatto erigere dal Doge Pietro Orseolo tra 976 e 978 per accogliere Pellegrini malati e bisognosi di passaggio a Venezia o di ritorno dalla TerraSanta, e gestito da apposito Priore. L’Ospizio arrivò ad occupare gran parte del lato meridionale della Piazza San Marco in seguito ad ampliamenti e ricostruzioni eseguiti anche a spese della Dogaressa Loicia Zeno fra 1253 e1268. In seguito, trascorsa l’epoca dei Pellegrini, venne usato per dare ospitalità a 4 donne povere che divennero piano piano 54, e furono chiamate Orsolinein memoria del Doge Orseolo fondatore e benefattore.
Nel 1364, le Orsoline si spartivano annualmente 30 ducati provenienti dalle rendite dell'Ospissio, e altri 20 desunti da un Legato lasciato da un certo Prete Zuane che era Piovan della Contrada di San Lunardo o Leonardo nel Sestiere di Canareggio.
L’Hospeàl funzionò per secoli, e venne demolito nel 1581 per lasciar spazio alla costruzione delle Procuratie Nuove(oggi Museo Correr e Museo Archeologico). Le Orsoline, Ospissio compreso, vennero trasferite nel vicino Campo San Gallo.
Si può ammirare bene l'aspetto esterno dell'Ospedalettodi San Marco ritratto nel 1496 da Gentile Bellini nella sua famosa: "Processione della Reliquia della Croce in Piazza San Marco", conservato oggi presso all'Accademia di Venezia.
(è la foto d’intestazione di questo post, e questo di sotto ne è un dettaglio).
Alzando gli occhi sul massiccio Campanile che inonderà la Piazza col suono del mezzogiorno, l’ometto ripenserà che sull’imponente torre un tempo c’era sospesa la “Chèba” in cui i rei condannati dalla severa Giustizia della Serenissima venivano rinchiusi e sospesi al pubblico ludibrio fino a morire di stenti.
Il supplizio della “Chèba” ossia “la gabbia” detto alla Veneziana, era di legno rinforzato in ferro, e: “… il reo esposto appeso con delle catene all’asprezza delle stagioni, ritirava il pane e l’acqua, unico suo nutrimento mediante una funicella che calava di sotto.” A volte venivano appesi a tempo determinato, mentre in altre occasioni venivano ingabbiati a vita in attesa di un’improbabile sentenza di salvezza.
Sembra che nel 1518, forse per far cosa grata alla Corte di Roma che non sopportava tanto vedere lì rinchiusi e puniti certi Preti e Frati di Venezia, o forse adducendo al fatto che i civili Veneziani si vergognavano di quel crudele supplizio, si finì con l’abolirlo del tutto. Si trattava di una pena infamante, esposti al pubblico ludibrio, che non era solo Veneziana, ma utilizzara e presente anche altrove come a Piacenza, Ferrara, Milano e Mantova.
Nel Diario Priuli del marzo 1510 si legge: “… avendo il Duca Alfondo D’Este di Ferrara scoperto due laici e due Frati, che con fuochi artifiziali volevano incendiare le Galee Venete, fece tosto impiccare i due laici; un Prete fuggì, e l’altro per essere in sacris fu posto in una gabbia a pane e acqua in vita …”
La “Chéba” a Venezia stava appesa ad una trave che sporgeva da un buco a metà del Campanile di San Marco giusto sopra alle 19 botteghe dei Panettieri della Paneteria da dove il popolo infieriva e dileggiava schernendo il malcapitato.
Alla “Chéba”venivano condannati soprattutto autori di delitti come omicidio, sodomia, bestemmia o falso compiuti in luoghi sacri o commessi da Religiosi.
Nel 1391, infatti, venne condannato al supplizio della “Chèba” il Piovano di San Maurizio Giacomo Tanto, che con la complicità del Nobile Tommaso Corner, aveva attirato con l'inganno in una casa alle Carampane vicino a Rialto un certo Prete Giovanni Custode di San Marco. Invece di dargli “... quartas vini malvatici pro dicendis totidem Missis ...” come gli avevano promesso, con l'aiuto del complice lo assassinò. Poi i due si recarono nella Canonica dove abitava il Prete e lo derubarono di tutti i suoi averi.
Scoperti entrambi, il Nobile Corner che era fuggito rendendosi introvabile venne condannato al bando perpetuo da Venezia, mentre il Piovano venne condannato: “... ad finiendam vitam suam in cavea suspensa ad campanile Sancti Marci in pane et aqua ...” ossia: alla “Chèba” ! La matrigna del Piovano non riuscendo a sopportare di vederlo così ridotto, riuscì a fargli avere con la complicità di un Ufficiale dei Signori di Notte e del Capo delle Guardie di Piazza: “...fugacias fabricatas et pensatas cum nucibus, mandulis, et zucari pulvere, ac fritellas, et alias confetiones quibus produxit vitam in longum contra sententiam …” tentando di prolungargli la vita. Ma venne scoperto anche quell’imbroglio, e i due vennero processati. Il Massaro dei Signori di Notte perse l'incarico e venne imprigionato nei Pozzi per un anno. La Matrigna: … boh … non si sa.
Anche nel 1406 si usò la “Chèba”a Venezia per le conseguenze di un episodio scandaloso.
I Signori di Notte avevano scoperto in flagranza di reato un gruppo di giovani che si davano alla sodomia. Per la maggior parte erano figli di Nobili Veneziani influenti, Borghesi facoltosi, Ecclesiastici, o di funzionari della Signoria molto importanti. Avendo già condannato per lo stesso motivo diversi popolani, non si poteva ignorare i fatti del tutto. Essendoci poi Chierici di mezzo, la questione giunse ad interessare perfino Papa Innocenzo VII, ma nonostante si fosse tergiversato per almeno due anni, si dovette giungere ad una sentenza definitiva. Nel 1407, Vito Memo Vescovo di Castello acconsentì che il Chierico Giacomo Barberio venisse condannato alla “Chèba”, ma si riuscì a farlo fuggire per tempo lasciandola appesa vuota.
Ancora nell’aprile del 1518, si chiuse “... in Cheba al Campaniel di San Marco ... un certo Prete Francesco della chiesa di San Polo ...d'anni 30 circa ... accusato di sodomia.” Qualcuno gli: “... avea dato per carità un gabàn da Galia (palandrana di panno grosso e ruvido portata dagli schiavi forzati sulle Galee Venete)...perché si riparasse dal freddo.”
Il Prete “furbino”, riuscì con pazienza a ridurre l’indumento in strisce ricavandone una lung corda con la quale nella notte del 1° luglio cercò di fuggire calandosi fino a terra sulla Piazza San Marco. Solo che aveva calcolato male le misure, la corda era troppo corta, e si trovò appeso in aria ancora troppo lontano dal suolo.
“... mancava ancora buon tratto per arrivar ai Cambii ...(banchetti dei cambiavalute che si trovavano a piedi del campanile) ... ed essendo in pericolo di morte, gridò, e accorsero le Guardie notturne ...” che lo recuperarono e lo rinchiusero in prigione dove venne “… largamente soccorso dalla pietà delle monache di San Zaccaria molto famose perché libertine e per la loro licenziosità.”
Nel 1542 venne condannato al supplizio della “Chèba” anche il Prete Agostino della chiesa di Santa Fosca, dopo essere stato portato legato in Piazzetta tra le colonne di Marco e Todaro, e messo alla berlina per sei ore.
“Si fece questo perché il Prete si consolava con diverse donne, e perché giuocando biestemmava.”
Prete Agostino divenne famoso per i versi con cui descrisse la condanna subita: “Prima mi missen fra le due Colonne della Giustitia, ben stretto ligato.” Gli fu messa in testa una specie di corona con dipinti dei Diavoli:
“...Imperator senza impero m'han fatto ... fui coronato, senza darmi il scetro, volendomi punir di mia nequitia.”
Venne quindi portato alla “Chèba a mezzo il campanile” dove rimase per quasi due mesi, fino a tutto settembre, prima di scontare il resto della pena di otto mesi nei “gabioni della prexon forte di Terranova”, dietro le Procuratie Nuove: “...duoi mesi a pan et acqua sola et otto mesi star rinchiuso nella Forte.”
Al termine della detenzione venne colpito da bando perpetuo da tutti i territori dello Stato Veneziano, perciò concluse i suoi versi dicendo: “...fuggite dal giuoco, non biastemmate i Santi, manco Idio ... lasciate il giuoco, biastemme e puttane.”
L’ennesima condanna alla “Chèba”venne comminata nel luglio 1510. Stavolta fu la donna Adriana Misani a subirla. Era moglie del Banditore Andrea Massario, e abitavano nella Parrocchia di Santa Ternita dove risiedeva anche un certo Francesco, figlio di Magroche faceva il Barbiere, con il quale la donna aveva intrecciato una relazione amorosa. Francesco aveva messo gli occhi non solo sulla donna ma anche sui suoi beni, le promise perciò di sposarla se lei si fosse liberata del marito. Così in una notte dell’aprile 1510, donna e amante penetrarono in casa di Andrea Massario e lo uccisero a colpi di scure e spada mentre dormiva. Con l'aiuto dei due, il Falegname Giacomo Antonio e un certo Sebastiano, rinchiusero il cadavere in una cassa e lo gettarono in acqua nel Canale dell'Orfano per poi tornarsene sulla scena del delitto per fare razzia di quanto trovarono di prezioso. I due amanti poi, intendevano fuggire da Venezia, ma giunti a Santa Marta per partire per la Terraferma, vennero arrestati sul sagrato della chiesa che fungeva anche da cimitero.
Sotto tortura confessarono il delitto, e con sentenza della Quarantia Criminale: il Falegname Giacomo Antonio venne condannato al bando di cinque anni da Venezia e dai suoi territori, e a Bando perpetuo anche il Sebastiano. Francesco Barbiere venne messo a morte, e Adriana Misani, dopo aver assistito all'esecuzione dell'amante, venne condannata a pane e acqua fino alla morte nella “Chèba” del campanile di San Marco. Tre mesi dopo, tuttavia, riuscì a fuggire dalla gabbia facendo perdere le proprie tracce per sempre.
Tornando al nostro ometto pensieroso, ripenserà udendo le campane suonare, anche al fascinoso suono notturno della “Marangona”che ancora oggi riempie il buio della mezzanotte di Venezia. Quante volte l’ometto è rimasto ad ascoltarla nel cuore della notte ripensando alla memoria legendaria della morte “dell’innocente Fornaretto”.
Lasciando finalmente perdere il Campanile e procendendo poi sui suoi passi, l’ometto sfilerà oltre sulla Piazza, e fissando gli occhi a terra per evitare le pozze dell’acqua alta che filtra su “a fontanella” fra le commissure dei masegni, riconoscerà le scritte per terra che ricordano ancora oggi dove un tempo gli uomini delle Arti e Mestieri andavano a collocare con precision i loro banchetti nei giorni della Fiera della Sensa.
Provate ad andarli a riconoscere e vedere ! E sempre rimanendo in tema di segni, vedrete anche i segni che ricordano dove un tempo scorreva il Rio-Canale Badoario, e noterete anche i segni rotondi che ricordano i due grandi pozzi che sorgevano una volta giusto a metà della Piazza.
Il Doge Sebastiano Ziani, divenuto Doge nel 1172, fece ingrandire la “Piazza” facendo interrare il Rio Batario o Badoero o Badoario,e fece demolire anche la vecchia chiesa di San Geminiano, che diversi secoli dopo venne ricostruita più indietro e incorporata nelle Procuratie su disegno del Sansovino.
Fu sempre lo stesso Doge a “far cingere la Piazza da tre lati con una Galleria” pensandola come serie di abitazioni per i ricchi e potenti Procuratori di San Marco, che per dirne una sola, ancora nel 1537 possedevano 587 campi in diverse località del Polesine.
Per questo l’ambiziosa costruzione prese il nome di “Procuratie”, e non fu affatto un lavoro facile e veloce, perchè fra rifacimenti e incendi, la serie monumentale delle Procuratie Vecchie e Nuove che cinge la Piazza venne terminata solo secoli dopo, ossia nel 1600. Circa nel 1500 la Serenissima aveva iniziato a seguire l’idea Sansoviniana dell’abbellimento della Piazza e dell’intera città concepita come“Renovatio Urbis”:
“ …trovandosi l’anno 1529 fra le due colonne di piazza alcuni banchi di baccari e fra l’una colonna e l’altra molti casotti di legno per essendo delle persone per i loro agi naturali, cosa bruttissima e vergognosa, si per la dignità del palazzo e della piazza pubblica e si per i forestieri che, andando a Venezia dalla parte di S.Giorgio, vedevano nel primo introito cosi’ fatta sozzurra: Jacopo mostrata al principe Gritti la onorevolezza ed utilità del suo pensiero, fece levae detti banchi e casotti, e collocando i banchi dove sono ora e facendo alcune poste per erbaruoli, acrebbe alla Procurazia 700 ducati d’entrata, abbelendo in un tempo istesso la piazza e la città…”
Al termine di quella grande opera d’abbellimento, quando c’era già la Torre dell’Orologio, e i Tre stendardi in Piazza, l'area antistante la Basilica di San Marco aveva raggiunto la lunghezza di 175 metri ... La Piazza era sempre frequentata e vivissima, ricca di scambi e centro d’affari. Alla base del Campanile c’erano diversi Banchi di Cambiavalute e proprio lì vicino c’erano una Macelleria e una Panetteriacittadine, mentre poco distante di fronte alla Zecca c’erano altre Botteghe di Formaggi ... Quando venne restaurato il Campanile nel 1513 ponendovi sopra l’Angelo Dorato: “… si gettarono vino e latte di sopra alla folla al suono di trombe festose.”… spesso accadevano violenti scontri fra Confraternite e Schole: “…che si davano addosso con candelotti e aste processionali per garantirsi la precedenza nel fare l’ingresso in Piazza.” ... sotto ai portici di Palazzo Ducale svolgevano la loro attività i Notai, proprio accanto alle latrine pubbliche costruite attorno alle grosse colonne del palazzo ... qua e là per la stessa Piazza c’erano banchetti ambulanti di contadini che vendevano anche capelli finti per fabbricare parrucche da donna attaccati a lunghe pertiche ... davanti alla “Basilica Dorata” stazionava in continuità una follla di mendicanti e miseri di ogni sorta.
Il solito Diarista Sanudo raccontava di una tradizionale parata organizzata dalla Corporazione dei Macellai seguita da una “Caccia al Maiale” in giro per la Piazza, così come raccontò qualche anno dopo, nel 1521, di come in occasione dell’elezione del nuovo Doge Antonio Grimani si tenne il solito “Giro d’onore” del neoeletto portato a spalla dagli Arsenalottimentre gettava monete alla folla osannante. Nella confusione, nella ressa e concitazione del popolo confluito in Piazza, uno degli Arsenalotti colpì e spinse via uno straniero perché lasciasse libero il passaggio. Questi allora gli staccò la testa con un colpo di spada gridandogli: “Va al diavolo tu ed il tuo randello !”
Venne subito catturato e decapitato subito dopo sulla Piazzetta: “… perché chi non è di Venezia deve capire come ci si comporta in città.”
Sempre lo stesso Marin Sanudo racconta che: “… un violento terremoto fece suonare le campane da sole … e in occasione di una coalizione Antifrancese sfilarono per 5 ore consecutive nella Piazza, addobbata per l’occasione con arazzi e drappi dorati, tutte le Schole e il Clero “in pompa magna”, facendo girare in Processione: centinaia di pezzi di pregiatissime argenterie, enormi candele dorate, bambini vestiti da Angeli, donne vestite da Giustizia, effigi raffiguranti la Spagna, l’Inghilterra e il Papa, carri decorati che rappresentavano le Virtù Cardinali e numerose reliquie fra cui: la mano di SantaTeodosia, il piede di San Lorenzo, il braccio di San Giorgio e la testa di Sant’Orsola recentemente recuperata.
Nella circostanza si declamarono per ore componimenti poetici in lode della Lega Santa, viceversa numerose satire contro il Re di Francia, e si recitarono pantomime di San Marco che parlava col Cristo, con la Vergine e la Giustizia.”
Paradossale ancora lui, sempre il Diarista Marin Sanudo, descriveva con una crudezza esemplare la condizione della gente a fronte di tanto sfarzo e idealismo e gusto artistico dell’epoca. Nel 1527 a Venezia s’era presentata la difficoltà storica d’importare grano dai tradizionali paesi d’importazione, perciò il prezzo del grano era cresciuto improvvisamente più di quattro volte, e la fame spingeva la gente verso la città dove c’erano i Fondaci e Magazzini del Grano.
Scriveva: “…ogni sera in piazza S.Marco, sulle vie della città, su Rialto è pieno di bambini che gridano ai passanti. “pane ! Pane ! Muoio di fame e freddo !” E’ terribile. Al mattino, sotto i portici dei palazzi vengono trovati cadaveri. Cosi’ era nel dicembre 1527 a meno di una settimana da Natale. Arriva il tempo del Carnevale. Nei primi giorni di febbraio del 1528 “ la città è in festa, sono stati organizzati molti balli in maschera e al tempo stesso, di giorno e di notte, è immensa la folla dei poveri; a causa della gran fame che regna nel paese, molti vagabondi si sono decisi di giungere qui, insieme ai bambini, in cerca di cibo…. Alla fine di febbraio: devo annotare qualcosa che rammenti che in questa città regna continuamente una gran fame. Oltre ai poveri di Venezia che si lamentano per le strade, ci sono anche i miserabili dell’isola di Burano, con i loro fazzoletti in testa ed i bimbi in braccio a chiedere l’elemosina. Molti arrivano anche dai dintorni di Vicenza e Brescia, il che è sorprendente. Non si puo’ assistere in pace ad una messa, senza che una dozzina di mendicanti non ti circondi e chieda aiuto, non si puo’ aprire la borsa, senza che subito un poveraccio non ti avvicini, chiedendo un denaro. Girano per le strade persino a tarda sera, bussando alle porte e gridando “muoio di fame !”
Ancora alla fine del luglio 1594, continuava a scrivere: “… soto el Portego de la Cecha si rinvenne morto un contadino sconosciuto probabilmente morto di stenti e di fame …”
Verso metà della Piazza, sorgeva nelle Procuratie Vecchie l’“Osteria “a pluri” Al Cappello Nero”, il cui ingresso stava nella calle adiacente alla Piazza nel Sottoportico e Calle del Cappello.
“Nel 1453: si fa ricordo di essa osteria, che apparteneva alla Basilica di San Marco, ed era amministrata dai Procuratori de Supra, anche in una deposizione di un Giacomo servitore, fatta negli atti della Curia Castellana, il 20 luglio. Abitava costui col suo padrone Zanini da Crema in casa di un Lazzaro Tedesco, il quale teneva ospiti a settimana in Contrada di San Luca, e colà eravi pure certa Chiara. Costei un bel dì chiamollo a testimonio delle nozze che contraeva con un certo Giovanni dicendo: “Io vuò che sia presente ancho ti a queste nozze”, ed in quella ricevette da Giovanni l'anello nuziale, accompagnato dalle parole: “Chiara io te tojo per mia mujer”; dopo di che, sopraggiunta la notte, gli sposi novelli “se n'andà tutti do a dormir insieme”. Senonché Giacomo confessò d'aver saputo che Chiara erasi antecedentemente maritata all'Albergo del Cappello con un giovane Rigo, e d'essere stato pregato da lei di tacere tale circostanza al momento del suo nuovo matrimonio ...”
Fra 1483 e 1486: l'Osteria del Cappello è nominata anche in una sentenza criminale del 27 settembre colla quale venne condannato a morte “nel carcere Catolda” un Capitano Turco per nome Iusuph, che in detta Osteria aveva sodomitato un ragazzo. Il reo però nell'anno seguente, richiesto in grazia dal Sultano, gli venne rimandato.
Di nuovo nel maggio 1515 Sanudo dei Diari racconta della stessa Osteria raccontando: “… il 5 maggio si espose al pubblico in essa un garzone, d'anni 14, nato in Piccardia di nome Jacomo, dal petto del quale usciva il busto d'un'altra creatura con piedi retrati e braze come dita un po’ longhe ... e si pagava un soldo per vederlo, e parmi molto di novo quando lo vidi … e guadagnava ducati assai andando di terra in terra con degli Spagnoli … Esponevano una bandiera di tela fuori con il mostro dipinto sopra, e con le armi posticce del Papa e del Doge sopra, e con una scritta in latino e in volgare che diceva: “Ex matrimonius natus est in partibus Normandie, in civitate quo dicitur Drus 1500” … Tutto oggi andarono molte persone a vederlo … Questo mostro venne fatto la sera medesima partire per ordine del Consiglio dei Dieci.”
Sentendo ormai il richiamo della fame, il nostro ometto proverà allora ad uscire dalla Piazza sotto alle colonne della “bocca di Piazza”. Anche qui sarà indotto a pensare che un tempo lì sorgevano ben due chiese “incassate” nel contest urbano della storica Piazza: San Gimignano e Santa Maria in Broglio o dell’Ascensione.
Santa Maria in Broglio o dell’Ascensione o “in capo di Broleo”, cioè giardino, era stata edificata nel lontanissimo 1120 “a spese del Pubblico” e consegnata in gestione ai Cavalieri Templari sotto la giurisdizione spirituale del Primicerio di San Marco.
Estinto l’ordine nel 1311 a causa di Papa Clemente V, l’ultimo Priore Templare di Venezia: il Cavalier Emmanule consegnò la Chiesa insieme agli altri beni dei Templari ai Cavalieri Gerolosomitani, che siccome erano pieni di debiti per 93 milioni di fiorini, ottennero da Papa Giovanni XXII di poter vendere tutto ai Procuratori di San Marcocompresa la Chiesa e ogni immobile utile. La tutela del luogo di culto con annesso Convento, passò quindi ai Procuratori de Supra della Serenissima che lo concessero qualche anno dopo a una Confraternita di devoti di un certo Frate Molano che provvidero a riedificarla del tutto con l’obbligo di farlo officiare con continuità da almeno due Sacerdoti, di non tenere poveri mendicanti sulla porta, e dare alloggio nel contiguo ex Monastero Templare agli Ambasciatori stranieri che giungevano in visita a Venezia.
Il piccolo complesso con la chiesetta inizialmente non andò poi così male, perchè oltre ad ospitare la Schola dei Ciechi“gente richiestosa, irrequieta e rissosissima cacciata via perfino dalla chiesa di San Vidal”, quella dei Bossoleri, dei Frezzeri, dei Barcaroli del Fontego della farina di San Marco e quella devozionale dello Spirito Santo, ospitava anche molti Nobili e Senatori prima di recarsi a Palazzo Ducale e in Maggior Consiglio. Si diceva che lì dentro i Nobili si dedicassero oltre che a indossare le parrucche e loro “toghe da comparsa a Palazzo”,anche ad accordarsi fra loro prima di presentarsi nella famosa assise di Stato dove si votava e si prendevano le grandi decisioni. Per questo molti Veneziani finirono per chiamare la chiesetta ironicamente: “Santa Maria Imbroglio”... non più nel senso dell’orto, ma nel senso del “taroccare e inciuciare politico-economico-istituzionale”.
Alla fine del secolo seguente però, i Procuratori di San Marco pensarono bene che fosse più opportuno affittare l’ex Monastero per farne una più comoda Osteria-Locanda, perciò aprirono la “Locanda alla Luna” che era una delle “Osterie a pluri” pubbliche veneziane, dove si aveva il privilegio esclusivo di offrire vini puri di Romania, Candia, Malvasia, Ribolla e Trebbiano a differenza delle “Osterie a minori” che offrivano vini terrani a basso prezzo e si rivolgevano a clientela popolare, spesso di bassa condizione.
Secondo il solito Garzoni, nel 1500, “… il gestore della Luna è un re dei Turchi…”, mentre nel 1700 la locanda era fra le 7 migliori di San Marco segnalate dal Coronelli nella sua “Guida de Forestieri per la città di Venezia”.
La Chiesetta dell’Ascensione o di Santa Maria in Borglio venne affidata a un apposito Rettore, che siccome era rimasto solo ad Officiare le Liturgie, si vide costretto nel 1591 a chiamare in aiuto i Frati di Santo Stefano per cantare il Vespro Solenne il giorno della Festa dell’Ascensione, che era quella del Titolare.
La Chiesa rimase in piedi come potè con poche rendite fino all’arrivo del solito Napoleone, che chiuse tutto trasformandola prima in comodo magazzino, e poi decise di farla demolire per allargare il contiguo Albergo Luna, ex Monastero dei vecchi Templari “ormai andati da secoli”. Divenuto con i Francesi “Grand Hotel de la Lune” ospitò personaggi illustri e famosi come Silvio Pellico e i filosofi Schopenauer e Nietsche, e la “Corona Ferrea”restituita dagli Austriaci prima di tornare a Monza.
Nel 1944, quando a Venezia il burro si vendeva al mercato nero a lire 270-300/kg, lo zucchero a lire 90-100/kg, la carne lire 140/kg e il lardo a lire 260-270/kg, l’Albergo Luna considerato di primordine era fra i locali frequentati da gente equivoca, giocatori d’azzardo e individui che esplicavano attività poco chiare disponendo di somme vistose. Fra questi c’era Luigi Sandri e suo fratello Fortunato che lo finanziava. Il primo era nato a Inkini nel 1900 e risiedeva a Trieste: conduceva vita dispendiosa, ostentava amicizie altolocate con i Tedeschi e le S.S., era giocatore di professione noto per la sua costante fortuna al gioco, viveva delle giocate e organizzava forti partite nell’albergo specie con persone facoltose di passaggio.
Oltre a lui all’Hotel Luna alloggiava con l’amante tedesca Moller nata a Coblenza, separata con 2 figli abbandonati, un certo Doro Emilio detto Mino nato a Venezia nel 1903. Attore cinematografico trasferitosi a Venezia con un gruppo di attori inviati dal Ministero della Cultura Popolare, era anche giocatore, cocainomane, sospetto pederasta, si dichiarava intoccabile e viveva in modo dispendioso giocando tutta la notte. A seguito di contatti con la Marina Tedesca, ossia Stang dell’Intendenza di Venezia e Esbergher Comandante del Porto, e attraverso l’amante ottenne ingenti forniture e guadagni: depositò al “Luna” contanti per 700.000 lire, cambiò assegni Tedeschi per altre 800.000 lire, e portò a Roma in contanti in un solo viaggio 2 milioni di lire.
Sempre al “Luna”, alloggiava l’industriale di carburanti di Fiume: Papetto Umberto. Viveva con l’amante egiziana Mohamed Ginevra detta Violetta che aveva familiarità con gli alti Ufficiali Tedeschi e col mondo della finanza veneziana mentre in precedenza frequentava i ricchissimi Ebrei di Venezia.
C’era infine al “Luna”: Talillo Alberto da Casale Monferrato, elemento dedito al commercio clandestino di generi contingentati, che venne rimpatriato a Padova dopo diffida.
Nel 1945 l’Hotel Luna fu il quartiere alloggio del Comando Tedesco a Venezia. Lì accaddero i colloqui di Padre Giulio rappresentante del Patriarca col Comandante tedesco e la Resistenza di Venezia per salvaguardare la città e la gente durante la ritirata dei Tedeschi. I primi colloqui al “Luna” furono fallimentari ed attendisti, perciò si attivò a Venezia l’attività della Resistenza che combattè a Piazzale Roma, in Marittima e sul Ponte della Libertà.
A soli due passi dal “Luna”sorgeva anche il “Casino e Osteria “a pluri” del Selvadego o all’Homo Selvaggio “in cao o bocca de Piazza” attiva fin dal 1369. Lo stabile dell’Osteria ad architettura veneto bizantina con finestre ad arco e loggia o liagò era posseduto anticamente dalla cittadinesca famiglia Da Zara, più tardi fu dei Patrizi Giustinian, e si diceva frequentata da uomini e donne discutibili che si recavano a giocare “e non solo” in alcune stanze segrete.
Come diverse altre Locande, nel 1560 l’Osteria-Locanda apparteneva ai Procuratori de Supra, ed era condotta da Piero de Lombardi. Dietro la Locanda c’era il Casino del NobilHomo Gerolamo Mocenigo figlio di Pisana di San Samuele, frequentato da personaggi mascherati tra i quali si riconosceva spesso la NobilDonna Sagredo Pisani.
Nel 1600 il satirico Dotti autore del “Il Carnevale” alludendo alle donne che frequentavano “El Selvadego” diceva: “Se riesce a queste lamie d'allettar qualche mal pratico … A commetter mille infamie lo conducono al Salvatico…”
A pochi passi da Santa Maria in Broglio sorgeva San Gemignàn o San Ziminiàn. In origine, quand’era fatta ancora di legno e paglia, era intitolata anche a San Menna Martire. Era chiesa antica edificata nel 554 di fronte all’altra altrettanto antica di San Teodoro, entrambe nelle vicinanze della sponda del Rio Battario o Badoeroche scorreva nel mezzo della Piazza congiungendo l’odierno Rio del Cappello Nero col Rio della Zecca.
Su iniziativa del Doge Vitale Michiel venne riedificata quando venne ampliata la Piazza, e il Doge col Senato la visitavano ogni Domenica in Albis dopo Pasqua, quando i Musici della Real Cappella Dogalecantavano Messa Solenne, e terminata quella il Capitolo dei Preti di San Marco accompagnava in processione il Doge fino alla Chiesa Dogale di San Marco dove il Serenissimo rinnovava ogni anno il suo Patrocinio.
La Parrocchia di San Ziminiàn pagava 12 ducati annui per l’organista e 1 ducato “a quello che mena li folli”, pagava 10 ducati per i Cantori e i Strumentisti per la Festa di San Ziminiàn, compresa una “distribuzione extra pro numeraria” al Capitolo e ai Preti che intervenivano il giorno della Festa, o per la visita del Doge e del Senato la Domenica in Albis, e la tradizionale distribuzione di “zuccheri lavorati” ai Sacerdoti di chiesa il giorno di San Ziminiàn.
“Si spesero anche lire 20,4 per la Visita alla Chiesa del Patriarca … che se si facesse ogni anno in questo modo sarebbe la rovina della povera Fabbriceria della Parrocchia ... Per conzare la chiesa di tappezzerie, far concerti di Suonadori e Cantori dell’organo, per la venuta del Doge nella domenica in Albis si spesero 5 ducati e piu’ in quanto per onorare tante personalità occorre anche un Oratore che intervenga oltre la Messa Grande mentre prima si diceva l’Officio di Terza …. Si è fatto un organo nuovo a spese del Pievano del costo di 600 ducati e un Coro con banchi di noce di somma bellezza della spesa di 200 ducati sempre a spese del Pievano. Infine per aver il Piovano la casa e i balconi sulla Piazza: il Giovedì Grasso, il Giovedì del Corpus Domini, l’Ascensione cioè gli 8 giorni della Sensa e altre feste solenni la casa ospita in continuita: Cardinali, Patriarchi, Vescovi, Abati e molti altri gentiluomini e gentidonne la cui accoglienza non passa certo senza spesa ... Povero Piovano !”
Nella Contrada di San Ziminiàn a ridosso di Piazza San Marco vivevano più di 1.200 persone … vi era attivo Palmerius Schardantes quondam Alfonsii da Lecce di 53 anni, residente da 30 a Venezia, che insegnava “Lettere Humane” tenendo Scuola Pubblica per 22 alunni a cui spiegava: “…Vergilii, Ciceron et Horatio ... li più minori fanno concordantie, li altri chi latina quasi per tutte le regole et chi fanno epistule.”… erano attive 192 botteghe e un “Inviamento da Forno”, e almeno 6 dei 118 Casini censiti a Venezia … In Chiesa c’era una Beata Vergine vestita con abiti e ori ... abitava in Campo Russolo nel 1745 il pittore Gasparo Diziani pittore che pagava 60 ducati alla Fraterna dei Poveri di Sant’Antonin per una casa dove abitava con la moglie, 5 figli e 1 serva … Nello stesso periodo in Corte San Zorzi abitava anche il commediografo Carlo Goldoni, che pagava 32 ducati per abitare un 1/3 di casa con moglie, madre, serva e zia.
Nel 1552 Tommaso Rangone volle finanziare i lavori di restauro di San Ziminiàn a cura del Sansovino a patto che vi fosse inserita in facciata la sua immagine come s’era già fatto a San Zulian. Il Senato rifiutò seccamente anche se il munifico benefattore era già in possesso dell’autorizzazione del Piovano Benedetto Manzinie del Capitolo della Chiesa di San Ziminiàn, che dopo il restauro fecero installare sopra alla porta della Chiesa un organo coperto da portelle dipinte da Paolo Veronese che venne a costare tre volte il prezzo preventivato.
Lo stesso Medico e Astrologo Tommaso Giannotti Rangone detto Philologus, originario di Ravenna, Procuratore della Chiesa di San Giminiano lasciò Comissari in perpetuo della sua ricca eredità i Piovani di San Geminiano, San Zulian e San Giovanni in Bragola con l’obbligo che in alcuni anni, il 31 gennaio: giorno di San Ziminiàn, venissero imbossolati i nomi di sei donzelle per ognuna delle tre Parrocchie, e fra queste se ne estraessero sei da premiare con 20 ducati di dote ciascuna. Solo dopo la sua morte nel 1577, la Serenissima permise di erigere nel portico accanto alla chiesa un suo busto realizzato da Alessandro Vittoria con apposita iscrizione.
Giunti i Francesi a Venezia, in Chiesa di San Ziminiàn si aquartierarono i soldati per comodità sulla Piazza. La Chiesa venne chiusa, riconsacrata e poi riaperta, poi venne demolita del tutto: “il 15 novembre 1814 era gettata giù del tutto, e il passaggio era libero delle Procuratie ora diventate Palazzo Regio ... Uno degli altari fu trasportato in Palazzo Patriarcale ... L’Altar Maggiore fu messo in Sacrestia nell’isola di San Giorgio Maggiore ... Le pitture depositate nell’ex Priorato di Malta ... L’organo ando’ distrutto e le portelle d’organo del Veronese finirono chissà come alla Galleria Estense di Modena.”
Proprio accanto alla chiesa di San Giminiano, dalla parte delle Procuratorie Nuove, giusto dal lato opposto rispetto al Ridotto dei Filarmonicisi trovava il Casino o Ridotto dei Diplomatici, dove per legge non potevano entrare e frequentare i Patrizi Veneti ai quali era vietato intessere relazioni con Ministri e Diplomatici di Stati Stranieri. Lo gestiva fino al 1796 l’Abate Conte Cattaneo che era stato investito dalla Serenissima del titolo d’Intendente del Governo Veneto presso il Corpo Diplomatico, e dopo di lui venne gestito da Onorio Arrigoni, uno che aveva fatto per mestiere il Confidente degli Inquisitori di Stato.
Il Ridotto dei Filarmonici dove Francesco Guardi inscenò il suo celebre dipinto “Un concerto di Dame” sorgeva, invece, dalla parte delle Procuratie Nuove. Era noto per la sua “dignitosa morigeratezza”, ed era considerato il maggiore “Ridotto di Società” di Venezia con appositi Statuti, capace di ospitare “Libere Associazioni di Nobili”.
Divenne famoso per le famose Feste di Ballo mascherate che vi si organizzavano, soprattutto quella offerta ai Nobili per la venuta a Venezia dei Conti del Nord: Paolo Petrowitz con la moglie Maria Teodorowna.
Poco più in là, sempre in Contrada di San Ziminiàn, sorgeva e c’è ancora l’“Osteria “a pluri” “Al Cavalo poi Cavalletto”. Era una delle più antiche di Venezia ricostruita vicina all'Oratorio di San Gallo in Campo Russolo. In origine si trovava presso il Molo di San Marco, situata “Sub Porticati Sancti Marci”, e venne demolita quando fu costruita la Libreria del Sansovino.
“Giacomello De Gratia dal Cavalletto” della Contrada di San Geminiano era Confratello della Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, e fece prestiti alla Repubblica Serenissima nel 1379 ... Dopo che il Maggior Consiglio: condonò nel 1348 a Benno de Sexo, Oste al Cavallo, la pena di 100 lire di piccoli comminatagli dai Signori di Notte per una rissa scoppiata nella taverna a causa di una misura non giusta di vino, nel 1398 un “Zaninus dal Cavaleto tabernarius ad Cavaletum in San Marco” ricevette una condanna per usare nella propria osteria vasi di vino di minor tenuta del prescritto … Un “Armanus de Alemania hospes ad hospitium Cabaleti in Sancto Marco”, violentò dopo averla ospitata Catterina da Ferrara di circa 10 anni, che, fuggita di casa per timore di percosse e trovata piangente presso la chiesa di San Marco da un Nicolò Tedesco Prestinaio. Perciò nel settembre 1413 venne condannato ad un anno di carcere, e alla multa di 100 ducati, da depositarsi alla “Camera dei Imprestidi”per maritare a suo tempo la fanciulla. Essendo questa morta, la multa si devolse al Comune e l'Oste potè pagarla in rate da 10 ducati l’anno.
Sempre nella stessa zona dell’Osteria: “Avendo Messer Bernardo Giustinian dalla Contrada di San Moisè confabulato a lungo appoggiato al Ponte del Cavalletto con una donna colà presso domiciliata, già fantesca di Nicolò Aurelio Segretario del Consiglio dei Diecci, ed allora maritata con uno scrivano al Magistrato del Forestier, ed essendo per entrare in casa colla medesima, venne ferito mortalmente, per gelosia, da Messer Angelo Bragadin il 6 luglio 1515 alle tre ore di notte. Trascinatosi il misero fino in Campo Rusolo, colà ricadde morto, e la mattina dopo venne ritrovato freddo cadavere.” Precisa Marin Sanudo: “E' stà acerbissimo e miserando caxo, tanto più quanto il Giustinian governava la famegia soa e havia optima fama fra tutti ... Era bello et savio, ma avea la faza manzata da varuole; in reliquis ben proportionato. Era in zipon co la scufia in testa, et senza arme”.Per tale delitto il Bragadin, citato a comparire e resosi contumace, venne capitalmente bandito il 14 agosto dell'anno medesimo.
Nel 1566, infine, l'Osteria al Cavalletto era condotta da un certo Brunetto(non Brunetta !) che conduceva anche la vicina Osteria del Leon Bianco, e nel 1873 la vecchia casa del Rettore di San Gallo venne utilizzata per allargare l’Hotel Cavaletto che giunse fino al muro dell’altare di San Gallo.
Già nel 1683, sotto le Procuratie Nuove venne aperta la prima “Bottega da Caffè” di Venezia … mentre sotto alle Procuratie Vecchie, con l’entrata in Calle Cappello proprio di fronte al Campanile, sorgeva il Casin dei Nobili chiamato poi Casin del Commercio a causa di un’apposita sala notturna adibita a quello scopo. Il Casino era fornito di biblioteca specializzata, annoverava 12 illustri “Soci Onorari”, era frequentato esclusivamente da almeno 200 Nobili Soci appartenenti alla categoria dei Mercanti, ed era caratterizzato da ambienti coloratissimi arredati sontuosamente con soffitti a stucchi a pastello: l’Atrio era dipinto di verde, la Sala della Presidenza era gialla, turchina la Sala Giochi, tapezzeria marrone per la Sala del Bigliardo. Nella Sala della Musica ornata alle pareti con ballerine affrescate dentro ovali incorniciati da lesene decorate a stucchi, dietro a una parete lignea agivano suonatori e cantanti, e spesso si tenevano spettacoli teatrali e concerti.
L’area delle Procuratie Vecchie e Nuove della Piazza progressivamente divenne tutto un susseguirsi di luoghi, Caffè, Ridotti e Osterie-Locande carichi d’aneddoti e note curiose.
A metà Settecento a Venezia c'erano 311 Caffè, uno ogni 500 abitanti, probabilmente il record europeo. Di questi, ben 34 si affacciavano su Piazza San Marco, mentre 18 si trovavano “de là de l'acqua”, sotto i portici di Rialto.
Nel aprile 1720 il Capomastro Floriano Francesconi aveva aperto un “Caffè con Musica” sotto le Procuratie chiamandolo “Alla Venezia Trionfante”, ma tutti lo chiameranno “Floriàn” come il proprietario. Il Floriàn era un locale molto alla moda in cui Casanova corteggiava le dame, Goldoni vi entrò ragazzo, e era frequentato anche da Gozzi, Parini, Pellico, Lord Byron, Foscolo, Goethe, Rosseau e da gente che sopra capelli tagliati cortissimi indossava parrucche incipriate, e vestiva “l’Andrienne” con due lunghe pieghe dietro.
Sopra il Caffè Florian stava il “Casino della Società degli Amici”, definito “d’ottimo gusto”. I nuovi soci era tenuti a una sorta di noviziato di due mesi entro i quali potevano ritirarsi, ma una volta ammessi dovevano pagare 28 lire e poi 6 lire al mese. I Soci erano gente illustre: Angelo Querini figlio di Lauro, il Conte Francesco Apostoliconfidente degli Inquisitori e amico di molti Patrizi, Antonio Lamberti celebre poeta vernacolare, Giacomo Vallaresso figlio dei Nobili Alvise e Maria Donà. Il Casino apparteneva a Giuseppe Maffei che faceva parte della Compagnia dei Corrieri di cui fu Gastaldo nel 1787, il quale lo vendette alla NobilDonna Marianna Soranzo che ne fece il suo Casino personale e privato.
Circa cinquant’anni dopo, quando nella Piazzetta si aprì un caffè-ritrovo per Marinai chiamato: “Chioggia”,anche Giorgio Quadri da Corfù aprì un suo caffè, e a fianco se ne aprì ancora un altro meta dei Bastazi o Facchini di Piazza chiamato: “Orso Coronato” e in seguito detto: “Lavena”.
Tutta la Piazza San Marco finì col diventare un tripudio di Ritrovi ed Esercizi in cui s’affollavano Veneziani e turisti. Sotto alle Procuratie Nuove s’allineavano: la “Bottega al Melon prima dell’Ascension”, “Alla Regina delle Amazzoni”, “Alla Regina imperatrice di Moscovita”, “Al Rinaldo Trionfante”, “All’Angelo Custode”, “Alla Generosità”, “Alla Fortuna”, “Al Gran Visir”, “Alla Regina d’Inghilterra”, “Alla Diana”, “Alla Sultana”, “Al Gran Tamerlano”, “Alla Pianta d’Oro”, “Al Dose” e “All’Aurora Trionfante”.
Mentre appena girato l’angolo della Piazza per andare verso il Molo dalla parte della Zecca, s’incontrava il “Al Mondo d’Oro”, “Alla Madonna”, “Al San Nicolo’”, “Al Sant’Antonio”, “Alla Volontà di Dio”, “Al Cavalier San Zorzi” e “Al San Teodoro” che era l’ultimo prima di andare verso la Pescaria di San Marco.
Dalla parte opposta, sotto alle Procuratie Vecchie, nei pressi della Torre dell’Orologio esercitata il Capomastro Protestante Zorzi Planta “All’insegna della Corona”. Poco distante sorgevano: “Al Leon Coronato”, “All’Aquila Coronata”, “Al Coraggio”, “Alla Regina d’Ongheria”, “All’Arco Celeste”, “Al Redentor”, “Alla Realtà”, “Alla Speranza” e “Alla Violaccia” che siccome era gestito dalla Sjora Viola che zoppicava leggermente, i Veneziani lo rinominarono “Alla Viola Sòtta”.
In quei locali, tuttavia, c’era anche un clima surreale che non piaceva per niente alla Serenissima:
Ordine emanato dagli Inquisitori di Stato il 20 giugno 1699: “… il gravissimo disordine introdotto da qualche tempo in qua, che il concorso della nobiltà al Broglio, ch’è luogo venetabile, e sacro, rispettato da chi ci sia, e dove si deve coltivar, e mantenere quella perfetta unione, e sincera amorevolezza che ben conviene, che era messo in pericolo in gran parte del commodo, e dall’ozio, particolarmente nelle botteghe che vendono acque, caffè et altro, situate sotto le Procuratie vecchie e nuove, in Piazza et in Canonica, dove da molti nobili che vi vanno, usando anche discorso naturalmente senza la dovuta cautella, e circospezione d’ogni materia, ch’è molto facilmente rilevata dalla varietà delle persone otiose d’ogni conditione che vi capitano, et ancor di segretari, agenti e domestici di ministri di principi. Decidevano di ordinare a tutti li gestori di botteghe da acque, caffè et altro, in tutta la Piazza sino alla Piazzetta di San Basso, alla Canonica e appresso la bottega degli Armeni che fossero totalmente levati li banchi, e sedie di qualunque sorte, tanto esteriori, quanto interiori, et che le stesse botteghe alle 24 ore debbano essere assolutamente serrate …”
Si spense Piazza San Marco ? … Ma niente affatto ! … Anzi ! Fino al 1800 straripava d’iniziative e vitalità: in diverse occasioni come quando venne a Venezia l'Imperatore Ottone, in occasione del recupero dell’isola di Candia, per il matrimonio di Jacopo Foscari figlio del Doge, o per la pace col Duca di Ferrara, si organizzò in Piazza San Marco una spettacolare “Caccia ai Tori” ... Piazza San Marco fu da sempre considerate come un’arena o uno stadio dei Veneziani, per cui si organizzavano spettacoli come quelli del Giovedì Grasso e soprattutto quelli dell'annuale Festa dell’Ascensione ossia la “Sensa” quando si teneva una grandiose e frequentatissima Fiera.
“… il freddo, la neve e l’aria gelida rallentarono alquanto la Festa di Carnevale, ma le maschere in Piazza furono infinite … Si videro molti tabarri da donna guerniti di gallon d’oro alto quasi mezzo braccio ... vi furono in piazza i cori degli “Orbi di Piazza” scritti, musicati e cantati da ciechi veri: “facevano ridere sbarellatamente gli uditori” … un ciarlatano Fiorentino cavadenti, facendo pagare 2 zecchini, estraeva senza dolore i denti facendo masticare una strana radice ... Barbera Mantovana, “meretrice da balcone” residente in Contrada di San Moisè si recava a al Caffè di Floriano in abito licenzioso … Due Nobildonne in maschera se andavano in giro per la Piazza con le tette fuori e scapparono inseguite da Birri ... Si giocava alle “burelle” e alla “bazica” ...”
Alla Fiera della Sensa in certi anni c’erano solo da vedere di bello: “tre vasi o tre conche di fine porcellana cinese” … un ciarlatano Francese vendeva una pomata per far crescere i capelli ... un olandese in uno dei “Sei casotti delle Meraviglie” presentava uno strano animale detto Dromedario, e in un altro casotto c’era un meraviglioso globo di vetro in cui stavano rinchiusi Uccelli e Pesci, piante e fuoco acceso …. Il casotto di Pellegrino Cavadenti conteneva: animali volatili e quadrupedi : “… un gran cignal, de belli cani, un orso che sbrana un cane, un bel macaco sopra un ramo con un pomo fra le mani, un bel gattone sopra un arbore con un pumer sotto che gli diede la fuga, una gatta con cinque o sei figlioli che lattano e gli scherzano attorno, una pollastra con i vari pulcini”. Negli altri Casotti c’erano “cose minori”, come “Ballatori di corda” insieme ad equilibristi ... Si portava il cappello “alla sgherra”, si camminava con andatura “da Palladini”, e si beveva la bibita moderna chiamata “Alfabeto”che si vendeva “Ai Do Mori” a 5 soldi la chiccara.
Carlo Gozzi raccontava nella Gazzetta Veneta del 1760: “… nell’ultimo giorno di carnevale, passate l’ora 24 un cert’uomo in maschera, grande e ben fatto nella persona, ben vestito e col cappello orlato d’oro, ando’ alla bottega da caffè sotto l’Oriuolo tenuta da antonio Benintendi all’insegna della Provvidenza. Stabilì la maschera un contrato di 6 libbre di cioccolata a 4 lire la libbra. A pagare pose le mani nella scarsella e si dolse di non aver altra moneta fuorchè un’Osella d’oro da 4 zecchini che aveva poco prima riscossa. Aggiunse al bottegaio che sarebbe andato per altra moneta se quella non gli volesse cambiare. Il bottegaio la pesò e trovandola scarsa di 4 grani e si tenne il valente della cioccolata dandogli il resto in argento. La maschera andò per i fatti suoi. Come si sa alcuni astanti vollero vedere l’Osella per osservare il tempo in cui fu coniata, s’era del bel conio e latre circostanze. Dubitò alcuno che fosse falsa, altri che no e si faceano coscienza d’imputar la maschera. Il bottegaio andò al signor Moschini orefice che la trovò con l’anima d’argento e d’un valore di lire 26 circa. Dispiace molto al signor Benintendi che siasi verificato il proverbio: Non è tutto oro quello che splende …”
Nel 1740 si lastricarono in pietra i portici delle Procuratie Nuove su disegno di Stefano Codroipo, nel 1772 fu la volta dei portici delle Procuratie Vecchie pavimentati su disegno di Bernardino Maccaruzzi, e poi ancora nel 1876 a spese del Cavalier Giovanni Busetto detto Fisola, mentre il Tirali provvide a pavimentare l’intera Piazza sulla quale si apriva anche il Ridotto della Società dei Carassi … Il Doge Francesco Loredan fra 1752 e 1762 usava come Ridotto una delle abitazioni delle Procuratie Vecchie da cui s’affacciava anche ad assistere anche agli spettacoli della Piazza … e come raccontano i soliti “Notatori”del Gradenigoalla data 15 maggio 1760: “… un clavicembalo del celebre Celestini, dipinto parte da Paolo Veronese e parte dal vecchio Giacomo Palma … sta in vendita da Girolamo Marcon Caffettiere “All’insegna dell’Angelo Custode” sotto le Procuratie Nuove.”
Caduta la Repubblica e giunti i Francesi del “Santo” Napoleone con la loro “Epoca Democratica”, venne abbattuta la chiesa di San Geminiano e i Granai di Terranova sul Bacino di San Marco, e si trasformò una parte delle Procuratie compresa la Biblioteca per costruire “la Nuova Fabbrica” ossia il così detto “Palazzo Reale” con l’Ala Napoleonica e i suoi Giardini. Già che c’erano, I Francesi tolsero il Leone Marciano dalla Torre dell’Orologio dall’altra parte della Piazza (ricollocato nel 1820), e abbatterono la statua lì incorporata del Doge Agostino Barbarigo.
In un apposito decreto si leggeva: “Libertà, Eguaglianza! In nome della Sovranità del popolo, il Comitato di Salute pubblica... decreta... Sono aboliti i nomi di Procuratie Vecchie e Nuove; le Procuratie Vecchie si chiameranno Galleria della Libertà; le Procuratie Nuove Galleria dell'Eguaglianza... 22 Pratile 1797 Anno primo della libertà italiana, Falier presidente.”
Si dice che il 9 giugno 1796, i primi quattro ufficiali Francesi giunti in città nelle loro divise rosse e con pennacchi e coccarda tricolore girassero dappertutto protetti alle spalle da numerose persone. Ritrovatisi al Florianin Piazza con noto chirurgo Francesco Pajola Veronese che viveva a venezia, gli chiesero come curare le febbri che avevano colpito i soldati repubblicani sotto le mura di Mantova. Sembra che lui abbia risposto: “La miglior cura è forse quella di tornarvene a casa vostra a respirare le vostre arie native.”
Ripensando a quei tempi “innovatori” che costarono così tanto ai Veneziani, alzando ancora una volta gli occhi, l’ometto di sempre non si potrà non notare davanti alle balconate dell’attuale Museo Correr in corrispondenza delle Sale Napoleoniche la lunga “lista e rivista e sfilata in pietra”delle statue degli Imperatori Romani, e soprattutto il posto centrale rimasto vuoto e privo della statua di Napoleone “a cui I Veneziani misero un laccio al collo e la trassero giù felicemente in Piazza”.
“Giustizia è fatta!” pensa ogni volta l’ometto.
Napoleone stesso definì Piazza San Marco: "Il più elegante salotto d'Europa e forse del Mondo"… anche se poco dopo si covava già il desiderio espresso di trasformare la Basilica di San Marco in “Stazione Centrale” della nascente ferrovia che avrebbe fatto il capolinea proprio in Piazza San Marco dopo aver attraversato la Giudecca e l’isola di San Giorgio.
Nel 1784 dalla Piazzetta di San Marco si levò in cielo il primo Pallone Aerostatico, e dieci anni dopo in città si contavano 130 Casini Pubblici fra quelli Nobili, aristocratici e volgari senza contare quelli numerosi delle Società e dei privati.
Infine nel triste 1943, le Procuratie Vecchie divennero sede come ai tempi degli Asburgo Austriaci, della Platzkommandatur tedesca presente a Venezia.
Prima di andarsene, infine, sapendo ormai di avervi fatto perdere la pazienza a suon di leggere tutti i suoi pensieri noiosi, il nostro ometto darà un ultimo sguardo alla Piazza, pensando al momento e alla prossima occasione in cui tornerà a riassaporarla di nuovo. Penserà ancora una volta che in quella Piazza ha visto tante volte scendere la “Colombina, l’Angelo” nello sfarzo gioioso, allegro, musicale, danzante e colorato del Carnevale. Rivedrà anche la sua infanzia quando fra venditori di grano per i colombi, fotografi sotto il telone scuro della macchina a soffietto, lustrascarpe sotto ai portici, lui stesso attraversava di corsa la Piazza per andare a mettersi a cavalcioni dei Leoncini della Piazzetta… gli stessi su cui andavano a trastullarsi i figli del Doge Alvise III Mocenigo.
Per l’ometo di oggi allora bambino, già quel gesto semplice era una festa, e cavalcando i marmi rossastri, già in quell tempo si sentiva orgogliosamente parte di quella Repubblica Serenissima, Leone indomabile, che aveva saputo cavalcare abilmente per secoli la Storia.
Nella Piazzetta dei Leoncini lavorati da Giovanni Bonazza nell’antichità si teneva il “Mercato dell'Erbe”, e c’era ancora quella fontana-pozzo ricordata dal Gallicciolli: “Quel pozzo che è a San Basso nel rialto dei Leoni Rossi, egli è secondo alcuni il più profondo che siavi in Venezia, sebbene la sua acqua non sia molto buona.”
Sempre lì in Piazzetta vicino a San Basso sorgeva la “Locanda-Osteria “a pluri” all’insegna della Rizza” che apparteneva come: “Al Pellegrin”, “Al Cappello”, il “Cavalletto”, “Alla Luna”, il“Lion”, la“Serpa” e il “Selvatico” ai Procuratori de Sopra.
Nel gennaio 1773: “Pietro Monaretti, capitano delli Ecc.mi Esecutori contro la Bestemia, mascheratosi in Bauta con altri sbirri, si portò alle ore 4 di questa sera in una camera dell'osteria che tiene l'insegna della Rizza appo San Basso, et ivi sorprese alquante persone che da qualche tempo erano solite giorno e notte trattenersi al giuoco di Bassetta e Faraone, et attrappategli circa 100 lire che avevano sul banco, asportò anche li tavolini, e sedili, indi citò li primarii, fra i quali alcuni preti, che il giorno seguente furono corretti dal Mag.to, e l'oste condannato a 6 ducati d'argento”.
Alla fine l’ometto si volterà e se ne andrà via, e strada facendo ritornando verso casa penserà ancora che in quella Piazza superba e splendida ogni giorno suo padre si sedeva in un angolo a gustarsi il tepore del sole.
“Il sole, la Musica in Piazza, i pittori che dipingono, la gente che passa sono cose belle che non costano ancora niente.” amava ripetere. Le sue tasche erano sempre rigorosamente vuote, lavorava dodici ore al giorno dentro al chiuso di un’asfittica cucina di ristorante per racimolare qualcosa per mantenere moglie e tre figli piccoli che nella sua isoletta spersa in fondo alla Laguna aspettavano di vederlo “come la manna scesa dal Cielo”. Anche lui in un certo senso, pur nella sua pochezza è stato “un Leone, un figlio di San Marco” … perchè nel suo piccolo ha inventato Storia.
Un tempo si viveva anche di questo: era festa anche il solo vedere in faccia e abbracciare una persona.
In conclusion l’ometto rientra a casa, e finalmente la smette di pensare e ripensare … ma Piazza San Marco in ogni caso rimane non mai detta e vista abbastanza, ha sempre qualcosa da ricordare e rivelare, e di non raccontato ancora a sufficienza.
Me l’ha detto quell’ometto … con cui sono parecchio in confidenza.