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“I LUOGHI DELL’UMILTA’ E DELLA TRINITA’ DEI TEMPLARI E TEUTONICI … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 77.


“I LUOGHI DELL’UMILTA’ E DELLA TRINITA’ DEI TEMPLARI E TEUTONICI … A VENEZIA.”


Per chi ne sa almeno un poco di Venezia: la Punta Dogana è “la Salute”… e ti viene subito in mente il chiesone della peste con tondo cupolone largo e la cupoletta fra i due campaniletti dietro costruito da Baldassare Longhena dopo il 1620 … Esiste una bella descrizione di quella tipica zona Veneziana che la immagina come: “Un’immensa nave galleggiante sulle acque del Bacino di San Marco, un antico galeone di pietra col cassero di poppa (i due campanili posteriori) … il cui nocchiero, comandante, è la Madonna collocata in cima intenta a “navigare” sulle sorti e i destini della città lagunare …”


Bella immagine! ... suggestiva per davvero.


Se non ci siete mai stati, andate a farvi una passeggiata (col bel tempo possibilmente) in quella bella contrada di Venezia in fondo alle Zattere fin dove il famoso Canal Grande sbocca nel Bacino di San Marco. Vedrete uno scenario magnifico ormai millenario celebrato da tanti pittori illustri e declamato da molti versi insigni: l’isola di San Giorgio Maggiore da una parte, la Punta della Dogana in mezzo come una prua protesa verso San Marco, la Laguna, il mare … come un monito, e a sinistra la “magica”Riva e Piazza di San Marco con la grande Casa Dogale dove è accaduta tanta Storia e si decideva tutto quanto riguardava la Serenissima.


Una veduta classica … davvero bella, che continua a richiamare per vederla migliaia di persone e turisti.


Provate però a immaginare per un attimo com’era quel posto prima che vi fosse costruito il chiesone della Salute ? Che c’era lì ? … Anzi, chi c’era ?

Vi si aprirà un vuoto nella mente … e non troverete facilmente risposta.  E’ capitato anche a me perché quel posto nella nostra testa non potrebbe essere se non così come lo vediamo oggi. Quello che esisteva prima è “tabù”… Boh ? … Mistero sconosciuto quasi per tutti.

Allora provo ad aiutarmi un pochetto osservando la stampa-disegno che ho postato in cima a queste righe: ecco com’era la zona della Dogana prima del 1620 e della chiesa della Salute. Curiosa vero ?

C’erano almeno due cose, due complessi edificativi significativi: Santa Maria della Visitazione o dell’Umiltàcon facciata sul Canale della Giudecca e Santa Trinità affacciata sul Canal Grande insieme a diversi altri edifici confluenti verso la Punta della Dogana. Non affannatevi a cercare su Google Maps e sulle mappe attuali di Venezia la chiesetta dell’Umiltà e quella della Trinità: non le troverete affatto perché non esistono più.


E sapete a chi appartenevano quegli ambienti e quegli antichi locali ? Anche questo si sa: quella Contrada di Venezia era un posto anticamente abitato e posseduto dai Cavalieri Templari e poi da quelli Teutonici residenti in Venezia.


“I famosi, misteriosi e tanto chiacchierati Cavalieri Templari ?”…  vi chiederete incuriositi drizzando occhi e orecchi.

Sì … proprio loro, proprio quelli.


Lo so che si raccontano e inventano tante cose nei loro riguardi … e che spesso per la smania di dire qualcosa si dice di tutto per allargarne il loro mito e la leggenda … Non aspettatevi perciò che vi faccia chissà quali rivelazioni inedite sui Templari a Venezia … non ne ho, ovviamente. Però è storicamente certo e documentato che quei luoghi e quegli ambienti contigui alla chiesetta dell’Umiltà e della Trinità in Punta alla Dogana sono appartenuti e sono stati frequentati a lungo dai famosi Cavalieri Templari che hanno soggiornato per diverso tempo proprio a Venezia.


L’Umiltà con tutto il Monastero che vi stava intorno sono stati demoliti, mentre quel che resta della chiesa della Trinità dei Teutonici Trinitari e prima dei Templariè stato inglobato e ricostruito dentro all’edificio del Seminario che s’affaccia sul Campo della Salute accanto, a sinistra, dell’omonima Basilica.

Per i più curiosi: si tratta delle ultime finestre a pianoterra a sinistra con un portale che s’affaccia proprio sul Campo. Lì dentro c’è ancora oggi la Cappella della Trinità ... anche se è solo un resto di quella chiesa antichissima che ha subito infinite modifiche lungo i secoli. Però esiste ancora … Ci sono passato e vissuto dentro quotidianamente per undici anni.


I Cavalieri Templari li conoscete bene, ne conoscete di certo la storia … In estrema sintesi: era il 13 ottobre 1307 quando il Gran Maestro dei Templari: Giacomo de Molay morendo sul rogo in un isoletta sulla Senna minacciò il Papa Clemente V di comparire entro 40 giorni e il Re Filippo il Bello entro un anno davanti al Tribunale di Dio perché fosse resa Giustizia all’innocenza dei Cavalieri Templari.

I fatti storici seguenti sono chiarissimi, non si possono smentire: Papa Clemente V morì esattamente 38 giorni dopo quel rogo e quella minaccia, mentre Re Filippo il Bello morì esattamente 8 mesi dopo. E Giustizia fu fatta ? … Chissà ?

I ricchissimi e potentissimi Templari vennero eliminati e “caldeggiati col rogo” innocentemente dal Re di Francia e dal Papa con varie accuse infondate d’eresia, satanismo, tradimento, sodomia e molto altro ancora. In realtà Papa e Re avevano bisogno di “far cassa” incamerando i beni di quelli che erano di fatto loro antagonisti politici, economici e in un certo senso forse anche spirituali.


Ebbene, fino alla loro soppressione i Cavalieri Templari vivevano anche a Venezia dove erano giunti subito dopo la prima Crociata ossia nel 1118 – 19 circa … I Cavalieri vivevano anche a Venezia, era ovvio, perché era il capolinea di gran parte degli itinerari Europei e utilissimo punto d’arrivo e partenza da e per la Terrasanta. Era città insigne governata da uno Stato Serenissimo tollerante e in grandissima ascesa ... I Templari non potevano non esserci a Venezia … così come c’erano presenti molte altre realtà importanti dell’epoca.


Sapete anche che il “Quartiere Generale”, ossia “La Commenda” dove risiedevano i Cavalieri Templari a Venezia si trovava presso la chiesa-convento di San Giovanni del Tempio o dei Cavalieri Templari in Contrada di Sant’Antonìn vicino a quella della Bragora diventato solo in seguito San Giovanni dei Furlani e dei Cavalieri di Malta. Anche della presenza stabile dei famosi Cavalieri Templari altrove per Venezia si sa già tutto: i Templari possedevano altri luoghi in città, come la chiesetta di Santa Maria in Brolo detta dell’Ascensione “in bocca” di Piazza San Marco nei pressi della quale avevano una loro Locanda della Luna”. Un’altra locanda la possedevano poco distante dai magazzini del Rio dell’Anzolo Raffael dove approdavano, caricavano e scaricavano quasi tutte le barche provenienti dalla Terraferma, così come possedevano numerose altre case e botteghe sparse in giro per Venezia.


Dopo la soppressione cruenta dei Templari, i Cavalieri Trinitari Teutonicidetti anche Frati Bianchi della Trinità hanno chiesto e ottenuto dai nuovi Papa e Re di sostituirli e così incamerarono le scarse rimanenze dei beni rimasti, e utilizzarono gli stessi luoghi usati e abbandonati dai Templari ... anche a Venezia.


Già nel 1180 circa, a Gerusalemme: “Il Conte Rudolf von Pfullendorf ordina a Stefano Barocci, Procuratore di San Marco in Venezia direstituire la somma da questi depositata presso la "Camera di San Marco” ad Archanbando Priore dell'Ospedale di Venezia dell'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme o nel caso di morte di quest'ultimo ad altro soggetto a ciò delegato dal Maestro del detto Ospedale.”


“Nel 1211 a Roma in Laterano, Papa Innocenzo III confermò ai Frati dell'Ospedale dell'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme in Acri la convenzione fra essi ed i Templaricirca i mantelli bianchi ed i palii di stanforte: accordo già approvato da Albertus Patriarca di Gerusalemme.” ... Sempre a Roma in Laterano, nel 1221: “Papa Onorio III confermò i beni e i diritti all'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme …” e due anni dopo, lo stesso Onorio III Papa: “… concesse al Maestro e Frati dell'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme le libertà e i privilegi già concessi ai Frati Gerosolimitani e del Tempio …”


I Cavalieri-Frati Teutonici quindi erano in grande ascesa dopo la scomparsa dei Templari, ed erano tenuti in grande considerazione dal Pontefice di Roma e dai Grandi Sovrani dell’epoca ... Venezia compresa.


Nel 1250-70 il Doge di Venezia e Ordine dei Cavalieri-Frati Teutonici andavano particolarmente d’amore e d’accordo, proprio a braccetto per via “dell’affare e degli imbarchi” per le Crociate, tanto che il Serenissimo Doge Raniero Zen permise l’edificazione di una loro nuova chiesa-residenza dove sorge oggi la gradinata della Basilica della Salute sulla motta così detta di San Gregorio.


Il 18 luglio 1257 a Rivoalti di Venezia: “Angelus Gradensis Ecclesie Patriarche et Dalmacie Primas", ed "Albertus Episcopus Tervisinus" dichiararono conforme all'originale la copia scritta da Dominicus Fina Pievano e Notaio di San Paternian di Venezia, con la quale ilPapa Alessandro IV rivolgendosi al Maestro eFrati dell'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme, li incaricava di assolvere da scomunica o interdetto i Frati che avessero seguito l’Imperatore Federico II e i suoi figli Corrado e Manfredi.”I Cavalieri Teutonici erano allora uno degli Ordini che conta.


Nel febbraio 1302 a Rivo alto di Venezia: l'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme affittò a Jacobo muratore una terra con casa e fornace situata presso il luogo della Trinità in Venezia ... Nella città lagunare i Frati Bianchi Teutonici facevano affari … Tutto procedeva per il meglio … a gonfie vele !


Nel 1309 però si ruppe qualcosa fra Teutonici e Serenissima, tanto che i Cavalieri trasferirono la loro principale residenza da Venezia a Mariemburgo in Prussia lasciando gli ambienti veneziani in totale decadenza sebbene la chiesa fosse ugualmente frequentata per via delle numerose indulgenze che il Papa vi aveva assegnato lucrabili da chiunque la visitasse e vi facesse generosa elemosina ... solita storia. Allo stesso tempo, i Frati-Cavalieri pensarono bene di sfruttare quel loro possedimento collocato sull’estrema punta dell’isola proprio all’imbocco del commerciale Canal Grande di Venezia che andava all’Emporio di Rialto. Vi fecero perciò costruire tutta una serie di magazzini paralleli cintati da mura merlate con una torricella di controllo. In seguito la Repubblica farà propria tutta quell’area strategica e la adibirà a Depositi del Sale e poi a Dogana da Mar in precedenza situata al di là del Bacino di San Marco sulla Riva di San Biagio vicino all’Arsenale. 

In realtà i Frati Bianchi Teutonici non se ne andarono mai del tutto dai loro ambienti nell'isola della Salute a Venezia, perchè come raccontano documenti redatti in continuità fra 1181 e 1417 continuarono a tenere un loro puntuale e aggiornatissimo "Giornal del Priorato della Santissima Trinità" che è stato scritto e annotato da qualcuno fino al 1661.

“Il 27 maggio 1312 a Venezia "in Claustro locis Sancte Trinitatis": Bertoldo, Fattore del "locus" della Santissima Trinità dell'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme in luogo del Precettore di detta casa a sua volta Luogotenente del Maestro Generale dell'Ordine e Zeno Fornaserio abitante alla Trinità, nominano congiuntamente arbitri per risolvere bonariamente le liti tra loro insorte: Stefano Magno del Confinio di Sant'Agnese di Venezia, Marino Lombardo del Confinio di San Gregorio e Michele Alberti di quello di San Vito …”


I Teutonici erano perciò presenti e attivi a Venezia, anche se privi della loro rappresentanza ufficiale più prestigiosa. Un’altra porzione degli ambienti, dell’ex Monastero e del terreno e orto verso il Canal Grande appartenente ai Frati Bianchi Trinitari venne concessa dai Teutonici ad alcuni Veneziani nel 1419 per erigere una Scuola di Devozione intitolata alla Trinità: “… in cambio del pagamento di un Livello perpetuo di 8 ducati d’oro annuali da pagarsi al maestro Provinciale nell’ottava della Festa della Trinità …”


“Il 30 dicembre 1466 a Civitanova, il Provinciale Balivo della Lombardia e della Marca Trevigiana costituito Procuratore da Henricus de Lonnterslrhem, Maestro dell'Ospedale dell'Ordine di Santa Maria dei Teutonici di Gerusalemme e Procuratore Generale per la Germania, l'Italia e Oltremare, costituì Procuratore Francesco di Berto Francesco con mandato di recuperare i beni del Monastero della Santissima Trinità di Venezia:"in Monasterio et loco Sancte Trinitatis de Venetiae ..."


La concessione venne rinnovata dai Frati Bianchi Teutonici ancora nel 1493 e puntualmente pagata dai Confratelli Veneziani della Scuola della Trinità.


Solo nel settembre 1512 rimase vacante il Priorato della Trinità per la morte di Frate Alberto Allemanno:“… che annegò andando in Livenza”. Il Papa concesse allora il Priorato della Trinità dei Teutonici al Nobile di Venezia Andrea Lippomano zio di Pietro Vescovo di Bergamo e poi di Verona, fratello di Luigi Lippomano che divenne anch’esso Vescovo di Verona … una famiglia ricca e potente insomma. Il Senato della Serenissima non ebbe nulla da obiettare, e in ottobre approvò quella scelta Pontificia formalmente.

Già che c’era, Papa Clemente VII concesse per 62 anni allo stesso Nobile Lippomano anche il Beneficio di Santa Maria Maddalena di Padova che era stata anch’essa un tempo luogo-residenza dei Cavalieri Templari concesso in seguito ai soliti Cavalieri-Frati Teutonici … Anche lì la sede del Beneficio era rimasta vacante per la morte contemporanea di Frate Domenico Filippo di Altolapide, ultimo Priore Teutonico … annegato anche lui nel fiume Livenza.


Giunto l’anno 1533 anche a Venezia, venne arrestato e processato come eretico un Mastro falegname Antonio residente nella contrada di San Giacomo dell’Orio. Dal processo risultarono anche delle predicazioni sospette fatte da due Frati Domenicani: Fra Zaccaria e Fra Damiano “nei luoghi della Trinità”, nella chiesa della Fava e in San Giovanni e Paolo.


“Gli altri aderenti a questa “Congrega pericolosa ed eretica” erano alcuni Tedeschi, alcuni toscani, un maestro di scuola e un forestiero di 25 anni “Gran Luteran” ...”  Dagli atti informali del processo risultò che:“… possedevano scritti di Lutero, Bibbie in volgare e soprattutto i “Gravamina Nationis Germanicae” libro pericolosissimo quasi da cospiratori … Nella comunità clandestina in cui vigeva una forte solidarietà comune si discuteva di temi come la Confessione, Purgatorio, Libero Arbitrio, Papa, Giustificazione, Quaresima, Culto dei Santi ... tutti argomenti delicatissimi ...”


Il processo si concluse nel 1534 con la sola condanna del falegname Veneziano a carcere perpetuo.


L’anno seguente, 1535, giunse a Venezia il famoso Ignazio di Lodola o Loyola, Santo in seguito e “inventore-fondatore dei Gesuiti”, impegnato nel suo secondo viaggio-soggiorno a Venezia proveniente da Parigi e diretto in Terrasanta. Venne accolto inizialmente in casa del Nobile Andrea Lippomano dotto e generoso benefattore e Priore della Trinità dei Teutonici. Alcuni compagni di Ignazio di Loyola andarono ad abitare all’Ospedaletto, altri, invece, agli Incurabili sulle Zattere per curare gli infermi. Il Loyola era venuto a Venezia con l’intenzione per svolgere attività pastorali di servizio pratico alla povertà tanto diffusa in città, ma si ritrovò a mettere in piedi un Collegio per istruire soprattutto i figli dei Nobili.

Il Priore Lippomano insistette per riuscire ad ottenere dal Loyola almeno 12 soggetti competenti, con almeno 3 Sacerdoti … Ignazio rispose promettendo 5 studenti ed 1 sacerdote come persona qualificata. Lippomano allora li ospitò in casa propria e poi cedette loro la metà di un palazzotto che dicevano “La Pietà” contiguo a casa sua, e una Cappella o Pubblico Oratorio dedicato alla Vergine soprannominato l’Umiltà situato dietro ai Magazzini del Sale alla Punta della Trinità.

Si assunse anche le spese di vitto, vestiti, libri per tutti quei Preti-Frati e della ristrutturazione della casa molto spartana e poco adatta alla vita comune, tanto che notando il grave disagio in cui vivevano, Ignazio di Loyola consigliò ai suoi e all’Olandese Nicola Florenz detto Goudanus o Gaudano che nominò Superiore di fingere di trovarsi in India.


Andò così che dopo varie peripezie, restauri e ulteriori donazioni da parte del Nobile Priore Lippomano si ampliò la chiesetta spendendo 800-1000 ducati, si sistemarono alcuni ambienti dell’Umiltà spendendo circa altri 1500-2000 scudi provvedendo anche alla decorazione pittorica dei luoghi, e il 12 aprile 1550 la Scuola-Collegio dei Gesuiti in Punta alla Salute iniziò le sue attività aprendosi anche ad accogliere alcuni alunni esterni.


Saputo ovviamente tutto, Papa Pio IV nel 1560 e 1565 confermò da parte sua l’assegnazione dei luoghi dell’Umiltà ai Padri Gesuiti in cambio di annuo tributo al Priore della Trinità di 2 ceri ed 1 libbra d’incenso.


Una cronaca veneziana del 1573 descriveva i luoghi: “… il sito è assai comodo… la Chiesa ha 5 altari e un ricco e bel soffitto, è dotata di una bella e grande Sacrestia ben provvista di paramenti e ornamenti di chiesa … (possiede anche un ricchissimo tabernacolo da 1.000 ducati offerto da alcune Donne Nobili di Venezia) … la casa dell’Umiltà ha un cortile con una cisterna nel mezzo, un Oratorio in prossimità dove portarsi per confessare uomini e ragionare con forestieri … Dispone a pianoterra di due camere per il Portiere e i forestieri, di un magazzino per la legna, cantina, cucina e refettorio … e un assai bello e grande giardino … La casa è articolata in 2 solari il primo con 12 camere e il secondo con 11 (alcune talmente grandi da poterne fare 4) oltre la biblioteca assai grande e ben fornita di libri … infine una comoda e grande sala dove si fa fuoco durante tutta l’invernata ...”


La Compagnia dei Gesuiti del Loyola, però, non era molto simpatica alla Serenissima per i suoi modi e soprattutto per le sue idee. Venezia e il Doge consideravano Loyola & C troppo intraprendenti, irriverenti, presuntuosi e soprattutto troppo filopapali … troppo schierati dalla parte del Papa di Roma … E si è sempre saputo che fra la Serenissima e il Pontefice Romano non è mai “corso buon sangue del tutto”.

Già l’anno dopo, infatti, Repubblica di Venezia e “Compagnia dei Preti Riformati del Gesù detti Gesuiti”si scontrarono aspramente fra loro soprattutto a Padova … e Ignazio di Loyola scrisse al Papa per chiedere indicazioni e il suo appoggio per dissipare i contrasti sorti con la potente Signoria Veneziana.


Cinque anni dopo, la “cronachetta di Venezia” continua a parlare dei Preti del Gesù presenti a Venezia aggiungendo nuove informazioni sul sito “dell’Umiltà dei Gesuiti” sempre più perfezionato:


“… s’è aggiunto alla Chiesa una Cappella Grande col coro di dietro in solaro rendendola più capace … con sedili di noce ben lavorati capaci d’ospitare 200-300 persone … pavimenti in pietra viva di vari colori e con alcuni quadri grandi di pittura sulla vita della Madonna … Allo scopo non sono mancate le elemosine … e anche la Signoria ha fatto più larghe elemosine per “vitto e fabbrica” rispetto agli anni passati … Dall’altra parte di dentro si sono fatti 2 Oratori nei quali si può celebrare la Messa, udir predica e far esortazioni ... Di sotto a ciascuno di questi ci sono due stanze che possono servire a Sacrestia et altri bisogni … e si hanno anche belle Reliquie in bei Reliquiari …”


Nell’estate del 1580 i lavori stavano ancora continuando, tanto che si dovette per il troppo rumore e confusione interrompere la celebrazione delle Messe e delle prediche dei Gesuiti che attiravano molte persone:


“… alcune feste dell’estate per essere impedita la chiesa da muratori e falegnami nel far il pavimento e banchi nuovi da sedere alla predica, tutti a modello così per gli uomini che per le donne; il che ha aggiunto grande ornamento alla chiesa…”


Nell’agosto dell’anno seguente il Visitatore Apostolico e Papale di Venezia visitò e ispezionò anche il Priorato dei Cavalieri Teutonici di Prussica presenti a Venezia. Nei verbali della visita spediti in seguito “in visione”direttamente al Papa, si leggeva:


“Negli ambienti della Trinità a Venezia ho trovato il Priore: Piero Lippomano che percepisce 500 ducati annui assistito da 2 Cappellani con casa, vitto ed incerti. Sono inoltre ospitati altri 2 chierici, e sono attive 3 Mansionerie di Messe quotidiane da celebrare valevoli 68 ducati annui ... La chiesetta possiede un Altare della Madonna e uno del Crocifisso ... ospita la Confraternita della Trinità e si presta servizio al vicino attivo Ospedale … Mi è sembrato tutto a regola e in ordine …”


Perfino il Doge, al di là del contrario atteggiamento politico pubblico e ufficiale della Serenissima ostile ai Gesuiti, si serviva per la sua Confessione personale dei Preti dell’Umiltà che mandava a prendere spesso portandoli con la sua gondola personale a Palazzo Ducale.


Nel frattempo, Papa Clemente VIII essendo divenuto nuovamente vacante il Priorato dei Frati-Cavalieri Teutonici della Trinità alla Punta del Sal o Dogana da Mar, fece nel 1594 nuove assegnazioni al Seminario dei Preti di San Cipriano di Murano e con l’approvazione di Massimiliano Re di Polonia Maestro dell’Ordine dei Teutonici vendette ai Rettori del Seminario tutti gli ambienti del Priorato della Trinità per 14.000 ducati riconfermando tutte le indulgenze legate al luogo. E lì rimasero gli studenti del Seminario Patriarcale (i futuri Preti) fino al 1630 ossia gli anni della costruzione della Chiesa della Salute quando tornarono di nuovo nell’isola di Murano.


Nel gennaio di nove anni dopo la Compagnia dei Gesuiti rifiutò sdegnata e clamorosamente la richiesta dei Procuratori di San Marco di prendersi cura del Seminario Ducale del Doge (erano due i Seminari a Venezia: quello del Patriarca e quello del Doge) fondando un apposito Collegio e ottenendo un entrata fissa di 1.500 scudi. I Gesuiti motivando il loro rifiuto affermarono che i Chierici del Doge e di San Marco: “… innanzitutto non sono Nobili, e poi sono avezzi a vivere in difficili e pericolosi costumi…” Il Doge si offese, e “si legò al dito” l’affronto da parte dei Gesuiti.


Intanto i Preti del Gesù spopolavano in città per stima e simpatia … tanto che la ricchissima Nobildonna Adriana Bernardo vedova dell’altrettanto Nobile e ricco Vincenzo Contarini, Governatrice dei Derelitti e delle Zitelle lasciò un cospicuo lascito testamentario anche ai Gesuiti dell’Umiltà per il loro “Collegio del Gesù”… che di conseguenza venne ulteriormente ampliato e ristrutturato nel 1599.


La chiesa dell’Umiltà non era mica un bugigattolo né una chiesupola di campagna: possedeva al suo interno diverse opere di un certo Jacopo Tintoretto che dipinse su tela per l’Umiltà il: “Compianto sul Cristo Morto o Lamento di Maria” inscenando in maniera plastica e visibile le movenze contenute nel sentitissimo e conosciutissimo Inno-Sequenza dello “Stabat Mater” di medioevale memoria ancora usatissimo nel Rinascimento. Le tematiche devozionali dei famosi “Sette Dolori della Vergine” erano vivissime e molto diffuse anche nella spiritualità dei Veneziani dell’epoca che riconoscevano nella Madonna afflitta in un certo modo la copia di se stessi, delle proprie disgrazie e afflizioni dovute alle conseguenze delle frequenti pestilenze ... Nel bene e nel male, i Veneziani d’allora percepivano il Cielo come fortemente partecipe del loro spicciolo e concreto destino mortale quotidiano. Era comunque “un sentire”di molti, sparso perlomeno nell’area Europea se non molto di più … Oggi le cose sono un po’ cambiate … anche se non per tutti.


Nella chiesetta con ben sette altari, c’era una vera e propria miniera d’opere d’Arte prestigiose: accanto a un arco dipinto dal Petrelli con “molti Santi”, c’era un “San Francesco”della scuola di Paris Bordone, c’era appesa una “Circoncisione” di Marcantonio Moro, mentre sull'Altar Maggiore esisteva una pala con una “Natività” di Jacopo Bassano che per la stessa chiesa aveva dipinto anche un “San Pietro e San Paolo”. Contornava quell’opera tutta una serie di operette di Paolo Veronese: “Padre Eterno, Angeli e Cristo Redentore”,“Vergine con Angeli che la coronano”,Redentore con Cherubini”, “San Giovanni Battista che predica” e “Il centurione davanti a Cristo”.

A destra dello stesso Altare Maggiore c’era infissa nel muro una “Presentazione al Tempio” e una “Visita ad Elisabetta” del Fiammingo Baldissera d’Anna che aveva dipinto anche per la stessa chiesa: “Santi e Sante” e “Il Martirio di Sant’Andrea e di San Paolo”.

Inoltre in chiesa non mancavano opere di Palma il Giovane: “Cristo fa scendere Zaccheo dall’albero”ed “Elia soccorso dall’Angelo” poste accanto a una “Madonna del Rosario” dipinta da Fabio Canal. Il clou della chiesa era però il soffitto dove Paolo Veronese aveva dipinto 3 capolavori con “Storie Sacre”, ossia: “Assunta con Apostoli”, “Natività di Gesù con i pastori” e “Annunciazione”posta sopra il soffitto del Coro.


Andate a guardare quelle opere se potete ! … Avrete così una vaga idea di quale ricca e bellissima bomboniera d’Arte e Storia sia stata quella parte remota e un po’ discosta di Venezia. Oggi non ne rimane più niente.


Tornando ai Gesuiti dell’Umiltà … Visto il successo avuto a Venezia dal Collegio dei Preti del Gesù, quattro anni dopo un gruppo di ben 27 Patrizi Veneti facoltosi e potenti fra cui: Loredan, Foscolo, Morosini, Barbaro, Barbarico, Venier, Foscarini, Malipiero, Marcello, Priuli, Vendramin, Molin, Paruta, Corner, Pesaro, Badoer eRimondo chiesero e ottennero di trasformare il Collegio dei Gesuiti in Scuola per Nobili … e la cosa avvenne e durò per 3 anni … finchè nel 1606 i Gesuiti vennero espulsi da Venezia e chiesa, casa e Collegio rimasero del tutto chiusi e abbandonati. La Serenissima non sapeva perdonare e incassare gli affronti dei Gesuiti … e tantomeno quelli del Papa. Andate a vedervi le vicende storiche di quegli anni … e capirete meglio.


Erano tremendi i Gesuiti … senza paura … Pensate che negli ultimi anni del 1500 erano arrivati ad introdurre a Venezia un vero e proprio Sistema di Penitenza AntiCarnevale da mettere in atto negli ultimi giorni di Carnevale quando la festa era maggiormente sfrenata e accesa … I Gesuiti tenevano in concomitanza un’Esposizione Solennissima e continua del Santissimo per 40 ore, che ebbe un’ampia rinomanza e richiamo cittadino: Chiamarono anche a predicare il futuro Santo: Roberto Bellarmino e il futuro Venerabile: Cesare Baronio riformatori austerissimi e rigorosi di grande fama. Venezia Serenissima si sentì come attaccata nei suoi costumi e nelle sue tradizioni.


(***C’è da precisare comunque, che questo non accadeva solo a Venezia, e che in giro per l’Italia c’era anche di peggio: in Lombardia, ad esempio, tutte le chiese negli ultimi giorni di Carnevale venivano a lutto parate di nero, e si celebrava in continuità la Messa dei Morti). 


E’ curioso ricordare, anche se forse vi sembrerà quasi impossibile, che quel rito attivato dai Gesuiti durante il Carnevale alla fine del 1500 sopravvive ancora oggi nella vicina chiesa della Salute (e non solo lì) dove si celebrano ancora oggi “Le Quarant’Ore” con scopo riparatorio e di espiazione per le “malefatte trasgressive” perpetrate dal Carnevale … e non solo da quello.


Trascorsero ben dieci anni senza che nessuno mettesse piedi in quel che era stato un posto “brillantissimo” di Venezia. Era un peccato lasciare lì tutto abbandonato e in rovina, per cui la Serenissima nell’estate del 1615 offrì tutti quei luoghi alle Monache Benedettine provenienti da San Basso di Malamocco rovinato dalle acque della laguna, e trasferite provvisoriamente nell’isola di San Servolo.

Le Monache di San Servolo o Servilio si diedero subito da fare, e la Badessa Cecilia Barozzi costruì immediatamente un bel Coro nuovo per le sue Monache ... Nel frattempo a Venezia accadde la Grande Peste del 1620, quella che infuriò per tutta l’Europa facendo migliaia di vittime ovunque e 80.000 solo a Venezia … S’iniziò a mettere in piedi il grande Tempio Votivo di Stato di Santa Maria della Salute sotto le direttive e il progetto di Baldassare Longhena. L’intera isola venne ripensata e scombussolata prendendo un volto nuovo: sparirono edifici, botteghe, conventi, orti, case e spazi liberi e ne vennero costruiti diversi di nuovi.


Le Monache dell’Umiltà comunque non furono affatto le eredi dei prestigiosi Gesuiti, per cui si affievolì del tutto l’interesse dei Veneziani nei loro riguardi (se mai ce ne fosse stato qualcuno). Infatti, già quaranta anni dopo le Monache di San Servolo si ritrovarono in piena crisi economica e provarono a vendere in giro per Venezia gli arredi sacri della loro fornitissima chiesetta … Non fecero a tempo a realizzare e alienare nulla, perché intervennero subito i Provveditori Sopra ai Monasteri che impedirono duramente qualsiasi vendita.


“Le opere Sacre e di Pittura e Scultura non si toccano ! … e tantomeno si alienano impunemente … Appartengono a tutti i Veneziani !” tuonarono i Provveditori di Stato (altro che il nostro attuale Sindaco Brugnaro … ma questo è un altro tempo).


Tuttavia, fra alti e bassi economici, nel 1661 le Monache dell’Umiltà possedevano rendite annue di 240 ducati provenienti da immobili posseduti in Venezia … e ancora mezzo secolo dopo, nel 1712, le rendite annue stabili delle Monache da immobili posseduti in Venezia ammontavano a 946 ducati. Infatti, nel 1736 le Monache si permisero un restauro di chiesa e monastero spendendo 1.658 ducati …  e nel successivo 1740, la rinomata Osteria de la Donzella condotta dall’Oste Piero dei Pieri in Contrada di San Giovanni Elemosinario di Rialto apparteneva proprio alle Monache del Monastero di San Servolo e di Santa Maria dell'Umiltàle cui rendite annuali erano salite a985 ducati.


Giunti al 1778, c’erano ancora Nobili donne di Venezia che andavano a vivere come Monache Professe nel Monastero Benedettino dell’Umiltà vicino alla Salute … e i musicisti Furlanetto & Grazioli musicarono la festosissima cerimonia di vestizione di una di queste ... Poi giunse il “castigamatti”: Napoleone Bonaparte, che nel luglio 1806 soppresse tutte le Corporazioni, Ordini e Congregazioni Religiose di Venezia e dintorni incamerandone tutti i beni e saccheggiandone senza alcun ritegno tutti i luoghi.


Anche la Chiesa e il Monastero dell’Umiltà vennero perciò chiusi del tutto, e le 23 Monache Benedettine residenti vennero “concentrate” assieme alle Monache Benedettine di San Lorenzo nel Sestiere di Castello. Gli ambienti dell’Umiltà divennero un deposito di opere e libri trafugati ovunque dai Francesi e messi in vendita al miglior offerente.

Il 02 dicembre 1809 in un solo giorno furono venduti 4.318 libri dal Deposito dell’Umiltà ... e si proseguì allo stesso modo anche quando vennero a Venezia gli Austriaci, e così quando vi ritornarono i Francesi per la seconda volta.


Dal 1821 al 1824 si demolì tutto, compreso un piccolo Oratorio neonato dedicato a San Filippo Neri … e dove c’era “tutto” si fece un bel cortile adatto ai giochi per permettere un nuovo trasferimento del Seminario Patriarcale da San Cipriano di Murano alla Madonna della Salute dove vive e agisce tuttora nel 2015.


Una guida turistica di Venezia spiegava dopo il 1851: “Il passaggero oggidì, suo malgrado, si arresterà al Ponte dell’Umiltà, né seguirà più il cammino delle Zattere e il giro alla Punta della Dogana fino al Campo della Salute ... poiché il ponte fu chiuso da muro quando la Dogana di San Giorgio fu qui trasferita nel 1851 …”


Ho quasi finito … C’è un’ultima curiosità da aggiungere inerente al quel posto abitato un tempo dai Cavalieri Templari e dai Bianchi Cavalieri-Frati Teutonici …  Stavolta è un fatto personale che mi riguarda direttamente … Ho vissuto per ben undici anni nel posto dell’Umiltà e della Trinità occupati un tempo dai Cavalieri Templari e poi da quelli Teutonici. Proprio sul sito dove sorgevano i Conventi, le Chiesette e i Monasteri dell’Umiltà e della Trinità in Punta alla Salute.


Quando vi ho vissuto io a cavallo degli anni 70-80 del 1900, nel giardino del Seminario che è stato il giardino dei Templari e delle Monache di un tempo esisteva una collinetta, una motta di terra circondata da alberi e coperta di bassi arbusti. E’ stata ricavata con la terra e le pietre d’asporto e di risulta ricavate dalla demolizione di quelle chiese, Conventi ed edifici di cui vi ho raccontato poco fa per farne cortile per gli studenti del Seminario Patriarcale di Santa Maria della Salute … la “fucina” dei nuovi Preti ... (fra cui c’ero anch’io).


Negli undici anni in cui ho vissuto e studiato lì dentro ... ho calpestato ogni giorno quei cortili, quel giardino e quei posti.

Quante ginocchia e gomiti sbucciati e caviglie gonfie e distorte, pantaloni sdruciti, e ferite, graffi, botte aggiustate a suon di giocare, “combattere” durante le infinite partite di Basket, Pallavolo, Calcetto, Tennis e infinite altre gare campestri e da cortile pietroso e polveroso di Seminario “quotidie conclusus”.

In un certo senso era il seguito, “il continuus” di quell’antica presenza dei Templari, un campo di battaglia coperto da un asfalto consumato e distrutto … pieno di buche, croste, sassi, schegge e pezzi di risulta … Le Piante di Pioppo e Platano che lo circondavano alzavano e ingobbivano il piano con le loro radici riempendolo di gobbe, fessure, spuntoni e brecce … Giocarci e correrci era sempre un’avventura (assimilabili a quelle dei Templari e dei Teutonici)… atterrarci un po’ meno … finiva sempre a fasce e cerotti. Accadeva lì il nostro mondo sportivo di “tiri e tiretti”, “lanci a canestrida sotto, dal fianco, da dentro e da fuori”… e infinite acrobazie issandosi su a spalle lungo le corde e le pertiche fissate nel cortile … luogo di mille “goleade”e competizioni con infinite vittorie e sconfitte ... come gli antichi Templari, insomma.

Ci pensavamo ogni tanto … non ve lo nascondo.


Proprio lì stava aperto e accessibile quel che rimaneva dell’antico giardino dei Templari e dei Teutonici diventato per noi luogo di meditazione e di momenti di contemplazione diurna e notturna indimenticabili. Quante emozioni speciali, sogni e sensazioni di grande entusiasmo che ho vissuto lì dentro … un patrimonio ancora presente dentro di me dopo ben quarant’anni.


In un angolo del “cortile dei Templari” esisteva un albero che usavo come pendolo improprio per catapultarmi sopra al tetto dell’edificio vicino dove si teneva la Scuola di Teologia. M’arrampicavo come goffo scoiattolo fin sui rami più alti, poi abbracciavo letteralmente l’intera cima dell’albero, e mi dondolavo a destra e a manca fino a prendere slancio sufficiente a lanciarmi sopra al tetto come fossi attaccato ad un elastico teso e rilasciato.


“Che matto che ero allora ! … che spericolato ! ” se si fosse rotto quell’albero, forse non sarei qui a raccontarvi e scrivere tutte queste cose ... ma chissà ? Forse avrei imparato a volare … Era necessario salire sopra a quel tetto per andare a recuperare i numerosi palloni e le palle da tennis che perdevamo sopra lanciandole in alto e lontano con un po’ troppo entusiasmo. A quei tempi le nostre tasche erano parecchio bucate … non c’erano soldi per altre palle e palloni nuovi.


Ogni volta mi facevo coraggio e appendevo su di un ramo basso dell’albero la tonacona nera da Prete dai mille bottoni. Poi m’arrampicavo fino in cima recuperando tutte le palle sotto gli occhi divertiti e in apprensione dei ragazzini che mi osservavano di sotto scoppiando in un grande applauso liberatorio quando le lanciavo tutte di sotto divertito. Il vero problema non era tanto il salire e ridiscendere, ma era quello di riuscire ed eseguire quella performance velocemente quando non c’erano nell’entourage i superiori … senza farsi notare, altrimenti erano dolori … Ed è capitato anche questo … Non è stato un momento felice quando, trovandomi sopra al tetto, ho riconosciuto di sotto il volto del ViceRettore che mi stava aspettando ai piedi dell’albero. Conoscevo bene quella faccia che mostrava … non prometteva niente di buono. E così, infatti, è stato … Sceso ai piedi dell’albero, è “scoppiato il temporale … che poi si è fatto tempesta.”… ma questa è un’altra storia diversa che vi racconterò un’altra volta.


“Che anni grandi però !”


Nel giardino dei Templari c’era e forse c’è ancora una vasca con i pesci rossi … dove un bel giorno sono finito preso per il collo, e con la testa immersa a forza sotto dell’acqua … E’ mancato pochissimo che non ci finissi dentro in ammollo del tutto … per fortuna era inverno, e il mio “assalitore vendicativo” ebbe un po’ pietà di me … Me l’ero cercata, ero stato io a provocarlo e canzonarlo (un po’ troppo) … Che ci volete fare ? In qualche maniera bisognava pur ravvivare e aggirare la noia di vivere dentro a quei palazzi storici pieni di belle cose, e cintati di robuste mura vetuste ... ma sempre recinto chiuso rimaneva.

In un angolo del giardino stava capovolta “la baleniera” con cui ogni tanto un giovane Chierico forzuto e muscoloso, diventato poi Prete Sportivisssimo, quando aveva la febbre a trentotto invece di mettersi a letto, apriva in pieno inverno la porticina che era stata un tempo l’entrata della chiesa dell’Umiltà, e calava la scialuppa nel Canale della Giudecca andando a farsi una bella vogata per smaltire sudando le tossine della “febbricità”. Che personaggio ! … Un corpicione d’acciaio che conteneva un uomo buono e gentile, in fondo semplice e molto umano ... un Prete “alla buona” che ho conosciuto bene … una specie di “successore inconscio” degli antichi Cavalieri Frati Teutonici … e per quello spirito d’avventura e di spregiudicatezza … un po’ anche degli antichi Cavalieri Templari il cui eco forse non s’è mai spento ed esaurito del tutto in quei nostri luoghi di crescita umana e interiore.



Per oggi può bastare ! … Provate ad andare a farvi “un giretto” da quelle parti di Venezia … a volte anche “le pietre” parlano e raccontano, non ne ho alcun dubbio ... basta leggerle, osservarle ... e ascoltarle.




“SAN GIOVANNI NOVO O “IN OLEO” … A VENEZIA, OVVIAMENTE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.”– n° 78 di Stefano Dei Rossi.


“SAN GIOVANNI NOVO o “IN OLEO” … A VENEZIA, OVVIAMENTE.”


“Ci troviamo più tardi qui da me, a San Giovanni !” ha risposto recentemente una giovane studentessa universitaria al cellulare.

“Seh ! … a San Giovanni ? Ma che sarebbe ?” ha chiesto il suo nuovo amico Veneziano.

“San Giovanni … la chiesetta qui accanto a dove abito io. Mi sembra facile …”

“Non lo è affatto, perchè siamo a Venezia … San Giovanni detto così non significa niente … Venezia è piena di San Giovanni ! … e tutti diversi l’uno dall’altro … soprattutto distanti fra loro …”

“Come ? Non riesco a capire … San Giovanni è San Giovanni …”

“A Venezia: no ! … di San Giovanni ce ne sono di tutti i tipi … Dentro alle sue pieghe Venezia annovera un’infinità di posti e luoghi diversi che portano varianti di quel nome generico di Santo … Tu sei nuova di qui, e devi ancora scoprirlo … C’è da perdersi se non specifichi un po’meglio di che San Giovanni si tratta ...”


“Ha ragione Andrea …” ha aggiunto il fratello più giovane che non aveva perso una sola parola della conversazione dal “vivavoce”. “A Venezia c’è una matassa indistricabile, un intrico di Santi per tutti i gusti ... Che io sappia, e non li conosco tutti di certo, c’è San Giovanni Elemosinario vicino al Ponte e al Mercato di Rialto, San Giovanni e Paolo che sarebbe l’ospedale, San Giovanni Evangelista che si trova dalla parte opposta di Venezia … e San Giovanni in Bragora che è vicino a San Marco … San Giovanni in Laterano la cui chiesa non esiste più ma è rimasto il nome a tutta la zona … Vedi ! Sono proprio tanti e molto diversi … e distanti fra loro delle belle camminate …”

“E questo è niente …” riprese Andrea, “In alcune zone i Veneziani chiamano Giovanni col diminutivo di Zuàn o Zuanìn o perfino Zàn … perciò esiste anche San Zàn Degolà … che sarebbe San Giovanni Decollato … ossia che gli hanno tagliato la testa …  e lasciamo perdere di contare le chiese scomparse perché c’era anche un San Giovanni Battista nell’isola della Giudecca dove adesso c’è la caserma della Guardia di Finanza accanto all’isola di San Giorgio Maggiore …”

“E non è finita ! … Non so se si tratti sempre dello stesso personaggio, ma c’è anche San Giovanni dei Furlani, del Tempio … dove abitavano i Templari … e San Giovanni Crisostomo, e San Giovanni Nuovo o Novo …”

“Ho capito adesso ! … Infatti, osservando fuori dalla finestra vedo scritto sulla pezzuola bianca dipinta sul muro: “San Giovanni Novo” …”

“Eccolo là ! … E’ lui ! … Adesso è tutto chiaro ! … E’ quel San Giovanni vicino a San Marco … quello poco distante da Santa Maria Formosa e vicino a Campo San Filippo e Giacomo … Venezia è tutta così … Bisogna essere precisi, altrimenti non ci s’incontra più …”


L’ex piccola Contrada di San Giovanni Novo è ancora oggi una zona Veneziana di portici scuri, fondamente basse a pelo d’acqua, callette strette, e case scrostate e mangiate dalla salsedine poco distanti dall’acclamatissima Piazza San Marco … E’ una serie di luoghi e posti quasi anonimi, che sembra non abbiano più niente da dire, ma un tempo, invece, vivissimi come è stato quasi ogni angolo di Venezia.


Sansovino ricordando un restauro di San Giovanni in Oleo eseguito nel 1520 scriveva:“… ora tutti i narrato Luoghi Sacri, come di Chiese come di ogni altro Sacrario edificato in questa città, è impossibil cosa a narrare, quali ricchezze habbiano et in quanta copia per amministrar gli Offici che s’appartengono a sua Divina Maestà. Oltra che tutte le chiese, per picciola che sia, hanno il campanile, l’organo, et la piazza o per fianco o dinnanzi. Et ogni piazza ha il suo pozzo pubblico … Sono parimenti in tutte le chiese, Sacerdoti secondo al convenienza del luogo, i quali assiduamente attendono al carico loro. Et tutte le cere che si consumano dal clero per qual si voglia occasione, sono bianchissime come neve, et le gialle non sono in conto alcuno. Appresso questo ogni Chiesa ha qualche provento, chi più, chi meno, et i Piovani d’esse sono creati da cittadini et popolani che posseggono stabili nelle Contrade, per via di suffragii et approbati et confermati dal Patriarca. In somma la qualità delle ricchezze et del governo loro è di così fatta maniera che ogni Chiesa di Venezia può dirsi con ogni ragione un picciolo Vescovado …”


Flaminio Corner fissò al 968 d.C. la data dell’antica prima edificazione della chiesa di San Zuan “in Oleo”, forse finanziata dall’antica famiglia Nobile Trevisan. Si titolò: “San Giovanni in Oleo” probabilmente per distinguerla da qualche altro edificio con titolo simile. La dedica forse voleva ricordare la morte-Martirio dell’Apostolo ed Evangelista Giovanni diventato Santo anche perché posto nell’olio bollente per ordine dell’Imperatore Domiziano.


Probabilmente San Zuan in Oleo divenne subito Parrocchia o Piovanato trovandosi al centro dell’omonima vispissima Contrada di Venezia, e venne affiliata alla Chiesa Matrice della Purificazione di Maria chiamata dai Veneziani confidenzialmente: Santa Maria Formosa. In seguito, con un’apposita pergamena giunta da Roma il Capitolo dei Canonici di San Giovanni in Laterano dell’Urbe concesse l´aggregazione della Parrocchia di San Giovanni in Oleo di Venezia ai meriti e privilegi dell’insigne Basilica Papale di Roma.

Grandi contatti altolocati, quindi … grande prestigio per la chiesetta di Venezia.


A confronto con la miniera di notizie esistenti su altre parti di Venezia, nell’insieme sono scarsissime quelle riguardanti questo spicchietto seminascosto della città Serenissima, ma per questo sono ancora più gustose ... a mio modico parere.


Nel 1371 il Nobile Marco Trevisan q. Francesco abitante in Contrada di San Giovanni in Oleo lasciò dei soldi alla Parrocchia legati all’esecuzione di una Messa-Mansioneria da celebrarsi però nella chiesetta di San Francesco e Maria Maddalena ai Ronchi in Terraferma ... Mmmm … e alla sua chiesa niente ?


Otto anni dopo, al tempo del doge Andrea Contarini tutti i Veneziani abbienti s’impegnarono a prestare dei soldi, più o meno spontaneamente e generosamente, allo Stato quasi Serenissimo per finanziare la guerra contro i Genovesi spintisi ormai dall’Adriatico fin dentro alla Laguna dove avevano già preso e saccheggiato Chioggia … Non c’era tempo da perdere … bisognava contribuire e darsi da fare.


Allora la Contrada di San Giovanni in Oleo nel suo piccolo“fu splendida”, perché offrì ben lire 121.550. Non fu un caso inspiegabile, perchè nelle calli, campielli e palazzi di San Zuàn abitavano ben 24 famiglie di prestigiosi Nobili Veneziani fra cui Lorenzo Dandolo che contribuì con 16.000 lire del totale. Oltre a lui c’era anche: Nicolo’ Zuccuòl che offrì 10.000 lire, il Notaio Amodio de Bonguadagno che ne diede altre 1.000, Lovandri spendidòr: altre 2.600 lire, Vetòr dall’Oro: ancora 1.000 lire, e Tagiamento murèr altre lire 1.000. Da meno non furono gli artigiani della stessa zona che con Jacomin caleghèr diedero lire 300, Nicolo’ Bon bechèr lire 500, Piero Catarino spicier lire 300, Tomaso bechèr lire 600 e Julio dal legname lire 500.


E trascorse il secolo … San Zuan in Olio venne rinnovata nei primi decenni del 1400, visitata nel 1461 da Andrea Bondumier, e consacrata il 1 maggio nel 1463 da Andrea Bon ultimo Vescovo residente per davvero e con giurisdizione sulla Diocesi di Jesolo ... che sarebbe ben presto scomparsa per sempre.

Nell’aprile 1502 Adriana q Antonio Del Torresan moglie del mercante di legname Natale abitante nel Confinio di San Giovanni in Oleo scrisse un punto di testamento a favore del Monastero di San Francesco della Croce che però sorgeva dall’altra parte di Venezia … ancora niente, dopo secoli, alla propria Parrocchia di residenza:  … significativo.


La vita della Contrada era comunque fervidissima:

“Ogni anno la frequentatissima Processione del Santissimo percorreva quasi ogni calle, ponte e angolo della Contrada di San Zuan pregando, suonando e cantando a gran voce … Si portava in giro per strade, calli e campielli quasi tutto quanto si poteva trovare in chiesa, l’intera Contrada diventava chiesa allargata, spalancata, perché Dio appartiene a tutti … Perfino i carcerati delle Prigioni di Palazzo Ducale di Venezia addobbavano le finestrelle con dei lumini, e la processione di San Giovanni in Oleo faceva sosta e impartiva speciale benedizione davanti alle carceri della Serenissima …”


Ed fu sempre a pochissimi passi da San Giovanni Novo, dentro all’area territoriale della sua Contrada che si è inscenata e riconosciuta per secoli la conosciutissima “Leggenda del Palazzo del Demonio con la Scimmia e l’Angelo”.


Mi piace riassumerla per i pochi che ancora non la conoscono.


Il Palazzo interessato è quello di Ca' Soranzo de l'Anzolo prospiciente sul Rio della Canonica o di Palazzo che va a sboccare nel Bacino di San Marco passando sotto al famosissimo Ponte dei Sospiri. Se osserverete la facciata esterna del Palazzo affacciata sul canale non potrete non vedere al primo piano sulla sinistra un altorilievo con un grande Angelo benedicente incastonato in parete.

Nel 1552 abitava il palazzo un certo Avvocato della Curia Dogale: Iseppo Pasini, che pur essendo molto devoto alla Madonna s’era arricchito con imbrogli e guadagni disonesti (i tempi son cambiati ma le abitudini dei politici e di molti uomini di Palazzo sono rimaste). Un giorno il Pasini invitò a pranzare a casa sua Fra Matteo da Bascio, grande riformatore dell’Ordine Francescano, primo Generale dei Frati Cappuccini, uomo di vita e costumi santi, celebre predicatore e autore di diversi miracoli tra cui appunto quello “del Diavolo”. Prima di sedersi a mangiare, l’Avvocato raccontò al Frate che aveva in casa una scimmia brava ed esperta che lo serviva in tutte le faccende domestiche come un provetto domestico. Il Frate, narra la leggenda, riconobbe immediatamente per speciale dono divino, che sotto quelle spoglie animalesche si celava in realtà un vero e proprio Demonio. Perciò, fattasi portare davanti la scimmia che era corsa ad appiattirsi e nascondersi sotto a un letto, le disse "Ti ordino da parte di Dio di spiegarci chi sei, e per quale motivo sei entrato in questa casa!"

"Sono il Demonio.”rispose la scimmia, “e sono entrato qui dentro per prendermi l'Anima di questo Avvocato che mi spetta per molti motivi…”

"E perché allora, se sei così famelico, non l'hai ancora ucciso e portato con te nel più profondo dell'Inferno?"aggiunse il Frate.

"Soltanto perché ogni sera prima d'andare a letto, si raccomanda sempre a Dio e alla Santa Vergine … Se almeno per una volta tralasciasse di compiere questa consueta preghiera, puoi star certo che senza indugiare tanto lo trascinerei “di sotto” fra gli eterni tormenti".

Sentito questo, Fra Matteo comandò al Nemico di Dio di uscire subito da quella casa. Il Diavolo (furbissimo !) allora oppose il fatto che gli era stato ordinato dall'alto di non uscire da quella casa senza far almeno qualche danno.

“Allora”rispose il Frate, “Se proprio vorrai far danni, farai quelli che t’indicherò io e non altri. Uscirai immediatamente da qui forando questo muro, e il buco che lascerai servirà a testimonianza per tutti di quanto è qui accaduto oggi".

Il Diavolo minacciato dal Santo non se lo fece ripetere due volte, e scappò subito sfondando la parete del palazzo che guardava il canale. Allora il Frate si sedette a mangiare con l'Avvocato, lo riprese per il tenore della sua vita trascorsa, e prendendo in mano e torcendo un capo della tovaglia, ne fece uscire abbondantemente del sangue. “Questo”gli disse, “è il sangue dei poveri che hai succhiato con tutte le tue ingiuste estorsioni”.

L’Avvocato allora si pentì di tutte le sue malefatte, ma manifestò anche la preoccupazione che attraverso quel buco sul muro potesse rientrare di nuovo il famelico Diavolo. Fra' Matteo allora gli ingiunse di far porre sul buco l'immagine di un Angelo perchè i Demoni Angeli Cattivi scappano sempre alla vista degli Angeli Buoni. Così accadde, e l’Angelo Buono tenne fuori dal palazzo per secoli quello Cattivo, e per questo il Ponte accanto al palazzo si chiama ancora oggi Ponte dell'Angelo.


Nella realtà, quel Ponte in pietra portava la denominazione dell'Angelo da molto prima del 1552 … e di quella storiella, e l’edicoletta in marmo posta in parete sulla facciata del palazzo contiene anche un affresco del 1300. 
Quindi …


Nel 1564 la chiesa-Parrocchia di San Giovanni in Oleo pagava a un organista 6 ducati annui, e ne spendeva un altro “per tenere in concio l’organo”. Spendeva anche 4 ducati ossia lire 1 e soldi 12 per organizzare “consona e dovuta accoglienza” alla Visita del Patriarca. Infatti, il Piovano commentò: “… se la Visita si facesse ogni anno sarebbe un’angheria per l’economia del povero Piovano ...”


A San Giovanni Nuovo esisteva una Stua”nel Sottoportico omonimo, molto rinomata in tutta Venezia dove ce n’erano molte.

Coronelli ricordava: “Molti sono gli Stueri sparsi per le Contrade di Venezia, ma quello di San Giovanni Nuovo porta sopra tutti il vanto …”


Le “Stue” a Venezia erano dei bagni caldi, delle specie di saune dove c’erano “Chirurghi bassi” che tagliavano unghie di piedi e calli … ma non solo. Tali “Mastri d’Arte”, un po’ particolari a dire la verità ma corrispondenti più o meno agli Estetisti odierni, si chiamavano “Stueri o Stufaioli”. Erano uniti all’Arte dei Chirurghi avendo Scuola e sede comune d’Arte Mestiere e Devozione presso la chiesa di San Paterniàn loro Santo Protettore.


Gli Stueri a Venezia s’interessavano e prodigavano soprattutto “in altro”, visto che già una legge del 1460 ricordava che: “Quod aliqua pecatrix, vel femina, non possit se tangi facere, au carnaliter cognoscere aliquem hominem de die in aliqua hosteria, taberna, vel stufa …”  Erano gli ambigui “Centri massaggio” di allora che prosperavano indisturbati già a quei tempi … Infatti, a distanza di quasi duecento ulteriori anni, un decreto del luglio 1615 ricordava:


“… nelle Stue parecchi prendono a curare malati di diverse qualità di mali, e da se stessi gli ordinano decotti di legno, che non avendo cognitione della complessione del patiente, per il più lo abbrugiano, altri fanno ontioni con l'argento vivo, profumi, od altro, a gran danno del prossimo, et anima loro, et altri, segnando da strigarie, danno medicamenti per bocca così gagliardi che, invece di cacciar spiriti, cacciano l'anima …”


Cambiando genere, e tornando in chiesa, negli stessi anni 1550 iniziò ad essere tenuto e redatto il Libro dei Battezzati in Contrada di San Giovanni in Oleo e continuò ininterrottamente ad essere compilato puntualmente per tre secoli terminando “di brutto” con l’ennesimo volume: "Libro Squarzafoglio battizzi"solo nel luglio 1808 (con l’arrivo di Napoleòn !).


In parallelo, in chiesa si teneva meticolosamente anche il “Registro alfabetico dei morti” che portava la data d’inizio: 1551 e quella finale: 09 luglio 1808.

E’ interessantissimo sbirciare dentro ai “Libri Parrocchiali” in generale … Un solo esempio fra i tanti: si legge nel Libro dei Necrologi dei Morti di San Giovanni in Oleo: “Adì 27 agosto 1569. Lo ecelente ms. Nicolò Masa medicho, de anj 84 in circa, è sta amallato mesi 4 da fievre”.  Si trattava dell’ottantenne Nicolò Massa: celebre Medico e Filosofo Veneziano che risiedeva in una casa appartenente alle Monache di San Servilio dove morì. Divenuto cieco per l’anzianità, Luigi Luisini da Udine compose per lui un dotto dialogo per consolarlo della sua sventura. E’ curiosa e quasi comica una precisazione del suo testamento steso il 28 luglio 1569 presso il Notaio Marcantonio de Cavaneis, e indirizzato-raccomandato agli eredi: “… e se aricordino delle mie vertigini al tempo che crederanno sia morto, lassandomi doi giorni sopra terra, acciò non si facesse qualche error, e non mi mettano in gesia avanti sia passato detto termine di due giorni …”


E bravo il Dottore ! … Temeva alla sua età, veneranda per quell’epoca, d’essere sepolto ancora vivo !
Dopo aver ben controllato che fosse morto per davvero, il Massa venne sepolto come aveva ordinato nella chiesa di San Domenico di Castello, e i Veneziani riconoscenti gli dedicarono un busto marmoreo che esiste ancora oggi al pianterreno dell'Ateneo Veneto in Campo San Fantìn accanto al Teatro della Fenice … anche stavolta: vissuto a San Zuan ma seppellito altrove … Di nuovo mmm … tre indizi sono già una prova di scarsa affezione alla propria chiesa da parte dei parrocchiani. Ci sarà pur stato un qualche motivo ?


Lo stesso si deve dire anche del "Registrum Matrimoniorum”compilato diligentemente e senza interruzioni “ab anno 1607” fino al 26 maggio 1808. Tutta la vita della Contrada, insomma, veniva riassunta puntigliosamente e passava attraverso quelle carte d’Archivio compilate con un lavoro costante, certosino e immane. Ne deriva uno spaccato prezioso e affidabilissimo di quanto è accaduto in quell’angolo di Venezia (tutto da studiare e scoprire … chi lo farà mai ?).


Nello stesso Archivio si conservavano e aggiornavano con cura e precisione anche Libri e Registri di: "Contradizioni",“Autentiche delle Reliquie”,“Inventari delli sacri arredi di ragione di detta chiesa, ed altari ut intus", … e vari Proclami, Concessioni, opuscoli, lettere a stampa o manoscritte dai Patriarchi di Venezia. C’è di che perdersi … o lasciar perdere del tutto.


Sappiamo dagli atti dell’ennesima quanto indesiderata costosissima Visita Apostolica del giugno 1581, che la Parrocchia e Collegiata di San Giovanni in Oleo contava fra 1670 e 2000 abitanti con una media di 900 Comunioni ricorrenti.Accanto alla chiesa con 5 altari regolarmente officiati su cui si celebravano 6 Mansionerie di Messe quotidiane, risiedeva il Parroco-Piovano assieme a un altro Prete e un Diacono che percepivano di stipendio: 40 ducati annui più la possibilità d’abitare nella Casa-Canonica e gli introiti derivanti “dagli incerti di stola” … ossia“le mansioni da Prete”. Nella stessa chiesa officiavano anche un Suddiacono e 5 Chierici che percepivano in tutto: 95 ducati annui ... non poco per una chiesetta secondaria.


Una sola nota significativa di demerito conseguente dall’ispezione del Messo Papale a Venezia:“Deve essere visibile la Croce sull’Altar Maggiore, in quanto mancante.”


Il 21 marzo 1597 Giacomo Rota Stuera San Zuan in Oleo e Vincenzo suo nipote uccisero presso il Campo di San Zuàn in Oleo il Nobiluomo Antonio Molin q.Giovanni. Perciò furono banditi il 6 giugno successivo, venendo pure citato a scolparsi il Capitano di Giustizia Marco Dolce presente al fatto perché tardò ad inseguirli.


Nel “Suplimento di Venezia al Giornale delle Cose del mondo avvenute negli anni 1621-1623”, si legge:

“… Giovedì mattina 29 gennaro 1621 furono dati in pubblico 3 tratti di corda ad Agostin Stuer a San Giovanni in Oleo et ad un giovine Battioro trovati mascherati con armi, havendoli dato la corda con le maschere sulla faccia, et in oltre condennati certo tempo in prigione”.


E venne il tempo della grande Peste col voto di Stato alla Madonna della Salute, che mieté a Venezia ben 80.000 persone. In Contrada di San Giovanni in Oleo vivevano: 1.507 persone. Furono una stagione e delle annate davvero drammatiche e tragiche per la storia di tutta la Venezia Serenissima.

Alle conseguenze mortali e rovinose della Peste si sovrapposero anche campagne militari rovinose che imponevano ai Veneziani sempre nuove tasse e balzelli. Con un proclama apposito s’ingiunse: “ … da febbraio sarà imposto 1 soldo per lira a tutti Dazi esclusa la Gabella del Sale e a tutte le gravezze a vantaggio dell’Erario da pagarsi a cura di tutti gli abitanti del Dominio compreso quello da Mar.”


L’8 marzo 1629 si aumentarono ancora una volta d’urgenza le tasse per bisogni importantissimi e gravissimi della Repubblica. Il Senato impose altre 2 decime su Venezia e Dogado da pagarsi una: “… da Patroni sopra Livelli Perpetui, Stati, Inviamenti de Pistorie, Magazeni, Forni, Poste da Vin, Banche di Beccaria, Traghetti, Poste, Palade, Passi, Molini, Foli, Sieghe, Instrumenti da ferro, Battirame, Moggi da carta ed altri, Dadie, Varchi che si affittano e si pesano, Decime di Biave, Vini ed altre robbe, Fornari, Hosterie et ogn’altra entrata simile niuna eccentuata …”.

L’altra tassa-decima fu imposta su: “… tutti i “Livelli Francabili” fondati su case, campi o altri beni in qual si voglia luoco, fati con chi si sia ...” Chi pagava entro aprile aveva un condono del 10%, chi pagava più tardi un aggravio uguale.

E non fu tutto … perché soltanto 8 giorni dopo si aggiunse un altro “Prestito obbligatorio” sotto forma di 2 decime e 2 “tanse”:

“… da pagarsi in agosto e febbraio da tutti coloro che a Venezia erano soggetti a gravezze, in buona valuta o moneta corrente con il quinto de più, senza sconti né esenzioni …”

E perché nessuno sfuggisse a quelle imposte, il Senato della Repubblica fissò un termine di 15 giorni per denunciare ai 10 Savi alle Decime tutti i Livelli Perpetui e Francabili ed ogni altra fonte di reddito, e impose a dei Commissari Straordinari di:

“… reperire entro un mese in ogni modo denaro ricavandolo in tutto lo Stato imponendo nuove decime sulle campagne, testatici e simili seguendo la via più facile e veloce e proporzionata alle persone che dovevano pagare.”


Fu un’angoscia, un’oppressione continua e quasi impossibile da sopportare per tutti i Veneziani di quegli anni … “Forse sarebbe stato meglio morir di peste”, giunse a dire qualcuno. Solo a metà agosto del 1629 si decisero in certi casi proroghe fino a dicembre, e l’esenzione dall’imposta straordinaria dei poveri e di chi a Venezia e nel Dogado pagava un affitto di casa fino a 20 ducati, o l’affitto di casa e bottega fino a 30 ducati annui. S’era considerato che il tributo obbligatorio sarebbe stato trascurabile per le casse dell’Erario dello Stato, ma gravoso fino ad essere rovinoso per i cittadini debitori.


Passò anche quella … e i Veneziani ripresero a “respirare”Nella Contrada di San Zuàn in Oleo c’erano 91 botteghe d’artigiani, ed era Piovano il Prete Natale Corridei che quattro anni dopo divenne Vescovo di Sebenico.


Intanto nella solita Stua di San Giovanni Novo nel maggio dello stesso 1929 morì Zaccaria Fasuol Parroco di Santa Maria Elisabetta del Lido. Che cosa ci faceva lì dentro quel Prete ?  … Eh ?


All’inizio del 1700 le botteghe presenti in Contrada di San ZuanNovo giunsero ad essere ben 122 … e nel 1745 vi abitava il poeta erotico Giorgio Baffo in una porzione di casa pagando un facoltoso affitto di 120 ducati annui … La chiesa venne rinnovata ancora una volta e praticamente del tutto, ma rimanendo incompiuta e senza facciata come diverse altre chiese di Venezia. Questo accadde dopo il 1750 su disegno dell’Architetto Matteo Lucchesi che fu lui ad appore per primo alla chiesa l’aggettivo-nomignolo di “San Zuane Novo”. 

Matteo Lucchesi aveva una grande considerazione di se, perché ricostruendo la chiesa di San Zuan in Oleo pretese con la sua opera di correggere i vistosi difetti eseguiti, secondo lui, da Andrea Palladio costruendo il tempio del Redentore alla Giudecca. Infatti, chiamò il suo “San Zuane Novo” il “Redentor redento”, e costruì un interno a una sola navata con “mezze colonne binate d'ordine corinzio” reggenti un soffitto “a botte”. Inoltre su entrambi i lati della chiesa edificò due piccole cappelle, e nel Presbiterio a pianta quadrata pose isolato l'Altare Maggiore.


Secondo i “Notatori” del Gradenigo: “… nel maggio 1753 fu gettato a terra il vecchio campanile di San Giovanni Novo, onde continuare li dilatati fondamenti alla nuova chiesa della quale fu eletto Piovano Don Antonio Prunsteder che fece solenne ingresso nel giorno del Titolare del Tempio.”


Viste le immani spese previste per la nuova costruzione, tutti i beni e le rendite del Capitolo vennero sospesi e “alienati ad tempus”, congelati, lasciando sprovvisti perfino i Preti Titolati e la chiesa stessa. Si pensò di tutto nel tentativo di reperire risorse utili per la nuova fabbrica: si provvide a istituire in Sacrestia una “Piccola Cassa-Fabbrica”ricavando magre 543,16 lire d’entrata di cui se ne spesero subito 384. Inoltre si chiesero e ottennero sovvenzioni dalla Serenissima che continuarono ad essere versate dallo Stato fino al 1797.

Ma non fu terminata la ricostruzione nel 1762 ? Fu dimenticanza della Serenissima, distrazione ? … Ieri come oggi, nulla è cambiato.


Il giorno di Santo Stefano dello stesso anno, sempre secondo gli stessi “Notatori” del solito Gradenigo: “… fu pubblicato un Invito Sacro onde implorare elemosine, mediante il bacio del Sacro Manipolo del Piovano nel nuovo tempio non ancora compito per 4 giorni sia di mattina che dopo pranzo … perciò martedì, mercoledì, giovedì e venerdì mattina e dopo pranzo si fece il bacio onde aumentare dinaro per il proseguimento dell’importante lavoro del coperto, altari e pavimento nella fabbrica di quel moderno tempio ...”


Solo il 21 novembre 1762, dopo 11 anni di restauri, si poté riprendere a celebrare dentro alla nuova fabbrica di San Giovanni Novo.


Anche San Giovanni Novo nel suo piccolo era una bomboniera d’Arte oltre che di storia: sull’Altar Maggiore c’era un “San Giovanni Evangelista”del Bassano, e sulle pareti erano affisse due tele con i: “Miracoli di San Giovanni” dipinte da Antonio Foller. C’era inoltre una “Crocefissione” del Montemezano, e un “Santi Cosma e Damiano” di Girolamo Dante allievo del famoso Tiziano. Completavano l’arredamento pittorico una “Cena degli Apostoli” del Calegarino, e un “Sacrificio di Melchisedec e di Abramo” dipinti probabilmente dal Veneziano Fabio Canal.  Niente male per una chiesetta secondaria e seminascosta di Venezia !


Poco prima dello stravolgimento di Venezia da parte dei Francesi, tra 1780 e 1789, in Contrada di San Giovanni Novo risiedevano: 571 persone fra 14 e 60 anni considerate abili al lavoro, esclusi i Nobili, ovviamente, che non lavoravano in alcun modo, ma erano il 38% dell’intera popolazione presente in Parrocchia ossia 1.311 persone … L’ultima modifica in chiesa fu del 1794, quando Gaetano Martinellio fece da sovraintendente alla costruzione del nuovo organo a una tastiera.


Alla ultima Visita Pastorale, nel settembre 1803, prima della devastazione Francese, il Patriarca Flangini scrisse:


“In Contrada di San Giovanni Novo vivono 2.000 abitanti e la Parrocchia è povera ... Le rendite della Fabbrica ammontano a soli 233 ducati provenienti dall’affitto di 4 case in buon stato e da alcuni Livelli.  Si spendono 103 ducati d’uscita, di cui ancora 15 per proseguire i restauri (?) ... Il Piovano o I° Prete percepisce 56 ducati annui, mentre il II° Prete riceve 12 ducati, il Diacono solo “Incerti di stola”, il Suddiacono 9 ducati più le offerte dei Funerali con l’obbligo di almeno l’offerta proveniente da 1 Anniversario. Il Piovano Prè Domenico Benedetti possiede inoltre una casa di residenza “trista”, che ha bisogno di restauri del coperto da cui gli piove dentro in casa, e gode solo “d’incerti di stola” con l’obbligo della manutenzione della chiesa che gli costa 384 lire annue. Inoltre spende ogni anno altre 200 lire per la celebrazione della festa del Titolare (“…spese in gran parte superflue e di lusso eccessivo …”) si annota … Intorno alla Chiesa-Parrocchia-Contrada di San Giovanni Novo gravitano e vivono 16 Sacerdoti e 2 Chierici ... Alcuni per mantenersi vanno a celebrare Messe-Mansionarie altrove: a San Marco, Anzolo Raffael, Santa Maria Nova e San Giovanni Elemosinarlo.

In San Giovanni Novo si celebrano ogni anno 4.067 Messe Perpetue provenienti da Mansionerie; 32 fra Esequie e Anniversari e circa altre 1.000 Messe avventizie ... Nella Parrocchia è attiva fin dal 1506 la Scuola del Santissimo Sacramento, che fa celebrare ancora 633 messe e 5 esequie annue.

Esiste inoltre fin dall’aprile del 1620 la Scuola della Purificazione della Beata Vergine Maria che celebra Messa tutti i sabati e 13 Messe Solenni annue ... Dal 1657, inoltre, è attivo anche il Suffragio del Santissimo Crocefisso che fa celebrare altre 1.357 Messe annue, 1 Messa ogni venerdì, 18 Anniversari e 15 Messe Solenni ... Ci sono infine tracce del passaggio della Compagnia di San Francesco di Paola, della Compagnia di Sant'Adriano dei Morti, e soprattutto della Scuola e Sovvegno dei Santi Cosma Damiano dell’Arte cittadina dei Parrucchieri ... Durante l’anno si effettuano varie Esposizioni del Santissimo, si predica il Quaresimale, e si vorrebbe praticare l’Istruzione dei Catechismi, ma la Dottrina Cristiana per i fanciulli non c’è in quanto fanciulli e Preti vanno a frequentare la vicina chiesa di San Filippo e Giacomo …”


Riferendosi in particolare alla Scuola-Fraglia dell’Arte dei Parrucchieri, il Patriarca Flangini precisava: “… la Scuola è in sommissima decadenza di Confratelli e per le combinazioni de’ tempi non v’è più quella devozione che scorgersi esservi stata nel secolo trasandato verso detti Santi … dalla Nuova Democrazia a questa parte fu cavata una delle Reliquie dall’argento che aveva; indi il Reliquiario della stessa acquistato da un Confratello della Scuola dei Santi Cosma e Damiano; il Confratello medesimo fece riporre la Reliquia nell’acquistato Reliquiario; ma la tiene presso di lui ed a stento in qualche incontro la consegna alla chiesa per esporla a tutti i fedeli …”


Merita, perciò, una paroletta a parte e in più l’Arte dei Parrucchieri di Venezia cheriuniva gli acconciatori di parrucche da uomo e da donna molto diffuse nella città Lagunare. Secondo tradizione l’uso della parrucca per gli uomini e dei toupet per le donne venne introdotto a Venezia dall'Abate Vinciguerra Collalto nel 1665-1668, ed ebbe subito un enorme successo, tanto che alla caduta della Repubblica i Parrucchieri erano ancora più di 1.500 …. Erano considerati mezzani malfamati dai costumi corrotti e deviati perché accedevano liberamente alle stanze riservate delle donne.


Mutinelli scrisse nelle sue “Memorie storiche degli ultimi cinquanta anni della Repubblica Veneta”:


“Millecinquecento parrucchieri finalmente (e già, a preferenza di qualsivoglia altro mercenario, li vedemmo servigiali, e schiuma brodo delle Loggie Massoniche) millecinquecento parrucchieri, cui per esercizio dell'arte loro confidentemente veniva schiusa la porta di ciascheduna stanza, e quella dei più custoditi recessi delle femmine, e delle damigelle, erano altrettanti sfacciatissimi ambasciatori di Cupido, e d'ingiusti favori mezzani infamissimi …”


In realtà, i Parrucchieri esistevano già a Venezia almeno fin dal 1435, in quanto a quella data erano stati unificati con l’Arte dei Barbieri che aveva sede prima a Santa Maria dei Servi e poi alla Madonna dell’Orto sempre sotto la stessa Protezione dei Patroni Santi Cosma e Damiano.

Si può leggere ancora oggi dentro alla Mariegola o Mare-Regola degli iscritti alla Scuola-Arte dei Parrucchieri di Venezia:


“… molto degna cosa è, da che la reverentia di gloriosi Martori Miser San Comes et Miser San Damian è in la gliexia de Miser San Zane Nuovo, chello Evangelista Benedetto sia per nui honorado in lo di della soa festa de Miser San Zane Evangelista. Sia di ordenado, e tutti li Frati et Sorore sia tegnudi de vegnir alla Messa della ditta Festa … fazando lo Piovan la solennità come convien alla ditta Festa a tutte so spese, si che da altra spesa la nostra Scuola non sia tegnuda, né aggravada, la qual Festa è il terzo di duopo Nadal …”


Ancora nel 1773 l'Arte dei Barbieri e dei Parrucchieri,di nuovo unificati, era attiva e possedeva in Venezia 387 botteghe, e contava 787 iscritti che pagavano una Benintrada”di 12 grossi e 16 soldi annui. C’erano insieme: 203 garzoni, 107 lavoranti e 477 Capimastri. Nel 1801, invece, sotto il solito nome e gli stessi Patroni, l’Arte con 852 iscritti chiese e ottenne di potersi servire della sede al civico 4361 del Sestiere di San Marco e dell'altare della Scuola soppressa nel 1796 dedicata a quei due Santi ancora presente nella chiesa di San Giovanni Novo utilizzandone anche il suo penelo” (ossia il gonfalone processionale).


Prima dell’avvento dei Parrucchieri i Veneziani e soprattutto le Veneziane si acconciavano i capelli da sé. Le Veneziane usavano una particolare tintura detta “acqua bionda di gioventù” per schiarirsi i capelli al sole rendendoli biondi. All’inizio il Consiglio dei Dieci ostacolò tantissimo la nuova moda, tanto da produrre un apposito decreto nel maggio 1668. Si ricordava, infatti, che il vecchio Nobile padre di Nicolò Erizzo giunse a diseredarlo lasciando tutto il suo capitale all’Ospedale della Pietà, perché il figlio era affascinato dai nuovi costumi, portava calzette rosse e scarpette bianche, e soprattutto portava in testa una lunghissima parrucca. In realtà Nicolò Erizzo con la parrucca intendeva nascondere i segni di un colpo di sciabola che aveva ricevuto sulla fronte durante la sua gioventù avventurosa, e alla fine sborsò 6.000 ducati all’Ospedale della Pietà per poter rientrare in possesso della sua eredità ... Ancora col decreto del 7 maggio 1701 la Serenissima mise una tassa su chi portava la parrucca, e il primo Doge a portarla fu nel 1709 Giovanni Corner … mentre nel 1757 era ancora vivo l'ultimo Nobile che avversava l’uso della parrucca ossia Antonio Correr della Contrada di San Marcuola che morì nello stesso anno.


I Francesi del “Buon Napoleone”, giunsero puntuali a Venezia nel 1808 … Ovviamente chiusero del tutto la Sede dei Parrucchieri trasformandola in negozio di commestibili … e assieme a quella chiusero e soppressero anche la Parrocchia Collegiata di San Giovanni Novo gestita ancora dai soliti tre Titolari: Piovano, Diacono e Suddiacono. Il controllo del territorio assieme a quello della piccolissima Contrada vicina di San Basso venne affidato inizialmente al Primicerio di San Marco retrocedendo la chiesetta di San Zuan Novo a succursale. In seguito, durante un nuovo riordino del 1819, si concesse lo stesso territorio alla neonata Parrocchia derivata dall’ex Monastero e chiesa di Santi Zaccaria e Atanasio.


Nel dicembre 1812 l’ex Piovano di San Zuan Novo: Prè Domenico Bendetti privato di tutto, era ridotto ad abitare la casa un tempo usata dallo “Spenditore del Monastero” e in seguito dall’Ortolano del Monastero a sua volta soppresso delle ex potenti e ricchissime Monache Benedettine di San Zaccaria, pagando un affitto di lire 238 annue fino a quando morì nel 1816. La somma era risibile in quanto era il corrispettivo dell’annuo reddito dovuto dal Nuovo Governo all’ex Capitolo di San Giovanni Novo calcolato dai Francesi come risultato dalla liquidazione delle rendite e dei beni incamerati su cui si applicava un aggravio del 33% per un totale di lire 215,72 … Ossia l’ex Piovano pagava d’affitto annuo per la casupola 15 lire in più di quanto percepiva come rimborso dallo Stato … ossia nulla, una miseria simbolica.


Tuttavia nel giugno 1863 la chiesa venne riaperta e riconsacrata dal Patriarca di Venezia Giuseppe Trevisanato, e Don Bartolomeo Degan Vicario di San Giovanni Nuovo o in Oleo era tra i firmatari di una petizione diretta all’Imperiale Regio Governo Austriaco che chiedeva d’abolire la Commissione per la gestione degli ex beni Capitolari ed Ecclesiastici ridotti ormai ad un terzo dell’originale ... una burla irrisoria: le Chiese e i Preti, i Frati e le Monache di Venezia erano stati predati di tutto sia dalla doppia “visita” dei Francesi che da quella Austriaca.


Nel 1850 si ricostruì in ferro il primo ponte ligneo di Venezia: il Ponte dellaCorona anticamente detto “Ponte dei Patrizi Liòn”a San Giovanni Nuovo nei pressi di Calle della Corona dove già nel 1713 c’era “… l’Ostaria alla Corona habitata da Pietro Padrini, di ragione dell'iIlustrissimo Francesco Briani”… Ancora dal 1863, a San Giovanni Novo era viva la tradizione del Rosario quotidiano recitato in chiesa collegato all’Indulgenza Plenaria per chi visitava la chiesa Confessandosi, Comunicandosi e facendo “giusta elemosina” ... Ogni giovedì mattina si celebrava “l’Ora Eucaristica”… e il Venerdì Santo pomeriggio si: “… raccontava la Santa Passion con la Via Crucis Solenne.”


Scriveva W.Dean Howells Console Americano a Venezia fra 1861 e 1865 durante la dominazione Austriaca di Venezia:

“… Ogni campo a Venezia è una piccola città, chiuso in se ed indipendente. Ognuno ha una sua chiesa, della quale, nei tempi più remoti, esso era anche cimitero; e ciascuno entro i suoi confini, comprende uno speziale, un merciaio, un negozio di tessuti, un fabbro ed un calzolaio, un caffè più o meno elegante, un erbivendolo e un fruttivendolo, una drogheria; no, c’è anche un negozio di oggetti usati dove si compra e si vende ogni sorta di cose vecchie al minimo prezzo. Ci sono di sicuro un ramaio ed un orologiaio, e quasi certamente un falegname intagliatore e doratore, mentre nessun campo potrebbe preservare la sua integrità o tenersi informato delle novità del giorno, sociali e politiche, senza un barbiere ...”


La Contrada di San Giovanni Novo era una di quelle …


Ultimi squilli … nel 1948 avvenne un generale restauro da parte della Sovrintendenza ai Monumenti perché l’edificio era considerato pericolante … Nell’ottobre 1987 San Giovanni Novo era ancora una delle 15 Rettorie di Venezia alle quali è annessa una Casa-Canonica appartenente all’ex Fondo Clero Veneto … Nel 1999 la chiesa venne chiusa al culto dal 30 novembre ... e non più riaperta.


Non so se sia vero, mi hanno detto che adesso è diventata un magazzino e deposito di birra per un vicino Pub.



Spero di no … Non voglio crederci.


“LE ORFANELLE TERESE … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta,” – n° 79


“LE ORFANELLE TERESE … A VENEZIA.”


Terisine, Teresone, Teresiane, Teresane … le Terese … si usavano questi epiteti per indicare in qualche maniera tutti coloro che potevano essere condotti e gravitavano attorno alla spiritualità e alle attività connesse con l’entourage Carmelitano superpresente per secoli anche a Venezia. Per avere un’idea: esistevano a Venezia e in Laguna Monaci e Monache e Laici Carmelitani e Carmelitane Calzati o senza Calze … ossia Riformati o di Osservanza Classica. Ancora oggi si possono notare i chiesoni di Santa Maria dei Carmini, di Santa Maria di Nazareth o degli Scalziaccanto alla Stazione Ferroviaria, e soprattutto la stupenda Scuola Grande dei Carmini tappezzata dalle tele mirabili di Giambattista Tiepolo. Quella spiritualità era sparsa ovunque a Venezia: anche a Sant’Aponal, Sant’Antonin, Santi Apostoli e in molti posti e Contrade ancora … Presenze devozionali capillari molto forti e intense a dire il vero, legate alla tradizione degli “Scapolari”e ad una sequela spirituale densissima che ha coinvolto per secoli migliaia di persone e Veneziani.


Non cosa da poco, quindi.


Provate solo a pensare a quanti portano il nome di Carmine, Carmelo o Carmelina o Carmela o similari, scoprirete che quasi sempre c’è un collegamento familiare o personale con tale attenzione e tradizione devozionale. Come sempre, Venezia Serenissima ha lasciato ampio spazio a tutte queste espressioni religiose che avevano anche un coinvolgimento e un ritorno pratico, spiccolo, e quotidiano impegnativo.

Venezia è sempre stata aperta a tutto e tutti dal punto di vista sociale, politico, economico, culturale e religioso: ogni esperienza è sempre stata bene accetta e tollerata … Bastava che in qualche modo non rompesse le scatole alla Serenissima Repubblica … altrimenti sarebbero stati “dolori” per chiunque. Ma questo già lo sapete …


Anche oggi, seppure in sordina e con una certa discrezione perché i tempi sono cambiati e certe espressioni religiose sono un po’ fuori moda, Venezia è ancora così.  Esiste una lunghissima lista di proposte spirituali a tendenza religiosa presenti a Venezia … ci sono davvero tutti. Piaccia o no, seppure in sordina, a Venezia sono attivi e si sovrappongono e mescolano le iniziative di: NeoCatecumenali, Carismatici, Ciellini, Francescani, Movimenti dello Spirito, Focolarini che s’incrociano con le osservanze di e le scadenze di Ebrei, Musulmani, Buddisti, Protestanti, Induisti, Ortodossi, Pacifisti di ogni genere e chi più ne ha più ne metta … Non è cambiato nulla nonostante siano trascorsi i secoli, Venezia rimane sempre un immenso coagulo umano di realtà, abitudini, osservanze e tradizioni a cavallo fra Sacro e Profano, con associazioni di ogni tipo che gravitano nostalgiche attorno a Scuole Grandi e Cavalierati emeriti e di prestigio capaci d’aggregare personaggi illustri e nomi famosi della Finanza, della Giustizia, della Moda e dello Spettacolo, dell’Edilizia, del Bene Pubblico, della Sanità, della Cultura e di qualsiasi altra branca e Albo professionale e sociale.


A Venezia ci sono ancora oggi personaggi che contano e faticano a ricordarsi con quale mano ci si fa il segno della Croce, ma regolarmente iscritti e partecipanti attivamente a ricorrenze e appuntamenti di aggregazioni e associazione che si ispirano a contenuti del genere che vi ho accennato. Farne parte è conveniente, aiuta ad accrescere contatti con entourage che di certo torneranno utili a certi livelli.


Insomma, Venezia ancora unifica, induce “a far squadra”… come piace ricordare al “novello Primo Cittadino”… non importa come. 

Sto divagando, me ne rendo conto … torniamo subito alle “Terese”… che è quello che m’incuriosisce di più quest’oggi.


I luoghi delle Terese sono ancora oggi un posto molto grande e talvolta frequentatissimo, situato proprio di fronte alle famosissime “Case dei Sette Camini” in Contrada di San Nicolà dei Mendicoli sull’estrema propaggine del Sestiere di Dorsoduro, vicino al Porto e al quartiere di Santa Marta. Le “Terese”è un altro di quei palazzi e grandi complessi storico-edilizi di cui s’è impossessata progressivamente l’Università di Venezia per riciclarli come proprie sedi d’attività, di rappresentanza o servizi. A Venezia sono ormai moltissimi: oltre la sede centrale e prestigiosa di Ca’ Foscari sul Canal Grande, c’è l’ex Macello di San Giobbe, i Tolentini, l’ex Cotonificio a Santa Marta sul Porto, San Sebastiano, la Celestia a Castello, di recente i Gesuiti sulle Fondamente Nove, e altro ancora.


Parlare delle Terese è per me un po’ “giocare in casa” per almeno due motivi: primo perché abito proprio poco distante dalle Terese, e secondo perché in una rimanenza di quel grande complesso monumentale c’è ancora la sede della Scuola Materna, l’Asilo appunto detto “delle Terese” oggi gestito dal Comune di Venezia. L’hanno frequentato entrambi i miei figli quand’erano minuscoli ed era gestito ancora dalle Suore Canossiane, perciò per anni quei posti sono stati meta di un mio andirivieni personale quasi quotidiano.


Nell’Archivio di Stato di Venezia ai Frari si conservano ben 32 buste di documenti che riassumono l’intera vicenda e storia delle “Terese Carmelitane di Santa Marta” con antichi documenti risalenti al 1184 e Regesti ed Estratti addirittura del 962. Si conservano inoltre: Inventari e Sommari dal 1877 al 1987, e “44 pezzidocumentali” dell’epoca: “1405-1806”.


Notevole la cosa ! … sarebbe bello poterci andare a frugare dentro … ma servirebbe aver a disposizione un’altra vita di scorta.


Il complesso quasi invisibile delle “Terese”, perché bel mimetizzato con le case della Contrada, si trova in fondo al Sestiere di Dorsoduro sugli omonimi Fondamenta e Rio, di fronte alla spettacolare chiesa-bijoux di San Nicolò dei Mendicoli (la mia Parrocchia), ed è l’ennesima chiesa dimenticata e chiusa al culto ormai praticamente “da sempre”.


“Buttandoci addosso l’occhio”, si nota un edificio con facciata spoglia e semplicissima, e con un esile portale a timpano sotto un gran finestrone a mezzaluna. E’ stata costruita insieme all’adiacente Convento con chiostro e logge nella seconda metà del 1600 su progetto del “Proto” Andrea Cominelli, collaboratore del famosissimo Baldassare Longhena (quello che ha costruito la grande Basilica di Stato della Peste: la Salute in Punta alla Dogana da Mar ... e molto altro ancora di bellissimo.) L'interno delle Terese è un’aula quadrata con altari barocchi come spesso accade in molte chiese “secondarie”di Venezia.


Ma come il solito, al di là dell’aspetto prettamente artistico c’è molto di più da raccontare e sapere …


Tutto iniziò nella zona già nel 1475 quando Bernardo Rusco lasciò dei locali “al ponte delle Terese” da utilizzare come Ospizio per 4 donne povere “… e anche più sel porà nella mia casa per amor de nostro Domene Dio …”. Nel suo testamento indicò perfino la quantità di frumento e di vino che si sarebbe dovuto distribuire:“… per cadauna” facendolo arrivare direttamentedai suoi terreni a Rugoletto d’Oriago. L’Ospizio accanto alle Terese esiste ancora oggi, ed è funzionato come tale fino a qualche anno fa gestito dall’IRE. Ho avuto occasione “nella mia vita precedente” di andare a visitare quasi di nascosto alcune anziane “ospiti povere” che risiedevano in quel posto sfidando le ire non molto represse del Parroco di San Nicolò:


“E’ zona mia ! … Guai a intrometterti !”


Oggi mi sembra sia occupato abusivamente da qualche movimento studentesco o per la casa … o qualcosa del genere.


Comunque l’epoca di maggior successo delle “Terese”vere e proprie si raggiunse con Maria, figlia di Maddalena Poli e dell’Intarsiatore Luigi Ferrazzo, rimasta orfana di entrambi i genitori a causa della peste del 1630. Decisa a dedicarsi completamente a vita spirituale sotto la direzione del Carmelitano Bonaventura Pinzoni, nel 1647 comprò degli ampi spazi lasciati liberi e abbandonati fin dal 1623 dai Padri Carmelitani Riformati che si erano trasferiti nel nuovo Monastero di Sant’Alvise dall’altra parte di Venezia nel Sestiere di Cannaregio. E lì decise, col consenso del Senato della Serenissima ovviamente, di mettere a disposizione chiesa e convento dandoli in uso a delle Monache Carmelitane Scalze chiamate dai popolani Veneziani le “Terese”essendo devote oltre a tutto il resto anche a Santa Teresa d’Avila. E lei si aggregò a costoro … facendosi Monaca anch’essa di conseguenza.


Pietro Gradenigo, cronista curioso e pettegolo del 1700, non perderà l’occasione, anni dopo, per annotare quei fatti nei suoi meticolosi quanto precisi “Notatori”:


“… alcune Pie Donne ottennero licenza del Principe di fabbricare una vasta chiesa e luogo per istituire l’Ordine di Santa Teresa, e finalmente nel 1660 ridussero a perfezione li loro commendabili fini. L’altare che contiene essa Santa fu dipinto da Nicolò Reiniero fiammingo con il ritratto di Giovanni Moro prestantissimo Senatore (mentore, protettore e finanziatore delle Terese)…”


Doge e Signoria presero quindi a ben volere quella nuova Istituzione. Infatti il Monastero venne sottoposto a Jus Dogale e la Repubblica finanziò e sostenne generosamente anche in seguito le numerose trasformazioni e gli ampliamenti che subirono gli ambienti delle Monache. Tanto che ancora nel 1745 esisteva la tradizione che il complesso delle Terese venisse visitato annualmente dal Doge e dalla Signoria al completo per ascoltare una Messa Solenne cantata dal Coro della Cappella Ducale di San Marco nel giorno della Santa titolare o per praticità: il giorno della Festa della Madonna del Carmine.


Inventato il “Luogo delle Terese”, la Monaca Maria Ferrazzo Poli non si accontentò di quella sua considerevole impresa, e visto il successo dell’idea si spinse fuori Venezia andando a fondare altre Istituzioni simili sempre col sostegno della Serenissima. Lo fece a Padova, Vicenza e Verona prima di tornare anziana a riposarsi a Venezia dove si decise a morire nel 1668.


Le Terese ebbero anche un po’ di fortuna al loro inizio, perché quando morì a Venezia nel 1649 il ricchissimo mercante Jacopo Galli che aveva bottega in Merceria “All’insegna della Campana” in Contrada di San Salvador per andare verso Piazza San Marco, lasciò anche a loro uno “spicchietto” delle sue pingui facoltà.

Pensate che quel cittadino Veneziano molto devoto, che non era neanche Nobile per giunta, lasciò all’esecutore testamentario Marino Moscheni un patrimonio immenso per costruire tre facciate di chiesa e istituzioni caritatevoli: 120.000 ducati !  … Mica bricioline !


60.000 ducati dovevano essere destinati alla costruzione della facciata del Convento di San Salvador nelle Mercerie, vicino a Rialto; atri 30.000 ducati si dovevano spendere per edificare quella della Scuola di San Teodoro proprio di fronte; altri 30.000 ducati ancora servivano a mettere su la facciata all’Hospedale di San Lazzaro dei Mendicanti (quella incorporata nell’Ospedale di San Giovanni e Paolo ex immenso Convento dei Domenicani, nel canale andando verso le Fondamente Nove).

In cambio di tutti quei soldi, i Frati dovevano celebrare “una montagna” di Mansionerie di Messe in perpetuo per la sua Anima e per tutte quelle della sua famiglia. Ma il gran ricco mercante non si accontentò solo di questo, e già che c’era lasciò anche 2.000 ducati in Messe-Mansionerie da celebrare anche alle Convertite della Giudecca alle quali lasciò anche altri 6.000 ducati per una recita quotidiana di un “De Profundis” per lui da parte delle “ex-peccatrici redente”(le Convertite erano le ex prostitute di Venezia)… Lasciò altri 3.000 ducati alla chiesa-Piovania di San Stae nel Sestiere di Santa Croce sempre da commutare in Messe-Mansionerie quotidiane da celebrare … Lasciò  4.000 ducati a Girolamo Orlandoni suo Travasadore personale da Olio, e  6.000 ducati a Maria la sua serva di casa (stavolta non legati a Messe da dire)… A Giulio Soderini Massaro all’Officio del Sale della Serenissima e“compare amorevolissimo”, lasciò (solo ?)una rosetta di diamanti con 24 grani legati in oro e tutti i quadri che possedeva in casa … Al suo Avvocato: Tommaso Zanfonari, lasciò la sua casa sita in Contrada di Santa Maria Formosa vicino al famoso Ponte dell’Anzolo e della leggenda del “Diavolo Scimmia”.

Lasciò anche 4.000 ducati alla Scuola del Santissimo di San Salvador perché si occupasse d’amministrare e investire: 20.000 ducati in 4 anni da spendere per favorire il matrimonio di 40 ragazze povere di Venezia, 20.000 ducati per la “Conversione al Cattolicesimo degli infedeli”(!!!), 20.000 ducati per riscattare la libertà dei prigionieri, e altri 10.000 ducati per liberare schiavi … 20.000 ducati per i poveri … 4.000 ducati ai Frati Cappuccini della Giudecca perché li spendessero per acquistare libri per la loro Biblioteca (bella questa !)… e 6.000 ducati alle Monache Francescane del Convento del Santo Sepolcro situato in Riva degli Schiavoni vicino a Piazza San Marco … 6.000 ducati al Pio Luogo delle Zitelle alla Giudecca …

Cavolo ! Ma quanti soldi e beni aveva costui ? Un Paperon de Paperoni Veneziano del 1600 !

Dimenticavo di ricordare ciò che c’interessa di più: il mercante Jacopo Galli lasciò anche 10.000 ducati alle Monache di Santa Teresa associati ad altri 2000 ducati per la celebrazione anche lì di una Messa-Mansioneria quotidiana in perpetuo … sempre per il bene della sua Anima.

 

Chissà che cosa avrà combinato in vita, e come si sarà procurato tutti quei soldi per aver avuto un così ossessivo bisogno di suffragi e preghiere dopo la sua morte ?

 

Da soldi nascono soldi … e i documenti raccontano che già nel 1661 “Le Terese” possedevano una rendita annua di altri 118 ducati provenienti da immobili che possedevano sparsi in giro per Venezia.


Negli anni seguenti si perfezionò ulteriormente la “situazione” della Monache Terese Carmelitane Osservanti di Venezia. L’intera Congregazione contava in tutto: “… 63 Dame poste ufficialmente sotto la protezione delle Maria Vergine”, e Papa Alessandro VII inviò molte “Speciali Indulgenze” alle 40 Monache che abitavano vicino a San Nicolò dei Mendicoli facendole diventare di stretta e rigorosa clausura.


Nel 1677 il Senato della Serenissima, sempre ben disposto ad assecondare i disegni del Papa di Roma, strizzando però sempre l’occhio a se stesso, autorizzò l’acquisto di case e terreni adiacenti al “Luogo delle Terese” per costruire “nuove celle” per le Monache Carmelitane … che si diedero da fare all’interno del loro ampliato Convento costruendo in chiesa un nuovo Altare del Carmelo e ponendo in parete un bel organo nuovo e potente.


Nel 1688 l’intera opera di chiesa-convento era già stata completata con grande soddisfazione di tutti … Doge compreso, che lo esternò pubblicamente ... L’anno dopo, il Notaio Francesco Olivieri annotò sul Catastico dei beni del Monastero di Santa Teresa l’acquisizione di circa 500 ettari di terra e di proprietà fondiarie nel distretto Veronese. Bene ! … le cose per le Terese procedevano a gonfie vele, divennero Monache agiate ... anche se non ai livelli delle potenti Monache di San Zaccaria o San Lorenzo … imprendibili e inimitabili … di qualità superiore.

 

Le “Terese” non saranno state assolutamente assimilabili allo splendore e alla bellezza dorata e magnetica della Basilica di San Marco, ma la loro chiesetta possedeva di certo “le sue belle cose”:


“Alle Terese ci sono sette altari tutti ornati di marmi pregiati  … Alle pareti sono collocate opere notevoli. Sull’Altar Maggiore c’è una: “Santa Teresa in Gloria”dipinta dal Genovese Niccolò Renieri, e in giro per la chiesa ci sono una “Madonna del Carmine che consegna l’abito a Simone Stoch con San Giuseppe, Maddalena de Pazzi, un Angelo Carmelitano e San Bonaventura con i profeti Elia ed Eliseo”(tutta l’antologia della devozione Carmelitana, oggi conservata ancora nella chiesa dei Carmini).“E ancora nelle Terese c’è: un ”Annunziata”, un “San Cristoforo, San Marco e San Giacomo”,e un “Crocefisso con la Maddalena”del Fiammingo Giambattista Langetti; un “San Francesco di Paola con Sant’Andrea Corsino, Sant’Alberto e l’Arcangelo Michele” di Fra Martino Cappuccino …Il soffitto è decorato con cinque quadri dipinti da Andrea Schiavoneprelevati dal Coro della chiesa dei Carmini a cui si è aggiunto un: “Angelo che appare a San Giuseppe” di Antonio Zanchi. In parete sopra al pulpito le Monache hanno fatto collocare un: “Cristo mostrato al popolo da Pilato” dipinto dalla bottega di Paris bordone, e per completare l’opera hanno aggiunto anche “Sant’Orsola, Maria Maddalena e Angeli” e “Madonna, San Francesco, Sant’Antonio da Padova ed un Angelo che suona”realizzati da Francesco Ruschi.”


Un bell’insieme ! ... Non c’è che dire … Un’altra chiesetta di Venezia ricca di bellezza e di buon gusto. Provate anche solo per un attimo ad immaginare d’entrare dentro a un tesoretto simile. Venezia in quei secoli deve essere stata davvero splendida.

 

I documenti storici continuano a raccontare che ancora a metà del 1700 le Monache Terese prestavano soldi e mutui ad altre Istituzioni meno prospere della città. Il 09 agosto 1755, ad esempio, concessero una somma di 100 ducati alle Terziarie laiche residenti nella vicina Contrada di San Barnaba.

 

Il solito Pietro Gradenigo nei suoi “Notatori” continuò ancora nel 1772 a parlare e scrivere bene delle Terese:

 

“…nella chiesa delle Terese molti Nobili e Popolo assistono alla Messa Cantata da quelle Claustrali che nel canto gregoriano sono degne di ogni attenzione ed applauso… L’organo ad una tastiera di Giuseppe De Benedictis è stato collocato in cantoria nel 1600 … è stato rifatto nella bella chiesa delle Madri Teresiane con spesa di 2.000 ducati dal rinomato Artefice procedente da Desenzano, e fu subito adoperato e riuscito …”


Nella chiesa delle Terese erano ospitate Tre Scuole di Devozione frequentate assiduamente dalla gente Veneziana della “Contrada miserebonda di Sn Nicolò”: dal 1704 la “Compagnia del Crocifisso”, dal 1724:“l’Oratorio del Cristo”, e dal 1735: il“Suffragio dell'Ottavario dei Morti… Anche i popolani miseri della zona avevano stima e simpatia per le Monache Terese.


Detto questo, non vi meraviglierà di certo dirvi che le Terese rimasero prospere e attive in quel posto di Venezia fino al 1810 … quando giunse chi ? … Napoleone ovviamente … il grande devastatore, che tanto per cambiare, chiuse, espropriò e saccheggiò ogni cosa da quel Monastero definito di “2° classe” mettendo in strada le 46 religiose Carmelitane che trovò residenti privandole di tutto ... compresi i titoli e le vesti.


Una lettera-nota storica dell’ottobre 1810 descrive spietatamente la situazione di quei giorni a Venezia:


“… intanto resta appuntato che le chiese di Santa Giustina, Santa Maria della Celestia, San Lorenzo, quella delle Servite, Santa Maria dei Servi, San Bonaventura, le Cappuccine di San Girolamo, Corpus Domini, Terese, San Biagio della Giudecca restano fin d’ora a libera disposizione dell’Intendente, si ritengono come già profanate e a totale sua disposizione: s’incarica però il Sig. Intendente di presentare alla Prefettura la nota degli oggetti tanto di Belle Arti, come interessanti le Belle Lettere e l’Antiquaria alla cui scelta vennero delegati il Signor Eduars e Morelli in concorso col Sig Economo Volpi. Sopra queste note il Prefetto si riserva d’indicare il luogo sia provvisorio, sia stabile, in cui gli oggetti stessi dovessero essere trasportati sottoponendosi a sostenere le spese…”


Per un amante di “Cose Veneziane”è crudele leggere nella sua chiarezza questo documento.


Il destino del complesso delle Terese fu quindi segnato: o diventava Caserma per i Militari essendo collocato strategicamente sulla periferia estrema e sul confine di Venezia vicino a dove i soldati andavano ad esercitarsi, tipo “Campo di Marte”; o doveva essere demolito dopo averlo spogliato del tutto e venduto il vendibile, perfino le pietre. Si stava decidendo già per la demolizione, anche perché le Terese subivano la concorrenza del vicino Santa Maria Maggiore e del Santa Marta che sorgevano poco distanti, uno anche in pratica riva sulla Laguna … 

Si tergiversò a lungo, indecisi sul da farsi: distruggo e abbatto tutto o salvo ?


Finchè nel 1811 un certo Monsignor Caburlotto si fece avanti e riscattò il monastero pagandolo in contanti al Governo. Propose di trasformarlo in Orfanatrofio Femminile per accogliervi “le Putte”, le giovani ragazze, che mal vivevano nell’Ospedale dei Derelitti, degli Incurabili e dei Mendicanti trasformati in Casa di Riposo per anziani, mendicanti e gente senza fissa dimora. Si trattava di una promiscuità estrema e insopportabile …


Il Governo … stranamente … comprese la situazione incresciosa in cui quelle ragazze erano costrette a vivere, perciò con un Ordine apposito della Congregazione di Carità cittadina obbligò tutti gli orfani di Venezia che vivevano ammassati nei diversi luoghi di Beneficenza Pubblica a trasferirsi al più presto nel nuovo Orfanatrofio delle Terese.


Sette anni dopo per opportunità e per ridurre l’eccesso di “promiscuità fruttuosa”, gli orfani maschi vennero “tradotti”ai Gesuati sulla Riva delle Zattere e del Canale della Giudecca. (gli Orfanelli accanto alla chiesa dei Gesuati ex Monastero di Santa Maria della Visitazione).


L’Istituto delle Terese era organizzato e diviso in quattro reparti: il “Noviziato” che durava un anno intero e ospitava le educande minori, e le “Tre Scuole da Lavoro”dedicato alle “Mezzane” dai 15 anni, alle “Grandi” dai 18 anni, e una quarta sezione dedicata alle ragazze impegnate nei “Servizi Domestici”. In totale le Terese accoglievano 224 ragazze per “l’Educazione” che durava fino ai 24 anni, limite che si voleva ridurre molto presto portandolo ai 18 anni per ridurre l’eccesso di spesa sempre più insostenibile.
Una Priora e una Vicepriora (tremende, vere e propri “sergenti di ferro” a quanto si legge) gestivano il personale dell’Istituto composto da: 13 Maestre Stabili ed 1 Amovibile coadiuvate da 18 Vicemaestre: “scelte fra le Figlie più adulte, abili, disciplinate ed esperte nei lavori.” 


Quando una “Figlia” raggiunta l’età, era pronta a lasciare l’Istituto delle Terese, le veniva fornito un apposito corredo consistente in: 2 camicie, 2 abiti, 2 paia di calze, 2 grembiali, 1 paio di scarpe e una sovvenzione di 268 lire Austriache”.


Nel 1826 il Conte ex Nobile Venier era il Direttore dell’Orfanatrofio delle Terese e presentò un accurato piano economico per disciplinare l’Istituto e le sue economie. Il Viceré, però, in visita alla casa rilevò notevoli disordini nella gestione, perciò ordinò al Governatore di adottare soluzioni drastiche.

Durante la Visita Ispettiva trovò che: “… le così dette “ospiti orfanelle” non sono solo adolescenti e bambine, ma sono soprattutto adulte e vecchie con scarsa moralità e prive di qualsiasi educazione, istruzione religiosa, sociale e professionale ... I dormitori sono: “fitti fitti”, stracolmi di persone … Le ricoverate sono troppo numerose, e nelle ricreazioni le più giovani stanno accanto alle più vecchie smaliziate e corrotte …”

Per provare a risanare l’ambiente si provò a ridurre il numero delle “Ricoverate”,e si fece arrivare da Milano qualche nuova Maestra e un Sacerdote “per dar ordine alla situazione”.

“Non si dovrà superare il tetto di spesa delle 78.000 lire annue concesse dal Comune, ma in qualche modo si dovrà provvedere a degli opportuni ampliamenti ... Le Ricoverate devono essere dimesse al compimento del 18 anno con conservazione della loro dote fino a 6 anni dalla loro uscita e non oltre … Eccetto le donne valide e assunte in servizio con qualche mansione, le adulte e le vecchie dovranno essere trasferite in Casa di Ricovero…”


Nel 1830 il Governo Austriaco provò per ridurre gli sprechi ad unificare tutte le Direzioni dei vari Istituti sotto il governo dei soli Conte Venier e Conte Memmo a cui mantennero inalterato lo stipendio. Si misero sotto due sole amministrazioni: Gesuati, Terese, Penitenti, Catecumeni, Zitelle e Ca’ di Dio risparmiando 8.000 lire.


In quello stesso anno “Le Terese” ospitavano 224 orfane di cui 147 da Comunione, e possedevano una rendita stabile di 3.151 lire … inoltre le orfane lavorando guadagnavano 636 lire … ma l’Istituto aveva bisogno per sopravvivere di almeno 90.059 lire annue.


“L’Istituto delle Terese ospita orfane fino a 18 anni garantendo loro il necessario alimento, le addestra ai lavori che consentano di procacciarsi il vitto al loro sortire …”

Se però le orfane non trovavano nessuno con cui accasarsi o sistemarsi, potevano rimanere anche a vita lavorando nell’Istituto.

“Le orfano sono divise in “Piccole, Mezzane e Maggiori”… sono ben istruite e provvedute, docili, obbedienti ma povere e sprovviste di conveniente vestiario tanto che vengono trovate coperte di pidocchi …e spesso turbate da frequenti visite di secolari … Non essendo permesso il contatto con l’esterno, parlano attraverso grate, ricevono regali attraverso una ruota, e alla fine delle visite possono abbracciare i parenti solo sporgendosi da una finestra …. Nell’Istituto è proibito l’accesso agli uomini eccettuati gli addetti ai lavori accompagnati dalle Maestre. Oltre al Direttore e all’Economo c’è in servizio la preposta Priora Sopraintendente alla disciplina interna: Tagliagambe Natalina da Livorno che percepisce un assegno di 1.000 lire austriache … (il nome in se è già tutto un programma)… Inoltre c’è una Vicepriora, 23 Insegnati di cui 11 Maestre, 12 Vicemaestre con stipendio di 500 lire austriache annue ciascuna, 2 Sacerdoti di cui 1 Rettore con onorario di 600 lire annue compresa l’elemosina per celebrare una Messa quotidiana ... Per le orfane è pevisto il Catechismo comune ogni giovedì, Dottrina Cristiana ogni martedì, Orazioni Cristiane anche durante i lavori quotidiani, Messa quotidiana con Comunione ogni 20 giorni … alcune più volte la settimana. Infine abita nell’Istituto 1 Mansionario: Scarpa Giovanni Luca stipendiato dalla stessa Direzione.”


Dieci anni dopo, a detta della Priora non era cambiato niente, e c’erano ancora gli stessi gravi disordini riscontrati dal Viceré già nel 1827.


Nel 1856 il bilancio annuale era esasperante: “La Casa-Istituto, valutata in se lire 90.564,24 comprese le mobilie e gli arredi della chiesa, possiede un capitale irrisorio di lire 734,40 ... La spesa annuale totale ammonta a lire 104.336, di cui lire 4664,96 per spese, pensioni e onorari; lire 5929.50 per i salari; lire 55.348,73 per il vitto; lire 12.899,43 per la biancheria e vestiario; lire 4.676 per le doti delle donzelle …” 


Il Comune di Venezia dovette intervenire per sopperire al grave deficit fornendo un sussidio iniziale di lire 12.811,28 ...  Non bastò, ovviamente, e fu necessario chiudere tutto al più presto.


“Di giorno e di notte le misere orfanelle si sporgono di fuori dalle finestre sul retro dell’Istituto dove passano in continuità sull’argine e in barca i militari di leva e i giovani “discoli e sfacciati” della zona con le loro avance e proposte amorose … Servirebbe stare sempre di sentinella, senza abbassare mai la guardia … perché quello che s’impedisce che entri per la porta passerà regolarmente ogni volta per la finestra … Non c’è più pudore in quest’epoca, né in città …” spiegava l’ultima Priora delle Terese.


Il Convento delle Terese, infine, lasciato a se stesso andò in rovina e totale abbandono. Visse ancora stagioni diverse: nel 1926 fu sede di Scuola Elementare … poi divenne alloggio abusivo per gli sfrattati dalle baracche della Giudecca … asilo per senzatetto … e dopo la Seconda Guerra Mondiale ospizio improvvisato per profughi Dalmati e Giuliani …(corsi e ricorsi storici … profughi allora come oggi).



Dal 1962 una piccola parte del Convento abbandonato fu recuperato dalla Suore del Caburlotto e divenne Scuola Materna che accoglieva 55 maschi e 50 femmine delle popolari Contrade operaie di Santa Marta e dell’Anzolo Raffael. E la tal cosa proseguì fino al 2004 quando le Suore si ritirarono “per sopraggiunta età” lasciando la gestione al Comune di Venezia … proprio mentre l’Università di Ca’ Foscari iniziò a recuperare le rimanenze del grande complesso salvandolo dal degrado totale e dalla rovina col proposito di farne “Cittadella Universitaria per ospitare Studenti” … In realtà se ne fecero aule e uffici amministrativi di segreteria della Facoltà di Design e Arti e aule per il “DADI” ossia il Dipartimento d’Arti e Disegno Industriale … l’ormai ex-chiesa viene utilizzata come laboratorio teatrale … Non è proprio quanto si era comunicato ai Veneziani e all’opinione pubblica di cui a pochi importa ... ma almeno gli ambienti delle “Terese” in qualche modo sopravvivono ancora.


“CHI HA FREGATO CAVALLO E MANTELLO DI SAN MARTINO ?”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 80.


“CHI HA FREGATO CAVALLO E MANTELLO DI SAN MARTINO ?”


Ieri: un’alba sublime, pulita, tersa … sfacciatamente rossa e di tutte le tonalità e le sfumature del giallo, arancione, indaco e ocra … Uno spettacolo sopra, e una laguna lucente e liscia … un senso d’immobilità quiescente, un’apparenza di pace sotto.


Era per caso l’estate di San Martino ? … Boh !


Oggi è tutt’altra cosa: le foschie mattutine hanno lasciato il posto alla nebbia autunnoinvernale … Le banchine del Porto di Venezia si fanno giorno dopo giorno sempre più deserte … sembra diminuire la folla dei vacanzieri festaioli vomitata a terra ogni giorno dalle Grandi Navi. Gli alberi intorno hanno assunto quasi tutti un aspetto pallido, smunto, slavato e caduco … s’ammucchiano negli angoli per terra collinette di foglie. Anche il ciliegio della Marittima si sta spogliando del fogliame e sembra inebetito e già perso nei meandri del sonno invernale ... le erbe alte oltre le mie spalle che dondolavano verdi dentro alla calura estiva, ora sono ridotte a pennelli secchi, “steccarotti” avvizziti che scricchiolano nell’aria in attesa di un provvidenziale colpo di vento che li stenda a terra definitivamente. Hanno terminato la loro storia e la breve stagione della loro esistenza … pochi mesi in tutto.

Fischia cupa e tetra la sirena di una nave dentro alla nebbia sempre più fitta … Estate di san Martino … Sì o no ?


Romeo Vettorello con le dita gialle di nicotina si stava fumando una delle prime sigarette della giornata davanti alla porta spalancata del bus in sosta. Mancavano cinque minuti prima della solita partenza.

Gli faceva compagnia chiacchierando Achille Tempestilli: barcarolo e tiracaretti alla Punta di San Giuliano a Mestre … spedizioniere ufficialmente. Calottina di lana calcata in testa e bavero alzato sul collo.

Non si chiamavano affatto così … ma in qualche maniera dovevo chiamarli visto che non conosco il loro nome. Io me ne stavo, invece, seduto proprio accanto alla porta spalancata del bus, intento a scribacchiare e inseguire i miei soliti pensieri, ma visto che parlavano a voce alta … non ho potuto fare a meno d’ascoltarli.


“Centoventi centocinquanta euro a notte per stanza … che a volte ti danno un “cesso” … e noi siamo in quattro. Altri settanta euro se andiamo col pulmann … oppure sono quaranta più quaranta, andata e ritorno, se muoviamo la macchina, più i soldi dell’autostrada e quelli eventuali del parcheggio … Poi c’è la funivia, la motonave sul lago … E poi si mangerà no ? … e ho detto a mia moglie: “Andrete anche avanti e indietro come il solito a fare shopping inseguendo i vostri capricci … e tornerete a casa con le borse piene usando come sempre la mia carta di credito … Fai te un po’ di conti ! … Amore ! … In pochi giorni mi partirà tutto lo stipendio di un mese …”

Gliel’ho detto bene però … delicatamente: “Se proprio vuoi … partiamo e andiamo … anche se …”

Ohi ! … Mi ha sbattuto giù il telefono ! … Me l’ha buttato giù ! … Così: “di brutto” … Vai a capirle tu le donne ! … Quest’anno volevo portarle a casa un San Martino grande per la festa … ma mi sa che rimarrà in pasticceria …” ha raccontato Romeo fra un colpo e l’altro di tosse rauca e catarrosa.


“Guarda te ! … E’ già San Martino di nuovo … me l’ero scordato del tutto ... Non è più come una volta. Si fa tanto casino per Hallowen … e abbiamo messo da parte vecchie cose importanti come i Morti e San Martino …” ha risposto Achille emettendo di continuo un fischietto per via dei denti che gli mancavano proprio davanti a destra.


“Cambia tutto … Cambiano i tempi … Cambiamo anche noialtri … Diventeremo vecci … e faremo sempre i soliti discorsi, sempre quelli … Manca solo che ci mettiamo a tirare fuori il ritornello della pensione e il gioco è fatto … Siamo a posto …”


“A proposito di San Martino … Giorni fa sono tornato in campagna dove andiamo ogni tanto a trovare parenti … E’ in collina, sulle prime gobbe delle Prealpi … subito dopo Verona e Brescia … Dopo pranzo a pancia piena siamo andati in giro per una passeggiata spingendoci fino a una chiesetta dedicata a San Martino … Una cappelletta di campagna che ho sempre visto là fin da bambino …  A sorpresa non c’era più niente … neanche un lumino acceso davanti all’altarino ... Stavolta entrambe le ante del portoncino d’ingresso erano forate e tenute chiuse da una grossa catena lucente con un bel lucchetto … Dentro era tutto spoglio e buio, l’ho intravisto attraverso le fessure delle porta.

Non c’era più neanche la vecchia tela sull’altare col Santo intento ad affettare il mantello per darlo al miserello raffreddato seduto a terra di sotto! … Che fine avrà fatto ? … Mi piaceva tantissimo … Venivo sempre a rivederlo nella mia infanzia … Ho pensato: “Che cosa sarà accaduto ? … e ho chiesto a uno del posto …”

“E’ accaduto che è morto Remigio il vecchio ortolano … quello che si occupava di tenere aperta e in ordine la chiesetta … Metteva i fiori ogni tanto e accendeva sempre il lumino davanti all’altarolo … Sparito lui è scomparso anche Don Pieretto … il vecchio Prete che veniva ogni tanto a celebrare la Messa …”

“Lo ricordo ! … Quello con i capelli bianchi e ricci e gli occhiali con le lenti spesse come un culo di bottiglia !”

“Già … proprio lui … E’ andato a ritirarsi a Monselice … in una casa di riposo per Preti e Frati, o qualcosa del genere … Non l’ho più visto ... Remigio l’ortolano faceva in realtà di nome Martino … come la chiesetta. Ecco perché le era così affezionato … Pensa le stranezze della vita: da giovane faceva proprio il campanaro, il sacrestano della chiesa grande del paese …”

“Come quello della canzone! … “Fra Martino … Campanaro … Dormi tu ? … Suona le campane … Suona le campane … Sdàn sdàn sdàn ! … Sdàn sdàn sdàn !… Che tempi ! … La mia infanzia …”

“In ogni caso il suo destino era quello … perché sebbene il nuovo Parroco l’abbia lasciato a terra licenziandolo per ridurre le spese della Parrocchia … è finito lo stesso a interessarsi in vecchiaia della chiesetta … Ha lavorato tutta la vita in fabbrica … quella dei mobili, in fondo al paese … quella che hanno chiuso due anni fa ... Ma ha fatto a tempo ad andare in pensione prima … ed è finito ad occuparsi dell’orto … e della chiesetta fino alla fine ... quando è morto.”

“E dopo ?”

“Dopo lo vedi con i tuoi occhi quanto è accaduto … E’ rimasto tutto abbandonato e i soliti giovani vandali scapestrati del paese ci hanno messo un attimo a capire che la chiesetta è rimasta incustodita, e hanno sparpagliato tutto quel poco che c’era dentro ... Si sono presi tutto quello che pareva di qualità …”

“Si son fregati anche la vecchia tela ?”

“E non solo … Hanno anche inzozzato tutto e reso impraticabile la cappelletta … L’altro inverno hanno perfino acceso dentro un fuoco per scaldarsi … e hanno annerito un muro intero … Abbiamo chiuso tutto …”

“Bastardi ! … Povero San Martino ! … depredato di tutto … anche del mantello e del cavallo … Sono rimasti solo i muri spogli … e tanto squallore … San Martino è passato da star della contrada a poveraccio nudo simile a quello che ha trovato per terra quella volta … Dalle stelle alle stalle … come si è detto di quell’altro …”


Poi il bus è partito in perfetto orario … ed era ieri.


Sapete tutti che Martino è diventato solo in seguito Vescovo di Tours in Francia fino alla morte del 397, e che dopo l’hanno fatto Santo per diversi motivi. Era originario di Sabaria in Ungheria o Pannonia Romana dove nacque fra 316 e 317 d.C. Soldato Romano in Francia, secondo la tradizione avrebbe dimostrato la sua Carità tagliando in due il suo mantello donandone metà a un povero incontrato per strada ... Racconta la leggenda che quel povero era il Cristo in persona, e che dopo quel gesto si aprì e illuminò il cielo plumbeo invernale inventandosi nella così detta breve estate di San Martino. In seguito l’ex soldato catecumeno si ritirò a Ligugé vicino a Portiers sotto la guida di Sant’Ilario, dove si fece monaco fondando un monastero e lottando energicamente contro le eresie Ariane dell’epoca e contro i culti pagani ancora presenti di cui abbatté in abbondanza edifici e simboli. La sua fama si diffuse per tutta la Gallia Occidentale anche in funziona AntiRomana, divenne sacerdote e quindi Vescovo di Tours, quindi, come dicevo, dopo la morte uno dei Santi più popolari dell’Europa intera.

Considerato Patrono dei soldati, quattromila chiese dedicate a lui in Francia, e lo stesso nome dato a migliaia di paesi e villaggi; non solo in Europa e Italia, ma anche nelle Americhe. Fin dal secolo VIII sia Longobardi che Ravennati d’influenza Bizzantina erano soliti dedicare le loro chiese a Santi campioni di Fede, come: Sant’Ilario, Sant’Ambrogio e appunto San Martino.

Di toponimi, posti e chiese di “San Martino” ce ne sono tanti anche nel Veneto: è dedicata a San Martino la Cattedrale di Belluno, così come si chiama San Martino il Castello di Ceneda e del Vescovo a Vittorio Veneto … La lista sarebbe lunghissima: San Martino di Lupari a Campo San Martino di Galliera Veneta, Col San Martino a Farra di Soligo, San Martino di Castrozza, San Martino a Campese di Bassano del Grappa, Santi Martino e Rosa di Conegliano … e poi la Pieve di San Martino edificio più antico della Valle dell'Agno nel Vicentino, San Martino in Piano a Monselice, San Martino a Este sui Colli Euganei, San Martino a Revine sul Lago fra Ceneda e Valdobiadene … San Martino a Marano Lagunare … mi fermo senza esaurire di certo la lista.

Mi soffermo, invece, sui San Martino “nostrani”. Ce n’è più di uno anche in Laguna e a Venezia: uno nel Sestiere di Castello, e altri due nelle isole di Murano e Burano. Ce n’era un altro anche a Chioggia, e un altro ancora molto antico …“In strata”… a Campalto sul bordo della Laguna verso l’aeroporto.


Significa innanzitutto che i Veneziani di un tempo erano molto devoti a Santo Martino.


Esistono stupende guide scritte su tutte le chiese illustri Veneziane e Lagunari che ho citato, perciò neanche oso provare a raccontarne le bellezze e la storia. Ricordo solo qualche nota secondo me curiosa ... secondo me, però.


San Martino nel Sestiere di Castello… Fu il Doge Ordelafo Falier a donare nel 1107 a Giovanni Gradenigo Patriarca di Grado, un terreno per rifabbricare in pietra e con portico antistante la primitiva chiesa in legno situata in: “… piscaria posita post Brissalium Sancti Martini et pisina Poncianica …” di proprietà di “… Nobiles viri et convicini…”.


I primi Piovani della chiesa di San Martino affiliata alla Matrice di San Silvestro (fino al 1451) e non a quella vicina di San Pietro di Castello furono Domenico Fabiano seguito poi da tale Pre’ Marino Agnello originario del Confinio di Santa Maria Mater Domini. Era il Patriarca di Grado che possedeva assoluto diritto di nomina e di revoca del Piovano di San Martino che aveva l’obbligo di confluire il Sabato di Pasqua presso San Silvestro di Rialto e offrire annualmente tributi di varia natura come due ampolle di vino per la festa di San Vito e altrettante per quella di San Martino, a cui si aggiunsero più tardi anche un “cespite” del valore di 12 grossi di moneta veneta sempre da consegnare per la festa di San Vito.


Nel 1230 c’erano i Frati Domenicani che dormivano all’aperto sotto al portico di San Martin di Castello, perciò fu dato loro un terreno vacuo a San Daniel, poco distante, e una chiesola in Contrada di Santa Maria Formosa … mentre qualche anno dopo, Nicola Sirano abitante nel Confinio di San Martino di Gemini ricevette a prestito da Martino Gisi dal Confinio di San Geremia lire 200 per commerciare ovunque dietro corresponsione di ¾ dell’utile. Furono testimoni dell’atto steso a Rialto presso Marinus Notarius et Presbiter di Sant’Aponàl: Jacobus Basilio e Johannes Badoario entrambi Giudici Examinatori ... Giovanni Boso, invece, che possedeva già una casa con orto davanti all’Arsenale, per ampliare la sua casa prese in affitto per 29 anni rinnovabili alla scadenza, un altro lotto di terra adiacente al suo incuneato nella vigna appartenente alla chiesa di San Martino ... e poi prese in affitto un secondo terreno per costruirvi un’altra casa  con diritto d’affittarla.

Quando Boso morì nel 1316 lasciò scritto sul suo testamento che i Preti della chiesa di San Martino potevano riscattare e comprare le sue case purchè costruissero nel suo orto 10 casette, 5 per lato, da dare in uso gratuito a persone povere della contrada. E così fu fatto … e già che si stava decidendo, la Serenissima ordinò che la Piscaria di San Martin divenisse suolo pubblico consentendo così l’avanzamento e allargamento di 5-6 passi del muro dell’Arsenale.


Nel 1450 la Serenissima ordinò la chiusura dei Portici di San Martin apponendovi dei cancelli in quanto “… zona obscura et tenebrosa ...” e qualche anno dopo la Casa dell’Arsenal acquistò dai Preti di San Martin per 1100 ducati d’oro le casette dei poveri volute dal testamento di Giovanni Boso: “Entro 6 anni dovranno essere abbattute per costruire un nuovo campo davanti all’Arsenale …”


Un giorno del luglio 1483 il Patrizio Francesco Dalle Boccole stava parlando con Andrea Giustinianche era affacciato con altri Nobili da una delle finestre di una casa abitata da Girolamo Malipiero “…super strata per quam itur in campo duorum puteorum confinii Sancti Martini …” ossia in Contrada di San Martin …

Il falegname Luigi Gofritto cominciò a guardarlo con insistenza provocatoria, perciò il Patrizio risentito gli si rivolse dicendogli: “Che vardestù?”Non l’avesse mai fatto ! Perché il falegname per tutta risposta gli pose prima le mani sul petto, e poi si armò di un bastone menandogli sulla fronte un colpo disonesto che fece morire il Dalle Boccole il 5 agosto successivo estinguendo con lui la sua famiglia per sempre. L'uccisore fuggì via, e venne condannato a perpetuo bando con sentenza contumaciale del 23 ottobre 1483. Tre anni dopo però, venne riconosciuto e catturato a Capo d'Istria in territorio del Dominio Veneto, perciò venne condotto a Venezia e decapitato in mezzo alle due colonnette della Piazzetta di San Marco subito dopo avergli tagliato una mano sul luogo del delitto … La Serenissima era la Serenissima: non aveva memoria corta ... né scherzava affatto.


All’inizio del 1500 la chiesa prese fuoco e venne consumata da un violento incendio, perciò venne ricostruita dal Piovano Antonio Contarini su disegno di Jacopo Sansovino a pianta quadrata centrale alla maniera in cui la possiamo vedere ancora oggi.

Le spese di ricostruzione furono ingenti, perciò i Preti di san Martin vendettero al miglior offerente la vigna della chiesa. L’acquistò Alvise Mocenigo col fratello Giovanni offrendo 1536 ducati, e poi si vendettero anche alcuni campi in Villa de Fazuol sotto Castelfranco e si aprì anche una sottoscrizione agli abitanti della Contrada col Piovano che per primo versò 25 ducati … ma fu seguito da pochissimi: solo 19 somme, tutte fra 4 e 6 ducati. Non c’erano soldi da sprecare fra i 2300 popolani della zona ... anche se in contrada esistevano 22 botteghe che divennero in seguito 46.

La Parrocchia tuttavia, spendeva 12 ducati ogni anno per la Festa di San Martino noleggiando spalliere e comprando fiori, facchini et gondola et organo a nolo per tutta la solennità pagando anche 6 ducati annui all’organista. Non era poverissima quindi … Solite storie … ieri come oggi.


Durante il 1600 in San Martin c’era una Madonna dei Sette Dolori di legno, vestita con abiti preziosi e diversi ori ... e quando morì il Doge Francesco Erizzo, venne sepolto in chiesa di San Martin.


Nei primi decenni del 1700, invece, sempre presso la Contrada di San Martino, il Conte Domenico Althan di San Vito del Friuli, d'anni 31, figlio del Conte Giacomo, uccise a tradimento con un colpo di trombone, Gaetano Marasso detto Rinaldo Sora, Sopraintendente all'Artiglierie dell’Arsenale. Essendo anche lui fuggito da Venezia, venne bandito capitalmente, ma lasciatosi catturare in Piazza di San Marco, venne subito giustiziato. Si raccontò che quel giorno: “… era vestito in codegugno di drappo di seda, e parrucca in sacchetto, et andando al supplizio salutava li suoi amici ... e che sopra al palco abbia parlato un quarto d'ora, et infine, avendo il collo sopra il ceppo, abbia detto: Popolo addio!”In contrada di San Martin si affittava Drio la Tana a ducati 272 annui un Inviamento da Forner con casa e bottega, ed esisteva anche una Pistoria … Il solito Gradenigo nei suoi “Notatori” scriveva che il soffitto della chiesa dipinto dallo Zanchi venne a costare 900 ducati, mentre il quadro dipinto dal Guaranà ne costò altri 300 … Sempre il Gradenigo aggiunse anche: “… li Signori Musici e Suonatori esistenti in questa metropoli si raccoglievano tutti gli anni il 22 novembre nella chiesa Parrocchiale di San Martin e davano lode con la voce e con gli strumenti alla loro Beata Protettrice in Cielo: Santa Cecilia …”


Ancora e sempre in Contrada di San Martin, proprio aderente all’Arsenale, risiedevano molti popolani appartenenti al numero dei 900 Calafàti e Pegolotti aderenti all’Arte che si radunava in chiesa di San Martin sotto il Patrocinio di San Foca e della Beata Vergine. Godevano del privilegio di non venire arruolati nella Milizia della Serenissima, e d'essere chiamati a lavorare fuori dell'Arsenale quando si doveva costruire naviglio commerciale ... e ogni giorno festivo: “… andavano a piantare un banco in Piazzetta di San Marco presso la Porta della Carta, ove sedevano i Sindaci incaricati di pronunziar giudizio sopra coloro che violavano i diritti della loro Arte …” Però !


In Calle deiForni a San Martin sorgevano 32 forni nuovi per approvvigionare le Milizie Marittime e Terrestri di “pan biscotto” per costruire i quali la Serenissima spese ottomila ducati. Ne esistevano altri anche nell'isola di Sant’Elena e in Contrada di San Biagio poco distanti dal Molo di San Marco.  Nel maggio 1721 proprio “di faccia ai Forni di San Martin”stava ormeggiata una Tartana dei Turchi. Nello stesso giorno e ora in cui il Doge e la Signoria tornavano come ogni anno spinti dai remi a bordo dei “Peatoni Dorati Ducali” dalla visita e dalla celebrazione di un Rito presso la vicina chiesa e Monastero delle Vergini, i Marinai Ottomani, forse ubriachi, col pretesto d’aver ricevuto dispiaceri e offese dai Veneziani, iniziarono a sparare contro chiunque passava da quella parte sia per terra che per acqua, e già avevano ucciso un Marinaio Inglese e un Arsenalotto. In vari campaniletti e punti della città s’iniziò allora a suonare “campana a martello”, e molti Veneziani si misero a convergere verso la Riva degli Schiavoni. Poco dopo, alcuni Marinai Dalmati salirono e diedero fuoco a una barca attraccata alla Tartana costringendo i Turchi a gettarsi in acqua dove vennero tutti trucidati dai colpi dei Veneziani giunti tutto attorno su battelli di ogni tipo.


Nel 1740 sempre nella stessa Contrada sitrovava un terreno da Margaritèr in Corte Margaritera appartenente al Nobil Uomo Francesco Barbarigo, tenuto però da Michiel dalla Venezia ... e in Calle Bastiòn, ancora presso San Martin c’era una grande Osteria o Bastiòn condotta da un Valentino Grandi che vendeva vino al minuto nel 1713, e nel 1767 venne quasi distrutta da un gravissimo incendio.


All’inizio del 1800 nella stessa Contrada erano attive due Spezierie da Medicine: quella “Alli due Pavoni”al Morion, e quella “All’Europa”al Ponte storto di San MartinNel 1841, la chiesa col Convento di San Francesco della Vigna dei Minori, l’Ospizio della Ca’ di Dio e  il Monastero della Celestia dipendevano dalla Parrocchia di San Martin dove risiedevano 8 Preti al posto dei 14 precedenti, non c’era scuola comunale, né levatrici, era considerata “miserabilissima” e ci vivevano 3000 persone lavoranti quasi tutti in Arsenale. Nacquero 84, ne morirono 49, e si celebrarono 14 matrimoni … e si celebrava ogni mattina d’estate alle 4 ½   una Messa per gli Arsenalotti ½ prima che si recassero al lavoro, e altre 40 Messe Annue pagate con i fondi raccolti da una “Cassella” posta alle porte dello stesso Arsenale.


Nel settembre 1849, subito dopo le asprezze dell’assedio di Venezia: fame, colera e dissenteria si portarono via 46 persone della Contrada di San Martin ... Fra 1865 e 1868 Venezia era sotto l’Austria e l’Imperatore, e il Governo Austriaco indusse tutte le Parrocchie a vendere tutti i pochi immobili loro rimasti e a investire il ricavato in Cartelle del Debito Pubblico. La svalutazione in atto portò prestissimo quei reddito a zero ... Lo stesso Governo diede disposizioni ferree sul modo e la durata del suono delle campane, pretese dai Parroci il prospetto dettagliato di tutte le elemosine riscosse durante ogni Messa, dei legati lasciati da testamenti, e di ogni offerta spontanea fatta alla Chiesa ... Nel 1899 i Preti di San Martino indirono una causa contro l’Antiquario Emilio Bossi reo d’aver acquistato da Luigi Ballarin dei soprarizzi rubati in chiesa insieme a 7 lampade d’argento del valore di 4000 lire non più recuperate.


Come dentro a una scatola cinese ce n’è sempre un’altra più piccola … Così a San Martino di Castello è esistita una Schola specifica dedicata a San Martin … con sede affiancata, anzi, integrata dentro alla chiesa stessa.


Pare sia stato all’inizio Messer Andrea Salotto Piovan della Contrada di San Martino di Castello e poi Vescovo di Chioggia, a inventarsi nel 1335 la Confraternita di San Martino a Venezia. Poi è accaduta la solita trafila con la Mariegola della Schola(custodita ancora oggi nella Biblioteca Marciana), l’elenco delle partecipazioni obbligate alle Messe, le mansioni del Gastaldo e della Gastalda, dei Dodici Degani, dello Scrivano, dei due Nonzoli e di tutti i Confratelli. Fra l’assunzione di una carica e l’altra della Schola dovevano trascorrere due anni di contumacia obbligatoria … l'età minima di adesione era fissata a quindici anni … e si sarebbe cacciato chiunque fosse stato scoperto a giocare a dadi, vivesse nel peccato, fosse causa di litigi o trascurasse di versare le dovute contribuzioni ed elemosine.

Già dal 1356 viene deciso che nella ricorrenza della Festa del Patrono Titolare della Schola ai Confratelli dovrà essere consegnato: “un pan di focaccia dolce"(come si usava fare nella maggior parte delle altre Schole di Venezia). Un San Martìn de pan ? … Un pan a forma di San Martin ? … Forse è nata già da lì l’usanza Veneziana pasticcera dei dolci a forma di San Martino a cavallo.

Nel marzo 1362 il Gastaldo della Schola di San Martin custodiva anche un calice d’oro donato da Pre' Bernardo che non si poteva prestare ad altri … nel 1369 alla Schola venne donata la Reliquia di un dito di San Gerolamo ... la Schola:“…nella terza domenica di ciaschedun mese dell’anno, canta una messa solenne con zago, e sotto zago e con procession colla crose avanti, co’l ghonfalon e cirri impressi”Nel 1441 la Schola di San Martin strinse un accordo con l’illustrissima, potente e ricchissima Schola Granda de San Zuane Evangelista del Sestiere di San Polo, affinchè il giorno della festa di San Martino si recassero in processione i Confratelli e l’intero Capitolo o Bancali di quella Schola Granda con le Reliquie da loro possedute (ma forse solo prestate dalla stessa Schola di San Martin) della gamba e piede destro di San Martino, fino alla chiesa di San Martin nel Sestiere di Castello con qualsiasi condizione atmosferica.

L’enorme Processione avrebbe attraversato a piedi tutta Venezia, perciò il Doge e il Consiglio dei Dieci analizzarono e autorizzarono la manifestazione curandone l’ordine pubblico e la sicurezza di anno in anno … Immaginate solo per un attimo una Processione con migliaia di persone che attraversa tutta Venezia … Nel 1471 si pose sull'altare della Schola una pala rappresentante San Martino dipinta da Hieronimo depentor, e ai piedi dell’altare si posero i lunghi elenchi dei Confratelli e Consorelle iscritti … nel 1601 il Capitolo della Schola decise che tutti coloro che versavano“12 soldi di Luminaria” sarebbero stati accompagnati a sepoltura: “seguiti dal Penelo della Schola (vessillo)con due aste e dodici candelotti.” … Nel 1704 la Schola si scorporò e duplicò e divenne anche Sovvegno di San Martino versando ai Preti di San Martin 192 soldi annui d’affitto per l’uso della sede e dell’altare in chiesa. La Confraternita-Sovvegno aveva 162 iscritti che dovevano avere tutti meno di 60 anni, pagavano 7 lire di Benintrada e poi 16 soldi al mese avendo garantiti: assistenza medica, medicine gratuite e un sussidio di 9 lire alla settimana per tutta la durata di un eventuale malattia ... Sede di Schola e Sovvegno si trovano nell'edificio "a due soleri etbarbacani” addossato al fianco della chiesa di San Martin con murato sopra la porta d'ingresso un bassorilievo raffigurante San Martino a cavallo sormontato dall’iscrizione: “IN TEMPO DE MISSIER STEFANO TORE TAGIAPIERA GUARDIAN, ET MISSIER ANTONIO ZOGIA VICARIO, ET MISSIER ZUAM DELLI CAVALLI SCRIVAN,  ETCAPITOLO -  ANNO MDLXXXIV.” 

Pochi anni prima, nel 1713 iniziò una furibonda diatriba con la Schola Granda de San Zuane Evangelista con ben trentatrè attestazioni giurate sul possesso delle Reliquie di San Martino ... Due anni dopo, davanti ad un reclamo sollevato nuovamente dalla Schola de San Martin, Il Consiglio dei Dieci fu costretto a intervenire ristabilendo ordine e accordi, e interrompendo la lotta furibonda a suon di processi e Avvocati … Solo fra 1764 e 1771 i Provveditori da Comun avviarono la soppressione del Sovvegno ormai disertato dai Veneziani di Castello, e consegnarono i pochi beni rimanenti alla Compagnia del Crocifisso degli Agonizzanti residente nella stessa chiesa di San Martino che spese 2.856 ducati per restaurare e ampliare la sede ad opera di Bortolo Aseo murer usata anche dal Capitolo e dalla Contrada di San Martino come ripostiglio di corpi interdetti (suicidi o di altre religioni) o di annegati.


Tutto questo riguarda San Martino di Castello a Venezia con la sua vivissima Contrada storica di cui ci sarebbero da dire non mille, ma chissà quante altre cose in più …


Di San Martino di Burano, invece, la chiesa dell’isoletta dove sono nato e vissuto per ben 19 anni … non ve ne parlo proprio. Mi servirà un libro intero per farlo ... Mentre mi piace ricordarvi quantole cronache Veneziane ricordano riguardo all’isola di Murano dove esisteva una chiesetta e Monastero intitolato a San Martino delle Monache Agostiniane a cui era accluso un Ospedale delle Vecchie di San Martindetto anche Ospedale di San Zuanne.


Si diceva che in quei luoghi fin da prima del 1054 la famiglia Nobile e Patrizia Marcelloavessecostruito un San Martino di Murano, e circa cento anni dopo Pietro Marcello figlio di Pietro Marcello da Torcello della stessa Famiglia, residente però a Venezia in Contrada di San Giovanni Crisostomo vicino a Rialto, abbia dato in eredità e proprietà perpetua chiesa con fabbriche adiacenti e terreni a Costantino Mucianicho Prete e Piovano della chiesetta di San Martino di Murano.


Solo nel 1501 il piccolo complesso col terreno venneceduto a Maria Merlini Monaca Agostiniana di Santa Caterina di Venezia chedopo averrestaurato la chiesetta vi costruì vicino un Monastero di Monache di San Girolamoscelte frale più Nobili e ricche di Venezia.

Nel 1517 il Parroco di San Martino di Murano eletto dalle Monache dell’omonimo Monastero litigò a lungo contro le vicine e potentissime Monache del Monastero di Santa Maria degli Angeli di Murano per diritti economici derivanti dalla Sepoltura dei morti … e quarant’anni dopo dovette intervenire perfino il Papa Giulio III incaricando il Sommo Penitenziere Vaticano Ranuccio Farnese per derimere certi liti e cause intentate dalle stesse Monache di San Martino per il diritto ad eleggere e rimuovere a piacimento il loro Vicario.


La chiesetta venne riedificata più volte, e nel luglio 1684 alla Visita Pastorale del Vescovo Jacopo Vianoli era ad unica navata orientata con una sola porta, tre altari, un fonte battesimale a destra, pavimento in marmo a quadri bianchi e rossi e diverse pitture appese alle pareti.


Fra 1709 e 1712 la Parrocchia Muranese era però definita: “miserabonda” e contava circa 300 abitanti di cui 15 Pescatori, 3 Fassineri, qualche Ortolano e Barcarol da traghetto, mentre le donne fabbricavano bottoni di filo bianco che vendevano in giro per Venezia. Sempre a San Martin di Murano: Carlo Toso, uno dei due Giustizieri dell’anno dell’isola, con suo fratello Lorenzo aveva in affitto uno squero ma subì il sequestro col bollo di San Marco in quanto moroso. Nel Monastero omonimo vivevano più di 32 monache che possedevano una rendita annua di 24 ducati provenienti da immobili siti in Venezia, e spendevano pochi ducati annui per “… Solenizàr la festa de San Martintra Preti, organista et altre spese.”


Nella stessa chiesetta si sposò in quegli anni con Lisa Morosini di Gerolamo e Giustina Morosini: Andrea Renier di Daniele che fu Senatore, Capitano di Brescia, Camerlengo, Provveditore di Comun, Provveditore alla Sanità, Provveditore sopra gli Atti e padre del futuro Doge Paolo. I testimoni delle nozze furono Benedetto Zorzi, Domenico Minelli e Marino Bragadin.


Chiesetta e Monastero rimasero aperti anche comeParrocchiale fino al 1810 quando la comunità delle Monache venne soppressa e incorporata insieme a quelle provenienti da San Giacomo alle Agostiniane di Santa Maria degli Angeli. Nel 1815 venne puntualmente distrutta dai Napoleonici per far spazio ailocali di una nuova fabbrica di canna per le conterie e margaritarie appartenente inizialmente alla ditta Dal Mistro, poiErrera, Minervi & C, e infine: Vetreria De Majo. Curiosamentela chiesetta col Monastero di San Martino di Murano era nella lista delle 36 Parrocchie più povere e deficitarie dell’intero Dipartimento Adriatico del Regno d’Italiacon un deficit di lire italiane 479,53 su un totale di lire 8.234,28 prodotto dall’insieme di tutte le parrocchie in grave difficoltà economica.


Tornando ad oggi …


“Chi fine ha fatto San Martino … Chi è stato a fregarci il vecchio San Martin ? Qualcuno l’ha più visto ? ” chiedo ancora dentro alla nebbia silenziosa ... Nessuno sa niente … Non c’è risposta …


“Dopo tutti questi discorsi, chissà se qualcuno da qualche parte invocherà ancora devotamente il nome di San Martin quest’oggi ? … o se sarà finito per davvero in soffitta come canta la vecchia canzone ?” mi ha detto ieri un vecchio amico.

“Non è accaduto per caso che insieme alle altre rivelazioni di Vatileaks sia emerso che la Chiesa si sia venduta insieme a tutto il resto anche cavallo e mantello di San Martino ?”

 “Ti dico io dov’ è andato a finire San Martino … E’ andato in pasticceria … è diventato dolce e friabile …” ha continuato sorridendo.


A parte le battute più o meno felici e condivisibili, mi sono avvicinato a una vetrina illuminata dove troneggiava un gigantesco San Martino di pastafrolla coperto di dolcetti. Un attimo dopo s’è spalancata la porta ed è esploso un fracasso infernale di pentole, coperchi e mestoli sbattuti  e cuciti insieme a una canzoncina intramontabile urlata a squarciagola da dei “folletti Veneziani” di turno.


“Eeeeh: … One ! Two! Three !

E San Martìn xe andà in soffitta … a trovàr la so novìsa …

La Novìsa non ghe jera … San Martìn col cùlo per terra …

E col nostro sacchettìn … Cari signori xe San Martìn !

Zòn ! Zòn ! … Ho cantà bèn Signora ? … Me dà qualcosa ?

O ritàcco a sonàr fin domàn de mattina?”


La bottegaia e pasticcera non ha perso un attimo, vista la minaccia e i clienti già in fuga frastornati, e ha sborsato volentieri “il pizzo di San Martin” giustificandosi: “Mi fanno tenerezza … Ricordano la mia infanzia … San Martìn non muore mai …”


“E’ vero ! … San Martino è proprio ancora qua. Non sarà forse il vecchio San Martino dell’antica leggenda sparsa per tutta Europa e oltre, ma di certo mostra ancora un suo richiamo, un suo aspetto gradevole … Sono cambiati di certo i tempi e i modi …”



Ma questo già lo sapevate … e allora basta per questa volta.


“LA STREGA DI SANTA CHIARA DI MURANO …”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 81.


“LA STREGA DI SANTA CHIARA DI MURANO …”


L’insieme delle isolette di Murano è quello più significativo e grande dopo il gruppo numeroso d’isole che formano Venezia. Si trova in Laguna poco distante da Venezia, a soli dieci minuti di voga in barca o cinque di più comodo vaporetto. Nei secoli trascorsi Murano era vivissima e piena di chiese e Monasteri di cui oggi rimangono solo poche tracce e qualche toponimo. 
L’elenco è consistente: Santo Stefano, San Salvatore, San Martino, San Bernardo, San Marco e Andrea, San Giacomo, San Maffio, San Mattia, San Giuseppe, San Cipriano, San Giovanni Battista dei Battuti, Santa Trinità, San Girolamo … insieme a San Pietro Martire, San Donato e Santa Maria degli Angeli: le uniche rimaste in piedi ancora oggi. Oltre a questo ben nutrito numero di edifici e complessi, esisteva anche sulla prima isola di destra che guardava in faccia Venezia: il Monastero e chiesa di San Nicolò della Torre per via del suo alto e possente campanile che lo caratterizzava.


All’inizio, circa nel 1300, sembra che l’edificio sia stato fondato da dei Monaci Eremiti Agostiniani che lo cedettero in seguito a delle Monache Benedettine guidate forse da una prima Madre Badessa Elisabetta Condulmer. Trascorso qualche tempo, nel 1439, le Monache Benedettine ne combinarono di tutti i colori come si costumava in molti Monasteri dell’epoca, tanto che fecero perdere la pazienza al Doge e soprattutto al Papa Eugenio IV che soppresse il Monastero e trasferì e sparpagliò tutte le Suore nei Monasteri di Venezia più Osservanti. Il luogo rimase chiuso e abbandonato per un anno.


Smaltita la rabbia, il Papa affidò il complesso a un gruppo di Monache Clarisse provenienti da Santa Chiara di Treviso dove il Senatore Stefano Trevisan aveva una sorella Monaca. Giunsero perciò in Laguna le Suore Trevigiane Francescane che si portarono dietro il nome della Santa Chiara, rinnovarono la chiesa facendola consacrare da Marino Grimani Patriarca di Aquileia, e fecero prosperare l’ente religioso riempiendolo con 70 nuove Monache.


Le Monache, a dire il vero essendo un bel po’ ruffiane, divennero simpatiche al Doge e alla Signoria che condonarono loro volentieri in più occasioni debiti e interessi dovuti per tasse pubbliche: “…in segno della pietà et benignità della Signoria nostra…”, eassegnarono sussidi di parecchie stara di grano. Perfino il Doge Nicolò Donà si fece seppellire nella chiesa delle Monache di Santa Chiara di Murano.

Le Monache del Santa Chiara rispondevano ai Provveditori ai Monasteri della Serenissima: “… continuamente giorno et notte preghiamo il Signore per la conservazione et la grandezza di questa Sancta et Benedetta Repubblica la qual sua Divina Maestà guardi et felicemente conservi …”


Alla “Redecima” del 1740 risultava che le Reverende Monache di Santa Chiara di Muran percepivano rendite annue da immobili posseduti in Venezia per 34 ducati ... e ricevevano ancora soldi anche in altra maniera, ad esempio tramite un contratto di Messa Mansioneria” stipulato col monastero con testamento di Zuan Antonio Multa Merciaio Stringhèr alla Gatta abitante in Contrada di San Giacomo dell’Orio morto di peste a 22 anni nel 1597 ! … ossia più di centocinquanta anni prima.


Non c’erano già più i bei tempi d’oro accaduti intorno al 1660 quando le entrate delle Monache assommavano a rendite da immobili in Venezia per 448 ducati annui ... Né le Monache ricevevano più lasciti testamentari come quello di Giovanni Busca o l’Ammiraglio Francesco Morosini che donarono ciascuno alle Monache di Santa Chiara 150 ducati d’oro fra 1629 e 1690  …come fecero anche per altri Monasteri Lagunari … in cambio di celebrare entro 3 mesi almeno 6.000 messe per la sua Anima ! … 

6.000 Messe in tre mesi ??? Però !


Nel 1749 un Marangon, falegname, che stava segando una trave che serviva a sostenere le campane del campanile della chiesa, precipitòall’improvviso con la testa all’ingiù cadendo nel cimitero delle Monache dove rimase per brevissimo tempo instupidito ... poi, rialzatosi in piedi risalì tranquillamente in cima al campanile per completare il lavoro che aveva incominciato.

Fu però dieci anni dopo, che accadde il peggio nel Monastero. Il Confessore abituale delle Monache, talePre’ Zulian Zuliani venne nominato Cappellano della chiesa della Contrada di San Severo in Venezia. Venne perciò sostituito dal Monaco Camaldolese Angelo Calogerà … e col suo arrivo fra le Monache scoppiò il finimondo … un putiferio.

Infatti, appena il Monaco entrò fra le mura del Monastero di Santa Chiara di Murano ritenne subito d’aver individuato fra le Suore la presenza di una strega. Si trattava di una Monaca-Conversa, una certa Suor Maria Giacomina. E come se non bastasse, il Monaco individuò anche una Monaca indemoniata-ossessa: si trattava di Suor Maria Luigia di 30 anni.

Il Monaco accompagnato da alcune Monache accondiscendenti privò la Monaca-strega dei Sacramenti,fececelebrare immediatamente da una parte delle Suore un Ottavario speciale di preghiere, e ne combinò di ogni sorta scagliandosi nei riguardi della povera donna. Solo poche Monache trovarono il coraggio di opporsi a quello scempio. Più tardi toccò alla Monaca-indemoniata, e il Monaco le si scagliò addosso convinto di combattere contro ben due Demoni che abitavano secondo lui dentro di lei.

Nacque un gran clamore, con liti, grida e proteste fra Monache, gente e Nobili di Murano e Venezia di cui le Monache era spesso figlie. Si creò un clima di tensione impossibile, tanto che lo stesso Vescovo di Torcello si sentì costretto a scrivere al Papa Clemente XIII chiedendo lumi, e scrisse anche al Consiglio dei Dieci della Serenissima perché intervenisse ristabilendo un po’ di ordine nell’isola. Nel Monastero di Santa Chiara c’erano ben venti Monache che facevano quel che volevano senza obbedire più a nessuno, e inscenando questioni e iniziative strampalate turbavano la quiete dell’isola intera di Murano.


Alla fine dell’anno si mise fine “all’insurrezione” delle Monache del Santa Chiara, e arrivò l’ordine di revocare il mandato al Monaco Camaldolese accusatore di Monache … ma si considerò genuina l’accusa di stregoneria che riguardava la Conversa Suor Maria Giacomina ... La Superiora Badessa della Monache: Alba Maria Galante, a riprova della bontà di quell’accusa, inviò un esposto all’Ufficio della Sanità della Serenissima precisando che nel Monastero si era fatto anche scomparire un intero barile di scopettoni... A niente valse la confessione di Suo Giacomina di aver messo in piedi tutta una burla e uno scherzo per farsi credere sul serio strega convincendo alcune Monache Coriste.


Venne dichiarata colpevole e condannata a 6 mesi chiusa in una cella a pregare, e le altre Monache vennero accusate di calunnia e obbligate a intensa vita di penitenza e preghiera. Venne fuori fra l’altro, che approfittando di tutta quella confusione, diverse Monache si erano fatte fare duplicati della porta del Convento e se ne andavano in giro per Venezia e la Laguna a piacimento. Gli Inquisitori di Stato costrinsero la Badessa a severa vigilanza sulla condotta delle sue Monache.


Nel primo decennio del 1800, Napoleone fece piazza pulita: prima mescolò le carte della Storia, e poi spazzò via tutto e tutti. Inizialmente concentrò nel Santa Chiara di Murano le Religiose Francescane figlie di Nobili residenti nel Convento del Santo Sepolcro in Riva degli Schiavoni a Venezia, vicino a San Marco. Alcune di loro non si trovarono affatto a loro agio in quel misero conventucolo lagunare dalle regole troppo rigide.


Scrissero perciò al Governo chiedendo d’essere trasferite nel più comodo e ricco Monastero Benedettino di San Lorenzo nel Sestiere di Castello: “… Il Santa Chiara di Murano … l’angolo di fabbricato dove siamo state confinate … è sommamente ristretto … l’isola è una plaga insalubre … inoltre sono maggiori le difficoltà per ricevere aiuti economici e approvvigionamenti da Venezia …”


Il nuovo Governo Francese di Venezia non rispose neanche: così si era deliberato e così si doveva fare. Alcune Monache rimasero al Santa Chiara di Murano sottomettendosi alla sua Badessa, altre sette Nobili Monache da Coro, invece, insieme a undici Monache-Converse serventi ottennero per salvare il salvabile di cambiare Ordine diventando Suore Domenicane, e traslocando così nel confortevole seppure angusto Convento del Corpus Domini di Venezia (in seguito abbattuto per far sorgere la Stazione Ferroviaria).


In un secondo momento, il Monastero di Santa Chiara di Murano con le sue 39 Monache Francescane Clarisse venne soppresso e demolito, il chiostro soffittato ed adattato a deposito, e la chiesa diventò magazzino e vetreria. All’atto della soppressione le Monache dichiararono attraverso la loro Badessa Maria Arcangela Piccardi di essere impossibilitate di deporre il loro abito da Monache come veniva loro richiesto dal Governo. Non per ragioni di principio e opposizione allo “smonacamento obbligato” e alla loro riduzione a semplici donne laiche, ma perché erano talmente povere e mancanti di mezzi per provvedersi di qualsiasi abito civile alternativo.


“Siamo in miseria totale … ridotte alla fame !” concluse la Badessa.


Le cronache di quei giorni raccontano che alcune donne ex Monache, confuse per aver perso il loro ruolo, fecero ritorno ai loro palazzi di famiglia o di qualche Pia Donna dove riuscirono in qualche maniera a portare avanti il loro stato di vita in segretezza e austerità assoluta, prive di qualsiasi tipo di clamore e dimostranza. Altre meno abbienti rientrarono faticosamente ai loro villaggi di provenienza e alle campagne della Terraferma Veneta. Alcune vennero accolte non senza difficoltà a casa di sorelle e parenti … Poco avezze alle ristrettezze e al lavorare, vagavano di chiesa in chiesa chiedendo elemosina e carità perfettamente a disagio dentro ad abiti che non erano i loro di sempre. Altre, invece, prive di qualsiasi sostegno finirono a dormire nelle stalle e sotto ai portici, o come accattoni della minore stirpe andavano a dormire nelle barche o sotto ai ponti.


Infine, alcune sfortunatissime prese dalle asprezze della fame e dalle angustie della malattia, finirono ospitate in squallide locande, da dove fu brevissimo il passo che le fece diventare femmine di ambigua e meschina identità lasciva. 

Era di certo trascorso e finito anche il tempo delle streghe … e non solo quello.


“SVAMP ! SVAMP ! … VENEZIA 1800.”

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“UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA … DI NATALE.” – n° 82.


“SVAMP ! SVAMP ! … VENEZIA 1800.”


Chiudi gli occhi ! … Immagina il posto diversamente da com’è adesso.

Quale posto ? L’intera zona di Piazzale Roma a Venezia … l’entrata automobilistica odierna della città Lagunare. Però immaginala dall’alto, più in grande, l’intera zona vista “a volo d’uccello”… come se tu fossi uno di quei droni moderni che volteggiano telecomandati in cielo osservando e filmando tutto dall’alto.


Fatto ? … Bravo.


Adesso, però, continuando ad osservare e immaginare, fai un salto enorme indietro nel tempo … diciamo un paio di centinaia d’anni pressappoco ... anno più o anno meno.

Ci siamo ! … è semplice no ? Il posto cambierà quasi del tutto.


Svamp ! Svamp ! … in un attimo scomparirà un po’ più avanti (perchè non esisteva ancora): l’ampia isola del Tronchetto con i suoi parcheggi monumentali, i capannoni, il mercato delle erbe e del pesce e tutte le palazzine moderne. Al loro posto si vedrà soltanto acqua, canneti e basse paludi barenose che cingevano come una collana la fine di Venezia.


Osserva ancora, e di nuovo: Svamp ! Svamp ! … E’ scomparso per intero anche il lungo Ponte Translagunare: niente treni, niente tram e autobus, niente automobili, moto e biciclette. Da e per Venezia si andava e arriva soltanto a piedi, camminando sulle acque se si era capaci, o soprattutto spingendo i remi in barca lungo le vie acquee che costeggiano l’isola di San Giorgio in Alga da una parte, oppure il canale che da San Giuliano della Palada dall’altra, passando accanto all’isoletta delle Monache di San Secondo, portava infine alla Contrada di San Giobbe e al Macello del Sestiere di Cannaregio.
Un tempo esistevano mille maniere e strade diverse per approcciarsi Venezia, tutte rigorosamente vigilate e attentamente controllate dagli uomini del Dazio e della Gabella della mitica Serenissima ... o perlomeno di quel che ne rimaneva un paio di secoli fa.

Si poteva giungere a Venezia, per esempio, scendendo dai boschi del Cadore con le zattere di tronchi lungo il fiume Piave. Dopo lunghe e aspre peripezie intercorse nelle zone ripide dei monti, e dopo aver seguito il fiume ampio e pigro nella pianura, si sbucava finalmente in Laguna non lontani da Venezia … Si affiancavano le isole di San Giacomo in Paludo, Murano e le isole gemelle di San Michele e San Cristoforo della Pace (l’attuale cimitero) per poi giungere ad attraccare in Barbaria delle Tole, Contrada della Celestia e sulle Fondamente Nove poco distanti dall’Arsenale, o viceversa sulle Zattere dalla parte opposta di Venezia di fronte alla Giudecca.


Torniamo però alla nostra zona iniziale: Svamp ! Svamp ! ... di nuovo. Via tutto !


In quell’epoca, due secoli fa, non c’erano neanche i pattini, figuriamoci i primi motori e gli aerei in arrivo o decollo dall’Aeroporto Marco Polo. Anche lì c’erano solo paludi e magri campi infestati dalla malaria, e in giro c’erano solo carretti, carrozze e cavalli per chi se lo poteva permettere … o i piedi, come dicevano prima, i muscoli delle braccia per vogare, o il passaggio a pagamento servendosi di barcaroli e delle “burchielle”.


Svamp ! Svamp ! … ancora una volta: niente Porto e zona della Marittima di Venezia … Niente banchine d’approdo e ormeggio, niente Grandi Navi, niente alte gru possenti, silos e magazzini di stoccaggio, depositi di carbone e merci, rotaie e vagoni. Il porto di Venezia si trovava da tutt’altra parte, sul Molo di San Marco, dove velieri, galee a remi, cocche e navigli a vela di ogni genere approdavano sulle rive, oppure risalivano lungo il Canal Grande fino al ricco Emporio Internazionale di Rialto.

Dove esiste il Porto di Venezia oggi: fra San Basilio, Santa Marta, Piazzale Roma e il Tronchetto c’era solo una lunga spiaggia e una bassa riva soggetta alla marea. Lì approdavano e venivano spiaggiate le barche dei pescatori che abitavano nelle miserrime Contrade di San Nicolò dei Mendicoli e dell’Anzolo Raffael. Non dobbiamo immaginare casupole, ma proprio bicocche, casette posticce, rovinose, un po’“da presepio”, proprio modeste, abitate soprattutto da gente poverissima ai limiti della sopravvivenza, e da famiglie numerosissime che vivevano di stenti e spesso d’espedienti.


Quindi: via tutto anche da quella parte!


Al posto delle ampie zone cementate e delle rive del Porto: solo un altro mare di fango, pozze putride, acquitrini e canali morti rifugio di uccelli palustri e animali selvatici ... quasi come la gente che abitava i posti. Quei posti erano come una specie di zona cuscinetto, infestata da zanzare e miasmi che fungeva da protezione intorno alla Venezia storica e gloriosa di sempre. Da quelle parti chi non era pratico finiva con l’impantanarsi e rimanere bloccato in mezzo al niente.

Svamp ! Svamp ! … Allora: niente Venezianagas con i suoi gasometri tondi e le sue torri tozze … niente Quartiere dei Ferrovieri a Santa Marta costruito solo al tempo del Fascismo … Niente Cotonificio e area attuale dell’Università … solo quelle poche catapecchie miserevoli, qualche osteria o lupanare improvvisato, e due Conventi isolati molto chiacchierati com’erano quelli delle Monache di Santa Marta e quello delle Terese di fronte alla splendida chiesa di San Nicolò dei Mendicoli: ultimo gioiello al confine estremo e periferico della magnifica Venezia.


Tornando ancora al nostro Piazzale Roma iniziale visto dall’alto: … Svamp ! Svamp ! … senza stancarsi d’immaginare.


Via il cemento e i bus in sosta ! … Via gli approdi dei motoscafi e taxi, la biglietteria ACTV … Via perfino l’improbabile quanto infelice Ponte di Calatrava o della Costituzione … Via le grandi e tozze costruzioni dei Garage Comunale e di San Marco … Via il nuovo Palazzo tetro del Tribunale ricavato dove sorgeva il vecchio Tabacchificio delle famose bellicose e industriose Tabacchine Veneziane … Via tutto ! … Anche il neonato tram !


E già che ci siamo, vista l’epoca a cui mi riferisco: Svamp ! Svamp ! … Via anche l’asfalto, la corrente elettrica, il telefono, le antenne e le paraboliche sui tetti e la televisione dentro alle case. Niente riscaldamento, né acqua corrente … l’acqua calda poi ? Ma come facevano in quei tempi ? … Era, forse, la forza dell’abitudine … non ti può mancare quello che non hai mai avuto.

Al posto di tutto quello che si può vedere oggi immaginate solo un’ampia area quasi spoglia, occupata quasi per intero da orti, broli, vigne e tante basse casupole e magazzini senza alcuna estetica. Nella zona che c’interessa non c’erano affatto i bei palazzi del Canal Grande, né le ordinate rughe di case delle altre Contrade cittadine, niente: calli, corti, sottoportici e campielli che di solito riempiono il resto della città lagunare.


Da quella parte terminava Venezia … sorgevano le ultime realtà commerciali, e soprattutto gli ultimi ricchi e potenti insediamenti religiosi di Frati e Monache della città. Infatti, sempre continuando ad osservare la zona “a volo d’uccello”disponendosi a guardare verso la Terraferma e oltre la Laguna, si potranno vedere a destra alla fine e chiusura del lussuoso Canal Grande: i due Monasteri di Santa Lucia della Monache Agostiniane da una parte e quello di Santa Croce delle Monache Francescane Damianiste dall’altra collegati da un animatissimo quanto efficientissimo Traghetto. Non esisteva il taglio del Rio Novo che porta oggi a San Pantalòn, Ca’Foscari e al Canal Grando sbucando a San Tomà.

Subito dopo, come a chiusura di quella scena mirabile aperta, quando il Canal Grande svolta a sinistra e s’infila dentro a quello che è oggi il Canale della Scomenzera … c’erano e ci sono ancora oggi i due Monasteri della Zirada: Santa Chiara delle Monache Francescane dette Urbaniste, e Sant’Andrea delle Monache Agostiniane … altri due siti pieni di storia, dicerie, arte, vita vissuta e tanti pettegolezzi.

Terminava così Venezia … con quello scenario per noi oggi surreale e difficilmente immaginabile.

Sostiamo qui, allora, fermi in aria sopra a quel che era, o meglio non era, l’attuale zona di Piazzale Roma, Garage vari, People Mover e Tronchetto. Continuiamo a tenere gli occhi chiusi e a immaginare ! … Tanto non costa nulla e può essere anche in qualche modo divertente.


Concentriamoci sulla zona più precisa e limitata, quella specifica di Sant’Andrea della Zirada, quella specie di corridoio dove corre sopraelevato il People Mover diretto al Porto e al Tronchetto … E’ l’area dell’Acquedotto per intenderci, quella intorno alla chiesetta chiusa e abbandonata col campanilotto dalla cuspide a forma di cipollotto ... quella dove di recente la Biennale hanno messo in mostra: “L’Arte racchiusa nei Frigoriferi”.


Due secoli fa, lì era tutto molto diverso da oggi. Innanzitutto esistevano molti più canali e rii che in seguito sono stati interrati. Se passeggiate accanto alla chiesa oggi, potrete vedere il marciapiedi diviso e segnato in due parti: uno era il canale di un tempo. Così se passate accanto all’ex Tabacchificio ora Tribunale, è platealmente visibile il canale che è stato imbonito … Ancora oggi non è pavimentato.

L’intera zona era quindi tutta trapuntata e frammentata da Rii e Rielli: Rio di Sant’Andrea e Rio delle Burchielle, e in mezzo e ovunque: terreni incolti, tante vigne, orti e piccoli giardini divisi e cinti da bassi muretti dove c’era anche qualche piccola attività artigiana: una cereria, ad esempio, e un saponificio … forse. Si conoscono anche i nomi dei proprietari di quel mosaico di piccoli appezzamenti giustapposti: i Nobili di Ca’ Barbaro, quelli di Ca’ Zucolo, di Ca’ Memmo, i Bontempi, Cortivo, Tinto, il mercante Marin dalla Nave, ovviamente le Monache di Sant’Andrea, e la ricchissima Scuola Grande di San Rocco che possedeva ovunque immobili e terreni di ogni genere sparsi per tutta Venezia.


Entrando ancor più nei dettagli della Storia, le cronache d’inizio milleottocento ci raccontano anche che quella zona era nel suo insieme poverissima per non dire squallida. Oltre le mura dei Conventi, vere e proprie oasi di benessere e di ricchezza in quanto ospitavano le figlie dei Nobili e dei più ricchi mercanti che non facevano loro mancare nessun agio; fuori da quelli e dalle loro ricche chiese bellissime simili a bomboniere dorate, capaci di farti rimanere a bocca aperta per la meraviglia; fuori in giro per l’intera Contrada … c’era solo miseria nerissima … “la morte in vacanza” di diceva per via delle condizioni davvero infime e drammatiche di chi viveva in quei posti.


Tuttavia, il posto era vivissimo, e da secoli vi accadeva un po’ di tutto.


Fin dal 1400 nel Barco del Coro sopraelevato della chiesa di Sant’Andrea c’era una statua lignea policrona di un “Cristo Morto” che le Monache vestivano e svestivano secondo le ricorrenze dell’anno, e veneravano portandolo a spalle solennemente in processione lungo le rive scabre e scoscese della Contrada semidimenticata e periferica di Venezia. Quelli che le accompagnavano fino a girare tutta la zona “dei Tre Ponti”, erano appunto da secoli, la stessa accozzaglia di gente popolana e poveraccia, che s’entusiasmava per le performance colorate e sontuose delle Monache di solito rinchiuse ufficialmente nel loro pingue Monastero ... roccaforte inespugnabile, mondo inarrivabile e precluso ai più.


Ai “Tre Ponti” abitava GiovanBattista Piantella di professione: “saoner”.Costui, essendo stato licenziato per furto dalla “Savoneria” di Antonio Biondini in cui lavorava, venne condannato a bando di 20 anni da tutta Venezia.

Un po’ arrabbiato per la sentenza … aspettò che il Biondini passasse per tornare a casa per vendicarsi. Lo spinse, allora, contro la porta di casa, e lo massacrò semplicemente a colpi di mazza. Poi, siccome gli sembrava di non aver fatto ancora abbastanza, indossò gli abiti dell'ucciso, e andò a suonare alla sua abitazione, dove entrò uccidendo l’innocente e ignara serva Lucietta, s'impadronì di tutte le cose preziose che trovò a disposizione, e se ne fuggì infine da Venezia facendo perdere le proprie tracce.  Impunito ?

Sapete bene, però, com’era e come funzionava la Serenissima … Dopo un certo tempo, il Piantella venne riconosciuto a Treviso, e giustiziato il 01 febbraio 1710 a Venezia in applicazione d’apposita sentenza che recitava testualmente:


“Sia posto sopra una piata e sopra il palo di berlina, e condotto a Santa Croce, dovendo nel viaggio esserli dato cinque botte di tanaglia infocata in Traghetto per Traghetto … Ivi giunto, per il Ministro di Giustizia, li sia tagliata la mano più valida, sicché si separi dal braccio, e con la medesima appesa al collo, sia trascinato a coda di cavallo al luoco del commesso delitto a Sant’Andrea, dove parimente li sia tagliata l'altra mano, et con la medesima parimente al collo, sia trascinato in Piazza tra le due colonne di San Marco, dovendo nel viaggio, per pubblico Comandador, essere pubblicata la sua colpa, et poi sopra un emminente solaro dal detto Ministro di Giustizia li sia tagliata la testa, sicché si separi dal busto e muora, e diviso il suo cadavere in quattro quarti, siano li medesimi appesi ai luochi soliti sino alla consumazione...”


Perfino Maddalena, la madre del Piantella, sua complice, fu condannata a prigione a vita, dove ammalatasi di febbre morì entro tre mesi. Si racconta curiosamente, inoltre, che il “buon cuore” dei Veneziani dell’epoca fece in modo di gettare per strada materassi e altre cose soffici quando il reo Piantella passò trascinato a coda di cavallo: “… perché gli fosse meno dura la fatale traversata.”


Ma non è tutto … dentro al quel Monastero di Sant’Andrea della Zirada accadde ben di più.


Dipendevano dal Monastero ed erano ospitate nello stesso fin dal 1347 pagando apposito affitto: la Scuola di Sant'Andrea dei Pescatori, e quella dei “Burceri da stiore, legna e rovinassi e dei Cavacanali o Cavafanghidella Beata Vergine Assunta”che stanziavano le loro “Burchielle” nell’omonimo Rio: “… portando in giro: paltàn, ruinazzi et sabiòn".

Il Maggior Consiglio temendo epidemie a causa delle acque fetide, chiedeva di continuo ai Signori di Notte di segnalare i canali bisognosi di drenaggio. Quelli allora facevano intervenire “l’Arte dei Burceri-Cavacanali” che “… dragava pro sanitate et bono terrae”.


Nel 1622 venne intimato al Gastaldo dei Burcieri-Cavanacali, che accompagnavano il Doge con le loro peate il giorno della Festa della Sensa, e faceva celebrare una Messa mensile a Sant’Andrea per la “Sanezza dell’Arte tutta”, di consegnare assolutamente ogni volta le chiavi della loro sede nelle mani della Badessa di Sant’Andrea de la Zirada. Questo perchè nella sala dove si tenevano le riunioni del Capitolo della Schola c’erano molte Arche (tombe)che dovevano essere assolutamente accudite dalle Monache.

Per più di cento anni i Burchieri litigarono finendo a processo con le Monache di Sant’Andrea per l’uso dei locali della Schola, e soprattutto per debiti d’affitto delle 7 case prospicenti il Rio delle Burchielle appartenenti alle stesse Monache. Famoso fu il contrasto con la Badessa Concordia Fieramonti da Brescia e i suoi fratelli che di mestiere facevano anch’essi i “Burchieri”. Fu un caso di aspra concorrenza estera nei riguardi dei Burchieri Veneziani, ma alla fine per la Badessa stessa sembrò più conveniente e prudente trasferirsi da Venezia andando al Monastero di Santa Maria delle Grazie di Mestre.


“Se la troviamo da sola per strada …” avevano minacciato i Burcieri-Cavacanali di Venezia.


Ancora al cadere della Repubblica Serenissima, l’“Arte dei Burchieri-Cavacanali”dipendeva direttamente dal Magistrato alle Acque, e per le tassazioni dal Collegio della Milizia da Mar ai quali giuravano: “onestà nelle transizioni. In realtà il lavoro era monopolio privato di alcune famiglie, che si servivano di manodopera rigorosamente Veneziana: “… per andar a molini per Fontego, et servir Merchatanti, et asportare dalla città: fanghi, macerie e immondizie d’ogni tipo trasportandole in luoghi appositamente destinati ...” Per far parte dei 300 addetti “Burchieri da Rovinassi e Cavafanghi” si doveva dimostrare la propria cittadinanza, ed aver servito nel ruolo per almeno 4 anni continuativi.


Oltre alla “Schola dell’Arte dei Burchieri e Cavacanali”, con 638 iscritti nel 1773, fra cui 600 Garzoni e Lavoranti, e 38 Capimastri, il Monastero di Sant’Andrea ospitava anche il Suffragio della Santa Croce e dal 1764 l’Arte dei Muschieri che erano dei Profumieri o Negozianti di oggetti da toeletta, cosmetici, polveri di Cipro (ossia la Cipria), e guanti profumati. Erano degli Speziali particolari detti anche Aromatari o Unguentari, e fabbricavano acque odorose, olii profumati e saponi. Pur non essendo tutti iscritti all’Arte apposita, a Venezia erano numerosissimi, e stampavano vari ricettari e manuali per la composizione di sostanze odorifere.


Per quella proposta commerciale a Venezia non mancavano di certo i clienti e soprattutto le clienti. Le principali erano le Nobildonne, seguite a ruota dalla folla numerosissima delle Cortigiane e delle Meretrici. Per tutte l’Arte dei Muschieri metteva a disposizione un ricchissimo e variegato catalogo comprendente:


“Varii liscii et belletti … Blacca … Solimado … Lume di Scaiola … Lume Zuccarino … Fior di Cristallo … Fior di Boraso raffinato … Molle di pane … Aceto lambicato … Acqua di Fava … Acqua di sterco di Bue … Acqua di Amandole di Persico … Sugo di Limoni … Rose … Vino … Lume di Rocca … Draganti per indurire la carne … Semenze di Codogni … Penuria nel lume di feccia … e Calcina viva per liscia e farsi i capelli biondi.”… e molto altro ancora.


Nel 1773, a Venezia si contavano ancora 18 Muschieri che lavoravano in 16 botteghe occupando anche 2 mezzadi.


Il simbolo dell'Arte associata sotto la protezione della Natività della Vergine”, era una “Croce di Malta con una pomata”. L’Arte dei Muschieri ha goduto poche volte nella storia della Serenissima di autonomia propria essendo spesso accomunata di volta in volta con l’Arte dei Marzeri o con l’Arte degli Stazionieri Venditori di Vetri.

Nella fornitissima Biblioteca dei Muschieri si poteva trovare e leggere cose incredibili:


“Secreti Medicinali” del Magistro Guasparino da Vinexia Medico in Cirologia ... la ristampa del “De Naturali Hystoria” di Caius Plinius Secundus … il “De Pirotecnica” di Biringucci Vannocchio ... la prima traduzione in volgare da parte di Pier Andrea Mattioli, Medico Botanico, dell’opera di Dioscoride: “Commentarii a Dioscoride” ... il famosissimo all’epoca: “Notandissimi Secreti de l’Arte Profumatoria con oltre 300 segreti utili per fare olii, acque, paste, balle, moscardini, uccelletti et paternostri.” del 1555 di Giovanventura Rosetti.

Del 1551-1555 l’Arte dei Muschieri consigliava anche di leggere e studiare: “Opera Nova piacevole per la quale insegna di far Composizioni Odorifere per far bella ciaschuna donna” di Eustachio Celebrino, e i “Secreti nuovamente posti in luce” scritti da Don Alessio Piemontese.

A quelli si doveva aggiungere: il “Tesoro della Vita Humana” di Leonardo Fioravanti Medico Bolognese stampato nel 1570, mentre il “Trattato con tavole di piante esotiche” di Cistoforo Acosta Africano Medico Chirurgo era del 1585.

Infine, a completare la propria cultura e preparazione, si poteva leggere anche l’ “Historya dei Semplici Aromati” del Medico spagnolo Don Gorcia dall’Horto e del medico Nicola Monardes contenente le piante medicinali provenienti dall’America, assieme al “Tesoro della Sanità” di Castor Durante.


Niente male come profilo e credenziali di serietà e qualità del mestiere, vero ?


Sempre secondo i consigli dei Muschieri di Venezia, i rimedi ampiamente descritti da Eustachio Celebrino nella sua opera del 1551, servivano rispettivamente ed efficacemente per:


“Cavar le macchie dal volto … Cazar le cotture dal sole … A cazar via le voladeghe … A guarir li gossi de ogni sorte … A saldar zenzive e a far bianchi li denti … A far il fiato odirifero … A far che li peli nasceranno … A cazar li peli che non vi nascano più … A guarir li calli dalli piedi … A far che li capelli non diventeranno canuti … A far acqua de bionda per capelli perfettissima e A far nascere la barba a un giovene avanti tempo …”


Mentre secondo i “Secreti Medicinali” del Magistro Guasparino da Vienexia habitante però in Verona in Castel de San Felice, si potevano eseguire ricette per produrre:


“Polvere di Zibetto … Polvere di Muschio … A far polvere di Cipro …Moscardini eletti per bocca …Tintura negra per li capelli et barba … Belletto e Ballottine per donne … Oglio odorifero … Ballotte da barbieri notabile e buon Profumo da uccelletti.”


oppure comporre manufatti adatti a:


“A strenzere le lacrime de gli occhi … A fare andare via le lentizine … A far fare colorita e bella … A far Pirole finissime contro il puzore de la bocha … Acqua per far lustro il viso … Per far lo volto colorito … Unguento da viso qual usava la regina d’Ungaria … e perfino ad restringendum vulva.”


E questo in riferimento ad alcuni degli “ospiti consuetudinari” del Monastero di Sant’Andrea.


Ma al di là dell’ospitalità, furono in molti in epoche diverse a Venezia, a testare a favore delle Monache del Sant’Andrea della Zirada. Furono persone le più disparate, a significare che le Monache, tutto compreso, godevano anche di buona fama nell’ambito cittadino e della Serenissima in genere.


Se sbirciamo frettolosamente i testamenti e i lasciti inerenti al Sant’Andrea della Zirada, innanzitutto si noterà un mucchio di Preti, Frati e Monache: Marco De Gusmerii Vescovo Argolicense e di Napoli di RomaniaGiovanniGiustinian Piovano di San Maurizio Antonio David Presbiter di Santa Maria ZobenigoPre Angelo Dei Rossi Angelo Presbiter da Macalo’ da Gravina Cappellano di Sant’Andrea della ZiradaPresbiter Eustachio detto Angelum da Rua … Cristina Barbarigo e Barbarella Zenta, Samaritana Contarini quondam Marino quondam Antonio, Maria, Caterina … tutte Monache in Sant’Andrea della Zirada Tommaso MoroFrate in San Pietro di MuranoEustachio Calderoni Presbiter da Gravina Confessore di Sant’Andrea della Zirada.


Oltre a questi, si riscontrerà una lunga serie di persone Nobili e di prestigio come ilDoge Antonio VenierAntonio Contarini Procuratore di San MarcoGirolamo Donà quondam Marco di Andrea ProcuratoreFrancesca della Fontanasorella delDoge Michiel StenoOrsato GiustinianMilite e Procuratore di San MarcoAgnesina Soranzo e Marino Corner quondam Cornelio della Contrada di Santa MarinaLorenzo Dolfindel Confinio di Santa GiustinaMarino Michieldel Confinio di San MarcuolaBartolomeo Verde quondam Marco Capitano alle Carceri di PadovaAndrea Dandolo Dottore … Lisa Redolfimoglie del Fisico Pantaleone Quaian.


Accanto a queste c’erano anche persone agiate, dedite ai commerci e attive sull’intero bacino del Mediterraneo e sullo scenario Europeo comeGiovanni di CostantinoMercante in Contrada di San Silvestro e Paolo di Gualtiero di Alemagna ... oppure semplici artigiani e affiliati alle Arti Cittadine e alle Scuole di Devozione come Simone Scortega battioroMichele quondam GiorgiocalafatoBartolomeo di Francescodetto Bertazi fante alla stimaria del vino Fiorina quondam BuonafruttivendoloAlvise Spindrappiere e Vincenzo di Lorenzo cimatoreo ancora tanta gente qualsiasi, nomi senza volto e privi di storie particolari comeMaria moglie di Federicobarcarolo in Contrada di San Basilio Antonia quondam Bartolomeosamitario moglie di Pietro pittoreMaddalena Degli Scrovegni del Confinio di Santa Margherita Agnese vedova di GiovannifilatoreMaria Barbarigo moglie di Paolo e Chiara Papasondel Confinio di San GeremiaBotto Caterinavedova di Mastro Giovanni delle Armi del Confinio di San Zulian…  Rizzo Dorotea, Costanza Emo Barozzi Luciabitanti in Sant’Andrea Antoniavedova di Leonardo peltriner … Franco Filippa vedova diGiosafat Rossoe Francesco Nani quondam Andrea del Confinio di Santa Croce … Chiara Doelaivedova di Antonio del Confinio di Santo Stefano di Murano Angelamoglie di Giovanni portator di pietre … assieme aGiovanniBusatoda Maerne.


Questo immenso patrimonio pervenuto alle Monache di Sant’Andrea le fece diventare molto litigiose e afferrate in affari economici. Nei vari Archivi di Venezia esistono più di duemila fra pergamene e atti che le riguardano. Già dal 1268 iniziarono a litigare con le famiglie Pozzer e Papacizza e contro il vicino Monastero di Santa Chiara di Venezia per il possesso di alcune case in zona Santa Croce.


Alcuni litigi con processi, indagini, sentenze e continui ricorsi durarono: secoli !


Alla fine le Monache del Sant’Andrea finirono col litigare un po’ con tutti: contro i Provveditori dell’Ufficio alle Acqueper la gestione del Rio di Capo d’Argere e i terreni acquistati dall’Ufficio presso il campo e la Sacca e la palude pubblica di Sant’Andrea … contro i Nobili Mocenigo per alcune case in Contrada di Sant’Agnese ... contro Zanetto Bianchi per un livello su una delle casette del Monastero … contro Nicolò Donà e Zanco Barcarolo per un’altra casetta sul solito Rio delle Burchielle.


Le Monache di Sant’Andrea piano piano misero insieme lungo i secoli una vera e propria “fortuna economica”, un tesoretto importantissimo. Alla proprietà delle prime casette del vicino Rio delle Burchielle ne aggiunsero molte altre sparse un po’ ovunque per le Contrade di Venezia: a San Paternian, Calle della Testa, San Pantalon, San Agnese e San Nicolò ... Alcune case vennero comprate fra 1316 e 1340 dai Nobili Nicola Zuccato e Garzoni … altre vennero acquisite nella vicina zona dell’Arzere accanto alla chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, o in luoghi poco lontani come: Anzolo Raffael, San Barnaba, San Trovaso, Santa Margherita e San Vio nel Sestiere di Dorsoduro; Sant’Aponal e San Rocco in quello di San Polo; Santa Marina, San Giovanni in Bragora, San Severo nel Sestiere di Castello lasciati per testamento nel 1426 da Agnese vedova di Giovanni Filatore del Confinio di Santi Apostoli; al Giglio o Santa Maria Zobenigo, San Luca, Sant’Angelo, Calle delle Ballotte, San Salvador e San Samuele nel Sestiere di San Marco; San Marcuola, San Giobbe, San Geremia, Santa Caterina, San Marcilian eredità Maddalena Stella, Birri di San Cancianonel Sestiere di Cannaregio assieme ai beni dei fratelli Ridolfi in Confinio di Santa Sofia ereditati dalla Monaca Anna de Ridolfi nel 1422.


Niente male come patrimonio Monastico in Venezia !  … e anche tutto questo soggette a cause, litigi e processi senza fine.


E non è ancora tutto, perché oltre ai possedimenti in Venezia, le Monache ricevettero da Bona vedova Odorico di Leonardo e tramite eredità da Grana Paruta e Suordamore vedova di Marino Contarini diversi beni patrimoniali siti in Comello di Fontana-Bojòn-Preganziol-Spinea-Villa della Madonna sotto Mestre, Argere di Cavalli sotto Padova pervenuti al monastero anche da Zane Catterizza nel 1615 … e altre terre e campi e fattorie a: Martellago, Peseggia, Carpenedo, Marcon, Villorba, Villa Nova, Zero, Scorzan, Formiga e Villa sotto Mirano, Zero, Chirignago, Scaltenigo sotto Mirano, San Nicolò di Bosco sotto Treviso lasciati al monastero da Agnese Tagliapietra nata De vecchi nel 1448, Rovato presso Brescia, Val Brembana contrada di Gromolto, San Zulian, Favaro e Altivole regolarmente e puntualmente perticati e affittati insieme a quelli pervenuti al Monastero con la donazione del 1520 da parte di Elena vedova di Valentino Marangoni, o acquistati con atto del 1596 e situati in: Maerne-Padernello- San Prosdocimo-Polesine località Bosco Vecchio, oppure a Villanova sotto Camposampiero lasciati per testamento da Paolo Contarini dal Confinio di San Fantin.


Che ve ne pare ?


Sempre dello stesso secolo sono alcune pergamene che raccontano d’affrancazioni e compravendite di schiavi da parte delle Monache di Sant’Andrea, e in un caso le Monache litigarono per 4 secoli (!) dal 1362 al 1722, contro la famiglia Ceccato, contro Lionello Folco da Villafuora di Ferrara e i suoi eredi, Giovanni Francesco da Villafuora, Lorenzo da Arquada per beni in località Saletta, Copparo, Ruina e Villa Fuori nel Ferrarese ereditati da Paolo Contarini.

Litigarono perfino per venticinque anni consecutivi contro la Podesteria di Mestre per dei terreni e dei molini che le Monache possedevano là.


Toste le Monachelle ! … il Monastero di Sant’Andrea era agguerritissimo contro tutti ! … e finiva spesso incredibilmente per vincere perseverando e non mollando mai. Le Monache compravano, dismettevano e vendevano beni immobili in continuità: Altivole, Bojòn, Carpenedo, Bergamasca, Spinea, Chioggia, Lancenigo, Murano, Dolo, Peseggia …


Erano sicure di se, potenti, non avevano paura di nessuno … neanche dei Nobili Veneziani, perché convocarono a processo i Widmann per una casa a Santa Croce, Lorenzo e Giovanni Cappello per beni a Massanzago, i Morosini per una casa a San Geremia, Bernardo Piazza per una casa a Santa Croce … e i Ranzaniciper altri beni a Santa Croce, gli Zamblerper fitto case nella stessa zona, i Marinper una casa in calle delle Rasse, i Bollaniper la restituzione della dote di Chiara Bollani, i Civran per mansionaria Marietta Da Molin, Fuolis e Grioni circa una casa a Santa Margherita, PieroZanardi e fratelli per una casa a Santa Caterina ...


Per non risparmiarsi, coinvolsero in controversie senza fine anche i Confratelli della Scuola del Santissimo di Santa Croce per un “livello passivo”a carico di Sant’Andrea … e Piero Squerariolper lo squero situato in Campazzo Sant’Andrea poco distante dal Monastero.


Non guardavano in faccia a nessuno, neanche ai Correligionari e agli Ecclesiastici preminenti di Venezia: litigarono col Monastero dei Benedetti di San Giorgio Maggiore per un’eredità Curti, istituirono un processo contro Prete Nicolò Farusso per una casa in Contrada di San Giobbe ... i Carmelitani Scalzi per credito di somma … e dal Piovano di San Barnaba pretesero e ottennero 1 miro d’olio come pagamento di un livello di cui era loro debitore.


Ce l’avevano proprio con tutti … Erano una “macchina da guerra”… Soldi erano soldi, anzi: soldi richiamavano altri soldi … allora come oggi.


Nel 1564-65 era Prè Vincenzo dalla TorreCappellano di Sant’Andrea della Zirada a rappresentare le Monache e tenere il “Libro dei Conti” di tutto quell’ingente patrimonio, curava le spese e stime di Pistoria, i campatici di acque, bandi e quietanze, spese di luganegher, polizze di spese per il campanile, contratti di vendita delle case, gestiva “Entrade et Uscide” e pagamenti e riscossioni di tasse e decime presso le Cazude e la Zecca di Stato … Insieme a lui, il Gastaldo del Monastero gestiva un’azienda di commercio di vestiario e merci … e Maria Diana Monaca Camerlenga del Monastero di Sant’Andrea provvedeva alla filza delle varie riscossioni tenendo un apposito “Libro delle Spese e Rendite”.


Le Monache del Sant’Andrea possedevano una vigna affittata accanto al Monastero, e un’altra al Bosco di Sacco… Erano proprietarie della vicina Cereria sita in Contrada di Santa Croce sulla Fondamenta che dai due ponti portava al Monastero … di una bottega da fruttivendolo in Campo San Barnaba affittata insieme alla casa accanto a Nicolò Giustinian  … acquistavano legname, e comprarono stabilmente dal 1697 al 1736 una delle “Libertà”, ossia una delle concessioni a numero chiuso per esercitare il mestiere di barcarolo-gondoliere del Traghetto di Santa Maria Zobenigo.


Differenziare gli investimenti era importante e redditizio … come erano importanti e redditizi i diversi Livelli depositati all’Offitio ai Pro di in Zecca, ai Monti, alla Camera degli Imprestidi e alle Procuratie, Offitio del Vin, Offitio del Sal, Offitio della Ternaria dell’Oglio, Offitio Intrade Casse Bastioni, Offitio Uscida, Bancogiro Pubblico, Offitio Governatori Intrade, Offitio Tre Savi sopra Offitii Cassa Decime, Cinque Savi alla Mercantia, Offitio Revisori e Regolatori Intrade Pubbliche in Zecca, Offitio d’Argenti in Zecca alla Masena, e un Livello dovuto dai Cavacanali e Burchieri.


L’Archivio del Monastero trabocca di documenti che attestano il finanziamento di molte Doti Spirituali depositate in contanti presso la Scuola Grande di San Rocco, Procure, Mansionarie di Messe e numerosissime Commissarie di esecuzione testamentaria.


Basta così ! … Mi fermo. Altrimenti rompo e annoio del tutto.


Il Sant’Andrea della Zirada era per tradizione il Monastero in cui si collocavano le figlie dei Nobili Balbi e Corner, una specie di Monastero di famiglia, protetto dal Casato che fungeva da benefattore e protettore, spesso gestore più o meno diretto delle sorti economiche. In qualche maniera questi Juspatronati Nobiliari determinavano anche lo stile, e spesso anche la storia dei “Monasteri di Famiglia” che proteggevano. A Venezia quella era un’usanza molto diffusa e frequente, perché visto che i Nobili doveva provvedere a rinchiudere e monacare le figlie, allora lo facevano in modo conveniente, così che quel reclusorio fosse il più possibile comodo e dorato.

Il Santa Caterina delle Monache Agostiniane, ad esempio, sulle estreme rive delle Fondamente Nove nel Sestiere di Cannaregio era Jupastronato della Famiglia nobile dei Contarini; quello di Ognissanti delle Benedettine nel Sestiere di Dorsoduro, era, invece, retaggio della famiglia Barbarigo; San Giovanni in Laterano sempre delle Benedettine era protetto dalla famiglia Cappello che abitava nel palazzo poco distante; e il San Lorenzo di Castello apparteneva di fatto all’antica famiglia dei Partecipazio. Il Monastero di San Zaccaria a poca distanza da Palazzo Ducale era il luogo dove andavano a risiedere e monacare le figlie del Doge e dei Senatori più prestigiosi e potenti come i Foscarini, Querini, Gradenigo e Morosini, quindi immaginatevi da chi poteva essere protetto e guidato quel luogo. La lista sarebbe lunghissima, praticamente ogni Monastero di Venezia e dell’intera Laguna aveva i suoi “Santi Protettori … i Santoli”, e, come si dice ancora oggi a Venezia: “Chi gha sàntoli … gha bussolài …” ossia chi ha protettori ha sempre regali, buone soprese e aiuti … non gli manca niente.


In conclusione, mi piace ricordarvi le vicende di una donna che si aggirava in quei tempi proprio fra le stradine, le calli, gli orti e le Fondamente di quella zona di Sant’Andrea della Zirada.


Si tratta della “Doda” ... un “nome d’arte” l’avete già capito.


Secondo gli atti delle denunce conservate dalla Polizia: si trattava di una meretrice, una prostituta girovaga senza fissa dimora. In realtà era solo una povera donna.

Snamp ! Svamp ! … era accaduto anche dentro alla testa della “Doda”in quei giorni, nei primi anni del 1800 a Venezia.

Nella città lagunare era accaduto tutto quello che sembrava impossibile e mai e poi mai sarebbe potuto capitare divenendo realtà dentro l’antico sistema Lagunare e Serenissimo. Era giunto quel Bonaparte che aveva cambiato tutto e fatto sparire, e incredibilmente “svampare”l’antica Repubblica Dogale. Come un incantatore, un cantastorie fantasioso, un miracoloso burattinaio della Storia, Napoleone con le sue armate scalcinate ma selvagge e potenti aveva tarpato tutti i fili della Nazione lasciandola come una marionetta inanimata e spogliata per terra.


Era accaduto tutto in fretta, ed era sembrato anche altrettanto facile: “Svamp ! … Svamp !”… Spenta la grande Venezia Serenissima per sempre ! … Era stato come spegnere con due dita inumidite il fragile “pavèro” di una candela ormai consumata. Tutto quel mondo che fino a ieri pareva intramontabile era scomparso. Sembrava che non fosse possibile far esistere una realtà diversa … invece … era successo.

Svamp ! Svamp ! … In un attimo: via Doge, temibile Consiglio dei Dieci, pomposi Senatori e Procuratori, Giudici al Criminal, Signori di Notte, Avogadori da Comun … Via tutti ! Sbattuti giù nella polvere !

Tutti i potenti e ricchi Nobili erano stati gettati a terra facendoli scendere malamente dai loro piedistalli di splendore e ricchezza. Via tutti … fuggiti, privati dei titoli, soldi, palazzi, ville, terre e di tutte quelle facoltà potentissime quasi da Dio.


Per certi aspetti … sembrava quasi un sogno. Un po’ dispiaceva alla “Doda”tutto quel cambiamento perché in fondo quello era stato fino a ieri anche il mondo che la conteneva in cui aveva sempre vissuto. S’era come pareggiata e livellata ogni cosa, svincolato tutto e tutti da una pesante catena secolare … Addirittura sembravano invertite tante parti: tutti uguali e liberi … Pareva che i piccoli fossero diventati grandi e viceversa. Il galeotto incatenato ai remi era diventato Capitano e Nocchiero della nave … Podestà, Vescovo e Patrizio Nobile s’erano trasformati in forestieri confusi e avviliti, ignari di dove sarebbero dovuti andare. Erano cadute figure orgogliose, impavidi comandanti, autorità dispotiche e arroganti di fronte alle quali chinare la testa timorosi.

Le sembrava quasi impossibile che fosse accaduto tutto quel rinnovamento … Tanto era caduto come foglie in autunno, era passata come una potente alta marea, un’alluvione che aveva svuotato tutte le case e anche travolto la gente lasciando alla fine solo una piatta distesa di fango liscio e compatto. Con quella furia devastante s’era gettato in strada e fuori dai loro Castelli, Chiese, Cappelle, Palazzi, Conventi e Monasteri anche la numerosa folla dei Preti, Frati e Monache.


Via tutti ! Svamp ! Svamp ! … Spariti tutti, soppressi e cancellati ! … Era stato stravolto il mondo intero.

La vecchia Venezia non c’era più.


Anche per la “Doda” era difficile capacitarsi e assimilare in fretta tutte quelle novità. Serviva tempo per abituarsi al fatto che: Abati, Badesse, Piovani, Priori, Monache e alti Prelati non contassero quasi più niente. Perfino il Patriarca e il Primicerio di San Marco erano stati deposti e sostituiti con personaggi più accondiscendenti e moderni, favorevoli ai Francesi e poi agli Austriaci Imperiali.

Eppure era accaduto proprio così: tutte le Monache, comprese quelle di Sant’Andrea e di Santa Chiara della Zirada erano state ridotte alla miseria, strappate dai loro ricchi Monasteri e Conventi e buttate mezze nude in strada. Erano diventate donne povere e ridotte a chiedere “la carità” come lei. Tutti i beni dei Nobili, della Serenissima e del Clero erano diventati patrimonio comune e condiviso, appartenente a tutti s’era detto.

In realtà non s’era visto un soldo in giro … S’era incamerato tutto il nuovo Governo. Era stata un’immane illusione che tutto fosse di tutti … Era cambiato solo il nome del grande proprietario, il Signore e padrone di tutto. S’era cambiate le bandiere e i vessilli, s’era innalzato in piazza l’Albero della Libertà, sui vecchi altari s’era messa a ballare una donna nuda … ma in fondo era solo apparenza, per i poveri e i diseredati non era cambiato niente.


Per certi versi tutto quello stravolgimento era stato anche un bene: molti erano stati costretti a rinunciare ai loro privilegi secolari, erano dovuti uscire da quella maniera piena di se e prepotente d’imporsi sugli altri per principio. Sembrava tramontato e cancellato, messo un potente freno a un intero sistema ricco anche d’ipocrisia, falsità, finte verità Celesti inventate per comodo, Santità fasulle create di sana pianta per favorire i propri interessi … Ma la grande miseria diffusa ovunque era rimasta sovrana come prima.


“Quella non è affatto cambiata !” rimuginò la “Doda” per strada.


Quel che era paradossale e incredibile in quei giorni, era che veniva a mancare anche la vecchia minestra fornita gratuitamente ogni giorno dalle Monache e dai Conventi. Buttando in strada le Monache, chiudendo Chiese, Ospizi e Ospedaletti, e spegnendo soprattutto le cucine dei Monasteri, s’era privato tutti quelli che vivevano nell’assoluta indigenza di un rifugio, un piatto caldo e un tetto dove rifugiarsi nei giorni peggiori.


“E’ stato giusto rinsecchire un poco i Nobili, ma non è stato affatto un bene per tutti ! … Ora nell’intera Venezia manca tutto a tutti e del tutto …” si commentava per strada e nelle antiche Contrade diventate fantasmi di se stesse.


“Ci sono rimaste come certezze solo le Stelle in testa … gelide, lontane, mute e misteriose … le foglie sugli alberi che spuntano e marciscono seguendo la loro religione naturale, e le acque salmastre, marine e amare di cui è imbevuta la Laguna e la nostra città bagnata. Di tutta l’antica Gloria non è rimasto più nulla … Solo fango polveroso che connota la nostra triste miseria …”


Svamp ! Svamp ! … Venezia s’era spopolata di Autorità e di Nobili possidenti autoritari, ma s’era riempita di caserme, milizia, e soldati prepotenti e dalle mani lunghe e svelte. Tanti militari … giovani forzuti e arrapati … Non sempre stretti dentro alle loro divise immacolate e aderenti … Spesso oltre le parate e le comparse ufficiali erano solo uomini straccioni, volgari, ubriaconi e a caccia di piaceri e di facili guadagni … o meglio: di saccheggio delle cose, e anche delle persone che incontravano.


Questo in fondo per la “Doda” era stato un bene, perché le si era presentata davanti una fonte pressoché inesauribile di guadagno. Lei era ormai una meretrice, una prostituta pubblica … Era stata perfino iscritta in un apposito registro tenuto dal nuovo Governo. La sua era una vita da sopravvissuta … ma almeno in quella maniera riusciva a mangiare e continuare ad esistere.

Il grande cambiamento doloroso e distruttivo imposto a Venezia Serenissima, era quello che era sempre accaduto dentro alla sua esistenza. Nella sua vita era sempre stato così: un continuo trovare per poi subito disfare, distruggere e perdere. Pareva che per lei la primavera e l’estate durassero sempre un giorno e che, invece, avrebbe dovuto sempre vivere dentro l’appassimento dell’autunno e al rigore crudo dell’inverno.


Svamp ! Svamp ! … dentro alla sua vita era sempre crollato tutto. Così che in quei giorni a Venezia, in realtà non era cambiato niente, s’era ripetuta la regola di sempre, la costante naturale di tutte le cose della vita della “Doda”.

Anzi … era andata ancora peggio perché s’era aggiunta anche quella difficoltà di reperire facilmente un po’ di pane e minestra.


Per “Doda” le chiese quasi sempre aperte di Santa Chiara e Sant’Andrea della Zirada erano state a lungo un ricovero ideale perfetto: un riparo durante le giornate più brutte, un posto dove andare a gustarsi almeno gli occhi nei momenti di tristezza … Bastava gironzolarci dentro a quei posti: erano zeppi, foderati di belle opere d’Arte, di scene mirabili dorate e colorate appesi ai muri e alle colonne. Erano scene piene di storie affascinanti e deliziose, piene di luce … Giusto il contrario di quanto accadeva nella sua vita … Era come ammirare un modello di vita alternativa, Paradisiaca, che s’era perso … ma poteva ancora ritornare, o forse capitare a ciascuno.

E poi c’erano la Monache dalla cui tavola sempre imbandita poteva cadere spesso qualcosa. In fondo le Monache erano donne, femmine … sebbene speciali, dorate e appartenenti a un mondo diverso. Quindi ogni tanto erano capaci di lasciar cadere le briciole … di spruzzare un po’ di Carità in giro per annacquare quel mare di miseria totale che avvolgeva tanti a Venezia.

Le briciole delle Monache per molti era il corrispettivo dell’Abbondanza … Un piatto caldo di minestra corrispondeva a una biblica Manna, se poi c’era anche un po’ di companatico era proprio festa.

Con le Monache bastava dimostrarsi disponibili e servizievoli, disposte un po’ a tutto … e allora ogni tanto accadeva qualcosa di “buono”. A volte era poco: le regalavano un mozzicone di candela per rompere il buio della notte, un ciocco di legno per lottare contro il gelo … Ma in altri momenti le avevano offerto anche di meglio: l’avevano presa a lavorare come serva dentro all’Ospedaletto dei Samiteri che sorgeva accanto al Monastero di Sant’Andrea.


Quello era stato di certo un periodo felice della sua vita a Venezia. Era stato “tempo di Cuccagna”perché nell’Ospizio non le mancava niente: oltre a un tetto sopra alla testa, riceveva ogni giorno pane, cibo, vino, letto e fuoco per riscaldarsi.

Aveva tutto ! Che cosa le poteva ancora mancare ? … il denaro forse ?  Quello non glielo davano … La pagavano solo con un soldo simbolico ogni tanto, ma era tutto il resto che era più che sufficiente per permetterle di vivere e continuare ad andare avanti. Avanti per dove ? … Forse non aveva importanza. Bastava “andare” in qualche maniera … non morirci sopra di stenti, fame e malattia come era già capitato a tanti.

La Morte Nera ogni tanto continuava a passare e mietere per Venezia con la sua falce invisibile ma implacabile. Quella che stava accadendo ora non era la solita Pestilenza … ma era sempre lei, la stessa, sebbene indossasse le sembianze della miseria.


La vita della “Doda” era stata sempre un continuo rinunciare e spogliarsi e sciogliersi di tutto come neve al sole. Ma in una maniera o nell’altra, come dopo la violenta bufera di un temporale, tornava sempre a splendere il solito sole tiepido e luminoso. Si ritrovava sempre sbrindellata e inzuppata fino alle midolla. Il suo corpo e la sua mente era di volta in volta più segnati e provati, ma riprendeva a vivere una nuova stagione e una nuova storia o avventura.

Era sempre accaduto così. Era stato così all’inizio quando da bambina aveva perso suo padre. Erano in quattro donne sorelle nella sua famiglia, e poi suo fratello, l’ultimogenito, e sua madre … Come avrebbero potuto affrontare l’esistenza senza la forza e la presenza di almeno un uomo valido ? Tutto era ricaduto sulle giovani spalle gracili del fratello che si era dannato l’esistenza lavorando sui magri campi di famiglia ogni giorno dall’alba fin dopo al tramonto. Lavorava senza fine e interruzione e a poco servivano le braccia fragili delle sorelle.


“Eravamo improduttive e considerate da nessuno …”


Ci aveva pensato poi la carestia, la siccità e la tempesta a far precipitare tutto: s’era perso l’intero raccolto, e allora erano piovuti i debiti sulla famiglia come la grandine dopo la pioggia, e suo fratello s’era abbruttito ed era diventato violento e sempre ubriaco. S’era presentato quell’aguzzino del padrone, che in cambio di un poco di clemenza e pazienza s’era preso e goduto tutte le sorelle compresa l’anziana madre … Non era stato più possibile vivere lì e in quella maniera, perciò erano fuggite tutte e s’erano disperse andando a Treviso o spingendosi fino alla Laguna e a Venezia.

Sua madre non avvezza a muoversi e a vivere di stenti s’era presto ammalata ed era morta. Erano rimaste da sole e senza l’aiuto di nessuno … S’erano perfino allontanate e perse fra loro. Non s’erano più riviste.


Giunta a Venezia, quindi, c’erano stati due uomini che avevano segnato la sua vita.

Il primo era stato l’“uomo, l’Amore” della sua esistenza: un giovane soldato che l’aveva presa in ogni senso e le aveva promesso una certa speranza di cambiare. L’aveva fatta sognare mille esistenze diverse, mille modi alternativi e migliori di vivere. Poi era scomparso nel nulla, partito improvvisamente ... Non era neanche riuscita a scoprire per dove, non l’aveva più rivisto per sempre. Forse aveva attraversato il mare, era andato alla guerra col suo esercito … Non aveva alcuna importanza saperlo ... tanto la realtà rimaneva la stessa.

Il secondo uomo della sua vita sembrò all’inizio capace di prometterle di meglio. Era un uomo maritato e con famiglia e figli, un mercante abbastanza agiato di Venezia. Per un colpo di fortuna era riuscita ad essere accolta come domestica nella sua casa. All’inizio era andato tutto bene, finchè col trascorrere del tempo s’erano destate le voglie prima del figlio grande della casata e poi del padrone stesso. Tutto era diventato più difficile e complicato. Alla fine la moglie aveva scoperto tutto e l’aveva gettata in strada buttandola via come un vecchio cappotto.

S’era ritrovata sola e gravida … ed era andata a sgravarsi e partorire una figliola gracile che aveva abbandonata sulla ruota degli Esposti di Treviso. La sua piccola bambina sembrava un frutto roseo, una pesca matura, ma non aveva scelta: o l’abbandonava lì o le avrebbe potuto dare solo la morte. Non ci aveva più pensato, o meglio, s’era sforzata sempre di non pensare più a quella sua piccola creatura … Anche se ogni volta che rivedeva quella mezza moneta che portava legata al collo, non poteva fare a meno di ripensarla viva da qualche parte … almeno nutrita, e chissà ? … forse anche un po’felice.


In seguito la “Doda” era tornata a Venezia perché non sapeva proprio dove andare. Dove c’è da mangiare per molti, aveva pensato, ce ne sarà anche per una in più. Ed era tornata a vivere faticosamente nella città lagunare prostituendosi, perchè non era riuscita a trovare nessuno che l’aiutasse a lavorare e vivere. E poi ormai la sua fama e nomea la seguiva ovunque si presentava o compariva. Non sapeva fare che quello, e non poteva essere se non quella.

Non le era rimasto che allargare le gambe e offrirsi al miglior offerente in un gesto che le veniva sempre più naturale e spontaneo. Era una faccenda squallida, questo l’aveva saputo da sempre, ma almeno le permetteva di sopravvivere. Non era comunque riuscita neanche in quella maniera a porsi un tetto stabile sopra la testa, né a dotarsi di una qualche stabilità economica … Era stata identificata come: “meretrice vagabonda e itinerante”… il che significava che non sapeva mai dove andare a nascondersi, e girava di lupanare in lupanare a giornata, anzi, nottata, trovandosi poi di nuovo buttata in strada. Le donne e gli uomini che gestivano i tantissimi lupanari di Venezia non volevano tenere sempre le stesse femmine, amavano cambiarle per offrire ai loro clienti sempre “merce nuova e fresca”… e poi non volevano affatto curarsi di donne malate perché si trattava d’ingenti spese, e non erano gradite ai clienti.


Alla “Doda” capitava spesso d’essere malata.


Non poteva permettersi il lusso continuo dei medicinali e degli ospedali. Ogni tanto ci finiva dentro per forza quando la catturavano e arrestavano per strada e l’obbligavano alla degenza … Altre volte si affidava a qualche mammana improvvisata, che si poteva reperire facilmente e ovunque nelle Contrade cittadine, o alla bontà caritatevole di qualche vecchia Monaca, che ricordandosi d’essere donna anch’essa, avesse avuto finalmente un po’ pietà di lei.

Così era sopravvissuta giorno dopo giorno, e s’era abituata a vivere convergendo e rimanendo soprattutto in quella Contrada terminale e periferica dove finiva Venezia. Viveva fra Sant’Andrea e Santa Chiara della Zirada, s’aggirava elemosinando un pasto dalle Monache e spartendo il niente con la gente della Contrada in attesa di qualche raro cliente. Di notte andava a dormire dentro a un casotto che sorgeva in fondo a un orto che apparteneva alla Nobile famiglia Memmo. Non li aveva neanche mai visti i Nobili Memmo. Forse possedevano talmente tante cose e terreni che neanche sapevano di possedere anche quello. Avevano affittato l’orto insieme a una adiacente casupola a un ortolano Ildebrando che fingeva ogni volta di non vederla e di sapere che andava a rifugiarsi lì dentro al casotto.

“Doda” sapeva bene perché quell’uomo faceva quel gesto di permettergli di rimanere nella bicocca. Nel breve periodo in cui le era riuscito di lavorare presso l’Ospedaletto dei Samitteri accanto al Monastero delle Monache di Sant’Andrea, lei aveva accudito a lungo anche sua moglie morente. Era perciò per una forma di riconoscenza che l’ortolano le permetteva di rifugiarsi lì durante la notte.

Al mattino, quando la “Doda”usciva, l’osservava spesso guardandola immobile mentre lasciava il catapecchio umido e sporco, nera e brulla come la terra del campo che aveva davanti. Non le diceva mai nulla, la salutava solo con un cenno muto del capo e basta, ma ogni tanto si dimostrava gentile nei suoi confronti facendole trovare un ciocco di legna nelle giornate più fredde, o cambiandole la paglia della capanna che copriva il pavimento in terra battuta. Era lì dentro che  “Doda”riceveva i suoi clienti, soprattutto i soldati acquartierati nelle vicine caserme appena allestite negli ex Conventi  dagli invasori Francesi.


“Il cielo è da neve questa sera ... L’aria è tagliente e secca … C’è un pulviscolo bianco leggero che volteggia e aleggia nell’aria … Gli anni scorsi in tempo di Natale nelle chiese aperte delle Monache e dei Preti erano esposti sull’altare i Bambinelli … Erano il simbolo che era tornato a rinascere e rivivere il Christo Santo, che sarebbe significato speranza per tutti … anche quella impossibile, perché ci avrebbe pensato Dio in qualche maniera inventandosi la sua Provvidenza per tutti.

Erano belli come il sole quei Bambinelli delle chiese esposti alla Devozione davanti agli occhi di tutti … Sembravano la mia piccola bambina che ho lasciato esposta a Treviso.

Quest’anno, invece, tutto è chiuso e spento … Le chiese delle Monache sono barricate e non ci sono più Bambinelli per nessuno … Non si può neanche entrare per rubare qualche moccolo di candela. Niente Bambinelli illuminati da mille candele e contornati da mille drappi di velluti preziosi e dorati … C’è solo ovunque questo freddo intenso e buio per tutti … e tanta fame insieme a una soverchiante miseria ancora più trista e intensa di prima.

A che è valso a rovesciare l’intero mondo ? Forse a nulla … “Si stava meglio, quando si stava peggio sotto la Serenissima”… si dice spesso per strada in questi giorni. Me ne sto stracciata, torva e unta a ricoverarmi e a scrivere rinchiusa dentro a questo mio loculo. Mi sembro quasi una bestia corsa a leccarsi le ferite e a rifugiarsi nel fondo più profondo della sua tana.

Stanotte per combattere questo gelo intenso mi sono coperta tutta di paglia. Ho lasciato fuori solo la bocca e gli occhi … e ho provato a proteggere queste mie carni martoriate anche dentro fino alle più profonde midolla. Sono malata,  il “Mal Francese Celtico” mi sta divorando fin nel mio più intimo interno ... il mio corpo è come “cotto”, ormai invaso da quel fetente morbo che mi hanno messo dentro i soldati. L’ha detto anche il medico dell’ospedale che ha curato le mie ulcere e quel pendagli fuoriuscenti … Ormai mi dovrò covare dentro per sempre questa malattia infame.

Di certo vi chiederete: “Ma come mai una meretrice pulciosa analfabeta e illetterata come me sta scrivendo ? Com’è possibile un fenomeno del genere … Non sarà mai forse lei a farlo ?  … Sarà forse qualcun altro che si diletta a raccontare e scrivere seduto comodo dentro al suo tiepido benessere ? … No. Sono proprio io a farlo, a scrivere. Me l’ha insegnato di nascosto la figlia di quell’uomo Nobile che mi ha usato e poi buttata via per strada come un cencio inutile. Vi garantisco che sono stata una scolara attenta quanto esemplare.

Il mio nuovo giovane amante di questi giorni mi dice che possiedo la dolcezza di un poeta … che il mio parlare è leggiadro, tenero e caldo come il sapore delle mie labbra … So di non essere ancora sfiorita del tutto … So di poter essere ancora bella, o perlomeno una donna piacente … Anche se temo sia spesso la famelica voglia e gli impulsi carnali e incontrollati degli uomini a far ritenere bello quel che non lo è affatto o non lo è quasi più.

Ancora oggi sono passata accanto alla lapide infissa sulla porta dell’orto delle Monache. Sembrava anacronistica, inutile, quasi irrisoria … Fino a ieri era sinonimo del prestigio e della rispettabilità del Monastero e del totale riguardo che meritavano quelle rinchiuse lì dentro. S’era scomodato perfino il Doge con i suo Illustrissimi a promuovere quel riguardo … Oggi è rimasta solo la lapide adesa al muro. Tutto dietro di lei è diventato vuoto, spento e abbandonato. Le Monache del Sant’Andrea sono state cacciate … e tutto quel rispetto riverente non c’è più e non vale più niente. Che strane sono a volte le vicende della vita ! Sono vere sorprese … anche per i potenti che si ritrovano col culo all’aria e col trono rovesciato ...”


Sopra alla porta dell’orto delle Monache del Sant’Andrea della Zirada la Serenissima aveva fatto porre una lapide di marmo visibile e leggibile ancora oggi:

“IL SER PRINCIPE FA SAPER ET PER DELIBERA DELL’ECCELENTISSIMO CONTRO LA BESTEMMIA. CHE NON SIA PERSONA ALCUNA SIA DI QUESTO STATO E GRADO COME DIR SI VOGLIA SENZA ALCUNA ECCEZIONE CHE ARDISCA DI GIOCAR A CARTE DA DI BALLA PANDOLO ET ALTRI GIOCHI IN QUESTO LOCO VICINO ALLA CHIESA DELLE MONACHE DI SANT’ANDREA E FANCO IL GIOCO DI BALON … E LONTANO DALLA CHIESA FERMARSI PER TUMULTUAR ET BIASTEMAR O PROFERI PAROLE OSCENE NE FAR ATTI SCANDALOSI, NE STERNDER LANE PER MEZZO ESSA CHIESA ET ALTRE ROBBE CHE IMPEDISCANO IL TRANSITO A QUELLA SOTTO PENA AI TRASGRESSORI DI BANDO, GALIA, FRUSTA, BERLINA, PREGION A DAL 3 DI SUE EC ONTA ALL’ACCUSATOR IL QUAL SARA’ TENUTO SECRETO DI LIRE 200 DI PICCOLI DEI BENI DI TRASGRESSORI CONVENTI ET CASTIGATI CHE SARANNO. PUB LI X 71640 OPBONAMIN CON PUB PUB NEL LOCO SORAD …”

ANTONIO CANAL
ALVISE MOCENIGO E CLB
PIERO SAGREDO PRO
TOMMASO EMO NODARO

“Una delle ultime Leggi della Serenissima impone di non chiedere più l’elemosina per la strada importunando i Nobili e i passanti, né di andare a bussare e suonare nelle case e nei palazzi per questuare. All’immane folla dei miseri disastrati e bisognosi che formavano quasi la metà della popolazione di Venezia, è stato concesso solo di potere domandare sussidi ed elemosine alla porta delle chiese e dei Monasteri. Ma adesso, che è stato chiuso tutto … Dove andremo a chiedere ? … e da chi ?

Sono tornata inutilmente a bussare all’Ospedale dei Poveri Sartori … Non mi hanno neanche aperto … Fino a pochi giorni fa facevo il giro per trovare una minestra … Santa Chiara, San Andrea, e il neonato Ospizio-Monastero del Nome di Gesù … Ora le Monache sono state spazzate via e ci sono solo caserme.

Gli uomini di notte … fra orti e sterpaglie … non mancano mai. Basta sceglierli come da un mazzo … a piacimento, anche se la concorrenza non manca. Una cenciosa come me non è molto appetibile, anche se la fame dei maschi è sempre insaziabile … soprattutto se mi offro a buon mercato … La gonorrea e l’ospedale sono sempre onnipresenti come fantasmi tenebrosi e incombenti, così come i birri che mi cercano e inseguono chiamati dagli stessi soldati del Santa Chiara mai sazi e a volte prepotenti e vendicativi … Febbre, mancanza di sussidi e denaro mi sono compagne … come la solitudine e la non remissione della malattia … Non è uno scherzo vivere così.

Chi leggerà questa mia uscita, queste mie parole ? Probabilmente nessuno … Questa non è neanche una vera e propria lettera, sono solo pallide memorie scritte al lume di una smoccolante candela sulle pagine bianche dell’unico libro che possiedo.

Scrivo per dire che mi riesce ancora di amare e sperare nonostante tutto … In questi ultimi giorni il bel giovane soldato che mi ammira tanto non s’accontenta di sussultarmi sopra sul mio pagliericcio misero. Mi ha detto che desidera inseguire una carriera dentro all’esercito, e che un giorno prossimo mi strapperà di qui, mi porterà con se e mi sposerà … Mi ha anche detto che mi presenterà presto a suo zio che lavora da impresario di un teatro a Padova …

Stanotte il Canale di Sant’Andrea e di Santa Chiara della Zirada si sono ghiacciati … Sono diventati una lunga lastra liscia e scintillante di ghiaccio dove si rispecchia un Cielo opaco di stelle ... Non c’è più minestra … e neanche moccoli di candela da rubare dentro alle chiese … Per il freddo pungente mi sono di nuovo coperta tutta di paglia … Ho lasciato liberi solo la bocca e gli occhi ... Sto tremando come una foglia anche se è acceso il camino … Ho una gran paura dentro che finisca ancora una volta tutto … Come sempre temo che accada il solito triste risveglio … Ho timore che questa vita e questo mondo finisca col schiacciarmi del tutto … Penso sempre che sia fatto solo di pensieri, sensazioni e fatti che si susseguono sciogliendosi uno dopo l’altro come neve al sole … Cambierà mai il mio destino ?

Vorrei solo che certi momenti continuassero a ripetersi con la stessa puntualità con cui tornano a brillare le Stelle in Cielo, o come il ritorno della nuova Primavera dopo tutto il marciume tristo delle foglie d’inverno … Allora non ci sarebbero soltanto fine e morte, e tutto questo dissipamento assoluto … Ci potrebbe essere ancora e forse un po’ di Speranza … Un po’ di tepore utile a sopravvivere …

Che potrà ancora dire una puttana inutile come me ? Nulla di certo … Comunque sogno possa esistere ancora per me un piccolo barlume di luce … Sognare non guasta, aiuta a continuare a vivere … finchè potrò ...”


Le cronache Giudiziarie di Venezia raccontano che ancora nel 1851 la“Doda” continuava a vivere, “lavorare” e risiedere nella zona di Sant’Andrea della Zirada nel Sestiere di Santa Croce, dove venne pizzicata nuovamente dalla Polizia insieme a sua giovane “discepola”zoppa scappata dall’Istituto degli Esposti di Belluno. Entrambe erano state segnalate e denunciate alla Sicurezza Pubblica per il loro “vivere disordinato da prostitute della zona”. Costrette a visita medica: la “Doda” venne trovata ammalata e quindi rinviata subito in ospedale per poi finire nella Casa di Correzione della Giudecca, mentre la giovane fu trovata ancora “pulita e sana da malattia venerea”, e quindi rispedita alla sua patria d’origine.


Dov’erano finite le speranze e i sogni di quel Natale raccolte e scritte in quell’insolita lettera di diversi anni prima ?

Ripensare ai tempi di quella donna mi ha procurato un certo effetto … La intravedo ancora oggi passare in trasparenza per gli stessi luoghi molto cambiati rispetto a un tempo. 

Oggi a Sant’Andrea della Zirada sembra tutto fermo, uguale, morto e abbandonato … Non sembra neanche Natale … Solo più in là ci sono i soliti festoni colorati e le luminarie pendule accese che si rincorrono scintillanti a ricordarmelo. Negli angoli del piazzale del tram e degli autobus ci sono scintillii, luccichii coinvolgenti che infondono un senso di tepore festaiolo … Anche i giubboni dei portabagagli notturni risaltano nel buio.

Stamattina passavano due portabagagli del turno di notte tutti arruffati, stretti dentro ai loro giubboni gialli catarinfrangenti. Si sono infilati, bavero alzato e mani in tasca, dentro al primo bar aperto del mattino, col la vetrina illuminata che guarda verso il Piazzale degli autobus. Li ho visti gesticolare e animarsi in lontananza mentre sorseggiavano la loro bevanda calda. La vetrina del localetto era traslucida e mezza appannata, s’intravvedeva appena sotto al bordo rialzato del piazzale dove rumoreggiava una folla sgangherata di bus in sosta. Ogni tanto ne è partito uno semivuoto con pochi lavoranti come me che vanno a inseguire il lavoro oltre la Laguna e nella Terraferma, oppure ne è arrivato un altro stracarico di pendolari assonnati che si sono subito sparsi e spersi in giro per Venezia.


“Sotto ai miei piedi un tempo qui c’era l’orto dove abitava “la Doda” ... e oggi è quasi Natale … come quella volta ... Tutto continua ad accadere e ruotare … come quella volta … S’incrociano i destini, si suicida il mondo furibondo inseguendo ideali o fatui colpi di testa … Che resterà di tutto questo domani ? ”



Svamp ! Svamp ! … Qualcuno lo vedrà di certo dopo di me.


“E’ CADUTO UN CAMPANILE … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 83.


 

“E’ CADUTO UN CAMPANILE … A VENEZIA.”

“Dove ? … Dove ? … Ci sono stati morti ?”

“In Contrada di Santa Ternita …”

“Dove ? …”

“A Santa Ternita … in fondo al Sestiere di Castello … vicino ai Frati della Vigna … dalle parti della Contrada di San Martin …”

“Ah … mi pare d’aver capito pressappoco qual è la zona …”

“E’ tutto un accorrere frettoloso … E’ pieno di curiosi e di gente in ansia …”

“Corro anch’io a vedere …”


Era il 13 dicembre 1880 … e per davvero è caduto il campanile di quel che restava della vecchia chiesa di Santa Ternita. Si doveva chiamare Santa Trinità … ma sapete come sono i Veneziani … Trinità … Triade …Terno …Ternità …Ternita … fa lo stesso … Basta capirsi … e il nome rimase quello: Santa Ternìta. Si trattava del campanile rifatto, un tempo a cuspide conica, che sorgeva all’angolo dell’omonimo Campo, accanto alla Calle del Campanièl. Le campane se l’erano vendute e fuse già da un bel pezzo, ancora al tempo dei Napoleonici … e tolta la chiesa, il campanile venne usato come casa per poveri e sfrattati.  A dire il vero era una casa un po’ insolita e adattata … ma era solo una delle tante della Venezia sventrata e depredata di quell’epoca. Non faceva più caso nessuno alla biancheria stesa ad asciugare fuori dalla cella campanaria dove un tempo si mettevano a sventolare il Gonfalone di San Marco e i Vessilli della Chiesa … Poi una pietra tolta qua, un marmo asportato di là … sposta una trave su, e taglia quella parete giù … finchè venne giù tutto.


“Si sapeva ! … Era da vedere ! … Era solo questione di tempo !” commentavano i Veneziani dell’epoca.


Quel giorno del crollo del campanile accorse tutta la gente della Contrada, e accorsero in massa a spostare le macerie anche le Maestranze del vicino Arsenale … Fu forse per questo che dopo tanto impegno e faticariuscirono a trarre fuori ancora vivo e incolume il macchinista Giovanni Baratelli che abitava dentro alla vecchia torre.


Il campanile era una delle ultime cose rimaste di quella vecchia Contrada dopo che anche la chiesa era stata ridotta prima a deposito di legname, e poi, via via, demolita ed asportata pezzo per pezzo, pietra dopo pietra fino a lasciare un unico basso muretto inservibile per chiunque.

Forse anche per questo era morto il vecchio Piovano … Era morto di crepacuore per non aver sopportato d’essere prima buttato in strada, e poi di vedere appianata per intero la sua stessa chiesa.

 
I Francesi diventati padroni di Venezia non avevano avuto alcun dubbio: quella Contrada poverissima era davvero insignificante, senza volto, stretta in mezzo ai Monasteri illustri, ricchi e chiacchierati dei Frati Francescani Minori di San Francesco della Vigna, delle Monache Cistercensi della Celestia ossia Santa Maria Celeste, e delle Monache Agostiniane di Santa Giustina.

Non valeva niente ! …  Troppa roba concentrata in così poco spazio ! Perché conservare ancora intatta quella chiesetta miseriosa ?


Nel 1810, al tempo del Piovano Giovanni Agostini, i Napoleonici decisero: “Via tutto e tutti … Chiudete al culto, sopprimete … e radete al suolo quella chiesupola di periferia !  … Magari prima usatela come deposito di legname o come stalla …”


Così, infatti, accadde … e l’edificio venne demolito del tutto nel 1832, dispersi gli altari e le pregevoli pitture esistenti, le preziose Reliquie di Sant’Anastasio e di San Gerardo Sagredo trasportate nella vicina chiesa di San Francesco de la Vigna ... e il prezioso Crocifisso di marmo scolpito da Francesco Cavrioli trasferito presso i Frati Domenicani di San Zanipolo poco prima che qualche mano sacrilega lo fracassasse … Nella frenesia della grande mobilizzazione epocale, si fece appena a tempo a prendere da sopra il Banco della Schola in chiesa la statua di legno del 1550 della Beata Vergine del Rosario col Bambino chiamata da tutti la “Madonna dei Chierici”… con tutto il suo corredo di 18 abiti da sposa dorati, d’argento e di seta, e portarla e consegnarla in fretta ai devoti associati della Schola della Beata Vergine del Rosario che se la presero e nascosero in casa propria.


Un attimo dopo, Santa Ternita venne chiusa e cancellata … Non esistette più per sempre.


Perfino la casa canonica “… rilevata tramite perizia del valore di lire 2.960 e perciò non molto difficile da poter vendere … confluì al Demanio insieme alle rendite prediali del Parroco appena defunto che possedeva annue 25 lire in beni e fondi, 78 lire in Livelli, 300 lire di redditi di stola ed altro per 66 lire.”

Nel 1840 della chiesetta di Santa Ternita era rimasto solo un basso muro di cinta e le fondamenta massicce … sopra le quali in seguito si pensò bene di costruire l'attuale caseggiato ben visibile (è quello al centro della fotografia qui sopra), dove s’apprezzano ancora perfettamente i gradini d’accesso alle porte della chiesa che non esiste più.


E delle 2800 persone che abitavano la Contrada ?


Ah ! Una delusione e un disorientamento generale: prima vennero aggregati alla vicina Contrada di Santa Giustina … Poi: cambio di programma ! … Tornarono ad essere considerati di nuovo Contrada a se stante … Poi: basta di nuovo ! … e  vennero fatti confluire insieme anche stessa Contrada di Santa Giustina nella neonata Parrocchia di San Francesco della Vigna. Anche la Contrada di Santa Ternita venne abolita e cancellata.


Rimasero “non toccati”dai Francesi solo i vari Ospizi e Ospedaletti carichi di pezzenti e gente malandata che non si sapeva più dove sistemare.


In un angolo della piccola Contrada sorgeva l’Ospedaletto Da Molin: un insieme di 24 caxette affacciate sul Rio degli Scudi lasciate secondo testamento per accogliere persone povere e bisognose, e dato in “Commissaria testamentaria” ad alcuni membri della famiglia Patrizia Contarini. Costoro assegnarono invece le case in affitto, con la scusa di ricavarne le spese utili “per mantenere gli immobili in conzo e in colmo".


In un altro angolo, invece, fra la Calle de l'Ogio e Calle Malatina esiste ancora oggi l’Ospizio di Santa Ternita dei Morosinicostituito da altre caxette raccolte intorno alla Corte Morosini. Queste vennero lasciate per testamento nel 1508, dal Nobilomo Marco Morosini, Cavalier e Procuratore de San Marco, e venivano amministrate direttamente dai Procuratori de San Marco de Supra che leassegnavano "gratis et amori dei" innanzitutto a “poveri marineri” e poi a persone bisognose. Lo stesso Nicolò Morosini fece costruire nel 1498 altre 36 casette nella stessa Contrada dove andarono ad abitare senza pagare affitto decine di famiglie di Nobili decaduti.


In Corte Da Ponte c’era ancora l’Ospizio fondato dal NobilHomo Zanne Da Ponte che lasciò altre 10 casette a beneficio di poveri provvedendo anche per un’elemosina annua a loro favore, prestazioni mediche e pagamento delle medicine.


C’era, infine, anche “l’Hospital del Misero Ser Nantichlier da Ca’ Cristian” di cui si parlava già nel 1312, costituito come Ospizio per 20 povere donne inferme presente in Calle del Moriòn sopra un fondo comperato da Filippo Querini. Era diretto dalla Procuratia de Citra a cui era stato lasciato … Si chiamava anche “Hospitale delle Boccole” perché si era lì concentrato un Ospizio più antico fondato dalla famiglia Dalle Boccole abitante nella stessa Contrada di Santa Ternita.

I Nobili economicamente emergenti Dalle Boccole con proprietà a Venezia e in Terraferma fino a Treviso e Ferrara, insieme ai Celsi e ai Sagredo ottennero dalla Quarantia nel 1348 la responsabilità-privilegio-onere di inscenare la festa e le celebrazioni delle Marie in Contrada di Santa Ternita di cui erano le tre famiglie più in vista e i secondi più ricchi dopo Nicolò Stevian … In seguito, Nicolò e Zanino Delle Boccole, “poco lavoratori e parecchio trasgressori”, aiutarono nel 1351 un fratello bastardo ad attaccare le Guardie dei Signori di Notte … Sei anni dopo, un Francesco Delle Boccole venne processato e punito severamente per aver violentato una ragazzina con l’aiuto della madre di lei … Il Nobile Francesco Delle Boccole, divenuto “Bonum Hominem”, assieme ad altri 13 Nobili, contribuì’ nel 1379 offrendo 10.000 delle 91.000 lire totali offerte alla Serenissima dalla Contrada di Santa Ternita per la guerra contro i Genovesi che presero Chioggia al tempo del doge Andrea Contarini.

Nel 1388, infine, il Patrizio Giovanni dalle Boccole si trovò attaccate sulla porta di casa due teste di caprone insieme a una scritta obbrobriosa dedicata alla moglie, alla sorella e alla suocera. Autore del fatto era stato il mal corrisposto Luigi figlio del Doge Antonio Venier, che era amante della moglie del Dalle Boccole, assieme a un suo amico Marco Loredan. Il figlio del Doge venne condannato con l’amico alla pena esemplare di 2 mesi di carcere, 100 ducati di multa, e alla interdizione per 2 anni dall’entrare in Campo Santa Ternita.

La famiglia Dalle Boccole si estinse nel 1403.



Già che ci siamo … parliamo allora della situazione curiosissima degli altri Nobili presenti e residenti in Contrada di Santa Ternita. Più che veri e propri Patrizi Veneziani, erano quel poco che rimaneva di quella categoria illustre.

Negli ultimi secoli della Serenissima vivevano ancora in palazzi più o meno grandi edificati nel lontano 1400-1600, ma che assomigliavano ben poco ai sontuosi palazzi presenti sul Canal Grande … Si trattava di palazzetti in cui il blasone era più una nostalgia e un’appartenenza che un titolo vero e proprio corrispondente a reale valenza politica, e soprattutto economica.


A Santa Ternita abitavano diversi rami cadeti e secondari delle grandi Casate Nobiliari di Venezia.


“La Contrada di Santa Ternita era una specie di Ghetto per Nobili malandati …”


Accanto agli ancora prestigiosi e altisonanti Contarini “De la Porta de fero”,Malipiero, Sagredo e Morosini “De la Sbarra”, c’erano i Celsie i Donàresidenti in Palazzo del 1600 come i Manolesso che ne abitavano uno del 1400. C’erano inoltre i Magno, i Barozzi di Santa Giustina, alcuni dei Foscarinie i Baffo trasferitisi poi in Contrada di San Martin in una casa più modesta e più confacente alle loro flebili finanze ... Quasi tutti questi erano Nobili considerati di Classe o V Categoria.

In un altro palazzotto del 1600 c’erano ancora gli Orio di Santa Ternita, anche loro di Classe V, ma considerati fra le 10 casate più povere di tutta Venezia ... mentre Rigo di Domenico dei Condulmer di Santa Ternita era un Nobile nullatenente che trascorse 53 anni della sua carriera in 19 diversi Reggimenti della Serenissima fuori città per provare così ad evitare l’assoluta miseria.

Ancora nel 1719, i Dandolo di Santa Ternita erano inclusi fra le prestigiosissime “Case Vecchie”, ossia le Casate nobiliari più antiche e rispettabili di Venezia, ma dal 1646 non si era più sposato neanche un uomo del Casato, e si estinsero nello stesso anno.


Tornando all’epoca del crollo del campanile … non è che l’intera zona di Santa Ternita brillasse tanto di luce propria in quella parte remota di Venezia …


Nel 1851: Maria Costantini di 34 anni detta Tibalda, impiraresse, separata da due anni dal marito, madre di due figli, abitante a Castello in Corte Saracina teneva “stazio-bottega”all’aperto in Campo Santa Ternita dove esercitava anche il suo “lavoro”. La comare Santa Malo la querelò due volte accusandola di aver tresca amorosa con suo marito Marco, di averli sopresi più volte insieme in osteria e a casa di lei, e di averlo contagiato di sifilide da cui era affetta … Infatti, la Tibalda venne ricoverata in ospedale ... e si scoprì che aveva anche precedenti per rissa e furto, che portava al collo un fazzoletto reazionario, e si aggiunse anche che ingiuriò la guardia che la scortò dal carcere di San Severo fino all’ospedale. Si propose l’iscriverla al “Ruolo di pubblica meretrice”.



Oltre alla Tibalda, nella stessa Contrada dove c’erano fin dal 1582 anche le case di Bernardo Malatin uomo di Lettere e Mercatura … e quelle del Nobilhomo Antonio Erizzo detto “delle Belle Donne” per via di quelle che frequentava di continuo sedute a lavorare fuori della porta delle loro case … c’erano anche le case di Calle e Corte delle Muneghe che erano proprietà delle Monache del Corpus Domini di Cannaregio… e quelle in Calle del Mandolin appartenute a Giovanni quondam Giovanni Mandolin morto a soli 33 anni … Negli stessi luoghi, nel 1869 esisteva una delle Fabbriche Unite per produrre canna di vetro e smalti con 4 tubi di rotondamento che dava lavoro a una quindicina d’operai ... e ogni 13 giugno una Processione partiva dal Campo dove sorgeva la chiesa di Santa Ternita e si recava fino a un Capitello devozionale dedicato a Sant’Antonio da Padova collocato nel Campiello o Corte della Borsa ... Le case in Corte, Ramo, Corte e Calle della Borsa appartenevano alla famiglia Borsagiunta a Venezia da Cremona con Dusino Borsa fustagnèr che ottenne il privilegio di cittadinanza Veneziana nel 1349. Era Confratello come figura scritto nella Mariegola della Scuola Grande della Carità …  come lo fu anche Chabrin Borsa da Santa Ternita … e Andrea Borsa figlio di Chabrin che contribuì con prestiti alla Repubblica nel 1379, all’epoca della Guerra di Chioggia contro i Genovesi.


E questo non è ancora tutto, perché andando indietro a ritroso nel tempo, si può scoprire che Santa Ternita era una Contrada piccola, con sole 558 persone abili al lavoro fra 14 e 60 anni, esclusi i Nobili che erano il 23% dell’intera popolazione lì residente, ma vivissima con 46 botteghe, un forno da pane e una Pistoria, dove pescatori, Arsenalotti, facchini ossia Bastazi, e Marinai e tanta altra brava gente vivevano intensamente stretti intorno alla loro chiesetta.

La chiesa, come in tutte le altre Contrade di Venezia fungeva un po’ da centro di riferimento della vita sociale, e fungeva un po’ da parafulmini dell’intera esistenza che per molti spesso accadeva tutta lì. Più di qualcuno non solo non usciva per tutta la vita da Venezia, neanche recandosi alle isole più vicine, ma neanche s’azzardava a raggiungere le altre Contrade dall’altra parte della città se non raramente o se proprio doveva.


Quando il Patriarca Flangini andò a visitare per l’ultima volta Santa Ternita, nel giugno del 1803, poco prima della sua soppressione e distruzione, trovò 3.000 abitanti e più: “… tutta gente miserabile, per la maggior parte indigente assistite però da 1 levatrice.”


In chiesa non esisteva più la “Cassa-Fabbrica”, ma solo una generica “Cassa-Provvedimenti” con alcune contribuzioni dovute a scarse rendite, e alcuni Livelli utili per le necessità pratiche della chiesa. Il Piovano don Giovanni Antonio Agostini possedeva la casa-canonica e aveva entrate per 204,12 lire, mentre il Capitolo dei Preti si spartiva 248 lire provenienti da Livelli e da affitti di case sparse in giro per la Contrada, che percepivano insieme ad altri 9 Preti in cambio di celebrazioni di Messe e Anniversari. Si spendevano sono 260,4 lire di cui 186 per stipendiare il Curato ospitato dal Parroco ... ed esisteva inoltre un’Associazione della durata di 25 mesi non meglio definita, istituita dallo stesso Parroco, per la quale riscuoteva altre 4 lire al mese a titolo personale.


Apparentemente sembrava che in quella chiesa di Venezia tutto procedesse per il meglio: a conti fatti si celebravano in Santa Ternita ben 24 Mansionarie per un totale di 2.000 Messe … oltre ad altre 2.039 Messe perpetue, 41 anniversari e qualche altra Messa Avventizia.

Santa Ternita a guardarla come chiesa era un bijoux: oltre all'Altar Maggiore c’erano altri sei altari, tre per ciascun lato della navata. Uno di essi era particolarmente ricco di marmi, e gli archi della chiesa erano stati dipinti dal Bambini ... Santa Ternita era  un’altra bomboniera Veneziana satura d’opere d’arte prestigiose con tele di Giovambattista Tiepolo, Vittore Carpaccio, Francesco Maggiotto, Pietro Malombra… e Zibellini in Sacrestia, 4 comparti di Giovanni Bellini all’Altar della Madonna … diversi teleri di Cima da Conegliano, Girolamo da Santacroce, Jacopo Palma… e un Gonfalone con “San Francesco” dipinto da Girolamo Pilotto… Però il Patriarca sapeva che qualcosa non andava in quella Congrega-Capitolo dei Preti di Santa Ternita, perciò si mise ad indagare in profondità.



All’interrogatorio, il Parroco confermò d’aver venduto 4 candelieri d’argento della chiesa per un valore di 600 lire per sopperire a quanto “in democrazia” aveva sottratto alla chiesa … e di aver sottratto e impegnato 2 calici presso un parrocchiano per pagare le spese incontrate in una causa civile per allestire la quale aveva anche sottratto dei documenti … Inoltre, lo stesso Piovano riscuoteva e intascava offerte per Messe che non celebrava … “sembra per la sua salute cagionevole” … ed altro ancora. Venne richiamato a comportarsi in modo degno e a recitare ogni giorno per un anno intero il “Miserere”.


Un altro dei Preti: don Francesco Varotto venne accusato in qualità di Prete Sacrista di distrazione di fondi destinati alle Messe. Ammise un ammanco di 2.088,10 lire da lui utilizzate per esigenze personali in seguito alla morte del padre e alla infermità che lo costrinse a letto per 5 mesi ... Accennò anche a furti recati ad altri Preti, e si impegnò a soddisfare i debiti pagando con quote mensili. Il Patriarca lo privò del titolo di Prete Sacrista e gli impose il versamento di lire 30 mensili nella “Cassa delle Messe” e la recita quotidiana per un anno del “Salmo 14”.


Pur cantando una Messa Solenne per la Festa della Madonna del Rosario al cui altare si teneva sempre accesa una lampada come a quello di San Gerardo Sagredo per conto della famiglia Sagredo ... “si deve organizzare meglio la Dottrina Cristiana per le Putte della Contrada … E’ necessario sollecitare l’interessamento di padri e madri alla frequenza dei figli perché è davvero scadente.”… tuono il Patriarca.


Per quella stessa chiesa il 29 novembre 1712 il Proto Domenico Rossi aveva rilasciato una scrittura per un restauro radicale per una spesa di 1.200 ducati … cosa che avvenne puntualmente nel 1721, e poi anche in seguito quando si ricostruì dalle fondamenta la Cappella Maggiore, le due Cappelle laterali e tutta la Sacrestia.

Erano gli Juspatroni votanti che sceglievano ed eleggevano il Piovano per la chiesa della Contrada. Nel 1760 erano 132, e corrispondevano a coloro che erano proprietari degli stabili della Contrada di Santa Ternita. Alcuni degli stessi Juspatroni formavano anche una “Banca”di 21 componenti che gestiva l’economia e le nomine dei Procuratori della stessa chiesa e Parrocchia.


Secondo quanto racconta il Gradenigo nei suoi “Notatori”:

“… domenica scorsa 18 maggio il nuovo Piovano di Santa Ternita don Giobatta Gregori fece il suo ingresso con universale testimonianza d’affetto, essendosi quasi tutti gli abitanti della Contrada affaticati per spiegarle il proprio compiacimento e la festa del loro cuore … Soprattutto il Campo dei Do Pozzi era guernito e la Corte della Vida perché ivi i Confratelli della Madonna del Monte del Santo Rosario oltre un’illuminazione magnifica di torce fecero vedere posto sopra la porta della Cappella di Santa Ternita il ritratto del Piovano giudicato il più somigliante degli altri ... Fu questa un’opera del pennello di Giacinto Pasquali giovine di attività nell’Arte della Pittura…”


In quella Contrada accadeva, quindi, una vita ristretta, dentro a quello che era un preziosissimo microcosmo stretto e chiuso fra sei ponti … Nel 1751 quando si rifabbricò il “Ponte di S. Ternita che va alla Celestia”,trasportandolo sei braccia più a sinistra e unificando le due Fondamenta di Cà Sagredo e Cà Zorzi …. Martino Marin Margariter a Santa Ternita, muto perché gli era stata tagliata la lingua in berlina ed era stato in galera a vogare per 7 anni, venne ucciso da un Marangon ... e il 17 marzo, sempre secondo i Notatori del Gradenigo: “… sei putte popolari della contrada di Santa Ternita con loro maestra vennero portate a Ca’ Mocenigo in Contrada di San Samuel per “impirare e riportare” una prodigiosa quantità di minute e preziose perle secondo il disegno di Giorgio Fossatti su di un sontuoso abito che vestirà la NobilDonna Catarina Loredan nipote di sua Serenità destinata sposa di Giovanni Mocenigo.”


Santa Ternita era una delle tante isolette dell’arcipelago di Venezia, insomma … zona bassa, popolarissima che più popolare non si poteva, ma abbarbicata alla Serenissima, al lavoro, all’esistenza … e a tutto il resto.


Nella Gazzetta Veneta del 1761 Gasparo Gozzi raccontava:

“… nel passato avvenne che un certo garzonastro di mala vita, di anni diciotto circa, passando a Santa Ternita, vide un fruttaiolo occupato in certi suoi fatti, e adocchiata la bilancia della bottega e mezzo ducato d’argento là da un lato, credendosi di non essere veduto, diede su le ugne all’una e all’altro e se ne andò a fatti suoi. Stavano alcuni a vedere quest’atto, ch’egli non se ne accorse, onde, appena ebbe tra le mani la roba altrui, gli furono dietro, ed egli, messasi la via tra le gambe, andava suonando con la bilancia, che parea un cavallo che trotti con la sonagliera: chi usciva di qua, chi di là: chi è stato ? E’ un ladro !

Sempre la gente crescea e avea dietro le torme ... Giunto a San Francesco e vedendo che le gambe non gli poteano più valere, si lasciò andare col capo in giù nel canale per salvarsi nuotando. Le persone gridavano dalla riva, molti erano alle finestre, egli menava le gambe e le braccia: ma fu invano, perché sfuggiti quelli che lo inseguivano in terra, dette nell’armata navale. Erano in acqua alquanti giovani che nuotavano per sollazzo, i quali, andatagli incontra, lo presero e lo diedero in mano a coloro che gli avevano corso dietro lungo tempo. Questi, che aveano già ricoverato il furto da lui gittato via nel fuggire, pensarono per castigo di lui di far conoscere pubblicamente chi egli fosse, perché da indi in poi la gente se ne potesse guardare: e preso un buon graticcio e legatolo bene, acciochè divincolandosi non potesse fuggire né farsi danno, quattro de più vigorosi presero le stanghe del graticcio dov’era disteso e cominciarono a portarlo attorno per tutta la Contrada. Il numeroso popolo che dietro avea, cantava le sue lodi, e fu in quel modo portato vivo sulla bara in trionfo per tutte le Fondamente Nove e finalmente sciolto e lasciato andare con non so quante ceffate e urli e fischi e risate dietro. Io ci giocherei che in cuor suo colui non ha fatto altro proponimento che di furtare un’altra volta con maggior cautela …” 


Era comunque sempre intorno ai Preti e alla chiesa che ruotavano notizie e pettegolezzi, ed era spesso lì che succedevano le cose più strane e curiose: nel 1761 durante la frequentatissima Processione del Venerdì Santo che percorreva ogni angolo della Contrada, il portatore del pregiato fano’ (fanale) fatto di canne e pive di contaria dei Margariteri di Santa Ternita: “… s’intoppò e distrusse del tutto il prezioso fanale.” … Fu un disastro, la perdita di un oggetto davvero unico e prezioso. 


Qualche anno prima, nel 1752, il primo giorno di Quaresima era accaduto nello stesso posto che il Prete di Santa Ternita GiovanBattista Buogodetto “Chebba”, scappato da Venezia, venisse condannato al Bando da tutti i luoghi della Serenissima. Non avendo potuto soddisfare le sue voglie sulla fanciulla Orsetta, figlia del “Peatèr”Agostino Tuffo della stessa Contrada, l’aveva fatta sfregiare in viso con un coltello mentre usciva dalla Messa in Santa Ternita,


Ma in Santa Ternita accadevano anche diverse cose positive.

Come in tutte le chiese di Venezia anche in Santa Ternita si ospitavano Schole e Associazioni d’Arte e Mestiere e Devozione come la Schola di Sant’Antonio Abate dei Margariteri Impiraperle ePerleri… e la Schola dei Filatori di Seta che secondo la famosa Statistica del 1773 riuniva e contava: 34 capimaestri, 12 garzoni, 36 lavoranti sparsi in 20 botteghe, con 20 mulini in lavoro e 35 disoccupati prevalentemente alloggiati e attivi nella zona dei Biri in Contrada di San Canzian.

Riguardo ai “Confratelli Filatoj” ospitati in un locale rovinoso della chiesa per il quale la Schola pagava al Capitolo di Santa Ternita 3 ducati annui, il Piovano di Santa Ternita attestava nel 1713 che: “… ogni 22 gennaio, festa del martire Sant’Anastasio, i Filatoj compivano una lunga processione per la Contrada, alla fine della quale si celebrava una Messa solenne. Inoltre, ogni anno il giorno di San Martino, la stessa Schola organizzava una seconda processione cantando Salmi in suffragio per i Morti con i Confratelli tutti vestiti di paramenti neri.”

 
Isolato in Campo Santa Ternita c’era un pilastro di pietra con incisa l’epigrafe:
SCOLLA D. FILATOII  ET ARTE FV RIFASTA D. NOVO L'ANNO 1696

Quando la Schola con ancora 63 iscrittivenne soppressa dai Napoleonici il 24 gennaio 1807, risultò dall’ultimo inventario che possedeva ancora l'altare di marmo che si trovava in chiesa, la cassa dove si trovavano le Reliquie e i Corpi dei Santi Patroni, e una bella pala dipinta … però i Preti di Santa Ternita avevano sospeso di celebrare le loro 12 messe annue perché i Filatoj non corrispondevano più la dovuta elemosina. 


In Santa Ternita c’erano poi le solite Schole presenti un po’ ovunque in giro per Venezia: la Schola del Santissimo Sacramento, quella della Santissima Trinitàe San Anastasio, quella di San Gerardo Sagredo, la Compagnia delle Quaranta ore … e c’era perfino una Schola stranissima quanto misteriosa, unica in Venezia, detta dei “Fratelli dell’Illuminazione”.


Esisteva inoltre un Suffragio e Compagnia dei Morti o della Buona Morte o Confraternita del Santo Crocefisso o Schola della Croce fondata il 17 novembre 1654. Inizialmente: “… la Schola fu autorizzata a proprie spese possa scurtar li banchi e le cornise delli quadri della scuola del Santissimo per rifare di marmi fini l’altare.”

Ma alla visita del Patriarca Flangini del 1803 si rilevò che la Schola faceva celebrare troppe Messe, e: “… si vietò l’accumulo di denaro per l’acquisto di argentaria, cose, candelieri d’argento … onde evitare i furti in chiesa”. Qualche anno dopo il Consiglio dei Dieci decise di sopprimere quella Schola revocandole la licenza di Confraternita per: “… scandali di manomissione di argenteria … e disordini nella fraternità con scandalo in città …”


La più curiosa e interessante Schola ospitata a Santa Ternita, fu quella, invece, di Santa Maria degli Angeli e di San Francesco dei Coroneri o Fabbricanti di Rosari e Bottoni in legno chiamati dai Veneziani: “Anemeri”.

Si trattava di artigiani che fabbricavano corone di Rosari non di vetro ma con “aneme” ossia bottoni in osso o ordinarie da rivestire. A Venezia le “aneme” si vendevano a dozzine e si distinguevano in: “Aneme da velada”, “Aneme da camisiola”, “Aneme da commesso”, “Aneme da commessetto” e “Aneme da camisa”.



Da documenti della Giustizia Vecchia si evince, ad esempio, che nel giugno 1575: Lucietta fia de ser Cristophoro da Grizzo, bastazo alli Frari, presente, d’età d’ani 15 in circa se scrive a star e lavorar all’Arte de far bottoni e altro farà bisogno, con Ser Zambattista de Cabriel Mercante de Seda, per anni cinque prencipia adì ditto. E falendo alcun zorno sia obbligada reffar; qual Zuan se offerse farla docile di tal profession, li fa le spese sana e inferma, lì da albergo e la tien monda e netta, e li da per suo salario in ditto tempo ducati 12, a vestir d’essa d’essa Lucietta ... nel marzo di tre anni dopo però: “… Costituido in Officio Mastro Paolo Lombardo, per nome del contrascrito patron et dise la contrascrita puta essere da lui fuzita zà da un mese circa.”


Chissà perché ?


L’Associazione-Schola dei Coroneri venne comunque autorizzata dal Consiglio dei Dieci nel 1584, e iniziò la stesura della sua Mariegola stabilendo le tariffe di versamento della tassa “Benintrada” d’iscrizione, della tassa “Luminaria” per la spesa delle candele, e i contributi per l’assistenza ai Confratelli e la loro sepoltura.


Nel gennaio del 1673 la Schola venne rinnovata ancora iniziando nuovi registri di Cassa, Inventari e stesure dei Capitoli delle riunioni … i Coroneri si autotassarono per comperare e porre sull'altare della Schola e della Madonna delle belle colonne di marmo per non essere da meno a confronto delle altre Arti Cittadine.


Secondo la solita Statistica del 1773, l’Arte annoverava 162 iscritti con 34 garzoni, 50 lavoranti e 78 capimastri distribuiti in 16 botteghe ... L’Arte era efficiente e bene organizzata:


“A sicurezza del suffragio verso li poveri ammalati dell’arte, va parte che manda l’attual Gastaldo con sua Banca e Sindici, che alli ammalati con febbre ed obbligati a letto venghino contribuiti per il corso di due mesi, obbligati a letto, soldi 30 ossia una lira e ½ al giorno. E dopo li due mesi, continuando infermi aver debbano lire di piccoli otto al mese, restando del pari prescritto che dall’ammalato sia pro tempore ricercata la fede dal Gastaldo e Scuodidor dell’Arte Giustinian Becari, qual fede già sarà in stampa e solo mancante del mese e giorni, d’essere descritti dal medico di Contrada. Qual fede, passata prima alla chiesa parrocchiale per il confronto del sacerdote sacrestano del carattere del medico e sottoscritta dal Gastaldo, allora solaente sarà soddisfatta dal Cassier…”


Ancora nel gennaio 1782 un Proclama Dogale a stampa su terminazione dei Savi alla Mercanzia esecutiva di apposito decreto del Senato, proibiva a chiunque l’importazione di “anime da bottoni” da fuori Venezia.


“… dal giorno della pubblicazione della presente in avvenire siano e s’intendano le anime da botton di ogni qualità e sorte, qui non fabbricate, escluse dall’ingresso e consumo nella Dominante.”


Venne consentito per 6 mesi lo smercio delle giacenze e si fissò un listino delle “anime veneziane” da vendere a dozzina.



Solo verso verso lo “scadere del tempo” della Repubblica Serenissima, nel 1793, i 193 Coroneriiscritti lamentavano la decadenza della loro Arte anche per l’avvenuta apertura cinque anni prima di una nuova fabbrica di corone del Rosario a Loreto nelle Marche. Chiedevano perciò che: “in avvenire, a maggior libertà del commercio, sia permesso poter fare ogni sorta di lavori, tanto fini che ordinari, a genio de committenti e compratori.”

La Giustizia Vecchia provando a salvaguardare in qualche modo il buon nome dell’industria veneziana: “… concesse licenza di eseguire anche i lavori andanti e ordinari per un biennio di prova”.


Ma era ormai tardi, arrivarono i Francesi e l’Arte manifattrice di consumo e commercio venne chiusa.


Non ho finito ancora … Salto ancora indietro nel tempo … ma ve la faccio breve … Promesso !


“Mistro Misser Nicolò conza organi si impegnò a rifare l’organo della chiesa di Santa Ternita per 50 ducati nel 1636”… mentre pochi anni prima il Sudiacono di Santa Ternita venne privato del titolo per via di un furto sacrilego perpetrato in chiesa … e in tempo di pestilenza nel gennaio 1620, scoppiò una lite fra il Primo e il Secondo prete di SantaTernita su chi spettava amministrare i Sacramenti in assenza del Piovano … Dovette intervenire il Patriarca Tiepolo decretando che ciascuno facesse una settimana.


All’inizio del secolo con apposito decreto del Consiglio dei Dieci venne bandito Michele Viti da Bergamo Prete di Santa Ternita perché risultò attentatore insieme ad altri alla vita di Frà Paolo Sarpi residente a Santa Maria dei Servi a Cannaregio dall’altra parte di Venezia … e qualche anno dopo venne arrestato un altro Prete di Santa Ternita per aver scandalosamente praticato in chiese di Monache, mandando e ricevendo lettere e presenti con altre indecenti operazioni. Venne condannato a 2 anni di carcere con divieto perpetuo di parlare con Monache anche sue parenti ed entrare nelle loro chiese.


Nel gennaio 1594 s’era già provveduto a togliere il titolo al Prete Giuseppe Trieste sempre assente in quanto risiedeva come Parroco a Treviso … e quando nel giugno 1581 giunse la Visita Apostolica ispettiva a Santa Ternita:


“… la Contrada di Santa Ternita annovera 2.300 Anime di cui 1400 che facevano la Comunione … La Parrocchia è Collegiata con 4 Preti Titolati sostenuti da altri 5 Chierici che ruotano attorno per la modica cifra di 7½  ducati annui … Si celebrano: 4 Messe Mansionerie perpetue e quotidiane percependo 63 ducati, mentre la Fabbriceria della chiesa raccoglie e mette a disposizione 4 ducati …  la Parrocchia paga 8 ducati annui per l’organista, e un altro ducato annuo a Mastro Leandro per tenere l’organo in ordine … Si spendono anche 8 ducati complessivi per la festa del Titolare e di Sant’Anastasio …”


Certificato questo, il Visitatore Apostolico inviato dal Papa di Roma prima di andarsene fece processare e condannare il Prete Giovanni Maria Casali e il Suddiacono Gaspare Leandro per gravi irregolarità dovute a convivenze, rapporti carnali, patrimoni impropri e vizi di gioco ... Oltre a questo, le cose in Chiesa non andavano benissimo perché non c’era nessuno che predicava durante le Messe domenicali, e tantomeno c’era chi lo facesse durante l’Avvento per prepararsi al Natale o in Quaresima per andare a Pasqua … Come non bastasse, l’incaricato del Papa dovette vietare di adoperare una piccola croce associata alle famose reliquie di Sant’Atanasio conservate in chiesa, per curare a pagamento “il mal caduco” ossia l’epilessia.


Era novembre del 1536 quando lo stampatore Francesco Marcolini da Forlì trasportò nelle vicinanze della chiesa di Santa Ternita la sua tipografia trasferendola dalla contrada dei Santi Apostoli. Nel “Petrarca” di Girolamo Malipiero si legge:


“Stampato per Francesco Marcolini da Forlì in Venezia appresso la chiesa de la Trinità gli anni del Signore MDXXXVI del mese di Novembre”.


Il Marcolini era anche letterato, antiquario, intagliatore, orologiaio e architetto: costruì anche il Ponte Longo di Murano nel 1545. Era anche amico-compare di Pietro Aretino che lo andava a trovare spesso, anzi, andava a trovare di più sua moglie Isabella: “… donna tanto impudica da darsi in preda perfino ai lavoranti della stamperia ...”

Per cui, come raccontava il Doni: “… sorti in progresso di tempo alcuni dissapori fra i due amici, eccoti l'Aretino, colla solita maldicenza, vantarsi delle corna fatte al Marcolini, sparger voce che questi, in vendetta dei cattivi costumi della moglie, l'aveva condotta in Cipro, ed attossicata, asseverare finalmente che il Marcolini aveva rubato ad un tedesco il disegno del Ponte Longo di Murano ...”


Nel dicembre 1528, era accaduto invece, che si stava per eleggere come Suddiacono di Santa Ternita uno: “… che venne denunziato lui esser imbriago zafo e far l’officio de zafo e vender carne pubblicamente e ha putane e fioli ... Per querele e per la sua ignoranza si annullò l’elezione al Titolo in Santa Ternita…”


Secondo il racconto del solito Diarista Marin Sanudo, all’inizio del 1500 la chiesa di Santa Ternita era stata completamente ricostruita con lavori che durarono 15 anni. L'edificio dall’antica chiesa a tre navate passò a unica aula con Presbiterio ed altari laterali.


Ancora un secolo prima, il Piovano di Santa Ternita Francesco Gritti era anche Notaio, Cancelliere Ducale, Canonico Vicario della Basilica del Doge, Arciprete della prestigiosa Congregazione dei Preti di San Luca e intervenne perfino al Concilio di Basilea come rappresentante della stessa. In seguito divenne anche Vescovo dell’isola di Corfù, ma conservò ugualmente il Titolo Commendatario di Santa Ternita fino alla morte del 1458.


Saltando ancora fino al 1300 … il Nobile Giacomo Venier residente in Contrada di Santa Ternita nominò Procuratore il Prete Giovanni Gazo Cappellano del Governatore Veneziano di Corone e Modone perche’ riscuotesse il denaro che Enrico Barbarigo gli doveva ... Nel 1362 Bartolameo era Piovano di Santa Ternita … in seguito divenne Vescovo di Cannea in Candia ... consacrò la Parrocchia Collegiata di Sant’Eufemia della Giudecca ... e divenuto Vicario Generale del Vescovo di Castello Paolo Foscari, concesse la facoltà di erigere il Monastero di San Girolamo di Cannaregionominandone la prima Badessa Bernarda Dotto, e nel settembre 1375 permise l’edificazione del Monastero del Corpus Domini dove oggi sorge la Stazione Ferroviaria e il Palazzo della Regione Veneto.


Sempre durante il 1300, GiovanniPrete di Santa Ternitaricevette in Commenda da Pino Vescovo di Castello la chiesa di San Marco in Beirut per un censo annuo di una “Marca Sterlingorum”… mallevadore sarebbe stato Stefano Piovano di Santa Sofia … I Nobili Giovanni e Pietro Orio di una delle famiglie più influenti della Contrada erano i Procuratori della Parrochia … Andrea e Martino Preti a Santa Ternita erano Notai di Venezia … Leonardo Verde, invece, anche lui Prete a Santa Ternita, ricevette un prestito dalla parrocchiana Benedetta vedova di Giovanni Caldera offrendogli il messale in garanzia del prestito ... Si concesse a Bartolomeo Verde di Santa Ternitauna parte della velma o palude di 16 passi di lato posta fra il Monastero di San Michele sulla strada per  Muranoe Venezia per costruirvi un mulino a vento per macinare “farina de velma”… Già che c’era, il Verde nel 1352 ottenne facoltà di erigere anche un Ospedale: “in loco in quo erat molendinum a vento.”




A tempo delle Crociate, nel 1223, arrivò a Venezia da Costantinopoli il Corpo di Sant’Anastasio Martire che venne sistemato in apposita Capella di Santa Ternita arredata in seguito da due “Storie di Sant’Anastasio” dipinte da Antonio Aliense. Quelle Reliquie di Sant’Anastasio vennero accudite e venerate dalla gente della Contrada per secoli.


Infine, si perde nell’incertezza dei tempi l’origine della Contrada e della chiesa di Santa Tèrnita… Le prime notizie risalgono al 1030 circa, quando le Nobili famiglie Sagredo e Celsi residenti in zona al tempo del Dogado di Pietro Barbolano o Centranico rilasciarono i primi finanziamenti per costruirsi un’imponente cappella laterale a sinistra dell’altar maggiore con tre statue in pietra d'Istria e otto colonne in marmo con piedistalli e capitelli come tomba-mausoleo di famiglia. Già da qualche tempo la Parrocchia e Chiesa di Santa Térnita era affiliata alla vicina Cattedrale di San Pietro di Castello o Olivolo  … e questo è tutto … del prima non si sa più nulla ... o quasi.




Se ne avete voglia e occasione … Provate a passare un giorno per il Campo di Santa Ternita in fondo al Sestiere di Castello … Proverete una sensazione struggente, stranissima … Come spesso accade, non incontrerete probabilmente quasi nessuno … Vi sembrerà d’esservi smarriti per Venezia in mezzo a tutte quelle case e Calli e Ponti e Fondamente tutte uguali e labirintiche … Vi parrà d’essere fuori dal Mondo e dalla Storia … come dentro a una capsula temporale libera dal tempo … Cambierà tutto, invece, se incapperete in qualche vecchia o vecchio Veneziani che abitano là … Vi sembrerà che non siano trascorsi i secoli … e tutto quello che vi ho raccontato vi sembrerà accaduto solo ieri, o forse oggi stesso.



“PIAZZA SAN MARCO … IN FILIGRANA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n. 84.


“PIAZZA SAN MARCO … IN FILIGRANA.”


“E che diamine ! … Per chi ci prendi ? … San Marco è San Marco ! … Sappiamo tutti che cos’è, com’è, dov’è … Che ci sarà mai da aggiungere ?” mi direte un po infastiditi,“E’ da secoli e secoli che fiumane di gente di ogni razza si catapulta lì da tutto il mondo per ammirare la bella Piazza che è il “salotto buono” di casa nostra, e il cuore fascinoso della nostra città galleggiante e lagunare. Basta citarla soltanto, che subito nella mente di molti si accenderà in successione la mirabile visione delle vedute con cui Canaletto, Marieschi, Guardi, Bellotto e Bellini l’hanno ritratta … Subito penseremo all’insieme plastico e familiare della Basilica col Campanile, il Palazzo Ducale e tutto il resto ritratti mille volte in ogni dettaglio da infiniti disegni e fotografie ... Chi vuoi che non ricordi Piazza San Marco con la famosa scritta “Coca Cola” realizzata concentrando i colombi ? … o chi non ha mai visto la grande “Rosa Rossa” vista dall’alto nella celebre Piazza, composta da un nugolo di persone associate e compattate insieme ?

Dai ! Che vuoi aggiungere ? … San Marco è San Marco ! La Piazza calcata da Re, Papi e Imperatori … Quel formidabile gruppo chiuso dentro al rettangolo delle Procuratie, con la Torre dell’Orologio dei Mori, la Loggetta ai piedi del Campanile, la Biblioteca Marciana con la Zecca, il Ponte dei Sospiri, la Piazzetta con I Leoncini … E’ tutto quello insomma: la Piazza delle Piazze ! … Tutte cose che conosciamo bene e sappiamo già.”


Vero ! Avete ragione: è la Piazza special di Venezia, anzi: la “Piazza” per antonomasia, perchè l’unica in quanto tutte le altre pur essendo a volte ampie, non sono piazze, bensì solo: Campi, Campielli o piccole Corti … e anche questo lo sapete già. Su di un posto e tema del genere esistono già intere biblioteche e volumi ricchissimi, grossi “così”, dedicati a volte a uno solo dei dettagli di quel formidabile complesso monumentale. Su San Marco si è già detto tutto e di più, “in tutte le salse” e per tutte le occasioni, che potrò mai aggiungere ?


Niente.


Volevo solo ricordare di un ometto che ogni tanto, soprattutto con la bella stagione, ma a volte anche col freddo e la nebbia, si reca di mattina presto proprio lì, proprio in Piazza San Marco. Rimane poi lì in solitudine, perchè gli piace moltissimo “stare” dentro a quella Piazza deserta che sente profondamente sua come fosse la sua culla.


Attraversandola tutta, si reca ogni volta a sedere sulla stessa panchina in marmo dello “Stazio-Traghetto” dei Gondolieri posta “in Riva” su quello che è stato il famoso Molo di San Marco, proprio accanto alle due immense colonne granitiche di Marco e Todaro condotte in Piazza con certe caracche da Costantinopoli.


“Todaro tiene in mano lo scudo per difendersi, ossia la Repubblica intende rifiutare la Guerra, ma difende accanitamente i propri interessi ... Infatti, tiene pesto sotto ai piedi il suo nemico: il Dragone antico ... Il “Leone Marciano alato”, invece, guarda il Mare verso Levante: dove Venezia intende costruire il suo Impero sconfinato.”


Si dice che negli occhi del Leone Marciano in pietra, un tempo ci fossero due grossi rubini che rilucevano nella notte verso l’entrata del Porto come se fossero un faro. Oggi l’ometto vede solo due occhiaie di pietra vuote che lo inducono ogni volta a voltare lo sguardo lontano.


Lontano significa un po’ più avanti … dopo il ponte, verso il Traghetto del Ponte della Paglia o delle Prigioni di San Marco, che era uno dei “Traghetti de Dentro”, ossia uno di quelli che agivano prevalentemente sulle brevi tratte intracittadine Veneziane.

Il Traghetto aveva “Stazio”, ossia sede, ai piedi del Ponte de la Pagia che un tempo era in legno e liscio collegando come oggi il Molo di San Marco con la Riva degli Schiavoni. Nello stesso posto ormeggiavano anche le barche che rifornivano di paglia l’intera città, anche se lì era vietata la vendita diretta al minuto. Servendosi di “18 libertà”, ossia le singole autorizzazioni dei Gondolieri per traghettare, il Traghetto era attivo con 6 barche anche di notte offrendo: “barche a nolo per 3 bezzi" portando verso l'isola di San Zorzi Mazòr e la Zueccaal di là del Bacino di San Marco, e all’occorrenza a supplemento verso Traghetti vicini, e per ogni angolo della città e della Laguna seguendo un apposito tariffario esposto nello Stazio.  Secondo la sia Mariegola, il Traghetto della Pagia ottenne fin dal 1576 l’autorizzazione di mantenere “… doi de loro barche alla detta Piazzetta davanti alle colonne de San Marco.” … ed è proprio lì che il nostro ometto va spesso a sedersi.



Vicino al Ponte della Paglia sorgeva fin dal 1373 anche l’“Osteria o Hospicium della Stella” che nel 1483 ospitò un’Ambasceria dei Turchi. Secondo il Garzoni nel 1500: “… il gestore della Stella era un Osto del mal tempo…”, e circa la categoria delle Locande di Venezia in generale, lo stesso Garzoni, forse un po’ con la puzza sotto al naso, lamentava:


“… i forestieri talhora gli rubano la penna del letto … i coltelli dalla tavola … i piatti di peltro … Qui scorgi l’hosto per cornuto, l’hostessa per vacca, le figliole per le porcelle, i servitori per assassini … In due parole onde veramente pare che le metamorfosi di Circe sia convertite addosso agli hosti e non ai forestieri … Qui odi parole di mille ruffianesimi, motti di sfacciatissime cortigiane, inviti di sciagurate meretrici, sporchezze di lingue disoneste et vili, bestemmie horrende, imprecazioni horribili, giuramenti falsissimi, promesse piene d’ìnganni e di fallacia in tutto … sugamani stracciati come tele di ragni, i lenzuoli tutti rappezzati, i letti duri come stramazzi, le coperte che san di tanfo per ogni banda …”


Poco più in là, sempre vicino all’Osteria della Stella e allo stesso Ponte della Paglia, sorgevano fin dal 1346 anche l’“Osteria “a pluri” alla Serpa o alla Cerva” dotata di buona stalla per cavalli, condotta nel 1365 da Giovanni de Anglia che ebbe una furiosa rissa con uno sconosciuto … e l’“Osteria “a pluri” alla Corona”, il cui gestore secondo il solito Garzoni era un furbo. Lì nel 1579, in tempo di peste, vi alloggiò un Ambasciatore dei Turchi perché per timore del contagio nessun Patrizio di Venezia l’aveva voluto ospitare.


Tornando al nostro ometto rimasto assorto ad osservare la lunga fila delle gondole “messe a notte” che beccheggiano sulle onde alzando e abbassando sull’acqua il loro “rostro lucido di ferro” che rappresenta i Sestieri, la Giudecca e le isole, lo vedremo ogni tanto girare la testa e lo sguardo osservando in fondo e in lontanza la“Torre dei Mori”.  

Ogni volta ripensa alla leggenda che racconta di come è stato accecato col fuoco e poi gli sono stati strappati gli occhi all’autore di quell mirabile orologio perchè non potesse costruirne un altro di simile. E mentre pensa a questo, aspetta che i due Mori traballanti “battano le ore”, e che sotto “girino i numeri”dentro alla scenica festa astronomica e mitica delle Stelle, dello Zodiaco e degli Astri. Ripensa ancora a come la mitica Serenissima si sia preoccupata d’osservare a lungo il Cielo, abbia considerate l’Astrologia e l’Astronomia, gli anni, i mesi e i giorni valutandone il peso e il trascorrere potente, misterioso ed eterno … come desiderava essere lei.


“In bocha de Marzaria” (ossia all’uscita delle Mercerie) sorge come monumento trionfale la “Torre dell’Horologio multo excelente, fato cum gran inzegno et bellissimo” fabbricato a Reggio Emilia da ZuanPaolo Rainieri e suo figlio ZuanCarlo dal 1493 al 1496 … La “Torre dei due Mori con la Campana” venne costrutta per collocare il mirabile orologio … I due automi scuri vennero fusi in bronzo dal fonditore Ambrogio delle Ancore nel 1497, mentre la campana con sfera dorata e croce venne realizzata da un certo Simeone.”



La Torre dell’Orologio venne architettata forse da Mauro Codussi o da Pietro Lombardo che ne rifece di certo le parti laterali balaustrate demolendo i preesistenti fabbricati di fianco. Non essendovi ancora le Procuratie attuali, la Torre per più di un decennio rimase come monumento isolato sulla Porta di Piazza San Marco che ospitava il Potere Politico Serenissimo e la via del Porto e dei Moli di San Marco: “… la nuova Torre voleva essere una sorta di manifesto della nuova stagione dell'architettura urbana dell'Umanesimo Veneziano”.


In effetti l’orologio è bellissimo, un capolavoro di tecnica e meccanica, arricchito anche dall’originale meccanismo della Processione dei Magi che passano inchinandosi davanti alla statua dorata della Madonna col Bambino preceduti dall'Angelo Annunciante che suona una tromba uscendo e ripetendo il passaggio ogni ora.

(Ora lo spettacolo è visibile solo il giorno dell’Epifania e dell’Ascensione, e le attuali statue lignee dei Magi e dell'Angelo sono opera di GioBatta Alviero del 1755.)

Straordinarie sono le indicazioni astronomiche basate sull’antico Sistema Tolemaico: sul grande quadrante di 4,5 m di diametro, oltre alle fasi della Luna e alla posizione del Sole nello Zodiaco, si succedevano i cinque Pianeti conosciuti all’epoca, ossia: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio ruotando le loro posizioni nel tempo.

Dopo circa due secoli e mezzo il meccanismo del complesso orologio astronomico s’era guastato, perciò venne rinnovato dal meccanico Bartolammeo Ferracina con cinque anni di lavoro dal 1752 al 1757 apponendovi un pendolo, e in seguito ancora da Luigi De Lucia nel 1858 che vi aggiunse le “tàmbure rotanti” con i numeri ... esattamente cento anni prima che nascessi io.



Ancora il nostro ometto, sempre “in attesa di qualcosa”, tornerà ad osservare il profilo dei capitelli e delle colonne del Portico di Palazzo Ducale, e di nuovo giù in fondo oltre il ponte: la Riva degli Schiavoni con le Prigioni… Si ritroverà a pensare di come proprio lì per secoli si metteva “il Banco”per arruolare rematori e marinai e di come su quelle rive s’apprestava la partenza delle squadre delle Galee di Mercato, le famose Mudeche solcavano l’intero Mediterraneo recandosi fino ad Aleppo in Soria, Alessandria d’Egitto, nelle Fiandre, a Londra, Cadicee in mille altri porti dell’Adriatico, del Mare Egeo e fino alle Terre del Nord ... e chissà fin dove ? E non era tutto … perchè giunti in quei posti, i Veneziani si lanciavano a seguire e percorrere faticosamente le Vie della Seta, la Via dell’Incenso, la Via delle Spezie, la Via della Lana, la Via del Sale, dei legni pregiati, dell’oro e dei oggetti preziosi … I Mercanti-Esploratori Veneziani raggiungevano caravanserragli persi nel niente delle steppe immense, si spingevano fino alla Cinae alle Indie raggiungendo genti e posti inverosimili, e poi tornavano indietro carichi come muli per riempire Fondaci su Fondaci e inviare poi il tutto nel denso e ricco Emporio di Rialto: “caput mundi”, centro mercantile d’irradiazione da cui tutto ripartiva arricchendo ulteriormente Venezia Serenissima e l’Europa intera.

Fin dal 1300 ogni anno la Serenissima esportava per 10 milioni di ducati d’oro e importava per altrettanti con un guadagno di 4 milioni: 2 sulle esportazioni e 2 sulle importazioni ossia il 20% del capitale. Per realizzare la Mercandia, la Serenissima utilizzava un naviglio di 3.000 bastimenti con 17.000 uomini e fino a 45 Galee di Mercato costruite da più di 5.000 fra Arsenalotti e Calafatie governate da 11.000 Marinai.


“Una macchina economica formidabile !”, penserà il nostro ormai solito ometto “… e anche uno spettacolo umano da vedere, vivere e immaginare.”

All’ometto fantasioso sembrerà di vedere le balle delle mercanzie, le botti e i barili rotolati e issati sulle rive, le casse ammassate in attesa dell’imbarco su un groviglio di navi, cocche e galee, o scaricate giù sul molo da un nugolo di Marinai, Bastazi-Facchini, Senseri, Artieri e popolani qualsiasi, tutti assiepati davanti al Bacino di San Marco dove sostava alla fonda il mitico Bucintoro dorato del Doge, orgoglio e simbolo della Repubblica Serenissima.


Scrutando ancora i Moli di San Marco, l’ometto vedrà anche file di Pellegrini pronti a partire entusiasti, o di ritorno esausti ma soddisfatti dalla Terrasanta. Penserà a come come “stuolo devoto”veniva intrattenuto ad arte in città dai Veneziani “immagandoli” con le bellezze e le suggestion delle mille chiese e processioni, e soprattutto con le amenità attrattive della Fiera della Sensa che si allestiva proprio in Piazza San Marco.

Poi suoneranno finalmente “le ore”, prima quelle dei “Mori di Stato”, e subito dopo quelle dell’Orologio di Sant'Alipio collocato sull'angolo nord-occidentale della Basilica Marciana. Anche a Venezia si scandiva in parallelo il Tempo dello Stato e il Tempo della Chiesa, ciascuno scoccava la propria ora perché intendeva essere il depositario, il fautore e l’ispiratore della gestione del bene più prezioso e misterioso: il Tempo.

Il nostro ometto allora si riscuoterà dai suoi pensieri, e si alzerà finalmente dal suo posto entrando dentro alla Libreria di San Marco: la mitica Biblioteca Marciana,un tempo anche Zecca dello Stato Serenissimo. Lì s’intratterà a leggere e frugare faragginosamente dentro alle carte, assetato di saperne sempre un po’ di più su quello spettacolo affascinante di Venezia su cui non è mai stanco di posare gli occhi.


“La Zecca o Cecha di Venezia fin dal 1300 coniava più di 1 milione di ducati d’oro l’anno, 200.000 monete d’argento, 80.000 di rame. Più di 1.000 Nobili Patrizi di Venezia depositavano e investivano lì le loro ricche rendite ricavandonde ingenti profitti e ineteressi. Dentro alla Zecca agiva e lavorava un vero e proprio esercito d’Artieri e “Ovrieri”: Saggiatori, Pesadori, Bollatori, Fabbri, Mendadori, Fonditori e Cimentatori d’Argento e Oro, Cassieri e Scontri di Cassa e Fanti all’Oro e alle Monede …  e i vari Nobili Rizzo, Premuda, Leone, Bernardo, Zorzi, Oltremonti, Foscarini e altri ancora facevano “carte false” e s’inventavano di tutto pur di collocarsi dentro a lavorare con i loro figli e per intere generazioni dentro a quella formidabile “Officina della Moneda” della Serenissima”.


Come spesso accadeva in posti del genere, non mancarono di succedere in Zecca episodi eclatanti, bancarotte, debiti, speculazioni, raggiri, imbrogli e delitti di vario genere e natura.


Il Senato accettò l’offerta di alcuni Mercanti Genovesi di depositare 100.000 ducati al 6% o a vita al 12% di cui 60.000 di fermo ossia depositate subito e 40.000 di rispetto ossia depositate a distanza di tempo.



Nell’autunno del 1602, Venezia venne invasa da moneta straniera di bassa qualità e da monete adulterate emesse da Zecche di piccoli Principi Italiani, mentre era uscita dallo Stato una quantità eccessiva di buona moneta d’oro e d’argento.

Alvise Zorzi, eletto poi Provveditore di Zecca, si scagliò a ragione contro Giacomo Foscarini che attraverso il Giro di Banco che gestiva s’era procuratoro degli interessi del 6-7% a suo favore sfruttando le operazioni di cambio della moneta. Accusò anche i Mercanti Fiorentini che facevano operazioni simili insieme a Mercanti Veneziani conniventi come Agostino Da Ponte e i Mercanti Prezzati. Divenuta pubblica “la cosa”, accadde in Venezia anche una sollevazione di 300-400 persone dell’Arte della Lana e dell’Arte della Seda perchè da quelle operazioni avevano riconosciuti lesi i loro interessi, ed erano stati costretti a licenziare diversi Garzoni e Lavoranti. Nello scandalo risultò coinvolto anche il Senatore Alvise Bragadin che aveva acquistato partite di monete di rame fuori commercio dello Stato Pontificiospeculandoci sopra a discapito delle Casse Pubbliche e delle economie della Serenissima.

Non fu di certo un caso, se nello stesso tempo venne assassinato anche Andrea Dolfin, a causa probabilmente delle sue attività finanziarie rischiose e di certo losche ... Nè fu ancora una casualità se il 13 settembre 1644 proprio davanti alla Zeccaper ordine del Consiglio dei Dieci si tenne l’esecuzione capitale per impiccagione di Domenico Fonditor di Zecca ... e che nello stesso anno s’impiccasse davanti alla stessa Zecca Mattio Bergamasco di anni 40, nonostante fosse stato già ammazzato dagli Sbirri nel prenderlo, perchè avva ucciso un Guardiano della Zecca provando a entrarvi dentro per rubare.


Nell’aprile 1630, poco dopo gli anni della terribile Peste del Voto della Madonna della Salute, ufficialmente risultavano depositati nella Zecca dello Stato: 2.662.131 ducati. In realtà: nelle Casse della Zecca c’erano depositati solo 265 ducati in contanti, perchè il resto consisteva in 2.062.202 ducati di debiti. Era accaduto che i Mercanti compravano da Nobili in difficoltà economica “Partite di Zecca” a sottocosto, che poi rivendevano a prezzo maggiorato del 20% con guadagni del 30% e piu’, mentre in realtà il valore di quelle partite era effimero, valeva quasi niente.

Ancora nel novembre 1756, Giovanni Francesco Magno di anni 68, Guardarnier al Marcato degli Ori et Argenti in Zecca, fu preso in contraffazion di bando a Mogiàn per intacco precedente fatto in Zecca e impiccato per ordine del solito Consiglio dei Dieci.


Uscendo di nuovo nel sole del mezzogiorno “con la testa piena di cose”, il solito nostro ometto, penserà che un tempo lì dentro, negli stessi luoghi attigui alla Zecca e alla Pubblica Libreria, fra 1557 e 1561 venne ospitata la strana e chiacchierata “Accademia Veneziana della Fama”.

Fu un’Associazione di Nobili che ebbe vita breve: solo tre anni. Venne chiusa obbligatoriamente su ordine del Senato della Serenissima con l’accusa di bancarotta fraudolenta, e il suo fondatore Federico Badoer, giovane politico promettente, già inviato da Venezia come Ambasciatore alla Corte dell’Imperatore, venne arrestato e gettato in prigione.

I Nobili che frequentavano quell’ Accademia che intendeva darsi una sembianza scientifica multidisciplinare, enciclopedica anche a sfondo religioso, politico e filosofico, erano tutti nomi di rango altisonanti: Agostino Valier già appartenente al cenacolo “Notes Vaticaneae”, Alvise Mocenigo, Bernardo Navagero, Francesco Barbarigo, Jacopo Surian.


“Io volo al cielo per riposarmi in Dio” era il motto dell’Accademia della Fama, e il palazzo di Federico Badoer era considerato il: “Teatro Universale del sapere”.


Il gruppo si considerava il depositario del “Sapere Veneziano e di una Nuova Rinascita Culturale”, e intendeva proporsi in questo in maniera superiore allo Stato stesso. Per essere concreta poi, l’Accademia aveva concepito un nutrito programma editoriale dentro al quale aveva pubblicato ben 300 volumi di cui 66 erano riedizioni di opere dei Classici, e altri 103 consideravano “moderni temi scientifici”.


Dietro a quel consesso Veneziano però, c’era lo “zampino” della Chiesa di Roma, e sapete bene come andavano le cose a Venezia in quei tempi: Doge e Papa erano un po’ come Peppone e don Camillo, il Diavolo e l’acqua santa. L’Associazione, infatti, godeva dell’appoggio e del favore in città del Nunzio Apostolico Facchinetti, rappresentante a Venezia del Papa, e di diversi Cardinali che le scrivevano entusiasti: il Cardinale d’Este, Gonzaga, Ghisleri e Carafae anche dello stesso Papa Pio IV che creò a Roma un sodalizio simile impiegando 10 dei suoi più svegli e dotati Cardinali.


In realtà l’Associazione rappresentava l’ennesimo schieramento politico di una delle due grandi fazioni e alleanze politiche dei Nobili Veneziani: quella Romanista-Papalista dedita a favorire la Sede Apostolica Romana a discapito di una Venezia piuttosto laica. Si trattava soprattutto di uomini e Casate Patrizie vecchie e aristocratiche, che nell’Accademia intrepretavano Matematica, Scienza, Metafisica e Diritto in modo conservatore, tutt’altro che innovatore e moderno. In una loro pubblicazione del 1553: “La Città Felice”ipotizzavano e idealizzavano una Repubblica Serenissima ordinata e obbediente, governata secondo una ragione santa e illuminata.

Di solito Doge e Governo della Serenissima non erano tenerissimi con la fazione dei Romano-Papalisti, ed escludevano tutti i Nobili che vi facevano parte dall’accesso a tutte le prestigiose e remunerative cariche pubbliche. I vari Nobili: Foscari, Barbaro, Badoer, Corner, Emo, Grimanie Pisani non si preoccuparono affatto per quell’esclusione in quanto si rifecero ampiamente facendosi investire dal Papa di ancor più ricche cariche e benefici Ecclesiastici soprattutto di Vescovadi in Terraferma. Anzi, quei Nobili facevano di tutto anche nella città lagunare per mettersi in mostra e guadagnarsi la stima dei Veneziani comissionando artisti e opere prestigiosissime da collocare nelle chiese e nei luoghi di pubblico raduno.


Nel 1558 l’Accademia si offrì al Senato Serenissimo per raccogliere e riordinare e ristampare tutte le Leggi e i Decreti della Repubblica formulando una qualche timida volontà di riforma legislativa. Inizialmente il Consiglio dei Dieci accolse favorevolmente l’idea, e concesse all’Accademia il privilegio di curare e provvedere alla stampa. Lo fece anche per aiutare Federico Badoer, per aiutarlo a sanare certi suoi debiti commerciali che aveva con gli Allemanni-Tedeschi, e per dimostrare nello stesso tempo che la Serenissima era aperta verso le nuove correnti ideologiche, culturali, umanistiche, scientifiche e teologico-religiose formulate dai Protestanti e dal resto dell’Europa moderna.

Due anni dopo, coerenti con le loro idee di considerarsi i “Depositari del Sapere Pubblico”, e volendo anteporsi ad altri circoli letterari Veneziani, gli associati chiesero ai Procuratori di San Marco di poter utilizzare come loro sede il vestibolo della Libreria Marciana dove Tiziano aveva appena dipinto “La Sapienza”.


Il Governo di Veneziano concesse, però fiutò dietro alle operazioni dell’Accademia l’influsso di stampo Papalista che intendeva intromettersi e interferire con le tradizioni, le consuetudini e le libere politiche di Venezia, e riconobbe infine anche tutta una serie di maneggi di Federico Badoer, dei suoi nipoti e dell’Abate Marlopino amico di famiglia, atti a favorire interessi economici personali tramite l’attività pubblica dell’Accademia.

Perciò: “Rivelato il mistero … Gabbato lo Santo” … la Serenissima fece “chiudere bottega”all’Accademia e sbattè il prigione il suo Presidente poco attendibile.


“Venezia Serenissima non si smentiva affatto …” pensò il solito ometto, e riflettè anche sul fatto che nel luogo della stessa Libraria di San Marco, sorgeva un tempo di fronte a Palazzo Dogale”, l“Osteria Al Pellegrino”, un’altra delle “Osterie a pluri” che apparteneva ai Procuratori de Supra. Quando si costruì Zecca e Libraria nel 1554, l’osteria venne spostata in Corazzaria a cura dell’Oste Zuane de Pedrezin da Bergamoche spendeva 38 ducati annui per l’affitto.

A dire del solito Garzoni: “… il gestore del Pellegrino è un assassino … e “Al Pellegrin” è un Albergo di Satana, poco lusinghiero, una locanda che offre anche “letto guernito” ossia fornito di cortigiana o meretrice ... Il viaggiatore Adamo Ebert asserì di avervi trovato 2 dozzine di giovanotti Francesi che si davano ad amori diversi, e di essere stato piu’ volte da loro tentato …”

Nel 1544 la locanda dopo un grave incendio venne spostata in Spadaria, ricostruita addirittura sotto il controllo diretto del Proto della Procuratia Jacopo Sansovino.


Secondo la Gazzetta Veneta di Gasparo Gozzi dell’aprile 1760: “… la sera della domenica, essendo il tempo sereno e un bel chiaro di luna, erano, com’è usanza nelle stagioni migliori, molte brigate di uomini e donne a passeggiare in Piazza San Marco verso l’ora terza di notte. Qualc che si fosse la cagione, si appiccò una questione di parole fra l’Oste del Pellegrino e un’altra persona; e come suole avvenire riscaldandosi nello svillaneggiarsi e vituperarsi dall’una parte e dall’altra, vennero all’arme. I Custodi della Piazza, usciti della loro abitazione con certi sani bastoni che usano, si diedero a sedare gli animi de’ combattenti con la eloquente persuasiva del manare legnate quanto usciva loro dalle braccia, avendo prima per atterrire la calca sparato un archibuso in aria. Appena il tuono dell’archibusata ebbe tocchi gli orecchi delle donne, quelle sparirono di qua di là come colombe; onde gli uomini di civiltà per non lasciarle sole, volarono via con esse. In un momento nelle Botteghe da Caffè si gridò: “Acqua ! acqua !” e tutti i bottegai furono in faccende e si videro tazze per tutto, parte per dar da bere, e parte per gittare acqua nel viso dell’Oste mentre andava già condotto da Birri in prigione. Finita la zuffa, quelli che avevano più cuore, affacciavano il viso alla bottega e dicevano: “Non c’è altro ?” … ed alcuni sopravvenuti chiedevano: “Ch’è stato ?” … e già la storia è divenuta più storie, secondo le diverse lingue di chi la narrava. Poi la moglie dell’Oste, uscita dall’osteria con l’animo di donna spartana, andò ad assalire la Guardia con le parole e con un romore che quasi pose di nuovo un sospetto e scompiglio di genti. Se non che, veduto quel ch’era, le si fece intorno una numerosa calca, finch’essa sfiatata rientrò nell’Osteria … e venne l’ora che ognuno andò a casa a narrare l’avvenimento a suo modo …”

Lasciando perdere finalmente queste memorie, il nostro ometto riattraverserà ancora la stessa Piazza rivedendola ogni volta come in filigrana e trasparenza. Non dimenticherà di posare lo sguardo sul merletto della Porta della Carta di Palazzo Ducale, e dopo aver “ripassato con lo sguardo” il gruppo dei Tetrarchiincassato nel muro, vedrà anche le famose colonne dove s’inscenavano le condanne capitali.

Spinti avanti pochi passi, l’ometto non potrà non soffermarsi davanti allo splendido Portale della Basilica Doratacostruita con tutto quel “Ben di Dio”trafugato e saccheggiato dai Veneziani a Costantinopoli durante la “devota Crociata”, e “pianterà di nuovo gli occhi” sullo splendido capolavoro degli Arconi dei Mesi e delle Arti e Mestieri.

Come non poteva mancare d’incidere su Venezia il freddo Gennaio in cui si uccideva il maiale, o Febbraio, Marzo con I suoi risvegli, Maggio e tutti gli altri … così Venezia non poteva fare a meno dei suoi Botteri, Fabbri, Vignaioli, Orefici, Pescatori, Marinaie tutti le altre Associazioni d’Arte e Mestiere. Era un tutt’uno cosmico inscindibile.

La ricetta, il trucco di Venezia, era che tutto il corpo unito insieme, quel mirabile miscuglio di tutti, poteva far funzionare bene l’intera Repubblica … ovviamente con l’aiuto dell’immancabile Padre Eterno, dei Santi e della Madonna di cui non si sapeva nè si voleva fare a meno … come non si poteva rinunciare ai soldi, ai capitali e all’intraprendenza dei Mercanti di Venezia.

Al di là dell’aspetto prettamente artistico, quel Portaledei Mesi e delle Arti ha sempre avuto per i Veneziani una valenza davvero speciale, perchè in un certo senso in quella rappresentazione in pietra si condensava e riassumeva tutto quello che erano e in cui credevano i Veneziani e la loro Serenissima Repubblica insieme. Lì si poteva vedere inscenato il destino di Venezia, perchè dentro allo scorrere misterioso e arcano del Tempo con i Mesi e le Stagioni, si poteva vedere rappresentata come a completamento l’opera quotidiana della fatica di ogni Veneziano. Erano come due facce che sintetizzavano un’unica medaglia: quella del Tempo e quella della Vita vissuta e lavorata. Una ruota che si ripete all’infinito con le solite scadenze note del calendario, ma che si rinnova ogni volta inventando il futuro sempre nuovo.

In qualche maniera i Veneziani si rispecchiavano negli Arconi di San Marco.


E fermo lì col naso all’insù, lo stesso ometto di prima, non riesce ogni volta a fare a meno di buttare l’occhio sulla facciata della Chiesa, in alto sulla sinistra. Lì appare puntualmente il mosaico che rappresenta la Risurrezione di Cristo.

E allora l’ometto ogni volta si mette a sorridere, perchè ricorda la leggenda che è legata da sempre a quello splendido scenario mosaicato.

Si racconta che quando alla fine della Guerra di Chioggia l’Ambasciatore di Genova si portò a Venezia per trattare la pace, costui attraversò sussiegoso e gongolante Piazza San Marco diretto a Palazzo Ducale.

Giunto ai piedi della splendida Basilica, si dice che indicando il Gonfalone imbracciato dal Christo Vincitore e Risorto realizzato sul mosaico del fianco destrao della facciata: bianco con sovrapposta una croce rossa, in tutto simile al Vessillo della città di Genova, abbia affermato rivolto ai Veneziani che lo accompagnavano:


“Ecco ! Avete visto che anche il Padre Eterno sa bene da che parte sia giusto schierarsi !”


I Veneziani presi alla sprovvista non risposero … ma non dimenticarono.

Rimasto lungamente dentro a Palazzo Ducale alla presenza del Doge e della Signoria, si disse ancora, che si giunse alla conclusione che era meglio sia per Venezia che per Genova seguire la via della Pace. Uscito quindi dal Palazzo, l’Ambasciatore percorse la stessa strada a ritroso, ma giunto di nuovo sotto al mosaico del Risorto, lo stesso Nobile Veneziano di prima che ancora l’accompagnava lo fermò dicendogli: “Vede ! Anche il Padre Eterno a volte cambia opinione … Ci ha ripensato ! … Stavolta preferisce allearsi e appoggiarsi ad altri più meritevoli.” E gli fece notare che sul mosaico della facciata il Cristo Risorto imbracciava un nuovo Vessillo con al centro il simbolo del Leone di San Marco al posto della croce rossa sul fondo bianco. Per i mosaicisti non era stato difficile modificarlo durante il tempo della seduta dell’Ambasciatore a Palazzo.

Divertito da quella leggenda, il solito ometto di prima volgerà le spalle alla Basilica d’Oro e s’incamminerà verso il centro della Piazza. Oltre a gustare il tanto che è rimasto, ripenserà soprattutto al tanto di più che c’è stato e oggi non esiste più. Passando fra “Paròn de casa” ossia il Campanile e le Procuratie Nuove, ricorderà che un tempo li sorgeva un Ospedaletto.
Si trattava dell’Ospizio Orseolo o Ospedal da Comun o Hospitio de San Marco fatto erigere dal Doge Pietro Orseolo tra 976 e 978 per accogliere Pellegrini malati e bisognosi di passaggio a Venezia o di ritorno dalla TerraSanta, e gestito da apposito Priore. L’Ospizio arrivò ad occupare gran parte del lato meridionale della Piazza San Marco in seguito ad ampliamenti e ricostruzioni eseguiti anche a spese della Dogaressa Loicia Zeno fra 1253 e1268. In seguito, trascorsa l’epoca dei Pellegrini, venne usato per dare ospitalità a 4 donne povere che divennero piano piano 54, e furono chiamate Orsolinein memoria del Doge Orseolo fondatore e benefattore.

Nel 1364, le Orsoline si spartivano annualmente 30 ducati provenienti dalle rendite dell'Ospissio, e altri 20 desunti da un Legato lasciato da un certo Prete Zuane che era Piovan della Contrada di San Lunardo o Leonardo nel Sestiere di Canareggio.

L’Hospeàl funzionò per secoli, e venne demolito nel 1581 per lasciar spazio alla costruzione delle Procuratie Nuove(oggi Museo Correr e Museo Archeologico). Le Orsoline, Ospissio compreso, vennero trasferite nel vicino Campo San Gallo.

Si può ammirare bene l'aspetto esterno dell'Ospedalettodi San Marco ritratto nel 1496 da Gentile Bellini nella sua famosa: "Processione della Reliquia della Croce in Piazza San Marco", conservato oggi presso all'Accademia di Venezia.

(è la foto d’intestazione di questo post, e questo di sotto ne è un dettaglio).



Alzando gli occhi sul massiccio Campanile che inonderà la Piazza col suono del mezzogiorno, l’ometto ripenserà che sull’imponente torre un tempo c’era sospesa la “Chèba” in cui i rei condannati dalla severa Giustizia della Serenissima venivano rinchiusi e sospesi al pubblico ludibrio fino a morire di stenti.

Il supplizio della “Chèba” ossia “la gabbia” detto alla Veneziana, era di legno rinforzato in ferro, e: “… il reo esposto appeso con delle catene all’asprezza delle stagioni, ritirava il pane e l’acqua, unico suo nutrimento mediante una funicella che calava di sotto.” A volte venivano appesi a tempo determinato, mentre in altre occasioni venivano ingabbiati a vita in attesa di un’improbabile sentenza di salvezza.

Sembra che nel 1518, forse per far cosa grata alla Corte di Roma che non sopportava tanto vedere lì rinchiusi e puniti certi Preti e Frati di Venezia, o forse adducendo al fatto che i civili Veneziani si vergognavano di quel crudele supplizio, si finì con l’abolirlo del tutto. Si trattava di una pena infamante, esposti al pubblico ludibrio, che non era solo Veneziana, ma utilizzara e presente anche altrove come a Piacenza, Ferrara, Milano e Mantova.


Nel Diario Priuli del marzo 1510 si legge: “… avendo il Duca Alfondo D’Este di Ferrara scoperto due laici e due Frati, che con fuochi artifiziali volevano incendiare le Galee Venete, fece tosto impiccare i due laici; un Prete fuggì, e l’altro per essere in sacris fu posto in una gabbia a pane e acqua in vita …”


La “Chéba” a Venezia stava appesa ad una trave che sporgeva da un buco a metà del Campanile di San Marco giusto sopra alle 19 botteghe dei Panettieri della Paneteria da dove il popolo infieriva e dileggiava schernendo il malcapitato.
Alla “Chéba”venivano condannati soprattutto autori di delitti come omicidio, sodomia, bestemmia o falso compiuti in luoghi sacri o commessi da Religiosi.

Nel 1391, infatti, venne condannato al supplizio della Chèba” il Piovano di San Maurizio Giacomo Tanto, che con la complicità del Nobile Tommaso Corner, aveva attirato con l'inganno in una casa alle Carampane vicino a Rialto un certo Prete Giovanni Custode di San Marco. Invece di dargli ... quartas vini malvatici pro dicendis totidem Missis ...” come gli avevano promesso, con l'aiuto del complice lo assassinò. Poi i due si recarono nella Canonica dove abitava il Prete e lo derubarono di tutti i suoi averi.

Scoperti entrambi, il Nobile Corner che era fuggito rendendosi introvabile venne condannato al bando perpetuo da Venezia, mentre il Piovano venne condannato: “... ad finiendam vitam suam in cavea suspensa ad campanile Sancti Marci in pane et aqua ...” ossia: alla “Chèba” ! La matrigna del Piovano non riuscendo a sopportare di vederlo così ridotto, riuscì a fargli avere con la complicità di un Ufficiale dei Signori di Notte e del Capo delle Guardie di Piazza: “...fugacias fabricatas et pensatas cum nucibus, mandulis, et zucari pulvere, ac fritellas, et alias confetiones quibus produxit vitam in longum contra sententiam …” tentando di prolungargli la vita. Ma venne scoperto anche quell’imbroglio, e i due vennero processati. Il Massaro dei Signori di Notte perse l'incarico e venne imprigionato nei Pozzi per un anno. La Matrigna: … boh … non si sa.


Anche nel 1406 si usò la “Chèba”a Venezia per le conseguenze di un episodio scandaloso.

I Signori di Notte avevano scoperto in flagranza di reato un gruppo di giovani che si davano alla sodomia. Per la maggior parte erano figli di Nobili Veneziani influenti, Borghesi facoltosi, Ecclesiastici, o di funzionari della Signoria molto importanti. Avendo già condannato per lo stesso motivo diversi popolani, non si poteva ignorare i fatti del tutto. Essendoci poi Chierici di mezzo, la questione giunse ad interessare perfino Papa Innocenzo VII, ma nonostante si fosse tergiversato per almeno due anni, si dovette giungere ad una sentenza definitiva. Nel 1407, Vito Memo Vescovo di Castello acconsentì che il Chierico Giacomo Barberio venisse condannato alla Chèba”, ma si riuscì a farlo fuggire per tempo lasciandola appesa vuota.


Ancora nell’aprile del 1518, si chiuse “... in Cheba al Campaniel di San Marco ... un certo Prete Francesco della chiesa di San Polo ...d'anni 30 circa ... accusato di sodomia.” Qualcuno gli: ... avea dato per carità un gabàn da Galia (palandrana di panno grosso e ruvido portata dagli schiavi forzati sulle Galee  Venete)...perché si riparasse dal freddo.”
Il Prete “furbino”, riuscì con pazienza a ridurre l’indumento in strisce ricavandone una lung corda con la quale nella notte del 1° luglio cercò di fuggire calandosi fino a terra sulla Piazza San Marco. Solo che aveva calcolato male le misure, la corda era troppo corta, e si trovò appeso in aria ancora troppo lontano dal suolo. 

“... mancava ancora buon tratto per arrivar ai Cambii ...(banchetti dei cambiavalute che si trovavano a piedi del campanile) ... ed essendo in pericolo di morte, gridò, e accorsero le Guardie notturne ...” che lo recuperarono e lo rinchiusero in prigione dove venne “… largamente soccorso dalla pietà delle monache di San Zaccaria molto famose perché libertine e per la loro licenziosità.”


Nel 1542 venne condannato al supplizio della Chèba” anche il Prete Agostino della chiesa di Santa Fosca, dopo essere stato portato legato in Piazzetta tra le colonne di Marco e Todaro, e messo alla berlina per sei ore. 


“Si fece questo perché il Prete si consolava con diverse donne, e perché giuocando biestemmava.” 


Prete Agostino divenne famoso per i versi con cui descrisse la condanna subita: “Prima mi missen fra le due Colonne della Giustitia, ben stretto ligato.” Gli fu messa in testa una specie di corona con dipinti dei Diavoli:

“...Imperator senza impero m'han fatto ... fui coronato, senza darmi il scetro, volendomi punir di mia nequitia.”

Venne quindi portato alla “Chèba a mezzo il campanile” dove rimase per quasi due mesi, fino a tutto settembre, prima di scontare il resto della pena di otto mesi nei “gabioni della prexon forte di Terranova”, dietro le Procuratie Nuove: ...duoi mesi a pan et acqua sola et otto mesi star rinchiuso nella Forte.” 

Al termine della detenzione venne colpito da bando perpetuo da tutti i territori dello Stato Veneziano, perciò concluse i suoi versi dicendo: “...fuggite dal giuoco, non biastemmate i Santi, manco Idio ... lasciate il giuoco, biastemme e puttane.”


L’ennesima condanna alla “Chèba”venne comminata nel luglio 1510. Stavolta fu la donna Adriana Misani a subirla. Era moglie del Banditore Andrea Massario, e abitavano nella Parrocchia di Santa Ternita dove risiedeva anche un certo Francesco, figlio di Magroche faceva il Barbiere, con il quale la donna aveva intrecciato una relazione amorosa. Francesco aveva messo gli occhi non solo sulla donna ma anche sui suoi beni, le promise perciò di sposarla se lei si fosse liberata del marito. Così in una notte dell’aprile 1510, donna e amante penetrarono in casa di Andrea Massario e lo uccisero a colpi di scure e spada mentre dormiva. Con l'aiuto dei due, il Falegname Giacomo Antonio e un certo Sebastiano, rinchiusero il cadavere in una cassa e lo gettarono in acqua nel Canale dell'Orfano per poi tornarsene sulla scena del delitto per fare razzia di quanto trovarono di prezioso. I due amanti poi, intendevano fuggire da Venezia, ma giunti a Santa Marta per partire per la Terraferma, vennero arrestati sul sagrato della chiesa che fungeva anche da cimitero.
Sotto tortura confessarono il delitto, e con sentenza della Quarantia Criminale: il Falegname Giacomo Antonio venne condannato al bando di cinque anni da Venezia e dai suoi territori, e a Bando perpetuo anche il Sebastiano. Francesco Barbiere venne messo a morte, e Adriana Misani, dopo aver assistito all'esecuzione dell'amante, venne condannata a pane e acqua fino alla morte nella “Chèba” del campanile di San Marco. Tre mesi dopo, tuttavia, riuscì a fuggire dalla gabbia facendo perdere le proprie tracce per sempre.


Tornando al nostro ometto pensieroso, ripenserà udendo le campane suonare, anche al fascinoso suono notturno della “Marangona”che ancora oggi riempie il buio della mezzanotte di Venezia. Quante volte l’ometto è rimasto ad ascoltarla nel cuore della notte ripensando alla memoria legendaria della morte “dell’innocente Fornaretto”.


Lasciando finalmente perdere il Campanile e procendendo poi sui suoi passi, l’ometto sfilerà oltre sulla Piazza, e fissando gli occhi a terra per evitare le pozze dell’acqua alta che filtra su “a fontanella” fra le commissure dei masegni, riconoscerà le scritte per terra che ricordano ancora oggi dove un tempo gli uomini delle Arti e Mestieri andavano a collocare con precision i loro banchetti nei giorni della Fiera della Sensa.

Provate ad andarli a riconoscere e vedere !  E sempre rimanendo in tema di segni, vedrete anche i segni che ricordano dove un tempo scorreva il Rio-Canale Badoario, e noterete anche i segni rotondi che ricordano i due grandi pozzi che sorgevano una volta giusto a metà della Piazza.


Il Doge Sebastiano Ziani, divenuto Doge nel 1172, fece ingrandire la “Piazza” facendo interrare il Rio Batario o Badoero o Badoario,e fece demolire anche la vecchia chiesa di San Geminiano, che diversi secoli dopo venne ricostruita più indietro e incorporata nelle Procuratie su disegno del Sansovino.

Fu sempre lo stesso Doge a “far cingere la Piazza da tre lati con una Galleria” pensandola come serie di abitazioni per i ricchi e potenti Procuratori di San Marco, che per dirne una sola, ancora nel 1537 possedevano 587 campi in diverse località del Polesine.

Per questo l’ambiziosa costruzione prese il nome di “Procuratie”, e non fu affatto un lavoro facile e veloce, perchè fra rifacimenti e incendi, la serie monumentale delle Procuratie Vecchie e Nuove che cinge la Piazza venne terminata solo secoli dopo, ossia nel 1600. Circa nel 1500 la Serenissima aveva iniziato a seguire l’idea Sansoviniana dell’abbellimento della Piazza e dell’intera città concepita come“Renovatio Urbis”:



“ …trovandosi l’anno 1529 fra le due colonne di piazza alcuni banchi di baccari e fra l’una colonna e l’altra molti casotti di legno per essendo delle persone per i loro agi naturali, cosa bruttissima e vergognosa, si per la dignità del palazzo e della piazza pubblica  e si per i forestieri che, andando a Venezia dalla parte di S.Giorgio, vedevano nel primo introito cosi’ fatta sozzurra: Jacopo mostrata al principe Gritti la onorevolezza ed utilità del suo pensiero, fece levae detti banchi e casotti, e collocando i banchi dove sono ora e facendo alcune poste per erbaruoli, acrebbe alla Procurazia 700 ducati d’entrata, abbelendo in un tempo  istesso la piazza e la città…”


Al termine di quella grande opera d’abbellimento, quando c’era già la Torre dell’Orologio, e i Tre stendardi in Piazza, l'area antistante la Basilica di San Marco aveva raggiunto la lunghezza di 175 metri ... La Piazza era sempre frequentata e vivissima, ricca di scambi e centro d’affari. Alla base del Campanile c’erano diversi Banchi di Cambiavalute e proprio lì vicino c’erano una Macelleria e una Panetteriacittadine, mentre poco distante di fronte alla Zecca c’erano altre Botteghe di Formaggi ...  Quando venne restaurato il Campanile nel 1513 ponendovi sopra l’Angelo Dorato: “… si gettarono vino e latte di sopra alla folla al suono di trombe festose.”… spesso accadevano violenti scontri fra Confraternite e Schole: “…che si davano addosso con candelotti e aste processionali per garantirsi la precedenza nel fare l’ingresso in Piazza.” ... sotto ai portici di Palazzo Ducale svolgevano la loro attività i Notai, proprio accanto alle latrine pubbliche costruite attorno alle grosse colonne del palazzo ... qua e là per la stessa Piazza c’erano banchetti ambulanti di contadini che vendevano anche capelli finti per fabbricare parrucche da donna attaccati a lunghe pertiche ... davanti alla “Basilica Dorata” stazionava in continuità una follla di mendicanti e miseri di ogni sorta.


Il solito Diarista Sanudo raccontava di una tradizionale parata organizzata dalla Corporazione dei Macellai seguita da una “Caccia al Maiale” in giro per la Piazza, così come raccontò qualche anno dopo, nel 1521, di come in occasione dell’elezione del nuovo Doge Antonio Grimani si tenne il solito “Giro d’onore” del neoeletto portato a spalla dagli Arsenalottimentre gettava monete alla folla osannante. Nella confusione, nella ressa e concitazione del popolo confluito in Piazza, uno degli Arsenalotti colpì e spinse via uno straniero perché lasciasse libero il passaggio. Questi allora gli staccò la testa con un colpo di spada gridandogli: “Va al diavolo tu ed il tuo randello !”

Venne subito catturato e decapitato subito dopo sulla Piazzetta: “… perché chi non è di Venezia deve capire come ci si comporta in città.”


Sempre lo stesso Marin Sanudo racconta che: “… un violento terremoto fece suonare le campane da sole … e in occasione di una coalizione Antifrancese sfilarono per 5 ore consecutive nella Piazza, addobbata per l’occasione con arazzi e drappi dorati, tutte le Schole e il Clero “in pompa magna”, facendo girare in Processione: centinaia di pezzi di pregiatissime argenterie, enormi candele dorate, bambini vestiti da Angeli, donne vestite da Giustizia, effigi raffiguranti la Spagna, l’Inghilterra e il Papa, carri decorati che rappresentavano le Virtù Cardinali e numerose reliquie fra cui: la mano di SantaTeodosia, il piede di San Lorenzo, il braccio di San Giorgio e la testa di Sant’Orsola recentemente recuperata.

Nella circostanza si declamarono per ore componimenti poetici in lode della Lega Santa, viceversa numerose satire contro il Re di Francia, e si recitarono pantomime di San Marco che parlava col Cristo, con la Vergine e la Giustizia.”


Paradossale ancora lui, sempre il Diarista Marin Sanudo, descriveva con una crudezza esemplare la condizione della gente a fronte di tanto sfarzo e idealismo e gusto artistico dell’epoca. Nel 1527 a Venezia s’era presentata la difficoltà storica d’importare grano dai tradizionali paesi d’importazione, perciò il prezzo del grano era cresciuto improvvisamente più di quattro volte, e la fame spingeva la gente verso la città dove c’erano i Fondaci e Magazzini del Grano.

Scriveva: “…ogni sera in piazza S.Marco, sulle vie della città, su Rialto è pieno di bambini che gridano ai passanti. “pane ! Pane ! Muoio di fame e freddo !” E’ terribile. Al mattino, sotto i portici dei palazzi vengono trovati cadaveri. Cosi’ era nel dicembre 1527 a meno di una settimana da Natale.  Arriva il tempo del Carnevale. Nei primi giorni di febbraio del 1528 “ la città è in festa, sono stati organizzati molti balli in maschera e al tempo stesso, di giorno e di notte, è immensa la folla dei poveri; a causa della gran fame che regna nel paese, molti vagabondi si sono decisi di giungere qui, insieme ai bambini, in cerca di cibo…. Alla fine di febbraio: devo annotare qualcosa che rammenti che in questa città regna continuamente una gran fame. Oltre ai poveri di Venezia che si lamentano per le strade, ci sono anche i miserabili dell’isola di Burano, con i loro fazzoletti in testa ed i bimbi in braccio a chiedere l’elemosina. Molti arrivano anche dai dintorni di Vicenza e Brescia, il che è sorprendente. Non si puo’ assistere in pace ad una messa, senza che una dozzina di mendicanti non ti circondi e chieda aiuto, non si puo’ aprire la borsa, senza che subito un poveraccio non ti avvicini, chiedendo un denaro. Girano per le strade persino a tarda sera, bussando alle porte e gridando “muoio di fame !”


Ancora alla fine del luglio 1594, continuava a scrivere: “… soto el Portego de la Cecha si rinvenne morto un contadino sconosciuto probabilmente morto di stenti e di fame …”



Verso metà della Piazza, sorgeva nelle Procuratie Vecchie l’“Osteria “a pluri” Al Cappello Nero”, il cui ingresso stava nella calle adiacente alla Piazza nel Sottoportico e Calle del Cappello.


“Nel 1453: si fa ricordo di essa osteria, che apparteneva alla Basilica di San Marco, ed era amministrata dai Procuratori de Supra, anche in una deposizione di un Giacomo servitore, fatta negli atti della Curia Castellana, il 20 luglio. Abitava costui col suo padrone Zanini da Crema in casa di un Lazzaro Tedesco, il quale teneva ospiti a settimana in Contrada di San Luca, e colà eravi pure certa Chiara. Costei un bel dì chiamollo a testimonio delle nozze che contraeva con un certo Giovanni dicendo: “Io vuò che sia presente ancho ti a queste nozze”, ed in quella ricevette da Giovanni l'anello nuziale, accompagnato dalle parole: “Chiara io te tojo per mia mujer”; dopo di che, sopraggiunta la notte, gli sposi novelli “se n'andà tutti do a dormir insieme”. Senonché Giacomo confessò d'aver saputo che Chiara erasi antecedentemente maritata all'Albergo del Cappello con un giovane Rigo, e d'essere stato pregato da lei di tacere tale circostanza al momento del suo nuovo matrimonio ...”


Fra 1483 e 1486: l'Osteria del Cappello è nominata anche in una sentenza criminale del 27 settembre colla quale venne condannato a morte “nel carcere Catolda” un Capitano Turco per nome Iusuph, che in detta Osteria aveva sodomitato un ragazzo. Il reo però nell'anno seguente, richiesto in grazia dal Sultano, gli venne rimandato.

Di nuovo nel maggio 1515 Sanudo dei Diari racconta della stessa Osteria raccontando: “… il 5 maggio si espose al pubblico in essa un garzone, d'anni 14, nato in Piccardia di nome Jacomo, dal petto del quale usciva il busto d'un'altra creatura con piedi retrati e braze come dita un po’ longhe ... e si pagava un soldo per vederlo, e parmi molto di novo quando lo vidi … e guadagnava ducati assai andando di terra in terra con degli Spagnoli  … Esponevano una bandiera di tela fuori con il mostro dipinto sopra, e con le armi posticce del Papa e del Doge sopra, e con una scritta in latino e in volgare che diceva:  “Ex matrimonius natus est in partibus Normandie, in civitate quo dicitur Drus 1500” … Tutto oggi andarono molte persone a vederlo … Questo mostro venne fatto la sera medesima partire per ordine del Consiglio dei Dieci.”


Sentendo ormai il richiamo della fame, il nostro ometto proverà allora ad uscire dalla Piazza sotto alle colonne della “bocca di Piazza”.  Anche qui sarà indotto a pensare che un tempo lì sorgevano ben due chiese “incassate” nel contest urbano della storica Piazza: San Gimignano e Santa Maria in Broglio o dell’Ascensione.


Santa Maria in Broglio o dell’Ascensione o “in capo di Broleo”, cioè giardino, era stata edificata nel lontanissimo 1120 “a spese del Pubblico” e consegnata in gestione ai Cavalieri Templari sotto la giurisdizione spirituale del Primicerio di San Marco.

Estinto l’ordine nel 1311 a causa di Papa Clemente V, l’ultimo Priore Templare di Venezia: il Cavalier Emmanule consegnò la Chiesa insieme agli altri beni dei Templari ai Cavalieri Gerolosomitani, che siccome erano pieni di debiti per 93 milioni di fiorini, ottennero da Papa Giovanni XXII di poter vendere tutto ai Procuratori di San Marcocompresa la Chiesa e ogni immobile utile. La tutela del luogo di culto con annesso Convento, passò quindi ai Procuratori de Supra della Serenissima che lo concessero qualche anno dopo a una Confraternita di devoti di un certo Frate Molano che provvidero a riedificarla del tutto con l’obbligo di farlo officiare con continuità da almeno due Sacerdoti, di non tenere poveri mendicanti sulla porta, e dare alloggio nel contiguo ex Monastero Templare agli Ambasciatori stranieri che giungevano in visita a Venezia.

Il piccolo complesso con la chiesetta inizialmente non andò poi così male, perchè oltre ad ospitare la Schola dei Ciechi“gente richiestosa, irrequieta e rissosissima cacciata via perfino dalla chiesa di San Vidal”, quella dei Bossoleri, dei Frezzeri, dei Barcaroli del Fontego della farina di San Marco e quella devozionale dello Spirito Santo, ospitava anche molti Nobili e Senatori prima di recarsi a Palazzo Ducale e in Maggior Consiglio. Si diceva che lì dentro i Nobili si dedicassero oltre che a indossare le parrucche e loro “toghe da comparsa a Palazzo”,anche ad accordarsi fra loro prima di presentarsi nella famosa assise di Stato dove si votava e si prendevano le grandi decisioni. Per questo molti Veneziani finirono per chiamare la chiesetta ironicamente: “Santa Maria Imbroglio”... non più nel senso dell’orto, ma nel senso del “taroccare e inciuciare politico-economico-istituzionale”.


Alla fine del secolo seguente però, i Procuratori di San Marco pensarono bene che fosse più opportuno affittare l’ex Monastero per farne una più comoda Osteria-Locanda, perciò aprirono la “Locanda alla Luna” che era una delle “Osterie a pluri” pubbliche veneziane, dove si aveva il privilegio esclusivo di offrire vini puri di Romania, Candia, Malvasia, Ribolla e Trebbiano a differenza delle “Osterie a minori” che offrivano vini terrani a basso prezzo e si rivolgevano a clientela popolare, spesso di bassa condizione.


Secondo il solito Garzoni, nel 1500, “… il gestore della Luna è un re dei Turchi…”, mentre nel 1700 la locanda era fra le 7 migliori di San Marco segnalate dal Coronelli nella sua “Guida de Forestieri per la città di Venezia”.

La Chiesetta dell’Ascensione o di Santa Maria in Borglio venne affidata a un apposito Rettore, che siccome era rimasto solo ad Officiare le Liturgie, si vide costretto nel 1591 a chiamare in aiuto i Frati di Santo Stefano per cantare il Vespro Solenne il giorno della Festa dell’Ascensione, che era quella del Titolare.

La Chiesa rimase in piedi come potè con poche rendite fino all’arrivo del solito Napoleone, che chiuse tutto trasformandola prima in comodo magazzino, e poi decise di farla demolire per allargare il contiguo Albergo Luna, ex Monastero dei vecchi Templari “ormai andati da secoli”. Divenuto con i Francesi “Grand Hotel de la Lune” ospitò personaggi illustri e famosi come Silvio Pellico e i filosofi Schopenauer e Nietsche, e la “Corona Ferrea”restituita dagli Austriaci prima di tornare a Monza.

Nel 1944, quando a Venezia il burro si vendeva al mercato nero a lire 270-300/kg, lo zucchero a lire 90-100/kg, la carne lire 140/kg e il lardo a lire 260-270/kg, l’Albergo Luna considerato di primordine era fra i locali frequentati da gente equivoca, giocatori d’azzardo e individui che esplicavano attività poco chiare disponendo di somme vistose. Fra questi c’era Luigi Sandri e suo fratello Fortunato che lo finanziava. Il primo era nato a Inkini nel 1900 e risiedeva a Trieste: conduceva vita dispendiosa, ostentava amicizie altolocate con i Tedeschi e le S.S., era giocatore di professione noto per la sua costante fortuna al gioco, viveva delle giocate e organizzava forti partite nell’albergo specie con persone facoltose di passaggio.

Oltre a lui all’Hotel Luna alloggiava con l’amante tedesca Moller nata a Coblenza, separata con 2 figli abbandonati, un certo Doro Emilio detto Mino nato a Venezia nel 1903. Attore cinematografico trasferitosi a Venezia con un gruppo di attori inviati dal Ministero della Cultura Popolare, era anche giocatore, cocainomane, sospetto pederasta, si dichiarava intoccabile e viveva in modo dispendioso giocando tutta la notte. A seguito di contatti con la Marina Tedesca, ossia Stang dell’Intendenza di Venezia e Esbergher Comandante del Porto, e attraverso l’amante ottenne ingenti forniture e guadagni: depositò al “Luna” contanti per 700.000 lire, cambiò assegni Tedeschi per altre 800.000 lire, e portò a Roma in contanti in un solo viaggio 2 milioni di lire.

Sempre al “Luna”, alloggiava l’industriale di carburanti di Fiume: Papetto Umberto. Viveva con l’amante egiziana Mohamed Ginevra detta Violetta che aveva familiarità con gli alti Ufficiali Tedeschi e col mondo della finanza veneziana mentre in precedenza frequentava i ricchissimi Ebrei di Venezia.

C’era infine al “Luna”: Talillo Alberto da Casale Monferrato, elemento dedito al commercio clandestino di generi contingentati, che venne rimpatriato a Padova dopo diffida.

Nel 1945 l’Hotel Luna fu il quartiere alloggio del Comando Tedesco a Venezia. Lì accaddero i colloqui di Padre Giulio rappresentante del Patriarca col Comandante tedesco e la Resistenza di Venezia per salvaguardare la città e la gente durante la ritirata dei Tedeschi. I primi colloqui al “Luna” furono fallimentari ed attendisti, perciò si attivò a Venezia l’attività della Resistenza che combattè a Piazzale Roma, in Marittima e sul Ponte della Libertà.


A soli due passi dal “Luna”sorgeva anche il “Casino e Osteria “a pluri” del Selvadego o all’Homo Selvaggio “in cao o bocca de Piazza” attiva fin dal 1369. Lo stabile dell’Osteria ad architettura veneto bizantina con finestre ad arco e loggia o liagò era posseduto anticamente dalla cittadinesca famiglia Da Zara, più tardi fu dei Patrizi Giustinian, e si diceva frequentata da uomini e donne discutibili che si recavano a giocare “e non solo” in alcune stanze segrete.

Come diverse altre Locande, nel 1560 l’Osteria-Locanda apparteneva ai Procuratori de Supra, ed era condotta da Piero de Lombardi. Dietro la Locanda c’era il Casino del NobilHomo Gerolamo Mocenigo figlio di Pisana di San Samuele, frequentato da personaggi mascherati tra i quali si riconosceva spesso la NobilDonna Sagredo Pisani.

Nel 1600 il satirico Dotti autore del “Il Carnevale” alludendo alle donne che frequentavano “El Selvadego” diceva: “Se riesce a queste lamie d'allettar qualche mal pratico … A commetter mille infamie lo conducono al Salvatico…”



A pochi passi da Santa Maria in Broglio sorgeva San Gemignàn o San Ziminiàn. In origine, quand’era fatta ancora di legno e paglia, era intitolata anche a San Menna Martire. Era chiesa antica edificata nel 554 di fronte all’altra altrettanto antica di San Teodoro, entrambe nelle vicinanze della sponda del Rio Battario o Badoeroche scorreva nel mezzo della Piazza congiungendo l’odierno Rio del Cappello Nero col Rio della Zecca.

Su iniziativa del Doge Vitale Michiel venne riedificata quando venne ampliata la Piazza, e il Doge col Senato la visitavano ogni Domenica in Albis dopo Pasqua, quando i Musici della Real Cappella Dogalecantavano Messa Solenne, e terminata quella il Capitolo dei Preti di San Marco accompagnava in processione il Doge fino alla Chiesa Dogale di San Marco dove il Serenissimo rinnovava ogni anno il suo Patrocinio.


La Parrocchia di San Ziminiàn pagava 12 ducati annui per l’organista e 1 ducato “a quello che mena li folli”, pagava 10 ducati per i Cantori e i Strumentisti per la Festa di San Ziminiàn, compresa una “distribuzione extra pro numeraria” al Capitolo e ai Preti che intervenivano il giorno della Festa, o per la visita del Doge e del Senato la Domenica in Albis, e la tradizionale distribuzione di “zuccheri lavorati” ai Sacerdoti di chiesa il giorno di San Ziminiàn.


“Si spesero anche lire 20,4 per la Visita alla Chiesa del Patriarca … che se si facesse ogni anno in questo modo sarebbe la rovina della povera Fabbriceria della Parrocchia ... Per conzare la chiesa di tappezzerie, far concerti di Suonadori e Cantori dell’organo, per la venuta del Doge nella domenica in Albis si spesero 5 ducati e piu’ in quanto per onorare tante personalità occorre anche un Oratore che intervenga oltre la Messa Grande mentre prima si diceva l’Officio di Terza …. Si è fatto un organo nuovo a spese del Pievano del costo di 600 ducati e un Coro con banchi di noce di somma bellezza della spesa di 200 ducati sempre a spese del Pievano. Infine per aver il Piovano la casa e i balconi sulla Piazza: il Giovedì Grasso, il Giovedì del Corpus Domini, l’Ascensione cioè gli 8 giorni della Sensa e altre feste solenni la casa ospita in continuita: Cardinali, Patriarchi, Vescovi, Abati e molti altri gentiluomini e gentidonne la cui accoglienza non passa certo senza spesa ... Povero Piovano !”


Nella Contrada di San Ziminiàn a ridosso di Piazza San Marco vivevano più di 1.200 persone … vi era attivo Palmerius Schardantes quondam Alfonsii da Lecce di 53 anni, residente da 30 a Venezia, che insegnava “Lettere Humane” tenendo Scuola Pubblica per 22 alunni a cui spiegava: “…Vergilii, Ciceron et Horatio ... li più minori fanno concordantie, li altri chi latina quasi per tutte le regole et chi fanno epistule.”… erano attive 192 botteghe e un “Inviamento da Forno”, e almeno 6 dei 118 Casini censiti a Venezia … In Chiesa c’era una Beata Vergine vestita con abiti e ori ... abitava in Campo Russolo nel 1745 il pittore Gasparo Diziani pittore che pagava 60 ducati alla Fraterna dei Poveri di Sant’Antonin per una casa dove abitava con la moglie, 5 figli e 1 serva … Nello stesso periodo in Corte San Zorzi abitava anche il commediografo Carlo Goldoni, che pagava 32 ducati per abitare un 1/3 di casa con moglie, madre, serva e zia.


Nel 1552 Tommaso Rangone volle finanziare i lavori di restauro di San Ziminiàn a cura del Sansovino a patto che vi fosse inserita in facciata la sua immagine come s’era già fatto a San Zulian. Il Senato rifiutò seccamente anche se il munifico benefattore era già in possesso dell’autorizzazione del Piovano Benedetto Manzinie del Capitolo della Chiesa di San Ziminiàn, che dopo il restauro fecero installare sopra alla porta della Chiesa un organo coperto da portelle dipinte da Paolo Veronese che venne a costare tre volte il prezzo preventivato.

Lo stesso Medico e Astrologo Tommaso Giannotti Rangone detto Philologus, originario di Ravenna, Procuratore della Chiesa di San Giminiano lasciò Comissari in perpetuo della sua ricca eredità i Piovani di San Geminiano, San Zulian e San Giovanni in Bragola con l’obbligo che in alcuni anni, il 31 gennaio: giorno di San Ziminiàn, venissero imbossolati i nomi di sei donzelle per ognuna delle tre Parrocchie, e fra queste se ne estraessero sei da premiare con 20 ducati di dote ciascuna. Solo dopo la sua morte nel 1577, la Serenissima permise di erigere nel portico accanto alla chiesa un suo busto realizzato da Alessandro Vittoria con apposita iscrizione.


Giunti i Francesi a Venezia, in Chiesa di San Ziminiàn si aquartierarono i soldati per comodità sulla Piazza. La Chiesa venne chiusa, riconsacrata e poi riaperta, poi venne demolita del tutto: “il 15 novembre 1814 era gettata giù del tutto, e il passaggio era libero delle Procuratie ora diventate Palazzo Regio ... Uno degli altari fu trasportato in Palazzo Patriarcale ... L’Altar Maggiore fu messo in Sacrestia nell’isola di San Giorgio Maggiore ... Le pitture depositate nell’ex Priorato di Malta ... L’organo ando’ distrutto e le portelle d’organo del Veronese finirono chissà come alla Galleria Estense di Modena.”


Proprio accanto alla chiesa di San Giminiano, dalla parte delle Procuratorie Nuove, giusto dal lato opposto rispetto al Ridotto dei Filarmonicisi trovava il Casino o Ridotto dei Diplomatici, dove per legge non potevano entrare e frequentare i Patrizi Veneti ai quali era vietato intessere relazioni con Ministri e Diplomatici di Stati Stranieri. Lo gestiva fino al 1796 l’Abate Conte Cattaneo che era stato investito dalla Serenissima del titolo d’Intendente del Governo Veneto presso il Corpo Diplomatico, e dopo di lui venne gestito da Onorio Arrigoni, uno che aveva fatto per mestiere il Confidente degli Inquisitori di Stato.

Il Ridotto dei Filarmonici dove Francesco Guardi inscenò il suo celebre dipinto “Un concerto di Dame” sorgeva, invece, dalla parte delle Procuratie Nuove. Era noto per la sua “dignitosa morigeratezza”, ed era considerato il maggiore “Ridotto di Società” di Venezia con appositi Statuti, capace di ospitare “Libere Associazioni di Nobili”.

Divenne famoso per le famose Feste di Ballo mascherate che vi si organizzavano, soprattutto quella offerta ai Nobili per la venuta a Venezia dei Conti del Nord: Paolo Petrowitz con la moglie Maria Teodorowna.


Poco più in là, sempre in Contrada di San Ziminiàn, sorgeva e c’è ancora l’“Osteria “a pluri” “Al Cavalo poi Cavalletto”. Era una delle più antiche di Venezia ricostruita vicina all'Oratorio di San Gallo in Campo Russolo. In origine si trovava presso il Molo di San Marco, situata “Sub Porticati Sancti Marci”, e venne demolita quando fu costruita la Libreria del Sansovino.

“Giacomello De Gratia dal Cavalletto” della Contrada di San Geminiano era Confratello della Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, e fece prestiti alla Repubblica Serenissima nel 1379 ... Dopo che il Maggior Consiglio: condonò nel 1348 a Benno de Sexo, Oste al Cavallo, la pena di 100 lire di piccoli comminatagli dai Signori di Notte per una rissa scoppiata nella taverna a causa di una misura non giusta di vino, nel 1398 un “Zaninus dal Cavaleto tabernarius ad Cavaletum in San Marco” ricevette una condanna per usare nella propria osteria vasi di vino di minor tenuta del prescritto … Un “Armanus de Alemania hospes ad hospitium Cabaleti in Sancto Marco”, violentò dopo averla ospitata Catterina da Ferrara di circa 10 anni, che, fuggita di casa per timore di percosse e trovata piangente presso la chiesa di San Marco da un Nicolò Tedesco Prestinaio. Perciò nel settembre 1413 venne condannato ad un anno di carcere, e alla multa di 100 ducati, da depositarsi alla “Camera dei Imprestidi”per maritare a suo tempo la fanciulla. Essendo questa morta, la multa si devolse al Comune e l'Oste potè pagarla in rate da 10 ducati l’anno.


Sempre nella stessa zona dell’Osteria: “Avendo Messer Bernardo Giustinian dalla Contrada di San Moisè confabulato a lungo appoggiato al Ponte del Cavalletto con una donna colà presso domiciliata, già fantesca di Nicolò Aurelio Segretario del Consiglio dei Diecci, ed allora maritata con uno scrivano al Magistrato del Forestier, ed essendo per entrare in casa colla medesima, venne ferito mortalmente, per gelosia, da Messer Angelo Bragadin il 6 luglio 1515 alle tre ore di notte. Trascinatosi il misero fino in Campo Rusolo, colà ricadde morto, e la mattina dopo venne ritrovato freddo cadavere.” Precisa Marin Sanudo: “E' stà acerbissimo e miserando caxo, tanto più quanto il Giustinian governava la famegia soa e havia optima fama fra tutti ... Era bello et savio, ma avea la faza manzata da varuole; in reliquis ben proportionato. Era in zipon co la scufia in testa, et senza arme”.Per tale delitto il Bragadin, citato a comparire e resosi contumace, venne capitalmente bandito il 14 agosto dell'anno medesimo.

Nel 1566, infine, l'Osteria al Cavalletto era condotta da un certo Brunetto(non Brunetta !) che conduceva anche la vicina Osteria del Leon Bianco, e nel 1873 la vecchia casa del Rettore di San Gallo venne utilizzata per allargare l’Hotel Cavaletto che giunse fino al muro dell’altare di San Gallo.



Già nel 1683, sotto le Procuratie Nuove venne aperta la prima “Bottega da Caffè” di Venezia … mentre sotto alle Procuratie Vecchie, con l’entrata in Calle Cappello proprio di fronte al Campanile, sorgeva il Casin dei Nobili chiamato poi Casin del Commercio a causa di un’apposita sala notturna adibita a quello scopo. Il Casino era fornito di biblioteca specializzata, annoverava 12 illustri “Soci Onorari”, era frequentato esclusivamente da almeno 200 Nobili Soci appartenenti alla categoria dei Mercanti, ed era caratterizzato da ambienti coloratissimi arredati sontuosamente con soffitti a stucchi a pastello: l’Atrio era dipinto di verde, la Sala della Presidenza era gialla, turchina la Sala Giochi, tapezzeria marrone per la Sala del Bigliardo. Nella Sala della Musica ornata alle pareti con ballerine affrescate dentro ovali incorniciati da lesene decorate a stucchi, dietro a una parete lignea agivano suonatori e cantanti, e spesso si tenevano spettacoli teatrali e concerti.


L’area delle Procuratie Vecchie e Nuove della Piazza progressivamente divenne tutto un susseguirsi di luoghi, Caffè, Ridotti e Osterie-Locande carichi d’aneddoti e note curiose.

A metà Settecento a Venezia c'erano 311 Caffè, uno ogni 500 abitanti, probabilmente il record europeo. Di questi, ben 34 si affacciavano su Piazza San Marco, mentre 18 si trovavano “de là de l'acqua”, sotto i portici di Rialto.

Nel aprile 1720 il Capomastro Floriano Francesconi aveva aperto un “Caffè con Musica” sotto le Procuratie chiamandolo “Alla Venezia Trionfante”, ma tutti lo chiameranno “Floriàn” come il proprietario. Il Floriàn era un locale molto alla moda in cui Casanova corteggiava le dame, Goldoni vi entrò ragazzo, e era frequentato anche da Gozzi, Parini, Pellico, Lord Byron, Foscolo, Goethe, Rosseau e da gente che sopra capelli tagliati cortissimi indossava parrucche incipriate, e vestiva “l’Andrienne” con due lunghe pieghe dietro.

Sopra il Caffè Florian stava il “Casino della Società degli Amici”, definito “d’ottimo gusto”. I nuovi soci era tenuti a una sorta di noviziato di due mesi entro i quali potevano ritirarsi, ma una volta ammessi dovevano pagare 28 lire e poi 6 lire al mese. I Soci erano gente illustre: Angelo Querini figlio di Lauro, il Conte Francesco Apostoliconfidente degli Inquisitori e amico di molti Patrizi, Antonio Lamberti celebre poeta vernacolare, Giacomo Vallaresso figlio dei Nobili Alvise e Maria Donà. Il Casino apparteneva a Giuseppe Maffei che faceva parte della Compagnia dei Corrieri di cui fu Gastaldo nel 1787, il quale lo vendette alla NobilDonna Marianna Soranzo che ne fece il suo Casino personale e privato.


Circa cinquant’anni dopo, quando nella Piazzetta si aprì un caffè-ritrovo per Marinai chiamato: “Chioggia”,anche Giorgio Quadri da Corfù aprì un suo caffè, e a fianco se ne aprì ancora un altro meta dei Bastazi o Facchini di Piazza chiamato: “Orso Coronato” e in seguito detto: “Lavena”.


Tutta la Piazza San Marco finì col diventare un tripudio di Ritrovi ed Esercizi in cui s’affollavano Veneziani e turisti. Sotto alle Procuratie Nuove s’allineavano: la “Bottega al Melon prima dell’Ascension”, “Alla Regina delle Amazzoni”, “Alla Regina imperatrice di Moscovita”, “Al Rinaldo Trionfante”, “All’Angelo Custode”, “Alla Generosità”, “Alla Fortuna”, “Al Gran Visir”, “Alla Regina d’Inghilterra”, “Alla Diana”, “Alla Sultana”, “Al Gran Tamerlano”, “Alla Pianta d’Oro”, “Al Dose” e “All’Aurora Trionfante”.

Mentre appena girato l’angolo della Piazza per andare verso il Molo dalla parte della Zecca, s’incontrava il “Al Mondo d’Oro”, “Alla Madonna”, “Al San Nicolo’”, “Al Sant’Antonio”, “Alla Volontà di Dio”, “Al Cavalier San Zorzi” e “Al San Teodoro” che era l’ultimo prima di andare verso la Pescaria di San Marco.

Dalla parte opposta, sotto alle Procuratie Vecchie, nei pressi della Torre dell’Orologio esercitata il Capomastro Protestante Zorzi Planta “All’insegna della Corona”. Poco distante sorgevano: “Al Leon Coronato”, “All’Aquila Coronata”, “Al Coraggio”, “Alla Regina d’Ongheria”, “All’Arco Celeste”, “Al Redentor”, “Alla Realtà”, “Alla Speranza” e “Alla Violaccia” che siccome era gestito dalla Sjora Viola che zoppicava leggermente, i Veneziani lo rinominarono “Alla Viola Sòtta”.



In quei locali, tuttavia, c’era anche un clima surreale che non piaceva per niente alla Serenissima:


Ordine emanato dagli Inquisitori di Stato il 20 giugno 1699: “… il gravissimo disordine introdotto da qualche tempo in qua, che il concorso della nobiltà al Broglio, ch’è luogo venetabile, e sacro, rispettato da chi ci sia, e dove si deve coltivar, e mantenere quella perfetta unione, e sincera amorevolezza che ben conviene, che era messo in pericolo in gran parte del commodo, e dall’ozio, particolarmente nelle botteghe che vendono acque, caffè et altro, situate sotto le Procuratie vecchie e nuove, in Piazza et in Canonica, dove da molti nobili che vi vanno, usando anche discorso naturalmente senza la dovuta cautella, e circospezione d’ogni materia, ch’è molto facilmente rilevata dalla varietà delle persone otiose d’ogni conditione che vi capitano, et ancor di segretari, agenti e domestici di ministri di principi. Decidevano di ordinare a tutti li gestori di botteghe da acque, caffè et altro, in tutta la Piazza sino alla Piazzetta di San Basso, alla Canonica e appresso la bottega degli Armeni che fossero totalmente levati li banchi, e sedie di qualunque sorte, tanto esteriori, quanto interiori, et che le stesse botteghe alle 24 ore debbano essere assolutamente serrate …”


Si spense Piazza San Marco ? … Ma niente affatto ! … Anzi ! Fino al 1800 straripava d’iniziative e vitalità: in diverse occasioni come quando venne a Venezia l'Imperatore Ottone, in occasione del recupero dell’isola di Candia, per il matrimonio di Jacopo Foscari figlio del Doge, o per la pace col Duca di Ferrara, si organizzò in Piazza San Marco una spettacolare “Caccia ai Tori” ... Piazza San Marco fu da sempre considerate come un’arena o uno stadio dei Veneziani, per cui si organizzavano spettacoli come quelli del Giovedì Grasso e soprattutto quelli dell'annuale Festa dell’Ascensione ossia la “Sensa” quando si teneva una grandiose e frequentatissima Fiera.


“… il freddo, la neve e l’aria gelida rallentarono alquanto la Festa di Carnevale, ma le maschere in Piazza furono infinite … Si videro molti tabarri da donna guerniti di gallon d’oro alto quasi mezzo braccio ... vi furono in piazza i cori degli “Orbi di Piazza” scritti, musicati e cantati da ciechi veri: “facevano ridere sbarellatamente gli uditori” … un ciarlatano Fiorentino cavadenti, facendo pagare 2 zecchini, estraeva senza dolore i denti facendo masticare una strana radice ... Barbera Mantovana, “meretrice da balcone” residente in Contrada di San Moisè si recava a al Caffè di Floriano in abito licenzioso … Due Nobildonne in maschera se andavano in giro per la Piazza con le tette fuori e scapparono inseguite da Birri ... Si giocava alle “burelle” e alla “bazica” ...”


Alla Fiera della Sensa in certi anni c’erano solo da vedere di bello: “tre vasi o tre conche di fine porcellana cinese” … un ciarlatano Francese vendeva una pomata per far crescere i capelli ... un olandese in uno dei “Sei casotti delle Meraviglie” presentava uno strano animale detto Dromedario, e in un altro casotto c’era un meraviglioso globo di vetro in cui stavano rinchiusi Uccelli e Pesci, piante e fuoco acceso …. Il casotto di Pellegrino Cavadenti conteneva: animali volatili e quadrupedi : “… un gran cignal, de belli cani, un orso che sbrana un cane, un bel macaco sopra un ramo con un pomo fra le mani, un bel gattone sopra un arbore con un pumer sotto che gli diede la fuga, una gatta con cinque o sei figlioli che lattano e gli scherzano attorno, una pollastra con i vari pulcini”.  Negli altri Casotti c’erano “cose minori”, come “Ballatori di corda” insieme ad equilibristi ... Si portava il cappello “alla sgherra”, si camminava con andatura “da Palladini”, e si beveva la bibita moderna chiamata “Alfabeto”che si vendeva “Ai Do Mori” a 5 soldi la chiccara.


Carlo Gozzi raccontava nella Gazzetta Veneta del 1760: “… nell’ultimo giorno di carnevale, passate l’ora 24 un cert’uomo in maschera, grande e ben fatto nella persona, ben vestito e col cappello orlato d’oro, ando’ alla bottega da caffè sotto l’Oriuolo tenuta da antonio Benintendi all’insegna della Provvidenza. Stabilì la maschera un contrato di 6 libbre di cioccolata a 4 lire la libbra. A pagare pose le mani nella scarsella e si dolse di non aver altra moneta fuorchè un’Osella d’oro da 4 zecchini che aveva poco prima riscossa. Aggiunse al bottegaio che sarebbe andato per altra moneta se quella non gli volesse cambiare. Il bottegaio la pesò e trovandola scarsa di 4 grani e si tenne il valente della cioccolata dandogli il resto in argento. La maschera andò per i fatti suoi. Come si sa alcuni astanti vollero vedere l’Osella per osservare il tempo in cui fu coniata, s’era del bel conio e latre circostanze. Dubitò alcuno che fosse falsa, altri che no e si faceano coscienza d’imputar la maschera. Il bottegaio andò al signor Moschini orefice che la trovò con l’anima d’argento e d’un valore di lire 26 circa. Dispiace molto al signor Benintendi che siasi verificato il proverbio: Non è tutto oro quello che splende …” 


Nel 1740 si lastricarono in pietra i portici delle Procuratie Nuove su disegno di Stefano Codroipo, nel 1772 fu la volta dei portici delle Procuratie Vecchie pavimentati su disegno di Bernardino Maccaruzzi, e poi ancora nel 1876 a spese del Cavalier Giovanni Busetto detto Fisola, mentre il Tirali provvide a pavimentare l’intera Piazza sulla quale si apriva anche il Ridotto della Società dei Carassi … Il Doge Francesco Loredan fra 1752 e 1762 usava come Ridotto una delle abitazioni delle Procuratie Vecchie da cui s’affacciava anche ad assistere anche agli spettacoli della Piazza … e come raccontano i soliti “Notatori”del Gradenigoalla data 15 maggio 1760: “… un clavicembalo del celebre Celestini, dipinto parte da Paolo Veronese e parte dal vecchio Giacomo Palma … sta in vendita da Girolamo Marcon Caffettiere “All’insegna dell’Angelo Custode” sotto le Procuratie Nuove.”



Caduta la Repubblica e giunti i Francesi del “Santo” Napoleone con la loro “Epoca Democratica”, venne abbattuta la chiesa di San Geminiano e i Granai di Terranova sul Bacino di San Marco, e si trasformò una parte delle Procuratie compresa la Biblioteca per costruire “la Nuova Fabbrica” ossia il così detto “Palazzo Reale” con l’Ala Napoleonica e i suoi Giardini. Già che c’erano, I Francesi tolsero il Leone Marciano dalla Torre dell’Orologio dall’altra parte della Piazza (ricollocato nel 1820), e abbatterono la statua lì incorporata del Doge Agostino Barbarigo.


In un apposito decreto si leggeva: “Libertà, Eguaglianza! In nome della Sovranità del popolo, il Comitato di Salute pubblica... decreta... Sono aboliti i nomi di Procuratie Vecchie e Nuove; le Procuratie Vecchie si chiameranno Galleria della Libertà; le Procuratie Nuove Galleria dell'Eguaglianza... 22 Pratile 1797 Anno primo della libertà italiana, Falier presidente.”


Si dice che il 9 giugno 1796, i primi quattro ufficiali Francesi giunti in città nelle loro divise rosse e con pennacchi e coccarda tricolore girassero dappertutto protetti alle spalle da numerose persone. Ritrovatisi al Florianin Piazza con noto chirurgo Francesco Pajola Veronese che viveva a venezia, gli chiesero come curare le febbri che avevano colpito i soldati repubblicani sotto le mura di Mantova. Sembra che lui abbia risposto: “La miglior cura è forse quella di tornarvene a casa vostra a respirare le vostre arie native.”

Ripensando a quei tempi “innovatori” che costarono così tanto ai Veneziani, alzando ancora una volta gli occhi, l’ometto di sempre non si potrà non notare davanti alle balconate dell’attuale Museo Correr in corrispondenza delle Sale Napoleoniche la lunga “lista e rivista e sfilata in pietra”delle statue degli Imperatori Romani, e soprattutto il posto centrale rimasto vuoto e privo della statua di Napoleone “a cui I Veneziani  misero un laccio al collo e la trassero giù felicemente in Piazza”.

“Giustizia è fatta!” pensa ogni volta l’ometto.

Napoleone stesso definì Piazza San Marco: "Il più elegante salotto d'Europa e forse del Mondo"… anche se poco dopo si covava già il desiderio espresso di trasformare la Basilica di San Marco in “Stazione Centrale” della nascente ferrovia che avrebbe fatto il capolinea proprio in Piazza San Marco dopo aver attraversato la Giudecca e l’isola di San Giorgio.

Nel 1784 dalla Piazzetta di San Marco si levò in cielo il primo Pallone Aerostatico, e dieci anni dopo in città si contavano 130 Casini Pubblici fra quelli Nobili, aristocratici e volgari senza contare quelli numerosi delle Società e dei privati.

Infine nel triste 1943, le Procuratie Vecchie divennero sede come ai tempi degli Asburgo Austriaci, della Platzkommandatur tedesca presente a Venezia.


Prima di andarsene, infine, sapendo ormai di avervi fatto perdere la pazienza a suon di leggere tutti i suoi pensieri noiosi, il nostro ometto darà un ultimo sguardo alla Piazza, pensando al momento e alla prossima occasione in cui tornerà a riassaporarla di nuovo. Penserà ancora una volta che in quella Piazza ha visto tante volte scendere la “Colombina, l’Angelo” nello sfarzo gioioso, allegro, musicale, danzante e colorato del Carnevale. Rivedrà anche la sua infanzia quando fra venditori di grano per i colombi, fotografi sotto il telone scuro della macchina a soffietto, lustrascarpe sotto ai portici, lui stesso attraversava di corsa la Piazza per andare a mettersi a cavalcioni dei Leoncini della Piazzetta… gli stessi su cui andavano a trastullarsi i figli del Doge Alvise III Mocenigo.

Per l’ometo di oggi allora bambino, già quel gesto semplice era una festa, e cavalcando i marmi rossastri, già in quell tempo si sentiva orgogliosamente parte di quella Repubblica Serenissima, Leone indomabile, che aveva saputo cavalcare abilmente per secoli la Storia.

Nella Piazzetta dei Leoncini lavorati da Giovanni Bonazza nell’antichità si teneva il “Mercato dell'Erbe”, e c’era ancora quella fontana-pozzo ricordata dal Gallicciolli: “Quel pozzo che è a San Basso nel rialto dei Leoni Rossi, egli è secondo alcuni il più profondo che siavi in Venezia, sebbene la sua acqua non sia molto buona.”

Sempre lì in Piazzetta vicino a San Basso sorgeva la “Locanda-Osteria “a pluri” all’insegna della Rizza” che apparteneva come: “Al Pellegrin”, “Al Cappello”, il “Cavalletto”, “Alla Luna”, il“Lion”, la“Serpa” e il “Selvatico” ai Procuratori de Sopra.

Nel gennaio 1773: “Pietro Monaretti, capitano delli Ecc.mi Esecutori contro la Bestemia, mascheratosi in Bauta con altri sbirri, si portò alle ore 4 di questa sera in una camera dell'osteria che tiene l'insegna della Rizza appo San Basso, et ivi sorprese alquante persone che da qualche tempo erano solite giorno e notte trattenersi al giuoco di Bassetta e Faraone, et attrappategli circa 100 lire che avevano sul banco, asportò anche li tavolini, e sedili, indi citò li primarii, fra i quali alcuni preti, che il giorno seguente furono corretti dal Mag.to, e l'oste condannato a 6 ducati d'argento”. 



Alla fine l’ometto si volterà e se ne andrà via, e strada facendo ritornando verso casa penserà ancora che in quella Piazza superba e splendida ogni giorno suo padre si sedeva in un angolo a gustarsi il tepore del sole.

“Il sole, la Musica in Piazza, i pittori che dipingono, la gente che passa sono cose belle che non costano ancora niente.” amava ripetere. Le sue tasche erano sempre rigorosamente vuote, lavorava dodici ore al giorno dentro al chiuso di un’asfittica cucina di ristorante per racimolare qualcosa per mantenere moglie e tre figli piccoli che nella sua isoletta spersa in fondo alla Laguna aspettavano di vederlo “come la manna scesa dal Cielo”. Anche lui in un certo senso, pur nella sua pochezza è stato “un Leone, un figlio di San Marco” … perchè nel suo piccolo ha inventato Storia.

Un tempo si viveva anche di questo: era festa anche il solo vedere in faccia e abbracciare una persona.

In conclusion l’ometto rientra a casa, e finalmente la smette di pensare e ripensare … ma Piazza San Marco in ogni caso rimane non mai detta e vista abbastanza, ha sempre qualcosa da ricordare e rivelare, e di non raccontato ancora a sufficienza.

Me l’ha detto quell’ometto … con cui sono parecchio in confidenza.


















“SO ANDA’ A BURAN E …”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 85.


“SO ANDA’ A BURAN E …”


(Giacomo Guardi -  "Sant'Alvise verso la Laguna")

“Giorni fa, tornado dalla Contrada di Sant'Alvise, andavo in giro per Venezia per gli affari miei come altre volte, e ho incontrato verso Campo Sant’Aponal Giacometto Guardi.”

(Giacomo Guardi - Campo Sant'Aponal")

“Giacomo chi ?”
“Giacometto … il figlio di Francesco … il pittore che ha dipinto tutta Venezia dritta e rovescia girandola come un calzetto ! … Non lo conosci ? … Niente … Va bene non importa.”

“E allora ?”

“Insomma mi ha preso per un braccio, e mi ha detto: “Vieni ! Andiamo dentro a questa bèttola a mangiare un folpetto e bere un’ombra che ti racconto …” … e siamo entrati dentro a un bel bàccaro andando a Rialto.”

“E dopo ?”

“Mi ha detto: “L’altro giorno ero stufo di stare immerso dentro al caldo afoso di Venezia, e ho deciso di uscirne fuori andando in laguna aperta … e allora so andà a Buran ! … Ecco qua le fotografie !”

“Ma Giacometto ?” gli ho risposto subito, “la macchina fotografica la deve ancora essere inventata … Siamo ancora nel 1700, abbi pazienza …”

“E va beh ! … Fa lo stesso … Comunque: ecco qua !” e così dicendo mi ha buttato davanti al “Gòtto” sopra al tavolo sgangherato e unto un pacco di fogli, schizzi, disegni che parevano per davvero future fotografie.”

“Che meraviglia Giacometto ! … Che gran vedute ! … E come è andata ?”

(Giacomo Guardi - "Campo San Cancian.")

“Non essendo ancora stata inventata l’ACTV … So andà nel Statio delle gondole per le Isole di San Canziàn … quello aderente alla chiesa e sotto al portico, e ho chiesto: “Quanto per portarme a Buran ?” … Il gondoliere-barcarolo mi ha risposto: “Sono trenta bezzi … ma se mi offri un cartoccio de pezze fritto a Buran e un’ombra de bianco a mezzogiorno, ti faccio fare tutto il giro della laguna fino a stassera.”

“Ostrega ! … Che occasion !”

 (Giacomo Guardi - "Isola di San Cristoforo di Murano.")

“Infatti ... “Affare fatto !” gli ho detto … e siamo partiti immediatamente … Passati accanto alle due isolette di San Michele e di San Cristoforo, abbiamo superato anche San Mattio de Murano senza fermarse.”

(Giacomo Guardi - "San Mattio di Murano.")

“Siete andati di premura !”

“Proprio così … Spingendo sui remi con muscoli grossi così, abbiamo raggiunto presto la cavana di San Giacomo in Paludo … E lì: giù ! … Un primo sorso de vinello fresco per darsi forza … lui di vogare … e io di disegnare … E poi avanti.”

(Giacomo Guardi - "Isola di San Giacomo in Paludo.")

“E dopo: Madonna del Monte, Mazzorbo, Torcello vero ?”

“Sì … Sì … Siamo passati davanti a Santa Caterina de Mazzorbo, perché il Canale Novo devono ancora pensarlo e tagliarlo, e siamo finiti in secca proprio davanti a San Mattio de Mazzorbo: un’ora con le gambe in acqua per venirne fuori.”

(Giacomo Guardi - "San Maffio di Mazzorbo.")

“Già pieni di vino ?”

(Giacomo Guardi - "San Tommaso dei Borgognoni di Torcello.")

“Macchè … solo distrazione, ma ne siamo usciti presto tutto compreso … In giro neanche “Un’anima viva” ! … Allora abbiamo lasciato in lontananza a sinistra San Tommaso di Torcello, e siamo passati proprio davanti al Monastero delle Monache di San Mauro o Moro di Burano, e senza fermarsi siamo andati oltre seguendo il Rio di San Martin fino ad arrivare quasi in centro al paesello.”

(Giacomo Guardi - "San Mauro o San Moro di Burano.")

“Lì, poco distante da San Martin, è accaduto di tutto … Dei pescatori ubriachi sono usciti fuori cantando da un’osteria, e fatalità si sono trovati di fronte a due barche Ciosotte e Muranesi che ostruivano il canale … Fumo negli occhi e subito parole e botte da orbi … man sul muso, e remi che andava e veniva alzati in aria …”

(Giacomo Guardi - "San Martino di Burano.")

“Mi vago a magnàr ! … Dopo tu paghi !” mi ha detto il barcarolo che ha legato la barca alla riva ed è subito scomparso … e mi sono trovato solo, anzi, in mezzo a tantissima gente speciale, e fra le case colorate che mi pareva una festa … Mentre mi guardavo intorno, mi sono sentito tirare la giacca da una parte, e mi si è presentato accanto un bimbetto rosso e rissetto ... “Questo vuole soldi !” ho subito pensato. E invece no … Voleva solo mostrarmi entusiasta tutte le bellezze della sua isoletta. 
(Giacomo Guardi - "San Vito e Modesto di Burano.")

Tirandome “come un becco” e senza lasciarmi prendere fiato, mi ha trascinato a vedere a sinistra di San Martin già col campanile storto, la chiesetta ancora delle Muneghe Benedettine di San Cornelio e Cipriano, verso la Vigna (dove verrà costruito in futuro il Cinema dei Preti) … E non stanco ancora, mi ha tirato dalla parte opposta costeggiando i rii e la piazzetta portandomi prima a visitare la chiesa sempre delle Monache Benedettine di San Vito e Modesto poi dopo il ponte, quella di Santa Maria delle Grazie delle Suore Cappuccine … Voleva portarme anche a vedere la chieserella de San Rocco … ma non c’era tempo.

(Giacomo Guardi - "Santa Maria delle Grazie delle Cappuccine di Burano.")

Fra ciacole e baruffe di donne ispiritate, e una vecchia che a tutti i costi voleva vendermi a peso d’oro i suoi merletti … fra quelli, invece, che volevano offrirmi da mangiare pesce fresco e regarlarme i “bussolai” … son quasi dovuto scappare via perché dalla Montagna stava calando e rotolando giù per il cielo una nuvolaglia nerissima che chiamava tempesta.

Ho raggiunto di nuovo e di corsa la barca dove c’era il barcarolo che dormiva disteso a prua … e mollato in fretta la corda, dopo aver infilato la testa in acqua per svegliarse dalla sbronza, ha ripreso col mal di testa a remare con una certa lena.

(Giacomo Guardi - "Isola di San Francesco del Deserto.")

Spingendo sui remi, mi ha fatto scendere solo per un attimo a salutare i Frati eremiti di San Francesco del Deserto … e con una premura boja perché il temporale ci stava “alle calcagna”, siamo passati davanti a Sant’Erasmo mentre dal cielo pareva che venisse giù “il finimondo”… e invece, niente: “tanto fumo e poco arrosto” … ha fatto solo due gocce.


(Giacomo Guardi - "Isola di Sant'Erasmo.")

Siccome però si andava a sera, il barcarolo diventato stanco e quasi muto, mi ha portato quasi volando a Venezia passando davanti a Sant’Andrea della Certosa e fino in Piazza San Marco dove el me gha molà in terra sul Molo come una carogna. “Son quaranta bezzi !” mi ha detto.”

(Giacomo Guardi - "Isola di Sant'Andrea della Certosa.")

“Ma non avevamo pattuito trenta ?”

(Giacomo Guardi - "La Riva degli Schiavoni verso Piazza San Marco.")

“Si … ma con questo caldo, e tutta la corsa che mi hai fatto fare per scappare dalla bufera … Sono diventati quaranta … Anche perché ti sei dimenticato di passare a pagare il Frittolìn di Burano … che è rimasto “sul gòmio” a me.” … Cosa te pàr ?”

“Un gran bel giro Giacometto !”

“Una meraviglia ! … Come andare in Terrasanta … Peccato che come un sogno mi sono risvegliato presto … e mi ritrovo di nuovo a calcare le pietre della nostra Venezia.”

“Mi hai fatto venir voglia di andarci … Stavolta tocca a me …” gli ho risposto uscendo a Rialto nel sole del mezzogiorno mentre  i gabbiani urlavano in alto sembrando entusiasti di quella mia nuova proposta ... tanto che hanno esternato commossi imbrattandomi tutta la veste nuova … Maledetti cocài ! … Un giorno o l’altro …”

(Giacomo Guardi - "Campo San Cassian.")

E me ne sono andato per San Cassian, per San Boldo e Santa Maria Materdomini ... e più tardi fino a Santa Maria Maggior..."
(Giacomo Guardi - "Campo San Boldo".)
(Giacomo Guardi - "Fondamenta Santa Maria Maggiore".)

http://iostedrs.blogspot.it/2013/08/estate-lontana.html

“IMBRIAGONI & MERCANTI DA VIN … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 86.


“IMBRIAGONI & MERCANTI DA VIN … A VENEZIA.”



(la Sala del Capitolo della Schola dei Mercanti da Vin a San Silvestro.)
Mentre in Inghilterra si stendeva ancora la paglia sui panconi dove dormiva il Re di passaggio, a Venezia nel 1270 si obbligava gli Osti a tenere non meno di 40 letti forniti di coltri e lenzuoli, pena 100 soldi per ogni letto di meno, vietando loro allo stesso tempo: “… d’alloggiar meretrici, aver più d’una porta pubblica, né vendere altro vino che quello dato dai tre Giustizieri.”


Quando la differenza conta … e trascorsero secoli.


Il libretto “Il gran maestro dei forestieri”, una specie di Guida turistica del 1712 spiegava: “… eccoti dunque, amico passeggiere, giunto felicemente alle sponde dell’Adria, dove, tosto mirando con occhio curioso, vedi sorgere mezzo spatiosa pianura d’acqua l’inclita città di Venetia.

Eccoti, appena posto piedi a terra dal calesse o cavallo, circondato da numerosa folla di mercenari, che ricercano di servirti con importune esibizioni per islegare le tue valigie e porre il tutto nella piccola barca, o vogliam dire gondola, che sta per tragittarti alla città. Infine avanti di partire dal Lido si vede, confuso dalla voce di molti, che chiedono pagamento del preteso prestato servizio, nello slegare i tuoi arnesi, onde tosto ti conviene contendere a chi havessi comandato d’operare.

RICORDATI BENE: per liberarti, dunque, da tale importuno intrico, avanti di slegar cosa alcuna, chiamerai a te il solo padrone della barca, che tragittar ti deve a Venetia, et ordinargli in persona, o facendogli assistere dai tuoi servi, et in questa forma sarai esente da tali temerarissime ciancie, e sarà fedelmente custodita la tua robba, senza spesa veruna.

Sei miglia in circa devi passar d’acqua, per ordinario placida, et assisi nel picciol legno, discorrendo con li tuoi compagni, o rammentandoti da te solo gli accidenti de’ viaggi passati, stupirsi nel veder sorgere una si maestosa città in mezzo al mare. Così dopo lo spazio di un hora in circa ti vedo giunto in città, dove ti sento ordinare ai Barcaroli di condurti a qualche alloggiamento; da questi sarai informato trovarsi diverse Osterie che alloggiano forastieri d’ogni grado e condizione…”


Venezia era già Venezia … molto simile ad oggi … comprese le angherie e gli imbrogli nei riguardi di turisti e ospiti che riempiono le cronache ancora in questi nostri giorni. La vicenda del Garage San Marco di Piazzale Roma è proprio notizia di ieri.


Volevo però parlare d’altro …

(i Vinai sugli Arconi del Portale delle Arti e Mestieri della Basilica di San Marco.)

Onestamente, anche se Venezia ha sempre posseduto belle vigne soprattutto nelle isole di Sant’Erasmo, Mazzorbo, Lido, e poi anche nel Litorale e nella Terraferma, e perfino nel centro storico come le Vigne delle Monache di San Lorenzo e San Zaccaria, o quella che c’era nell’attuale Piazzale Roma; ebbene il vino Veneziano non è mai stato un granchè buono, né mai considerato pregevole. Sarà stato forse colpa della terra salmastra, o dell’eccesso d’umidità, o di chissà che cosa, sta di fatto che il vino di Venezia è sempre stato un po’ sapido, amarognolo, non proprio gradevole al palato. Non un gran vino, insomma.


Comunque a Venezia come altrove, il vino è sempre stato considerato per millenni come panacea e rimedio per diverse situazioni e molti mali. In mille modi e maniere diverse si finiva sempre per darlo a bambini, vecchi e malati … e che sia stato forse per l’effetto vasodilatante dell’alcol, o perché il vino infonde sempre quel senso di calore e sa far dimenticare la fatica, sta di fatto che i Veneziani hanno sempre assunto la loro dose quotidiana … magari annacquata se avevano le “tasche bucate”. Pescatori, Marinai, Facchini, Artieri, Popolani, Mercanti, Cittadini e Nobili di ogni tipo … e perché no ? Anche Frati, Preti e Monache di ogni Convento e Chiesa … Tutti per secoli hanno preteso e ottenuto la loro razione quotidiana.



“Ah ! Quale limpida e fervida devozione !” si compiacque un giorno la Badessa Donata Morisini con la sua Vicaria la Monaca Caterina Badoera.” si legge in un’antica cronachella. “Sentivano, infatti, provenire dal basso dei chiostri del Convento di San Lorenzo di Castello le voci leggiadre, allegre e canterine di alcune delle Monache del prestigioso Monastero.
Meno entusiasta fu in seguito la stessa Badessa di costatare che, trascorse le ore e giunta l’ora del Vespro, inspiegabilmente erano assenti dalla recita delle Orazioni del Coro diverse Consorelle. Mancavano sia la Monaca Ortolana, la Canevaria, la Lavandera, e perfino l’austera Madre Maestra con due delle sue giovani ed esuberanti  novizie. Non era mai accaduta una cosa del genere.

“Quale sospetta beatitudine !” Esclamò stavolta la Badessa alla sua Vicaria costatando che tanta gaiezza, che non stava affatto scemando, proveniva dalla Caneva del Convento.

Allora terminato il rito, la Badessa e la Compagna si risolsero a scendere le scale di sotto per andare a vedere oltre la Corte, in fondo al giardino. Giunte che furono finalmente alla Caneva del Monastero, sospinta la grezza porta, si trovarono davanti uno spettacolo che non fu affatto divertente. Le Monache assenti cantavano tutte prese non da “Spirito Divino”, ma da un più basso e trasfigurante “Spirito di Vino”, in quanto s’intrattenevano … e non solo … in compagnia degli homeni dei Trasportatori e Travasadori da Vino, e con i Bastazi-Facchini e Barcaroli che avevano rifornito il Convento ... Tutti erano presi da inebriante e bacchica frenesia canora e danzante … e quel che non può raccontare la parola lo videro gli occhi.

Nei giorni seguenti le Monache ispiritate e goliardiche del San Lorenzo cantarono ancora, ma stavolta in maniera meno angelica, ma di pena e d’afflizione per le ristrettezze procurate nella squallida cella-prigione in cui furono per settimane rinchiuse a vivere “a pane et acqua” dentro al Campanile del Monastero ... Lo “Spirito di Vino” insegni !”


E’ solo un esempio … A Venezia è sempre esistita una grossa attività e un intenso lavorio intorno al vino.


I principali fautori, si sa, furono gli Osti, i Caneveri, i vari acquisitori e venditori del piacevole quanto “fatale” liquido capace anche di “aprire a verità”, ma avvenne anche un intensissimo movimento di trasportatori con navi, barche e carri, con una folla di misuratori e assaggiatori, confezionatori, cantinieri e conservatori, e perfino chi andava in giro a servire e rifornire “porta a porta” o “casa-palazzo”. Attorno al vino, ad esempio, ruotava l’attività di tanti “Mastri” delle Arti e dei Mestieri dei Botteri e dei Cerchieriche sapevano inventarsi barili, mastelli e contenitori di ogni forma, tipo e capienza … ma c’erano anche i Boccaleri, i Travasadori e i Misuradoriche provvedevano a mescere, vendere e distribuire nella maniera migliore ... ciascuno congregato in specifiche, rinomate ed esclusive quanto apposite “Schole”.

A Venezia si vendeva, acquistava e beveva vino in mille posti e maniere: nelle Malvasie dove si vendeva vino pregiato portato a Venezia da galee armate provenienti da Cipro, Grecia e Puglia, nelle Furattole, Caneve, Ostarieche si chiamavano anche “Sanmarchi o Sanmarchetti” per l’insegna Marciana con cui si fregiavano davanti alla porta, e poi ancora in: Bettole, Bàcari, Cantinefino ai pessimi Bastioni e Magazzini dove si smerciava lo scadente “vino da pegni” usato dai popolani come moneta di scambio per prestiti. Si otteneva una parte in vino e un’altra parte in soldi.

Il Vino si vendeva anche sfuso, “al palo”, eccetto che da maggio a ottobre per la troppa calura. Succedeva a Rialto, San Marco e Giudecca da dove venne presto revocata la vendita perché alcuni Veneziani sfuggivano con troppa insistenza al Dazio sul Vino.

Dal 1551, la vendita del Vino all'ingrosso era consentita dalla misura del “Secchio” (ossia 10,7 litri) ad oltre usando le capacità di: “Burcio”(cioè 60 Botti), “Botte”(cioè 10 Mastelli), “Anfora”(4 Bigonce), “Bigoncia”(2 Mastelli), “Mastello”(7 Secchie), “Barile”(6 Secchie),“Secchia”(4 Bozze), “Bòssa”(4 Quartucci) e “Quartuccio”(ossia 4 Gotti).


Sono d’accordo … era una bella confusione, un gran casino di misure … ma tutto era preciso e controllato, e si misurava il Vino con apposite “misure vitree bollate dal Governo”, e secondo le antiche consuetudini era permesso venderlo sulle due "rive"di Rialto e San Marco: “… anche nei giorni festivi e nelle domeniche, eccetto che a Natale, Pasqua, Pentecoste, Corpus Domini, Ascensione, Annunciasion e alle Feste Benedette della Madonna dea Salute e del Redentor.”


Già nel 1330 si rivendevano a Venezia 2000 anfore di Vino l’anno comprandole a 8 lire l’anfora, e facendone un “grosso guadagno” di 9-10 lire l’una … Una legge apposita ricordava a tutti che: “… Osti e Bastioneri possino tuor pegni ed anco il gabàn a chi avesse mangiato e bevuto senza pagare …”


Alcuni dei nomi degli Osti di Venezia che ci sono giunti sono curiosi: Almerico della Stella, Chiara ed Elisabetta figlie di Meneghino Trombettiere, Pietro dal Gallo, Marchesino Trevisan detto Merlitio, Manfredodell’Osteria delle Monache di San Servolo, Almerigo di Fraganescodell’Hosteria da Comun, Biagio de Ripa, Bartolomeo Pizegotto… altro Oste dell’Osteria appartenente alle Monache di San Lorenzo (quelle della storiella citata sopra), Marco Montanario, Pietro Quintavalle, Giacomo da Mestre, Francesco Quintafoya, Filippo Barba de becho, Paolo cambista, Graziolo Domafollo, Matteo Sermede … e molti altri.

Ciascuno vendeva Vino di Romania, Candia, Malvasia, Arbe, Dalmazia, Schiavonia, Ribolle d’Istria, Vino Tribiano o di Toscana e del Papa, e Vino della Marca, da Bassano, dal Cenedese (Vittorio Veneto e Valdobiadene), dall’Abruzzo, daBarletta, Otranto e Monte Angelo di Puglia, “da Neapoli, Siciliae et Gaietam de Calabriae”, da Forlì e Imola … Era consentito allungarlo con l’acqua per diminuirne il prezzo, e quando una notte di letto in Locanda costava da quattro a sei lire di piccoli … si era costretti a pagare un Dazio per anfora di Vino di quattordici lire di piccoli.



I Veneziani comunque non si scoraggiavano, anzi, erano industriosi, perché esistevano perfino alcune Osterie galleggianti “poste su peate” col permesso di sostare oltre al ponte di Rialto e nel Canale di San Marco per vendere piccole quantità di Vino sfuso ad uso familiare … Su questi improbabili navigli galleggianti nel 1344 la Serenissima concesse il permesso a Frate Pietruccio d’Assisi di elemosinare vino “a favore delle Balie dello Spedale della Pietà”,e all’eremita Andrea del Birro: “a favore di carcerati e poveri permettendo loro di tenerne una parte a loro personale vantaggio”. Il Maggior Consiglio tuttavia, revocò presto il permesso di vendere Vino presso San Marco, perché intorno alle barche: “Ogni giorno venivano commessi omicidi e troppo rumore intorno alle vendite pubbliche del vino.”


Venezia era sempre Venezia, insomma, c’era Vino per tutte le situazioni, per tutti i gusti e palati, e per tutte le tasche, tanto che il Vino venne considerato un bene necessario e di prima necessità come il sale, la farina e l’olio.

E come: “due più due fan quattro, il Vino venne perciò soggetto a Dazi … e nacquero perciò di conseguenza li contrabbandi”.


Nel giugno 1459 infatti, il Senato deliberò di costituire “un manipolo di Cavalieri addetti alla sorveglianza dei luoghi, strade maestre e secondarie dirette a Mestre …” per tentare di ridurre il contrabbando di Vino verso la Laguna e lungo i canali che portavano a Venezia.


“… Perché el vien fato molti contrabandi al nostro Dacio del Vin in le parte de Mestrina verso Tesera, Champoldo, San Martin de Strata et altri luoghi che deschore verso el Sil, et etiandio per la via del Botenigo chome ha inteso i nostri Governdadori, i quali per questa ragione sono stadi fora.

Et el sia iusto che hognun paga i dacii limitadi et consueti.

Landerà parte che per iditi Governadoti, sia electo uno Chavo de Chavalari, el quale abbia homeni 4 appresso de lui chon altri 4 Chavi, in summa 5 persone, habia de salario al mexe ducati 13 d’oro, e sia tegnudo star a Mestre chon iditi soi compagni, non sia homo del Mestrin, né Trevisan, né Padovan. Sia el dito obligato andar per el Mestrin dala parte de Tesera et verso el Sil, et su Trevixan, et verso el Botenigo verso la parte de Miran, zercar et inquisir tuti queli conduxe vini verso quelle parte, si chon chari chome con barche et burci, i qual non havesse bolete de condur iditti vini a Mestre, over a Venexia de i luoghi dove i torà iditi vini, queli liberamente sia perduti chon ichari, over barche, burchi et buo, et havendo etiamdio bolete, se i se laserà trovar fuor dele strade maistre over chanali che vegna verso Mestre et Venexia, sia intexo chassi perduto come se inon havesse bolete … Et azio iditi luogi de Tesera, San Martin, Champoldo, Terzo e verso Botenigo et altri luogi habia tanto vin faza quanto isia bastevoli per lo viver suo, damo sia prexo chel Podestà de Mestre e idacieri ogni ano 2 volte debia limitar a iditi luogi quello i sarà de besogno: e non essendo dachordo iditi Podestà e Dacieri, entra i Governdadoti; e sel sarà acusando algun di diti luogi nominadi de sopra haver venduto alcun vin et habiasse la verità, chaza del lire 500 la qual sia ½ del acusator laltra metà a eser partida ut supra; la qual parte sia cridada a Treviso, Mestre et altri luogi in li zorni di marchado… Le palade veramente di diti luogi e a ichanali sia provisto segondo aparerà a iditi Governadori si de palificarii, cheme de chassar iditi palatieri over chambiarli et zonzer …”


I Dazieri della Serenissima avevano fama d’essere temibilissimi e molto scaltri:

“Se i contadinotti di Mestre, Tessera e Campalto sono furbi … si sappia che i Gabelotti Dazieri della Serenissima lo sono mille volte di più ... Se loro mettono i salami sotto alla barca per non farli trovare e saltare di pagare il Dazio … i Gabelotti passeranno una corda sotto tutte ogni barca per vedere se il fondo è davvero piatto del tutto ... E se una botte vuota non suonerà come dovrebbe, significherà che anche se all’occhio sembrerà tale, in realtà non sarà vuota ma celerà qualcosa ... Anche la barca non affonderà sotto al livello dell’acqua se trasporterà soltanto cose senza peso … ma se si vedrà spingere faticosamente vogando in quattro sul canale di ritorno dal Molendino de la Laguna, verrà da pensare che un “Niente” trasportato non farà sudare così copiosamente … ma ci dovrà di certo essere nascosto in qualche sottofondo del fresco macinato o della buona farina.”


Visto che era considerato un bene irrinunciabile e di grande profitto, a Venezia non era affatto cosa semplice vendere il Vino perché il Governo sovraintendeva del tutto alla sua gestione avendone creato un vero e proprio monopolio.


Un po’ come si fa ancora oggi con le sigarette, i liquori, i valori bollati e anche il sale. La Serenissima attraverso i suoi Giustizieri trattava direttamente con i Mercanti da Vin le partite di vino da commerciare: ne“tastava”, stimava la qualità assaggiando le “mostre”, e se soddisfatta comprava il vino che rivendeva agli Osti che a loro volta lo dovevano vendere a prezzo calmierato alla gente e agli avventori-clienti. La differenza di prezzo ovviamente l’intascava lo Stato.

Ma non è tutto, perché il Senato in persona si preoccupava di concedere permessi speciali “d’incanovare il vino”, e appositiMagistrati al Vino controllavano in giro per Venezia le rivendite, i“Travasi” perché il vino non venisse“battezzato”, o adulterato e annacquato ossia “reducatur acquam oltre misura” da Osti e Tavernieri. I Magistrati al Vin facevanosuggellare botti, barili e bottazzi, e perquisivano a sorpresa con i loro Fanti: Caneve, Malvasie e Osterie e tutto il resto ricavandone una percentuale del 10-12% di soldi di piccoli per ogni anfora venduta.


E non accadeva come spesso succede oggi che Magistrati-Controllori intascassero sempre e comunque e facilmente la mazzetta. Accadeva sì qualche volta, ma la Serenissima vigilava attentamente perché nel settembre 1331, ad esempio, la differenza ricavata dalla vendita di Stato sul Vino dell’intera isola di Murano venne utilizzata per riparare le rive e scavare il canale della Contrada di Santo Stefano della stessa isola …Nel settembre 1370, invece, si decretò la proibizione per tutti i Veneziani di andare a bere vino dentro al Fontego dei Tedeschi dove i Mercanti Allemanni avevano un’Osteria a loro riservata … con prezzi “speciali”a favore dei Mercanti da Vin …Nell’agosto 1388 col guadagno pubblico sulla vendita del Vino si provvide a pagare la riparazione di un campanile di Venezia colpito e bruciato da un fulmine ... Nell’aprile 1398, il Senato Serenissimo concesse al Signore di Padova:“ … di far transitare per le acque e i porti nostri del Friuli senza pagare Gabella: venti botti di Vino Pignolo per proprio uso e per la Sanità della sua gente” 

Nel giugno 1409, i Signori di Notte al Civil con apposito “Capitolare” deliberarono:“… d’infliggere una multa di 500 lire, la perdita del vino e dell’esercizio mercantile a chi aveva condotto e venduto vino a Venezia dal Trevigiano e dalla Marca falsandolo “cum melatio et rucchetta”. Il barcarolo sarebbe stato condannato alla pubblica berlina per un giorno, e la sua barca bruciata facendogli pagare una multa di 100 lire” … Nel novembre 1458 la Serenissima comprò all’ingrosso vino rosso e bianco e mosto pagandolo in contanti da Bertolin fiòl de Ser Zan Piero de Gonza de Vicenza che vendeva sulle“Zatre in San Basilio”.

Venezia avevano perciò tutto l’interesse che il Vino fosse effettivamente buono e di qualità e quantità giusta.


Il Dazio in “Entrada e Insida” del Vino all’ingrosso a Venezia era enorme, così com’era grande un secondo Dazio che si doveva pagare sul “vino a spina”, ossia sul consumo spicciolo e al minuto del vino (gli Osti avevano quindici giorni di tempo per pagarlo dal momento in cui veniva loro consegnato il carico).La gestione dei Dazi del Vin veniva concessa dal Governo in appalto ai più ricchi dei Mercanti (Malipiero, Soranzo, Morosini, Donà)che potevano permettersi di sostenerlo pagando ingenti somme biennali alla Serenissima. L’appalto del Dazio del Vino di Venezia per un anno costava circa 70.000 ducati, e corrispondeva a un terzo dell’intero patrimonio dei Nobili Pisaniche per non rischiare troppo, ne acquistavano di solito solo una parte.


Il Dazio sul Vino venduto imposto a Pellestrina come a Torcelloera più basso e ridotto, e gli Osti del posto dovevano andare a chiedere la“lettera d’uso e permesso per vendere” al Podestà di Poveglia che avrebbe provveduto a controllare e stimare le qualità e quantità, e a suggellare e bollare vasi e botti … Nel marzo 1423 l’Oste Andrea de Robabellis che gestiva“l’Hosteria da Comun de la Serpa” vicino a Piazza San Marco, pagò oltre 1100 ducati di Dazio per 80 anfore di vino provenienti dalla Romania, Malvasia, Tribiano, Ribolla e Marca … ma gli venne concesso di cambiare senza pagare Dazio due anfore che si erano guastate diventando aceto.


A Venezia, comunque, non è accaduto solo questo, ma come sempre è successo ben di più.


In Contrada di San Silvestro, precisamente proprio attaccato al fianco della chiesa, muro con muro, "sora el portego de la chiesa", c’era e c’è ancora quella che è stata la sede della Schola della Santa Croce dei Mercanti da Vin, la cui nascita e Mariegola venne autorizzata dal Consiglio dei Dieci e dal Patriarca di Grado, e approvata dai Provveditori da Comun e dai Giustizieri Vecchi fin dal novembre 1565.


(La pagina miniata della "Candelora" nella Mariegola dell'Arte dei Botteri di Venezia.)

Due anni dopo, la stessa Schola stipulò un accordo col Capitolo di San Silvestro ottenendo l'assegnazione in chiesa di quattro Arche (tombe)per seppellire i Confratelli, e l’uso dell'altare “della Madoneta", il primo a destra entrando in chiesa “su cui potevano celebrare in esclusiva solo i Preti di San Silvestro”. I Confratelli provvidero subito a rifarlo con Damiano Massa cambiandone il titolo in quello “della Croce o di Sant’Elena”, abbellendolo con una pala del Porta Salviati.

Dieci anni dopo, la Schola ormai divenuta affermata e stimata in tutta Venezia, decise di costruirsi un vero e proprio ambiente privato su due piani a ridosso del campanile: Cappella a pianoterra, ed elegantissima Sala del Capitolo di sopra con bel soffitto e pareti dipinte con “Storie della Croce” forse da Gasparo Diziani e Gasparo Rem.

Dentro alla Schola dei Mercatanti da Vin “si faceva insegnar el di de lavoro et la festa a 20 alunni” al “Rasonato” Bartholomeus Partenius di Augustino di 45 anni, e a Blasius Pellicaneus di 32 anni da Treviso, che insegnavano a: “Leger, scriver, abbaco e tenìr conto et a qualchiun che non è troppo capace: librii doppii ... et el Salterio, el Donado, el Fior de Virtu’, la Vita de Marco Aurelio Imperador ... et c’è chi legge sul Legendario de Santi, Epistoli, Evangelii vulgari, la vita de diversi Santi ... Ghe ne anche di quelli che leze l’Ariosto…”



Visto il successo dell’Associazione-Fraglia, in seguito, nel 1609, si consociarono ai Mercanti da Vin anche i Travasadori e Portadori de Vin  che fuoriuscirono dalla loro primitiva sede al pianterreno di Ca' Barbarigo in Calle del Gambaro. Infatti nel 1677 si legge nella Mariegola: “Gli iscritti anche della Schola dei Travasadori e Portadori da Vin possono servirsi nei funerali indifferentemente del manto dei Travasadori o di quello dei Mercanti da Vin.”


L'Arte dei Mercanti da Vin riuniva soprattutto i venditori di vino all'ingrosso venduto soprattutto a Rialto, in Riva del Carbon e Riva del Ferro diventata poi Riva del Vin, ed era costume dei venditori:“raccomandare di miscelare il Vino con droghe e aromi per migliorarne e variarne il sapore … e anche l’effetto.”


Nel 1773 i Confratelli dei Mercanti da Vin erano ancora: 18, e gli iscritti nel 1797, alla fine della Repubblica Serenissima, erano ancora 42.

La Congrega o Schola celebrava annualmente il 3 maggio con ben 12 Messe solenni la Festa della Santa Croce di cui ovviamente possedeva una preziosissima Reliquia, ma era devota anche ad altri numerosi Patroni come San Adriano e San Giobbe, mentre San Bartolomeo era Patrono dei Travasadori e Portadori da Vin, e non si disdegnò … già che c’erano ... di “devozionare” adeguatamente anche San Giorgio, San Girolamo, Sant’Andrea e San Nicolò ... “Non si sa mai, tutto potrà tornare utile … ogni Santo sarà buono per proteggere la nostra Benedetta Schola.”

Ancora nel 1800, una “cronachetta veneziana da sacrestia” raccontava di alcuni “scherzetti fatti col Vino”proprio in chiesa a San Silvestro: “… il Nonsolo-Sacrestano mise del Rum dentro all’ampolla per la Messa sull’altare del nostro Piovano. Lo fece perché quello gli aveva fatto per primo l’imbroglio di mettergli olio da lampade nella bottiglia del “Vin Santo da Messa” che quello andava spesso ad assaggiare e tracannare ... Entrami per pura coincidenza erano abituati a trangugiare e bere d’un colpo solo, con una gran sorsata, “d’una sola fiata”, “con un’unica siàda” … Immaginatevi perciò l’effetto e la sorpresa in cui intercorsero entrambi: il Nonsolo, che andò avanti a sputare schifato per tutto il giorno … mentre il Piovano colto sull’altare nel bel mezzo del Sacro Rito davanti alla sua gente, fu indotto diventando paonazzo ad emettere un potente rutto e un grido di sorpresa davanti ai devoti fedeli, sentendosi avvampare la gola e poco dopo anche tutto il corpo ... con grande euforia.”


Sempre nella stessa Contrada e chiesa di San Silvestro, sorgeva poco distante anche la Schola de San Tommaso de Canturbia o di Canterbury dei Barileri e Mastellai o Mastelleri o Galederi o Gadeleri. Si riuniva fin dal 1282 nel "locho da basso", in "una caxa de muro coperta di coppi situata et posta appresso la chiesa ... et il campaniel ... in via publica"condivisa con la Schola dei Trombettieri e Sonadori.

In seguito anche questi ottennero il solito permesso di costruirsi lì davanti all'altare le proprie Arche per i Confratelli. Nel 1595 quell'Arte riuniva 104 Artigiani o Artieri (di cui 12 perennemente riconosciuti inabili al lavoro … Già allora si usava così ?): “… Fabbricavano barili da 1/4 di bigoncio e botesele da massimo 1/2 bigoncio; nonchè mastelli e tinozze per il bucato, zangole per fare burro, conche e catini di legno ... Botti, barilotti, secchi e zangole venivano poi passati all'Arte dei Cerchieri per l’assemblamento finale.”

Sempre secondo la solita statistica del 1773, l’Arte dei Barileri e Mastellai contava 73 iscritti con 45 CapiMastri, 13 Garzoni e 15 Lavoranti distribuiti a Venezia in 21 botteghe, e organizzava una solenne processione per tutta la Contrada di San Silvestro prima di far celebrare a proprie spese “una Messa solennissima dai sussiegosi quanto avidissimi Preti del Capitolo di San Silvestro … che volevano sempre essere pagati in anticipo.”


Poco distante da San Silvestro, di fronte alla stessa Schola dei Mercanti de Vin, sorgeva anche la Fraglia e Tragheto dei Barileri, Tragheto “de çitra” con diciotto libertà” (licenze di voga e trasporto di persone e cose) lungo la Riva del Vin, dove si accatastavano in arrivo o partenza un gran numero di Barili sottoposti al pagamento del solito apposito Dazio.


Dentro a questo gran giro di Vino, non poteva mancare e non esistere in Venezia la Schola di San Giovanni Battista del Corpo dei Canaveri o Osti o Cameranti e Locandieri eCalamieri e Vinai in seguito comprendente anche gli “infimi Bastioneri”, che vennero autorizzati ad associarsi dal Consiglio dei Dieci fin dal giugno 1355, quando le Osterie a Venezia: “… erano 24 con 960 posti letto e con cavalli e stalle, dove per 6 soldi di piccoli al giorno si dava fieno, paglia e anche un quartarolo di biada.”

La Fraglia-Associazione degli Osti cambiò sede da San Mattio di Rialto “… contrada in per le strade sordide e sporche e le meretrici che non permettevano la processione ...” portandola “sull'area dal cantòn dell'organo al muro della cjesa sora il campo" della vicina Contrada “onestissima” di San Cassiano dal 1488, quando un’altra Schola di Osti “concorrente e indipendente” veniva ospitata a San Filippo e Giacomo dall’altra parte delle città, nei pressi di San Marco.


Alla firma del contratto tra Capitolo dei Preti di San Cassian e Scuola degli Osti erano presenti da una parte il Piovano Francesco Ungano o Cingano,  Tommaso de Nicolo’ de Alexio Procuratore del Capitolo, Bortolomio de Girardenghi e Varisco di Serotti dalla Giudecca Preti titolati in rappresentanza del Capitolo dei Preti, mentre dall’altra c’erano: il Gastaldo Carlo de Zuanne Oste “Al segno della Spada a Rialto”, il Vicario Ser Antonio Sarasin quondam Guglielmo Oste “Alla Campana”, lo scrivano Alessandro Sinefine figlio del defunto Filippo, e i “Compagni”: Maffio de Cristoforo d’Aurera, Marco de Zuan lazin de Agnellina e Jacomo de Nonio in rappresentanza della Schola.



(L'insegna dell'Arte dei Barileri-Mastelleri di Venezia.)
Come il solito, la Schola degli Osti di San Cassiano venne in seguito autorizzata ad innalzare un muro all'esterno della porta maggiore della chiesa, fino al "ponte de piera, ad facendo tre Arche una vicina all'altra nel portego de la chiesa".


I conduttori d’Osterie o Cameranti con 135 uomini a salario, tenevano aperte le Osterie-Locande di Venezia, e dipendevano dagli Ufficiali della Giustizia Nuova che erano “… sopra le Hostarie et facevano rasòn a li Hostieri contra quelli havesse manzato in le Hostarie et non volesse pagar …”Le Ostarie erano soggette a controlli dette “cerche” da funzionari detti “Ministri delle Albergarie”, mentre gli “Ufficiali dei Cai de Sestier” pretendevano ogni sera un registro con i nomi delle presenze nelle Osterie di Rialto e San Marco, e comminavano pene e condanne esemplari se i loro Fanti trovavano persone non date in nota.

Come da disposizioni della Mariegola, alla Schola di cui facevano parte gli Osti, potevano associarsi anche Fantesche e Massere che pagavano 20 ducati di “Benintrada” ossia iscrizione mentre i figli degli Osti ne pagavano 1 solo. Si pagava anche la tassa annuale della Luminaria”:“… per tenere sempre acceso un cesendelo ad ardere perennemente davanti all'altare, e far chiaro giorno e notte allo Missier Santo Zuanne Benedetto ... dove il giorno della festa del Patrono Titolare veniva distribuito a tutti li Compagni "pan et candelaet un disnàr (un pranzo)o al suo posto 1 ducato in premio”.


La Schola degli Osti era retta da un Gastaldo e da 12 Degani, e i “Confratelli del Vino” si ritrovava ogni lunedì “… per celebrare una Messa per le Aneme, et in remission de tutti i peccadi di fradeli e sorele di dicta Confraternita.”


E per non dimenticare di far memoria di qualcuno dentro a quel variopinto mondo di Veneziani che pulsavano in Rialto e nelle Contrade che gli sorgevano appresso, va menzionata ancora la frequentatissima e rinomata Schola dei Botteri che intorno al “Mercato del Vino” comprendeva tanta gente e forza lavorante di Venezia.


Le prime riunioni o “Capitoli” dell’Arte dei Bottai o Botteri o Bottiglieri da Vin e Olio sono segnalate già nel lontanissimo 1271. Nella Mariegola della Schola si segnalarono e trascrissero le memorie di ben 119 “Capitoli”in totale.

Il Capo dell’Arte dei Botteri era sopranominato anche: “Gastaldo della Madonna”, in quanto la Festa annuale della Schola si celebrava il 2 febbraio giorno della Madonna delle Candele o Candelora. Secondo il “Capitolo” del 1486, in quel giorno annuale di festa patronale: “… tutti i compagni devono essere presenti, ricevendo "pan et candela", e partecipare alla processione e non andarsene fino alla licenza del Gastaldo in persona.”

Secondo un altro “Capitolo”del 1483, invece, si stabilì: “… che tutti li Compagni debbano vegnir a la Schola et levar tolella ogni seconda domenica del mese ... A nessun Boter sarà consentito di iscriversi alla Schola dei Barileri.”


Nel maggio 1611, l’Arte dei Botteri di Venezia pagava per 10 anni prolungati di altrettanti 700 ducati l’anno per contribuire all’allestimento e  mantenimento della flotta navale della Serenissima … La maggior parte dei Botteri abitava in Contrada di San Cassian poco distante dall’Emporio di Rialto e della Riva del Vin, dove in Calle dell’Arco poi dell’Occhialer si giunse anche a sagomare le porte e gli stipiti dei magazzini per far passare più agevolmente le botti.
Marin Sanuto nei suoi famosi Diari raccontava nel gennaio 1511 che: “… fino alle tre ore di notte fu fatto a San Cassian in Calle dei Botteri una cazza di quattro tori, et poi certe momarie pur con homeni senza maschera justa la crida fatta per i Cai del Consejo de Diese, et fu fato alcuni balli, et fo assai persone ...”

Nel solito 1773 si contavano a Venezia 176 Botteri distinti in 130 CapiMastri, 24 Garzoni e 22 Lavoranti, mentre alla fine della Serenissima con l’arrivo dei guastatori Napoleonici, i Botteri iscritti all’Arte erano 216 attivi in 54 botteghe.

Per i Botteri era proibito il lavoro notturno al lume di candela per il pericolo frequente d’incendi … Ogni botte doveva portare “sul cocchiume” il marchio del Mastro che l’aveva costruita, e poteva essere venduta solo di sabato a Rialto o a San Marco … dove le botti rinvenute senza marchio distintivo, sarebbero state riportate a Rialto e poi bruciate ... Per evitare incette del “legname da botte” nei Capitolari dell’Arte si stabilì un limite massimo di 1500 doghe per Mastro Bottaro … Si stabilì inoltre che le doghe e i fondi delle botti dovevano essere di Rovere, d’Abete o di Castagno … e si proibì fin dal 1278 l’acquisto di doghe da rivenditori che compravano materiali fuori dalla Serenissima. Nel 1284 si ordinò anche che si doveva acquistare le doghe di Rovere solo dal Gastaldo dell’Arte del Traghetto di santa Sofia e dai rivenditori tra il Traghetto e il Ponte di Rialto, mentre le doghe in Abete si potevano comprare solo in Barbaria delle Tole nel Sestiere di Castello, o in Contrada di San Basilio nel Sestiere di Dorsoduro ... I Mastri Botteri, infine, dovevano riparare gratuitamente le botti del Doge che però doveva fornire loro i cerchi per le botti e il vitto giornaliero a Palazzo durante tutto il tempo della lavorazione … che fatalità: “durava sempre non poco … e di più che per una normale botte.



A Venezia, insomma, il vino è sempre andato alla grande, anzi, alla grandissima come dimostrano studi raffinatissimi al riguardo. Venezia è sempre stato crocevia Mediterraneo ed Europeo di commerci di ogni tipo, per cui importare ed esportare anche il Vino di ogni qualità è sempre stato di grande rilevanza … così come l’abitudine di consumarlo.

Venezia poi, per la sua naturale configurazione di città festaiola, carnevalesca e goliardica, ha sempre goduto e offerto quell’atmosfera di cordiale compagnia tipica delle Osterie, delle Locande, e del buon bicchiere condiviso insieme.

I Veneziani in genere sono sempre stati “Boni da gòtto”, assidui frequentatori di ogni tipo di Bàcari e Bettole, capaci di condividere allegria e socialità, e spesso maestri e signori nell’offrire convivialità ospitale e festosa … nonché qualche bella “inbriagadura” ... quelle grandi “balle da vin” i cui effetti sono sempre difficili da dimenticare e da passare sotto silenzio.



“I PAOLOTTI DE CASTEO … A VENEZIA, OVVIAMENTE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 87.

“I PAOLOTTI DE CASTEO … A VENEZIA, OVVIAMENTE.”


Forse non ci crederete, ma prima di scrivere questo nuovo post ho voluto tornare proprio a sedermi dentro alla chiesa di San Francesco di Paola nel Sestiere di Castello… la chiesa che è stata dei Paolotti. Entrando dentro l’atmosfera è più o meno sempre la stessa … quella di un tempo andato, ed è di certo diversa da quella che si può accendere nella mia mente rileggendo carte e libri. L’ho trovata come me la ricordavo, con la sua penombra ombrosa e l’aria di chiesuola popolare di Contrada … e col suo orologio finto dipinto in facciata eternamente fermo sulle nove e mezza.

Segna sempre un’ora che non c’è.



Mentre me ne stavo anonimo seduto in panca, è passata l’immancabile vecchierella ad accendere l’altrettanto immancabile candeletta sotto gli occhi vigili dell’altra donnona appollaiata “di guardia” in posizione strategica a cui non sfugge nulla non solo di chi entra ed esce dalla chiesa, ma anche di tutto quanto accade nell’intera Contrada di oggi.

Alle pareti e sugli altari ho riconosciuto le stesse pale e teleri di sempre (Tintoretto, Tiepolo, Giovanni Contarini, Jacopo Palma, Malombra:l’ennesima chiesa Veneziana bijoux)… però li ho trovati un po’ più scuri e affumicati, tanto che ho faticato a comprenderli e gustarli come le altre volte.

(Interno di San Francesco di Paola nel Sestiere di Castello)

Anche i Santi sparsi in giro sono sempre gli stessi … sono Santi Poveri, del popolino e delle devozioni spicciole di ieri … forse un po’ superate, con certi immagini e statue a cui forse oggi non ci si affida quasi più. Sembrano tante Anime disoccupate … come in attesa dentro ad una stazione in cui i treni non arrivano quasi più. Si sentono ancora tintinnare in giro campanelle, come quelle di un passaggio a livello … fremono perfino le preghiere come i binari, ma il treno stenta ad arrivare, ritarda, o forse non arriverà più. Sembra tutto immobile … compattato e congelato nel tempo.
Comunque sono sensazioni mie … Non badateci più di tanto. Piuttosto se potete andate a vedere un attimo quel posto di Castello … che è sempre e ancora là, e merita di certo d’essere visto e goduto.


Vi dicevo, infatti, che quella parte del Sestiere di Castello di Venezia era un tempo una zona popolare, anzi, popolarissima. Quella di San Francesco di Paola stretta attorno a quella che oggi si chiama Via Garibaldi, ma che fino al 1807 era, invece, Strada Eugenia(in onore del Vicerè d'Italia Eugenio Beauharnais) o Strada Nuova dei Giardini(inventati da Napoleone abbattendo un intero quartiere) era una Contrada più che vispa e vivissima. 
(Via Garibaldi a Castello, l'antico Rio interrato, l'ex Strada Eugenia.)
Non che mancassero i Nobili: accanto ai Corner di San Francesco di Paoladi V classe, infatti, abitavano in Ruga i Badoer, i Priuli e i Balbi, mentre i Dolfin abitavano in Rio della Tana poco distanti dagli Erizzo. Alcuni rami secondari dei Nobili Patrizi Giustinian abitavano in Riello, Querini e Marcello risiedevano in palazzi modesti in Calle del Caparozolo, Boldù in Calle San Girolamo, i Donà nei pressi di San Domenico, i Contariniin Corte del Soldà e infine i Marcorà stavano verso il Bacino di San Marco. Erano comunque i popolani i protagonisti della scena Veneziana, ma soprattutto gli Ecclesiastici e le Monache … tanto per cambiare.


Comunque oltre a popolani, Nobili, Preti, Frati e Suore non potevano mancare ed esisteva tutta una serie numerosissima d’Ospizi, Istituti assistenziali, Schole, Case-Hospitali-Hostelli che contribuivano ad affollare ulteriormente il Sestiere che sorgeva e sorge a soli due passi dal famosissimo Arsenale della Serenissima… anche lui ovviamente con la sua bella chiesetta inclusa: Santa Maria dell’Arsenale.


In Contrada, infatti, esisteva l'Ospissio del Prete Zuane o Hospeal de Comun per i vecchi Marineri (marinai)della Flotta di Stato sia Veneziani che Foresti infermi, o divenuti impotenti per cause di servizio. Curiosamente detto Ospissio della Marinarezza, era gestito dalla Procuratia de San Marco de Citra, e venne realizzato investendo un cospicuo lascito del Piovan della chiesa di San Lunardo del Sestier de Canaregio che lasciò parecchio denaro a favore dell'Ospissio Orseolo per povere donne con sede in Piazza San Marco. L’Ospissio dei Marineri consisteva in un originale complesso collettivo, una “Ruga” di cinquantacinque caxette ricavate soprattutto sopraelevando antichi magazzini del Molo di San Marco, assegnate con apposito bando, e disciplinate da preciso regolamento.

Nel 1566, vista l'impellente necessità dei Marineri reduci e mutilati, la Serenissima decretò che fossero costruite in corte colonne altre caxette, anche se andò a finire che non tutte le caxette vennero destinate a soddisfare i bisogni dei Marineri, ma furono vendute o destinate ai soliti raccomandati ... anche la Serenissima aveva le sue “pecche”.

 
(le caxetta della Marinaressa)

Oltre “all’Hospitio dei Marineri dal capottòn grosso”, c’era anche l’Ospizio di San Domenico costituito da sette caxete di proprietà dei Nobili Da Ponte che s’affacciavano sul Campo de le Furlane … c’era l’Ospizio Locatello fra il Riello e il Ramo dell’Erba, e un ulteriore Ospeàl delle Putte di San Bartolomeo spostato davanti alla chiesa dei Paolotti per allargare il loro Convento.

Ospeàl delle Putte di San Bartolomeo era sorto nel 1312 grazie alla generosità del Doge Marino Zorzi per ospitare donzelle orfane o povere che “… venivano accolte per essere educate e preservate dal loro misero destino di tribolazioni da cui spesso erano reduci.”

Per un certo periodo l'Ospissio venne governato dalla Priora Cassandra Fedele, “… che era donna dalla tempra formidabile, lesse in Medicina nello Studio di Padova, disputò in Teologia coi migliori studiosi del tempo, cantò versi latini all'improvviso, compose opere e fu celebrata da molti letterati.”


Riuscite adesso a focalizzare meglio e immaginarvi un poco com’era quell’antica Contrada di Castello ?

Spero di sì … almeno un pochetto. Ma non vi ho detto ancora quasi nulla e tantomeno tutto.


Dovrete adesso compiere un ulteriore sforzo con la mente e dimenticare innanzitutto la bella Via Garibaldi assolata e spaziosa, larga e lunghissima, piena di bancarelle, mercatini, esercizi e bottegucce che oggi conduce nel cuore di Castello. Al suo posto immaginate, invece, un lunghissimo Rio o Canale che attraversava completamente la zona per lungo dividendola in due parti ben distinte. La famosa Via Garibaldi di Castello di oggi altro non è che l’ennesimo Rio Terrà, ossia un canale interrato, una strada che una volta a Venezia non esisteva ... in quanto era “via d’acqua”.



(San Francesco o San Bortolo dei Paolotti e oltre il ponte San Domenico dei Domenicani Inquisitori)

Quella parte di Venezia era molto diversa da com’è “ridotta” oggi. Dovete pensarla come un densissimo assembramento di Chiese, Monasteri e Conventi stipatissimi di Preti, Frati e Monache pieni di idee, energia e vitalità ... e soldi, e “borezzo”, a cui quelle clausure andavano di certo strette. Non esagero … in pochissime centinaia di metri esisteva un numero elevatissimo di complessi ed edifici religiosi tanto che quell’area di Castello si poteva definire una vera e propria “Cittadella Ecclesiastica”irta di campanili e di mille campane e campanelle chiacchierine che suonavano e sbattacchiavano ad ogni ora del giorno e della notte.

Era tutto uno scampanare, un ticchettio, uno scandire e battere le ore, un suonare e convocare in continuità Veneziani e Pellegrini Foresti a devozione d’ogni tipo. Quella zona di Castello era quindi tutt’altro che tranquilla, a volte era un vero e proprio putiferio e microcosmo straordinario insieme, dove quella gran abbondanza di tonache, Regole, clausure e devozione finivano spesso per litigare per spartirsi i beni e le rendite, ma anche per avere l’esclusiva di utilizzare gli spazi, la precedenza nelle processioni, o la prerogativa di ben figurare e accaparrarsi i migliori privilegi ed elemosine.


Raccontano le cronache:“Nel 1710 alla fine ci fu lite tra i Padri di San Domenico e i Canonici della Cattedrale di San Pietro di Castello per le numerose processioni che i Frati Predicatori organizzavano lungo le fondamente del Rio di Castello ... Dovette intervenire energicamente contro entrambi il Patriarca … e minacciò perfino di farlo anche il Doge se questi non fosse stato in grado di risolvere la faccenda da solo ... Dopo numerosi alterchi e battibecchi si concluse di fare una bozza con i vari itinerari e le frequenze lasciando tutto alla decisione del Patriarca…”


E questa è una … Poco distanti da questi eterni litiganti, sorgeva il Monastero di Santa Maria Nascente o Santa Maria in Gerusalemme delle Vergini con ben 70 Monache Agostiniane Conventuali … Si trattava delle ricchissime nonchè disinibite “figlie dei Nobili, dei Senatori e dei Dogi” che: “… una ne combinavano e mille ne pensavano di peggio …”  Nel 1513 il Doge Leonardo Loredan tornò come ogni anno a “sposare” simbolicamente la Badessa delle Vergini Clara Donà baciandola sulla bocca, e questa in segno d’affetto gli donò una rosa di merletto intessuta di fili d’oro … Ma questa è un’altra storia che vi racconterò un’altra volta. A dirla diversamente, fra patrimoni immensi assurdi, debiti, eccessi e storiche rivolte, il Monastero era fulcro dell’attività scatenata e sacrilega dei Muneghini veri e propri “cacciatori e conquistatori di Monache” … Le Monache lì dentro si diedero per secoli alla “bella vita”, e l’ultimo dei loro pensieri era di certo quello della spiritualità e della sana devozione.

Visti gli eccessi, nell’aprile del 1518, si inasprì la lotta contro i Monasteri: il Patriarca Contarini e il Vescovo di Torcello chiesero aiuto alla Serenissima, e pretesero provvedimenti adatti dal Senato contro i Muneghini.

Giunse perfino da Roma Altobello Averoldo il Nunzio Apostolicoinviato dal Papa, che ottenne la lista dei Monasteri più turbolenti e il 21 maggio si recò dritto dalle Monache delle Vergini intimando alle Conventuali di ritornare all’ordine. Come risposta le Monache lo lasciarono fuori della porta e tirarono pietre sugli uomini del suo seguito.


Però le Monachelle !



(il Sestiere di Castello nella carta del De' Barbari durante il 1500)

Alla fine, siccome i tentativi diplomatici di riordino non ebbero alcun esito, il Patriarca con l’aiuto della Serenissima sfondò la porta e deliberò di dividere il Convento in due parti: una per ospitare alcune Monache “Obbedienti alla Regola, Ortodosse e Osservanti” immesse dal vicino Monastero di Santa Giustina, e l’altra per trattenere le “Conventuali ribelli”.Come potete immaginare, la cosa non piacque alle Conventuali delle Vergini. Ecco le loro parole di protesta e sollevazione:

“… qua comenza la cagnara … una opera dolorosa chiamata luctus di tutte le Monache dei Conventi di Venezia, per le novità volute dal Patriarca Contarini … e da quel figlio d’un giudeo, asino, artefice diabolico che è il suo Vicario Generale Ottaviano Brittonio l’attuatore delle così dette riforme.”


A qualche decina di metri di distanza, sorgeva poi il Convento di Sant’Anna delle 40 Monache Benedettine … Tremende anche quelle ! …Fra di loro c’erano anche le figlie di Jacopo Tintoretto tutte impegnate a realizzare un pagliotto d’oro per l’altare su disegno del loro padre pittore famoso. Fra loro c’era anche la famosa Monaca Arcangela Tarabottiautrice dell’altrettanto famosissimo testo: “Le mie prigioni”… no, pardòn ! “L’inferno monacale” che è più o meno la stessa cosa. Arrabbiatissima e frustratissima, scrisse anche “Il Purgatorio delle mal maritate”,“La semplicità ingannata” e la “Tirannia paterna” ovviamente incazzatissima col padre che l’aveva rinchiusa lì dentro.

Solo più tardi negli anni, smaltita probabilmente la carica ormonale della gioventù, e rappacificata con se stessa, si ridusse a scrivere accettando la sua condizione monastica opere come: “Il Paradiso monacale” che però sottolinea ugualmente le costrizioni morali che si subiscono nel chiostro, “La luce monacale”,“La via lastricata per andare in cielo”e “Le contemplazioni dell’anima amante”… e poi dicono a me che scrivo tanto ! … Ancora nel 1717 nel visitare il Sant’Anna il Patriarca Barbarigo raccolse l’informazione che a Carnevale le Monache rimanevano a lungo a giocare a carte e si facevano mascherare ... che c’era di male in fondo ? … Tante così dette riforme non erano servite a niente.


Comprendete allora quale clima di gossip e notizie si viveva in quella zona di Venezia. Il giorno di Natale del 1497, infatti, solo qualche anno dopo la scoperta dell’America tanto per avere un riferimento, Fra Timoteo da Lucca predicò in San Marco davanti al Doge e a tutta la Signoria presente dicendo fra l’altro: “… quando viene qualche Signore in questa terra di Venezia li mostrate li Monasteri di Monache, non Monasteri ma postriboli e bordelli pubblici.”… e anche il Vescovo di Chieti parlando di Venezia nel 1530 non fu tenerissimo: “Quelli di Venezia son bordelli …”



Ancora a due passi da li, nei pressi del ponticello fra San Francesco dei Paolotti e i Frati di San Domenico … c’era ancora sul Rio della Tana proprio di fronte alla sede del Vescovo, il Monastero di San Daniele delle Canonichesse Bianche.

Lì inizialmente tutto era andato bene: la Nobile Famiglia Bragadin aveva fondato la solita piccola chiesa dedicata all’antico Profeta San Daniele, e Giovanni Pollani Vescovo di Olivolo-Castello ne aveva fatto dono nel 1138 a Manfredo, Abate di Fruttuaria della Congregazione Cistercense di SanBenedettoche in breve arricchì all’inverosimile il Monastero di possedimenti, saline, acque piscatorie e molini. Penso sappiate già tutti di quale grande fama godeva in quell’epoca quella Congregazione potente.  

Poi a San Daniele giunsero le Monache … e cambiò tutta la storia:

“Alla Visita Pastorale del 1604 il Patriarca Zane condannò il fatto che il tempo delle Monache dedicato alle devozioni personali era troppo spesso usato per perseguire profitti personali in contrasto con gli ideali di povertà della comunità. Le 79 Monache, infatti, erano in continuità dedite a cucire e ricamare vestiti, fazzoletti e accessori di lusso che vendevano fuori dal Convento per tutta Venezia …”


E questa è un’altra vicenda, ma non è ancora tutto.


Ancora poco più in là … pochi passi ancora, un ponte e una calle rispetto al solito posto, sorgeva il Convento di San Antonio Abate dei Canonici di Vienna… Frati intriganti, fastidiosi, tanto che il vicino Vescovo di Castello pretendeva di cacciarli via e demolire la loro chiesa e tutto il resto. Finirono a processo ovviamente, e alla fine del 1347 venne emessa sentenza favorevole ai Canonici contro il Vescovo che dovette anche permettere ai Monaci di celebrare Sacramenti per i familiari di casada. Padre Giotto, il Priore dei Canonici di Vienna, se la cavò pagando alla chiesa di Castello una multa di 25 ducati d’oro.

Già prima che arrivasse Napoleone a Venezia, la Serenissima non ne poteva più di queste beghe e beghette, per cui il Monastero mezzo cadente e bisognoso di restauri, chiesa compresa, venne sgomberato e dato a Luigia Pyrker Farsetti che spendendo 1500 ducati per il riordino s’inventò un istituto per raccogliere e istruire nell’arte di filare e tessere 70 povere figlie della città e della Contrada.


Poco più in là, al di là del Ponte Longo, sempre pressappoco nella stessa zona, c’era San Pietro di Castello la famosa Contrada del Vescovo Castellano di Olivolo con tutta la Cattedra e la “batteria dei suoi prebendati e beneficiati Canonici di lustro al seguito.” Su questo non mi dilungo, ne parlerò un’altra volta.

Poco distante dal luogo dei Paolotti, c’era anche la chiesa di San Nicolò di Bari accanto all’ Hospedaletto di Messer Gesù Christo… Inizialmente il posto era una chiesa-ospedale, poi venne trasformato in luogo del Seminario, fucina dei Preti Ducali affidati ai Saggi e acculturatissimi Padri Somaschi sotto la Giurisdizione e tutela spirituale del Primicerio di San Marco.


Credete che abbia finito ? Macchè ! … Ancora a ridosso degli stessi posti, a soli cinque minuti di passeggiata, c’era l’altro Monastero di San Giuseppe o Jseppo delle 65 Monache Agostiniane Professe … un’altra potenza d’età secolare nel cuore del Sestiere di Castello.

Mentre Suor Paola Gabrieli delle Monache dichiarava e ripeteva di continuo nel 1653 d’essere povere e scarse di risorse, completamente dipendenti, nonostante le Mansionarie delle Messe, dai ricavi dovuti all’ospitare e insegnare alle educande “… se non fossero queste, non s’avrebbe da vivere … Vivemo, si può dire, di tener fiole a spese.”

In realtà le uscite del Monastero superavano le entrate a causa delle feste dispendiose che prosciugavano le casse e davano alle Monache fama di vita irrequieta. La Badessa del San Jseppo, infatti, confessava: “Purtroppo questo Carneval vi sono state maschere a disturbar il Monasterio … ma pezzi grossi che bisogna taser et haver patientia.” SI trattava del figlio del Provveditore Foscarini, del NobilHomo Tribuno Memmo e dei due fratelli Barbarigo di Barbaria delle Tole che mesi dopo dipinsero un cartello osceno e vergognoso sulla parete del parlatorio dedicandolo proprio alla Badessa Madonna Clara Buttacalice.

Ancor quarant’anni dopo, il Patriarca Badoer in Visita al Monastero di San Jseppo, rimproverava le Monache: “… nel tempo dell’estate vestono senza maniche et con abiti trasparenti con scandalo dei secolari et vilipendio del sacro abito … Compiono abuso di tener nelle celle argenti et altri monili di valore … indumenti di gran lusso e alla moda … anche belletti …”


Tutto questo per rendervi un’idea di quale clima socio-religioso accadeva in quella stretta Contrada … Ma tornando a noi e al dunque, cioè ai Frati Paolotti, c’è da dire che proprio di fronte alla chiesa e Convento di San Francesco di Paola che c’interessa, “di fàsa” ossia al di là del ponte e del canale, sorgeva il Convento di San Domenico con altri 40 Frati Predicatori Domenicani di cui vi dirò fra poco. Domenicani e Francescani di Paola erano un po’ come il bianco e il nero … il semplice e il complesso … l’orgoglio e l’umiltà … e quindi erano sempre contrapposti fra loro per non dire l’un contro l’altro armati … divisi talvolta solo da quel ponticello sul Rio.

Più di una volta se le sarebbero date di santa ragione se per fortuna non ci fosse stata l’acqua a dividerli in mezzo …

Sapete bene com’è: l’acqua ha effetto rinfrescante, perciò il canale che divideva le due Contrade ha sempre avuto un effetto rappacificante per i bellicosi e focosi Veneziani della zona e di entrambe le rive.


Perciò: Francescani Minimi Paolotti di qua … e Padri Domenicani Inquisitori di là.


La chiesa di San Francesco di Paola dei Minimi o Paolotti sorse all’inizio su finanziamento, anzi su lascito dei Nobili Querini, precisamente di tale Bartolomeo Vescovo di Olivolo-Castello: “… che volle chiesa e Ospedàl dedicati al suo nome per sedici infermi fornito di rendita nel Trevigiano e in Papozze nel distretto di Ferrara, e gestito da Rettor, Chierico e serventi e con biancheria da letto e arnesi occorrenti alla cucina.”

I Veneziani ovviamente plaudirono l’idea e clonarono subito in maniera più pratica il nome di San Bartolomeo in un più sintetico di San Bortolo mio”. Eravamo alla fine del 1200, e si sa che quasi un secolo dopo la stessa famiglia provvide a rifare tutto perché gli edifici erano ormai cadenti e quasi in rovina.


Di là del canale, invece, sorgeva il complesso Monastico di San Domenico di Castello fondata nel 1317 per volere del Doge Marino Zorzi che per testamento ordinò di comprare un fondo per costruirvi un Convento per 12 Frati dell’Ordine dei Predicatori o Domenicani con annesso un Ospizio per raccogliere orfani abbandonati. Due anni dopo Fra Tommaso Loredan Aiutamicristo Frate Domenicano dipendente dal Convento di San Zanipolo ossia dei Santi Giovanni e Paolo ne prese possesso, e vi rimase lì come Priore fino a quando morì di peste nel 1398.

Ne 1333 i Frati Domenicani del Convento divenuti ormai 40 acquistarono horti, una velma di terra dietro alla chiesa, una lunga serie di case abitate da Marangoni e poveri operai dell’Arsenale, e interrarono un vicino canale. Il Senato della Serenissima da parte sua aggiunse in dono altri due lotti di terra per allargare ulteriormente il convento, e fu così che giunto il 1560, San Domenico divenne la sede dell’Inquisizione di Venezia affidata ai Domenicani togliendola alla direzione dei Frati Francescani.

Il primo Inquisitore Domenicano fu Fra Tommaso da Vicenza e fu con lui che sul ponte che attraversava il Rio di Castello fra le due chiese di San Bartolomeo e San Domenico gli Inquisitori iniziarono a bruciare ogni 29 aprile tutti i libri proibiti raccolti in giro per Venezia durante l’anno.


In realtà furono i Frati Domenicani, sostenuti nella loro opera dalle quotidiane litanie di litigi e pettegolezzi delle donne Terziarie Pizzocchere di San Domenico, a iniziare le baruffe e le discussioni con i Frati Paolotti d’oltrecanale.

Tutto iniziò nel 1585, quando arrivarono i Minimi di San Francesco di Paola che andarono ad occupare il cadente Ospizio di San Bartolomeo lasciato libero di fronte a San Domenico chiedendo al Senato Serenissimo di poter costruire Chiesa e Convento.

I Domenicani, forse inviperiti perchè nel frattempo avevano fatto acquisti infelici di terreni vallivi, paludosi e boschivi, infruttuosi e malgovernati a Codopè di Tiezze in contrada Prata, passati da un affittuario all’altro con continue usurpazioni, tanto che non si trovava nessuno che li volesse; videro l’arrivo dei Minimi Paolotti come fumo negli occhi. Infatti ricorsero immediatamente a Roma dichiarando e dimostrando che per Disposizione Apostolica nessuno poteva costruire e fondare nuove comunità a una distanza inferiore a 140 canne dal loro Convento. I Minimi erano presenti a sole 20 canne … ossia c’era solo un ponte fra le due comunità … perciò … il Papa doveva farli sgomberare al più presto.

Il Pontefice Sommo infastidito, dapprima non rispose neanche, ma siccome i Domenicani gli presentarono più di un ricorso, alla fine disse che un Rio era più che sufficiente per dividere e tenere a debita distanza le due comunità.


Fu nel 1586 però, che un grosso scandalo coinvolse i Frati Domenicani Castellani: “… nel mese di febbraio si fece una rappresentazione della Virtù e del Vizio dalli Padri di San Domenico di Castello con il concorso di tutta la città, dove Fra GiovanMaria da Brescia, mascherato da facchino, in scena sparlò in mala maniera della Religione, dicendo che ruberebbe il tabernacolo del Santissimo Sacramento al Papa et che lo scorticherebbe, et delli Senatori Veneti, con dire che metterebbe volentieri quegli delle vesti purpurate in galea al remo (essendo presenti infiniti Senadori), per il che fu cacciato fuori dalla scena e si formò processo contro di lui dal Nuntio di sua Santità et delli Signori Capi dei Dieci. Et di ordine del sudetto Nuntio Pontificio, fu affisso alle porte della chiesa di San Domenico un cedolone, et lo citava a comparire entro il termine di 2 giorni, il quale non comparve altrimenti, et fu detto et attribuito ciò alla pazzia che alle fiate regnava in quel Padre.”


Nonostante tutto, nel maggio 1724, quando in Contrada “la Spezieria Al Basilisco” sopra la riva del Rio di Castello verso San Domenico era gestita da Angelo Giberti, e si trovava nella lista delle Speciarie di Sestiere presso le quali si trovano gli strumenti inservienti al ricupero de sommersi annegati”, un Frate Domenicano Inquisitore vissuto a Castello di Venezia presso il Convento di San Domenico divenne Papa Benedetto XIII dopo essere stato anche Vescovo di Benevento. Riconoscente, inviò come dono al Convento di San Domenico di Castello: 6 candelabri d’argento e una croce usata nella sua Cappella privata.



Giunto infine il tragico 1807, i 14 Frati Domenicani rimasti vennero concentrati ai Santi Giovanni e Paolo, s’inviò a Padova 13 casse con 2194 libri della biblioteca di San Domenico di Castello che possedeva 5.110 preziosi volumi, mentre si vendettero come scarti mediocri gli altri 2.916 libri rimanenti, e la Ditta Fratelli Pigazzi acquistò per lire 392 l’organo e le cantorie della chiesa insieme a quelli di diverse altre chiese soppresse (SS.Vito e Modesto di Burano, San Marco e Andrea di Murano e San Maffio di Mazzorbo). Chiesa e Convento di San Domenico vennero prima trasformati in caserma per ospitare un Regimento di Fanteria della Veneta Marina, poi tutto venne demolito per costruire i Pubblici Giardini per i Veneziani … “Busti di Medici, Filosofi, Inquisitori, Vescovi, Monumenti Funebri di Dogi, Priori, Famiglie Nobili e Patriarchi e numerose iscrizioni che arricchivano il chiostro in numero superiore a 100 furono venduti a scalpellini soprattutto ad un certo Fadiga come materiale da costruzione … 10 preziose reliquie disperse … 11 altari in marmo, mirabili angeli di bronzo, e una ventina di dipinti dei soffitti e delle pareti andarono perduti ...”


Viceversa, i Frati Paolotti dall’altra parte del canale erano di stampo e si comportavano in maniera completamente diversa. I Paolotti provvidero nei secoli a numerosi abbellimenti e successive modifiche della loro chiesa creando un unico ambiente ricco di pitture e con un bel Barco o Coro Pensile originale posto sopra tre cappelle per lato … una cosa singolare e rara.


Fra 1756 e 1761 il cronista Gradenigo scriveva nei suoi “Notatori” che: “… li Padri Frati Minimi di San Francesco di Paola s’accingono al tramutare una terrazza nel loro chiostro contigua con l’infermeria, in loggia coperta con tre finestroni ... Poi riducono elegantemente l’ingresso del Convento o sia porteria, ornata di quadri rappresentanti li Prelati et Vescovi del suo Ordine incassati con ornamento de stucchi … sempre intenti alla pietà, consueta del proprio Ordine, nonché all’abbellimento della loro frequentata chiesa in Venezia, prendono l’assunto di ridurre meglio decorosa la Cappella Maggiore, mediante moderno lavoro di stucchi, quadri e soffittato di non infelice pennello ossia di Michele Schiavoni autore …”


Circa negli stessi anni, l’organaro veneziano Giovanni Antonio Placcacercò di piazzare ai Frati un organo pomposo che aveva costruito per Zero Branco nel 1759, ma quelli lo rifiutarono trascinandolo in una lunghissima controversia, finchè si risolsero a chiamare il migliore organaro in circolazione, ossia Gaetano Callido e i suoi figli, che costruiscono per la chiesa “un organo come si deve”(opera 366)che venne collocato sulla parete sinistra della chiesa “in cassa barocca”.

Tanto per non cambiare, come era consuetudine per quasi tutte le chiese Veneziane, quella dei Paolotti ospitò oltre alle consuete Compagnie di Devozione della Beata Vergine del Rosario e di Santa Maria Maddalena, anche alcune Schole e Sovegni molto interessanti. Erano quelle degli Schiavi di Santa Maria del Soldo delle Maestranze e degli Stampidori della Pubblica Zecha che riuniva i 62 CapiMastri e i Lavoranti dediti a coniare moneta per la Serenissima e la Shola di San Bartolomeo dei Remeri dell’Arsenale.



(Fusione e conio della Moneda in Zecca a San Marco)

Nel 1675 la Schola dei Monetieri che associava Stampidori e Cuniadori, Ovrieri, Massari, Mendadori o Revisori tornitori che aggiustavano il peso delle monete, Sazadori, Rafinadori e Intagliadori prestava denaro a persone indigenti “…perché si potessero sostentare con la sua famiglia in queste santissime feste di Natale.” ma si dovettero anche revisionare i conti dell’Arte perché si scoprì che il Gastaldo rilasciava sussidi per malattia a piacimento e a malati dubbi, mentre lo Scrivano donava candele a chi voleva.



(Mariegola dei Monetieri o Stampidori in Zecca)
Gli Artieri dei Remeri, invece, producevano una grande quantità di remi e forcole in faggio, e preparavano anche timoni e pennoni per le famose Fuste e Galee del mitico Arsenale.

Essendo considerati maestranze pubbliche i Remeri dell'Arsenal non pagavano tasse, e la Giustizia Vecchia ordinò nel 1380: “che nessun Remer delle 20 botteghe “de fuora” o “da dentro” o de l'Arsenal lavori dopo il suono della campana “marangona” dell'Ave Maria del sabato sera e tutta la domenica successiva, come pure nelle feste solemni comandate per lo Comun de Veniezia".

Nel 1461, la Schola stabilì che: “… nella festa del Patrono tuti del mestier che sia in stà tera, debia venir al cancelo dell’altar a tuor el so pan et pagare la luminaria” ... Nel 1480, invece, la Schola strinse accordi con il Capitolo dei Frati ottenendo “un'arca subtu porticu" per seppellire i propri Confratelli Remeri … e nel 1539 dovette stipularne un altro per un posto "dalla banda sinistra della cappella granda" vicino all'altare del Santissimo, perché la vecchia tomba sotto al portico era stata invasa dall'acqua alta.



A proposito di remi, Rematori e Vogadori: “Durante lo stesso secolo, il Senato Serenissimo venne a sapere che gli Ufficiali della Flotta toglievano ai Rematori la legittima quota di bottino battendoli e ingiuriandoli per appropriarsene. Gli Avogadori da Comun allora, dopo aver ascoltato tutte le proteste dei Rematori, stabilirono che gli Ufficiali colpevoli venissero esclusi dal loro ed altro incarico per 5 anni e ripagassero quanto avevano sottratto ai Rematori con l’aggiunta di un 25% a favore degli Avogadori da Comun.”… Nel 1597 la Schola spese 588 ducati per abbellire l'Altare commissionando una pala, due quadri laterali, le finestre e i due "doppieri grandi" per la chiesa, e secondo l’inventario dell’epoca possedeva: “… un penelo (stendardo) dorato con un’impronta d'argento, un altro penòn de cendado con asta e fodera; due bandiere da trombetti; due bandiere de cendado zalo; e oltre a Mariegola Vecchia aveva anche una Mariegola Nova "fodrada de veludo blavo, varnida d'arzento", riposta in una custodia di cuoio”... Poco dopo l’inizio del 1600 quando i Remeri attivi nell'Arsenale erano 120 e altri 20 lavoravano in cantieri privati, la Schola si autotassò per coprire le spese per il rifacimento dell'Altar Maggiore della chiesa che divenne di sua proprietà, tanto che anni dopo potè rivenderlo alla Schola del Santissimo per 1800 ducati.

Ancora nel 1773, secondo la ormai straconosciuta statistica urbana: la Schola annoverava 244 iscritti fra Capimastri e Garzoni.


Di solito le cronache di Venezia riportano i tristi fatti della soppressione Napoleonica in maniera molto essenziale, fredda e sintetica. E’ curioso costatare, invece, che nel caso dei 12 Frati Paolotti concentrati e trasferiti altrove si descrisse una reazione singolare delle mille persone della Contrada che insistettero con Governo Francese perché non venissero allontanati i Frati:


“Il trasferimento dei Frati Paolotti … piomba fatalmente sul cuore di questa Contrada; e lacrimanti il padre, il figlio e le mogli gemono squallidi e sconsolati … Dediti fin dal 1585 al comun bene, anche di tutta la città … da confessionari, pergami e dalle scientifiche cattedre e con l’assistenza indefessa a poveri infermi e moribondi …”


Ma non ci fu niente da fare … La biblioteca dei Frati Paolotti venne depredata di un patrimonio di 1.726 libri fra cui 559 “nobili testi” che vennero spediti a Padova in 4 casse, gli scaffali venduti come legna da ardere, il convento divenne caserma, e in seguito fu demolito e ricostruito come pubblica scuola d’educazione primaria: l’attuale Scuola Elementare Gaspare Gozzi, mentre la chiesa venne eccezionalmente restituita ai riti pubblici e all’uso della Contrada nel 1852 nonostante fosse stata già prevista la sua demolizione. La chiesa dei Paolotti si distingueva fra le altre perché: “… oltre a predicare il Quaresimale come in altre 37 chiese di Venezia, lì si faceva discorso e si adorava il Santissimo in Riparazione dei danni del Carnevale mentre i tori impazzivano in Piazza San Marco, fin nel cortile del Palazzo Ducale, e nei Campi di San Polo e San Giacomo dell’Orio …”


In conclusione e a dire il vero, la storia Veneziana è un po’ avara sulle vicende di quei Frati Minori Paolotti … Proprio per questo mi piace ricordarli, soprattutto perché si sono distinti da quel vasto contesto di pollaio ecclesiastico e monacale con tanti galletti esagitati che popolavano il Sestiere di Castello.



“Si dice che durante il 1700 sul retro del Convento dei Frati Minimi Paolotti esistesse una breccia nel muro da dove nottetempo i discoli e i miseri della Contrada entrarono più volte per rubare galline, frutti e ortaglie dalla dispensa dei Frati. Si racconta anche che i Frati erano ben a conoscenza dei fatti, così come sapevano bene i nomi di quei ricorrenti “visitatori notturni”, ma che “per Amor di Dio” lasciassero fare, e non riparassero mai quel buco disonesto.

“La fame è una brutta bestia !” dicevano “Ma la Provvidenza non lo è.” aggiungevano.

A tal proposito, nella stessa Contrada c’era l’abitudine di dire a qualcuno: “Sei un Paolotto !” per affermare che era un sempliciotto, un po’ tonterello e facilmente gabbabile ... Tuttavia dire “Paolotto” significava anche indicare persona semplice e da bene, generosa e caritatevole verso chi ne aveva bisogno, disposta a dare senza pretendere nulla in cambio.”


Mi è piaciuta allora quella presenza semplice e discreta, povera d’apparenza, ma capace di ben figurare a favore della gente misera della Contrada. Paolotti … Brava gente, insomma ! … Bravi i Frati Paolotti quindi !




 (dettaglio del soffitto di San Francesco dei Paolotti)

“SAN LODOVICO DEI VECCJ … E IL PRETE HA PRESO LE BOTTE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 88.

“SAN LODOVICO DEI VECCJ … E IL PRETE HA PRESO LE BOTTE.”


Tornando a raccontarvi un’altra curiosità Veneziana spicciola per volta, stavolta vi racconto di un posto che difficilmente riuscirete non solo a visitare ma forse anche a trovare. Si tratta di un angolo microscopico di Venezia, quasi invisibile mi verrebbe da dirvi, ma che possiede una sua microstoria curiosa il cui ultimo atto mi ha sfiorato proprio da vicino … quasi come un pugno tirato a vuoto.


Il piccolissimo Oratorio di San Lodovico in Calle e Corte dei Vecchi è dunque quasi impossibile da individuare, e sorge vicino a San Sebastiano nel Sestiere di Dorsoduro in fondo a destra della Corte e Calle a fondo cieco dei Vecchi. Un posto quindi dove devi andarci a posta, perché passando di là non si va da nessuna parte.


Tutto iniziò il 03 maggio 1569, ossia tre anni prima della morte del Nobile Procuratore di San Marco Ludovico Priuli figlio del Doge Girolamo. Come si usava all’epoca, costui legò per testamento una buona somma di denaro per edificare in Venezia l’ennesimo Ospissio-Hospedaètto costituito da almeno dodici camere, simbolicamente corrispondenti al numero degli Apostoli, con cui garantire il ricovero ad altrettanti vecchi Veneziani poveri: “… avvertendo de metter persone di bona vita, et senza fiòi ne mugièr, ma che siano Veneziani, over suditi della Serenissima perché in modo alcuno non vògio che siano dati … a persone di paese alieno, abenchè fossero stati anni trenta e più in Venezia.”


Il Priuli stese anche un apposito regolamento specificando quale sarebbe dovuto essere l’atteggiamento di costumi e vita che dovevano condurre gli ospiti dell’Ospizio, e in aggiunta al lascito garantì a ciascun ospite un’elemosina annuale di dodici ducati associata a un’equa fornitura di legna per scaldarsi e farina per cucinare.

Curiosa era una postilla testamentaria sottolineata dal Priuli. Cioè che: il piccolo complesso caritatevole dell'Ospissio affidato alla protezione della Procuratia di San Marco de Ultra,  mai sarebbe dovuto passare in gestione e tantomeno in proprietà di enti Religiosi, ma doveva essere mantenuto “in perpetuum” dalla gestione laica di un Priore della famiglia Priuli.

Questo infatti avvenne puntualmente fino a quando si estinse il Casato dei Priuli: il più anziano della Nobile Famiglia Priuli fece da Priore e Amministratore dell’Ospizio di San Lodovico fino al 1903 !!!… per quattro secoli.

Tuttavia, non definendosi affatto il Priuli: “pagàn e senza Dio” volle che accanto all’Ospizietto venisse edificato anche un piccolo Oratorio dedicato a San Lodovico di Tolosa, ossia il suo Santo patronimico, e anche una caxetta destinata ad ospitare il Cappellano della comunità obbligato a celebrare la Messa e le Sacre Funzioni festive per gli ospiti e a presiedere: “quotidie”, ossia ogni sera alla recita del Rosario … il tutto per 14 lire al mese più l’utilizzo della caxetta.


Dopo la morte del Priuli si provvide immediatamente alla realizzazione del piccolo complesso che fu essenziale, per non dire poverissima: due piccoli corpi edilizi divisi da un’altrettanto piccola corte cieca e promiscua, e il gioco fu fatto. Da una parte l'ala rivolta a sud che comprendeva l'Oratorietto in cui Jacopo Palma il Giovane rappresentò sull’unico altare: “San Ludovico di Tolone e San Marco”, e l'alloggio del Cappellano a piano terra e primo piano; dalla parte opposta rivolta a nord nella calle denominata: Calle dei Vecchi, quattro alloggi per piano e due piccole corti laterali per ospitare i vecchi come voluto dal benefattore e fondatore Priuli.



La Storia di Venezia di solito sempre ridondante e ricca, è, invece, avarissima di notizie circa quel piccolissimo Ospizio. Si sa soltanto che come tutti gli enti d’assistenza e carità di Venezia, caduta la Repubblica l'Ospissio venne incorporato nella famosa Congregazione di Carità, anche se i Priuli continuarono a gestirlo e soprattutto finanziarlo indirettamente secondo quanto previsto dalla volontà del fondatore.

Unica nota: in ricordo dell'antica chiesa confinante della Contrada di San Basegio, rasa al suolo all’inizio del 1800 dal Signor Napoleone & C., dal 1810 all'Oratorio, i cui ospiti continuavano a percepire ciascuno lire 4,70 mensili, si aggiunse anche il nome di San Basilio.

Il resto è storia di oggi. L'Ospissio dopo una sostanziale rifabbrica d’inizio 1900 divenne proprietà ECA e poi IRE, ed è stato restaurato a fondo di recente nel 1971. Alla data odierna è ancora attivo nel suo antico sito, e ospita ancora non 12, ma bensì 09 anziani maschi e vecchi in camere singole con angolo cottura e servizi igienici comuni.

Ultimo dato utile: le cronache Veneziane raccontano che il vicino Oratorio di San Ludovico, ora adibito ad ospitare saltuariamente mostre d’Arte Contemporanea, venne chiuso dopo la morte dell’ultimo Cappellano.


In verità le cose non sono andate proprio così, perché la chiusura definitiva dell’Oratorio è accaduta per un motivo diverso. Non è stato affatto chiuso perché è morto l’ultimo Cappellano, ma è accaduto piuttosto un abbandono dell’incarico, una ritirata un po’ alla maniera con cui un pugile sul ring da forfait dopo l’ennesimo round essendo finito malamente a tappeto.

 

Perché vi racconto questo ? … Perché l’ultimo Cappellano io l’ho conosciuto direttamente e di persona quando ho vissuto quella che alcuni definiscono la mia “bizzarra esperienza” come Prete nella Parrocchia dei Carmini di Veneziadistante pochi metri dall’Ospizio Priuli, che in qualche maniera rientrava nella sua giurisdizione. Come vi dicevo, l’ultimo Cappellano dell’Ospizio Priuli non era affatto morto ma solamente arreso … Per questo, vista la modestia del posto, la scarsa significatività Religiosa moderna, e la scarsità di Preti in giro, il Cappellano non venne più sostituito, e il luogo religioso venne chiuso per sempre al pubblico.



E’ andata così.

Eravamo i soliti quattro Preti seduti a pranzo e a tavola nella Casa Canonica dei Carmini. Contrariamente a quanto si diceva sempre circa i Preti buongustai, provavamo a spartirci un misero desco con lo stesso entusiasmo che può provare un naufrago in un’isola deserta priva di tutto. La fame c’era, ma non c’era, invece, niente di buono da mangiare sul piatto, che piangeva anche lui perché non era affatto pulito. Una miseria di pranzo, insomma, un convitto quaresimale e penitenziale … Ma lasciamo perdere, questa è un’altra storia.


Rassegnati lo stesso a far “buon viso a cattiva sorte”, fra una chiacchiera e l’altra, mi ritrovai a dire:

“Ho scoperto per sbaglio che in fondo alla Calletta dei Vecchi esiste un piccolissimo Oratorio, un luogo coccolo, scriccioletto, ma chiuso. Che è ? Come funziona ? … Perché non mi è stato detto niente al riguardo ? … Essendo così piccolo, incorporato e mimetizzato fra le case, mi piacerebbe molto portarvi dentro i nostri ragazzini e ragazzine per meditare insieme … come se fosse una chiesetta privata di casa … una specie di soggiorno allargato, una chiesetta di famiglia … come dovrebbero essere sempre le chiese.”

“Per carità ! Non toccare questo tasto !” sussultò sulla sedia uno dei tre Preti. “Mi hai fatto passare la fame.”

“Tu sei matto … come il solito … Vai a ficcanasare e immischiarti dove non dovresti … Ho un pessimo ricordo di quel posto.” continuò.

“Perché ? Che c’è di strano lì dentro ?” non ho potuto fare a meno di replicare.

Uno sorrise, abbassò la testa, e si accese la sigaretta … Il secondo Prete s’impegnò a ripulirsi la bocca già pulita scomparendo dentro al tovagliolo ed estraniandosi del tutto … Non rimase che il terzo, ossia colui che era stato coinvolto in questa storia. Perciò a malincuore iniziò a raccontarmi.


“A dire il vero e a voler essere precisini, l’Oratorio si chiamerebbe: Ospissio Priuli o Ospeal di San Lodovico dei Veci

intitolato anche a San Marco e San Basilio … Te lo posso indicare con certezza io che ne sono stato l’ultimo Cappellano nominato quando venni destinato e relegato come quiescente in questa zona alla fine della mia “gloriosissima” quanto inutile carriera.”

“Pendo dalle sue labbra … e dopo ?”

“Dopo … è semplice … Ho pensato di fare quello per cui ero stato nominato. All’inizio, giunto qui, sono andato a visitare l’Ospizio e soprattutto l’Oratorio … Una miseria, un abbandono totale … C’era il peggio del peggio: macchie d’umidità sui muri, tutto polveroso e abbandonato. Non c’erano neanche gli arredi sacri … una desolazione di posto.

Però non mi sono perso d’animo … Mi sono detto: “Sono il Cappellano e farò dunque il Cappellano.” … Perciò, visto che dovevo garantire l’assistenza spirituale a quelli dell’Ospizio ho provato ad andare a trovarli e salutarli per conoscerli e coinvolgerli in quelle che dovevano essere, almeno sulla carta, le nostre comune devozioni ... Non l’avessi mai fatto !

Ho bussato alla porta dell’Ospizio per mezz’ora prima che qualcuno si degnasse di aprirmi … Poi s’è affacciato uno a una finestra di sopra, e vistomi col mio vestitone nero da Prete mi ha apostrofato:

“Che vuole ? … Qui non serve niente.”

“Ma sono il nuovo Cappellano dell’Ospizio !”

“Che cosa sei ?”

“Il Cappellano.”

“E allora ? … Che vuoi da noi ?”

“Le cose del Cappellano … Vorrei conoscervi e salutarvi … Parlare del Rosario serale e delle Messe …”

“Bisogna proprio ?”

“Non è che bisogni … Si potrebbe …”

“Va bèn … Vi apro … Però non so se c’è qualcuno..”  E sentii scattare la serratura della porta.

Perciò entrai nell’andito buio … ma non mi venne incontro nessuno. C’era silenzio completo, solo in lontananza sentivo qualche passo sopra alla testa, l’acqua che scorreva dentro ai tubi nei muri, e qualche scricchiolio sui pavimenti di legno … Ma di persone niente.

Provai allora a bussare a una delle porte: niente. Provai con la seconda: ancora niente. Arrivai alla terza: “Chi è ?” rispose una voce da dentro.

“Il nuovo Cappellano … Sono don …”

“E che vuole ?”

“Volevo conoscerla e salutarla.”

“Non ho tempo adesso … Ripassi un’altra volta.” E poi silenzio di nuovo.

Quarta porta: nessuno, così la quinta e la sesta: rumori interni, passi, cose che si spostano, una radio che suona … ma nessuno che s’affacciasse e mi aprisse la porta. Solo alla penultima porta uscì una persona malmessa e panciuta che con fare sbrigativo mi ascoltò un attimo prima di chiudere il discorso dicendo: “A va beh ! … Avvertirò Piero.” E sparì di nuovo chiudendo la porta del suo abituro da cui usciva un profumo di cotto, sudato e stantio che non voglio neanche ricordare.”

“Piero ? … Piero … E chi era sto Piero ?”

“Me ne uscii perciò un po’ avvilito, ma non arreso. Il giorno dopo sono tornato all’Oratorio è ho tirato la campanella del campaniletto microscopico. Mi è quasi venuto in testa un finimondo fra intonaci, sporco e escrementi di colombi e gabbiani: una schifezza, avevo tutta la tonaca imbiancata. Comunque feci la mia scampanata, accesi un paio di moccoli sull’altare e l’unica lampadina pendula, e mi predisposi a iniziare a pregare. La mattina stessa m’ero interessato a far eseguire una bella pulizia a fondo a tuti gli ambienti che sembravano disertati da chissà quanto ... Ho messo all’opera l’intera squadra delle “Babbe fedelissime” della Parrocchia, e a mezzogiorno il posto sembrava un bijoux infiochettato, quasi rinato.

All’inizio non accadde niente … e non si presentò nessuno, perciò mi rassegnai a recitare da solo il Rosario sottovoce.

“Boh ? … Chissà se verrà qualcuno ?” mi sono detto.

Poi dopo una buona mezzoretta si è spalancata la porta e si è presentato lo stesso col pancione del giorno prima. Unica differenza: aveva addosso una maglietta rossa sbiadita medagliata di macchie e di unto come un reduce di guerra, e ai piedi un paio di zoccoli consunti che avevano visto di certo tempi migliori. Il pantalone, viceversa, era larghissimo, un due posti occupatissimo, ma altrettanto decorato e arioso … Una macchietta di persona, oltre che di abbigliamento!

“Ve serve un zaghetto per le oraziòn, Sjor Prete ?”

“E’ venuto a pregare un poco in compagnia ?” gli ho risposto cortese.

“Ma neanche per sogno … Sono Comunista sfegatato fin alla nascita … Non so neanche il Padre Nostro e l’Ave Maria … Figurarsi se sono interessato a queste cose … Non fanno per me … Però … Se mi da qualcosa potrei anche aiutarla ?”

“Come qualcosa ?”

“Ha capito giusto … Se mi fa un’offerta vengo a farle compagnia e a recitare le preghiere qui dentro insieme a lei.”

“Ma guarda questo !”

“Ma dai ! Che vuole che sia … Un’elemosina … Non dovete aiutare i poveri e i bisognosi voi Preti ?”

“Sì è vero … Però … pensavo che in questa circostanza …”

“E allora ci sta o no ? … Altrimenti ho altro da fare che rimanere qui ad ascoltarla per niente.”

Pensai: Uno meglio che nessuno … Perciò gli risposi di sì: “Vada per l’elemosina e le preghiere a pagamento.”

E i primi giorni tutto andò bene … Suonavo la campanella … Cominciavo … e dopo un po’ arrivava lui.  Sentivo il suo passo pesante avvicinarsi zoccolando nella calle, poi scricchiolava e cigolava la porticina, e entrava lui … Anche se fuori pioveva non mancava.

“Però !” pensai … “Fa proprio sul serio !”

Così andammo avanti per qualche giorno: ogni volta quello entrava, mi si sedeva dietro su una panca, e inevitabilmente dopo un po’ iniziava a russare. Solo quando mi sentiva alzarmi alla fine del Rosario, si avvicinava, e facendomi una mezza riverenza mi tendeva la mano … Per stringere la mia e salutarmi, pensai la prima volta. No. La stendeva aspettandosi che gli mettessi sopra l’elemosina pattuita.

E così accadde ... Finchè un bel giorno non si presentò più nessuno.

“Sarà impegnato o indisposto.” pensai.

Il giorno dopo, nessuno ancora … Stavo quasi per andarmene via, quando si aprì la porta di botto, ed entrò: Piero. Almeno così disse di chiamarsi. Il famoso Piero era un omone maiuscolo, brusco quanto manesco … che venne difilato fin davanti al mio naso, e senza tanti complimenti mi ha detto:

“Sono Piero … E allora sta elemosina ?”

“Ma non la conosco !” provai a dire.

“Se non mi conosci … mi conoscerai … Damme un po’ di soldi …. O ti pesto come un tamburo.”

“Ma sono un Prete … Non hai rispetto per la veste ?”

Come risposta mi arrivò uno sganassone in faccia che me lo ricordo ancora oggi: Patapàn ! Una sbrèga a mano aperta che mi ha fatto rintronare tutta la testa.”

“Ti ha picchiato ?”

“Esatto ! … Patatitìn e patatòn ! … El me ghà petufà do volte de seguito … perché un attimo dopo mi ha detto: “E allora ? Arrivano sti schèi si o no ? … Ti me da qualcosa … o te devo copàr de botte ?” e così dicendo me ne tirato un altro con la man roversa e poi mi ha preso per gli stracci e mi ha sbattacchiato su per il muro come si fa con un tappeto da spolverare. Mi sono sentito perso. Perciò ho messo mano al portafogli e gli ho dato quel poco che avevo.

“Così poco ? … Domani torno.” mi ha detto uscendo e sbattendo la porta che pareva volersela portare dietro.

“Domani non tornerò io …” ho detto a me stesso lasciandomi afflosciare e cadere sui rivestimenti di legno del muro come se fossi un sacco vuoto lasciato in piedi. Avevo indosso i sudori della morte…. E ho continuato a ripetere inebetito non so per quanto:

“El me gha copà de botte … El me gha copà de botte! … come l’altro.”

“Copà de botte ?”

“Insomma … El me gha dà do bei stramusòni … El me gha spintonà e quasi buttà per terra.”

“Immagino che l’avrà subito denunciato sto Piero?”

“Macchè ! …Innanzitutto perché non era affatto Piero … Il vero Piero era un vecchio malandato e bigotto all’inverosimile … Il classico basabànchi superdevoto … Ma in quei giorni il vero Piero era chiuso a letto con una brutta influenza … L’altro che pagavo non l’ho più visto … e il finto Piero non ho la minima idea da dove sia sbucato fuori … di certo non apparteneva agli ospiti dell’Ospizio.”

“Che strazio de storia ! … Io sarei andato dritto dai Carabinieri.”

“Sì ? Ma a denunciare chi ? … No …  Quell’uomo el me ghà fatto peccà … (mi ha fatto pena) … Era di certo un pover’homo pien de dispiaceri … Un violento alterato … Forse un delinquente pericoloso incorreggibile e da lasciar perdere … Però l’ho fatto anche per un altro motivo.”

“E sarebbe ?”

“Quel giorno sono rimasto a ripetere a lungo: El me gha copà de botte! … come l’altro … Come l’altro. Infatti, m’è venuto in mente un episodio che ho letto nelle memorie dell’Oratorio … Prima di me era già capitata la stessa cosa in precedenza a Prè Dario Bonviso, Cappellano dell’Ospizio, che venne anche lui malmenato da un ospite prepotente e ubriaco dell’Ospizio Priuli … anche lui durante la Messa … anche lui senza motivo … e anche lui senza presentare denuncia … Sai come ha commentato quella sua avventura: “Vorrà dire che in questo modo farò penitenza dei miei peccati.” Ho pensato perciò la stessa cosa … Ma ti dirò di più … Neanche quello è stato l’unico pestato dell’Oratorio … Sembra che prima di lui sia accaduta la stessa cosa a un altro e a un altro ancora … Perciò stai attento: è destino dei Cappellani dell’Ospizio Priuli d’essere malmenati … Il prossimo potresti essere tu se andrai a mettere il piede lì dentro. Hai capito adesso come è andata la storia ?”



Secondo voi ci sarò andato nell’Oratorio di fronte all’Ospizio portandoci ragazzine e ragazzini ?




“SESTIERE DI SANTA CROCE 324 ... SANTA MARIA MAGGIORE A VENEZIA: UN MONDO ALIENO.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 89.


“SESTIERE DI SANTA CROCE 324 ... SANTA MARIA MAGGIORE A VENEZIA: UN MONDO ALIENO.”


Non scrivo per via del Carcere che esiste oggi a quell’indirizzo di Venezia, ma piuttosto per quello che c’è stato ed è accaduto ieri in quel posto.

La realtà della prigione non avete di certo bisogno che ve la descriva io: sapete meglio di me cos’è, com’è, dov’è e perché. In ogni caso è un mondo alieno e tenebroso, d’attesa, simile a crisalide, da cui almeno nell’intenzione si sogna di vedere uscire la novità diversa di una colorata farfalla ... Non datemi dell’ingenuo però, come voi so come vanno le cose.

E non devo neanche spiegarvi la Giustizia ... Al massimo potrò dirvi che Venezia Serenissima il concetto di Giustizia l’ha sempre sentito molto forte. Vi ricordate le anonime “Bocche della Verità” di pietra in cui si andava a denunciare crimini e delitti ?

Così come non si potranno dimenticare le note che appaiono spesso nelle cronache processuali e nelle condanne Veneziane di un tempo:

“… dopo averlo tenagliato mani e occhi, venne tratto a coda di cavallo da Santa Croce fino a Piazza San Marco su ordine del Consiglio dei Dieci con un cartello al collo in cui stava scritta la sua colpa … poi venne impiccato (o gli venne spiccata la testa) fra le due colonne in Piazza, e il corpo diviso in quattro pezzi venne inviato agli estremi confini della Repubblica come monito per tutti.”


Oppure non ricordate di quanto i Fanti della Serenissima certe volte entravano nelle Prigioni di Palazzo Ducale all’alba, prendevano dai Piombi o dalle Segrete di sotto qualcuno reo di tradimento, e cacciatolo in barca lo portavano fino al Canale dell’Orfano nei pressi dell’isola di Poveglia, e lì, messagli una pietra al collo, lo calavano nell’acqua lasciandolo calare a picco finchè andava a toccare il fondo ?

Altri tempi, altri modi, storie antiche della Serenissima … oggi la Giustizia è un’altra cosa.


Ma tornando a Santa Maria Maggiore a Venezia, ammesso e non concesso che riusciste ad entrarci dentro, vedreste oggi un’altra cosa rispetto a ciò che è stata un tempo. Già da fuori noterete piccoli mucchi di mattoni caduti e staccati … Vedrete pietre mangiate, sgretolate e corrose dall’umido e dalla salsedine. Quando piove l’acqua “canta” lanciandosi giù e gocciolando dalle grondaie sfondate o mancanti … alcune porte e finestre sono state murate. Santa Maria Maggiore è una chiesa “morta” come lo sono diventate diverse altre di Venezia. Non l’aiuta poi la sua posizione topografica: di certo non si trova in Piazza San Marco, anzi, sorge in uno di quei posti quasi dimenticati in cui passano soltanto turisti che si sono persi, quelli che lavorano dentro al Penitenziario, e i pochi che sono costretti a passare di là per inseguire gli affari propri.


Insomma: Santa Maria Maggiore è un fantasma, lo scheletro irriconoscibile di quel che è stata un tempo.


Entrando poi, potreste vedere di peggio: ossia il pochissimo lasciato dal“nostro solito amico”Napoleone & C … ossia quasi niente: quattro muri spogli e qualche resto di soppalco di quando la chiesa è stata trasformata in magazzino di legname e del tabacco, e forse in comodo fienile e stalla.


Per intuire, invece, che cosa è stata Santa Maria Maggiore, dovrete intraprendere il solito sforzo della mente. Innanzitutto, lì davanti alla porta della chiesa e del Convento, un tempo finiva, terminava Venezia. Non è banale pensarlo perché cambia un po’ tutto. Non a caso proprio accanto alla chiesa scorreva il Rio, oggi Terrà dei Pensieri. Il sito di Santa Maria Maggiore possedeva un’amenità e una bellezza ricca di ombre e riflessi tutta sua che induceva i Veneziani ad andare fino a lì per passeggiare, meditare e riflettere ... Doveva essere ancora più bello che andare oggi lungo la camminata “superba” delle Zattere.

Non esisteva ancora la Sacca e la zona del Porto, quindi lì lo sguardo spaziava sulla laguna aperta, e doveva essere davvero un gran bello spettacolo. Solo in seguito, alla fine del 1600, come si può notare sulla pianta di Venezia di Giovanni Merlo, la zona è diventata un’isola rettangolare bonificata protetta da un muro. Con le macerie, i “rovinazzi” e il fango scavato dai canali si era formato lì una vasta area solida e selvatica alta fino al livello delle strade che si utilizzava per le esercitazioni dei militari. Infatti, ancora nel 1828 lo si usava col titolo di “Campo di Marte” (oggi è la zona della Venezianagas, della Marittina del Porto e di Santa Marta).


La Contrada come molte altre di Venezia possedeva una sua singolarità: sorgevano qui 40 case appartenenti alla famosa e potentissima Scuola Grande di San Rocco padrona di mezza Venezia, e sempre qui c’erano le altre 30 case di legno che la stessa Scuola Grande dava in uso gratuito “Amore dei” a Galeotti e poveri spiantati di Venezia.

La Contrada poi era zona di Tintorie e Tintori, di Cererie e Cereri. L'Arte dei Cereri, era “colonnello”, ossia dipendenza, da quella degli Spezieri da Grosso, importava cera vergine dal Levante, dalla Moldavia e dalla Valacchia, e la depurava in città producendo candele in ben 24 fabbriche che venivano esportate fino a Napoli, in Toscana e Lombardia, e fino in Germania. Soprattutto a Venezia, ma anche altrove, c’era un altissimo consumo di cera che generava un commercio per almeno tre milioni e mezzo di ducati annui. In palazzi, chiese, case, Associazioni e Schole c’era un consumo spropositato di luminarie e cere usate per Sacre Funzioni e Feste, tanto che la gente si autotassava periodicamente pagando la tassa della Luminaria. Nel 1700 a Venezia viveva GiovanBattista Talamini con bottega da Speziale a Rialto “All'insegna della Fonte”. Era capace di colorire, tirare, e lavorare le cere con certi suoi particolari segreti e ferri inventati, creando e imitando con essa ogni qualità di forma di Piante, Fiori, Frutti, e Animali dandole durezza tale da poter essere usate anche come tazze e vasi con cui assumere bevande e liquori. Questo “Mercato delle Cere Veneziane” durò per secoli,  fino a quando nacque una sfacciata concorrenza da parte della Cereria Grande di Trieste che possedeva oltre a grossi capitali, anche un gran numero di lavoranti e speciali esenzioni dai Dazi.

Beh, insomma … nella zona di Santa Maria Maggiore a Venezia, c’era attivisissima una di queste Cererie.


Nella stessa Contrada, poi, abitavano pochissimi Nobili: i Dolce, i Rizzi di Santa Maria Maggiore di V Classe rintanati nel loro Palazzo del 1600, e i Gritti nel palazzone del Rio delle Burchielle, ma non provate neanche a pensare che la zona di Santa Maria Maggiore sia stata un posto di Venezia decrepito e morto. Nel “Supplimento al Giornale delle cose del mondo avvenute negli anni 1621-1623 a Venezia”, precisamente alla data 12 febbraio 1621 “anno di pestilenza”, si legge: “Domenica sera sopra una festa a Santa Maria Maggiore fu ferito da tre ferite il Clarissimo Ser Polo Morosini fo de Ser Gerolamo dicesi da un altro nobile, col quale venne a contesa”.


La zona quindi … era vispissima.

E poi … c’erano le Monache.


Santa Maria Maggiore, infatti, pur essendo in tutto e per tutto una chiesa molto simile per fattura e modello a diverse altre di Venezia, non è stata affatto una chiesupola insignificante e povera d’Arte e Storia … Anzi ! Proprio il contrario, e sapete meglio di me come Venezia nasconda spesso fra le sue pieghe vicende e storie curiose davvero interessanti.

Per misure generali: larghezza, lunghezza e altezza della facciata Santa Maria Maggiore sembra quasi uguale alla chiesa di Ognissanti, o a quella dei Santi Cosma e Damiano, o di Santa Croce della Giudecca, oppure simile a quella di San Giuseppe di Castello … ma “pietre simili”… e Storia del tutto diversa.

La chiesetta pur essendo piccola era ricchissima d’opere d’Arte, aveva ben 11 altari, e grandi possibilità di lucrare Indulgenze tanto che i Veneziani e i Frati, Preti e Monache delle altre parti della città accorrevano spesso in massa per visitarla e partecipare alle sue solenni funzioni. A suon di addobbarla ed abbellirla sempre più, era diventata una specie di Galleria-Museo delle Monache che la usavano per sfoggiare tutto il loro prestigio e la loro ricchezza. E non solo la gente andava a vedere e godere di quel gioiellino da tutta Venezia, ma anche Nobili e Mercanti facevano a gara per arricchirla ulteriormente.


Ordinava Simon Lando nel suo testamento del 1584:“… lasso a detto Monasterio di Sancta Maria Maggiore ad adornamento della Cappella Grande di detta chiesa tutti li miei quadri di casa de noti cioè: “Ecce Homo”di Paris Bordone, “La nostra Dona con San Piero” del Bonifacio, et il mio ritratto quando era d’anni 40 circa, quello di “San Tomas et delli altri Apostoli serati”, quello “delli filioli nater Zebedei”di Carletto Caliari figlio del Veronese, quello del “Centurion” del Veronese, quello “dell’Adultera” del Veronese, “L’Arca di Noè” del Bassano, “La Maddalena”, “Le quattro tempi dell’anno” del Bassano, quello del “Cristo in Agonia nell’Orto” del Veronese et un altro con “Historia del Testamento Vecchio”, et mio ritratto di piera cotta et mio scudo, et mio fanò et di altri miei ritratti uno da jovane ed uno da vecchio …”



Tutti i quadri di questo lascito Lando vennero appesi in esposizione stabile all’interno della chiesa sulle colonne assieme a un altro dipinto di Giovanni Bellini:“Maria col bambino e molti cherubini”(oggi alla Galleria dell’Accademia) oppure dentro alla Sacrestia.

Inoltre c’era l’antico organo, sostituito da Gaetano Callido nel 1786 con la sua opera 222, che aveva portelle dipinte da Palma il Giovane ora appese nella chiesa di San Basso vicino a San Marco ... Si poteva anche vedere un gruppo di puttini con simboli della Beata Vergine Maria dipinti da Alessandro Varottari detto il Padovanino che aveva dipinto anche un:“Miracolo della Beata Vergine Maria” e“Pittore salvato dalla Vergine”,una “Madonna con Bambino e San Giovanni e San Marco inginocchiati con diversi personaggi della famiglia Marcello in abiti ducali”di Francesco Alberti, e due quadri di Palma il Giovane:“Madonna Coronata dal Padre e Figlio con Quattro Evangelisti che sostengono il Mondo” e“Annunziata” (oggi si trova nella Scuola Grande di San Teodoro).

Sulla porta della chiesa che immetteva nel Convento delle Monache c’era appeso un:“Miracolo della Madonna con una donna che partorisce in mare” (oggi a San Giorgio di Nogaro in Friuli), e“La Madonna ridà la vista ad un Diacono” entrambi del Varotari-Padovanino (oggi all’Accademia di Venezia).




Sempre sulle pareti della stessa chiesa stava un intero tripudio d’opere d’Arte: un’“Ascensione di Cristo con gli Apostoli adoranti”del Bonifacio, una “Battaglia dei Camocesi con la Madonna” sempre del Varotari-Padovanino (oggi alla Pinacoteca di Brera di Milano), un “Gioacchino muto cacciato dal Tempio” e un’“Adorazione dei Re Magi” entrambe di Domenico Tintoretto (oggi tutte e due nella chiesa di San Trovaso a Venezia), e uno “Sposalizio della Vergine con San Giuseppe” ancora di Domenico Tintoretto (oggi alla Fondazione Cini di San Giorgio Maggiore).

C’era da ammirare inoltre: un “Giudizio Universale” di Antonio Foller, un “San Sebastiano” alla maniera del Giorgione, un “San Giovanni Battista” del Tiziano, una“Madonna con Bambino, San Giuseppe, Santa Caterina e un’altra Santa”del 1599 dipinto da Palma il Vecchio, una“Processione a Roma con Santa Maria Maggiore”, un“Miracolo con tre Angeli e tre Vergini con ghirlande”, una“Madonna che fa risorgere un Vescovo per fargli dire chi gli ha dato il veleno” del Ponzone con una figura in chiaroscuro di Francesco Ruschi.

Infine ancora dentro alla stessa Sacrestia si potevano ammirare oltre a tutto il resto anche un prezioso gonfalone dipinto dal Santa Croce sopra oro con“Maria che ascende al cielo”insieme a un“San Giuseppe con ritratto d’uomo” del Polidoro equattro quadretti della scuola del Bordone fra cui“Cristo appare agli Apostoli”.



Che ve ne pare ? … Una chiesupola, una delle tante chiesette di Venezia … anche se Veneziani e Foresti fluivano a flotte per visitarla.

A Venezia lo sapevano bene tutti: Santa Maria Maggiore era chiesa e Convento di Monache Francescane Osservanti.



A cavallo fra Storia e Leggenda, si raccontava che nel 1300 un eremita che abitava in quel posto remoto di Venezia aveva visto più di una volta una misteriosa Matrona di grande bellezza passeggiare inquieta con un bambino in braccio lungo il bordo estremo della laguna misurando a grandi passi il posto. Anche alcuni pescatori della Contrada confermarono quello strano prodigio. Il Beato Bernardino da Feltre poi, passando da quella parte, aveva predetto che lì si doveva erigere un bel Convento di Monache Francescane. Conquistata quindi da tutte queste “voci”,Caterina, una Romita della Contrada di Sant’Agnese dello stesso Sestiere di Dorsoduro, chiese al Senato nel 1440 che le fosse concesso “un tratto di terreno degli arzeri novi a Sant’Andrea della Zirada per fabbricarvi sopra una piccola chiesetta in legno dedicata a Santa Maria Vergine e a San Vincenzo a cui era devota”.  Solo durante il secolo seguente su intervento e finanziamento del Patrizio Alvise Mocenigo venne collocata lì una Madonna “importante”, Maggiore, cambiando il nome del posto, e s’iniziò a costruire accanto un grande Monastero capace di ospitare più di 100 Monache.


Una cronaca veneziana del 1502 raccontava: “Alcune Pizzocchere di Santa Maria Maggiore o Scuola o similari… hanno principiato questa ditta fraterna et za hanno zenti a fino a 200 dell’uno et altro sesso a laude de dio et intemerata Vergine Maria…aiutati dal prudente et egregio homo Sier Piero De Franzin da Bressa, homo certamente pietissimo e devoto, il quale con il operar, fatiche, solitudini et industria ha proseguito tanto in far ditto monasterio con elemosine et per lui trovate e scosse che in breve tempo, concedendo il signor et la beata vergine che la chiesa et il monasterio la principiato di tavolle et legnami si faria di muri alti et pietre vive…”


E il solito puntuale Diarista Veneziano Marin Sanudo precisava: “… perché quasi tutto Treviso di done e robe era svuotato, alcune Monache observanti di Sancta Chiara fuora di Treviso, di l’hordine di San Francesco, viveno d’intrada, di numero 52, con la loro roba, con licenza di superiori, venero in questa terra e introno in Monasterio di Sancta Maria Mazor e steteno fin poteno ritornar secure …”


Vendendo Indulgenze in gran quantità, si completò ben presto la chiesa, e nel 1523 il Doge in persona si recò a visitarla completata, mentre Papa Alessandro VI da parte sua concesse alle Monache il permesso di abbandonare la primitiva regola di San Benedetto per abbracciare quella più desiderata di San Francesco e Santa Chiara.



Il sito di Venezia iniziò a godere di un certo prestigio e di una buona fama, tanto che di fronte al Convento sorse anche la Schola di Santa Maria Assunta degli Strazzaroli o Rigattieri o Rivendigoli Straccivendoli Strazzaioli o Rigattieri o Robivecchi. L'edificio occupava (e occupa ancora oggi)l'angolo sud del Campo di Santa Maria Mazor fra il Rio de le Procuratie e il Rio de Santa Maria Mazor e accolse gli iscritti a quell’Arte unita a quella dei “Greghi Capoteri”, provenienti dalla Contrada di San Zulian dopo essere stati in precedenza in quella di San Basso accanto a San Marco.




“MCCCCVII DEL MEXE DE MARZO FU FATA QUESTA SCOLA IN TEMPO DE HI DISCRETI HOMENI S ALEXANDRO STRAZAROL VARDIAN ET S BERNARDI N.DA LA IUSTI CIA SPICIER AVICHARIO ET DE HI SVI COMPAGNI.”recita una lapide sbiadita e quasi consumata ancora visibile in loco.


A Venezia era severamente proibito il commercio degli stracci che era invece riservato agli Ebrei, ma dal 1419 il Mazor Consiglio deliberò che esistesse quell'Arte che doveva essere esercitata da soli cittadini originari e dalle loro mogli, ribadendo che la stessa non doveva in alcun modo passare in mano a forestieri che trafficavano troppo spesso in maniera illegale con drappi, velluti, panni di lana e seta di provenienza estera.

Inoltre al Maggior Consiglio non parve onorevole che fossero messe in pubblico le robe e le miserie dei cittadini di Venezia perciò ne permise la vendita solo all’incanto in luoghi autorizzati proibendone la libera vendita nei campi della città.


“…gli straccivendoli non hanno alcun riguardo di recarsi nelle case ed acquistarne tutta la masserizia e gli arnesi, asportarla occultamente per venderla poi sui campi “cum verecundia generaliter omnium” ma ricevuto il denaro scompaiono. Nessun straccivendolo perciò ardisca comprar letti, coltri, lenzuoli, masserizie, arnesi non intendendo in ciò compresi “pannos a dorso ab homine vel muliere” altrove che all’incanto pubblico.”



Ancora nel 1773, prima che Napoleone sopprimesse tutto e la sede dalla Schola divenisse prima stalla e corpo di guardia militare, e poi Casa del Boia di Venezia, i Capimastri degli Artieri Stracciaioli erano 57 attivi in altrettante botteghe e aiutati nel lavoro da 42 garzoni.


Altri tempi … altra sensibilità civica e lavorativa.


Tornando però al Monastero e alle Monache di Santa Maria Maggiore, all’inizio tutto sembrò procedere bene e per il meglio, tanto che le Monache crescevano di numero e il Monastero s’allargava sempre più: “… nui done de Sancta Maria Mazor avemo tolto dal magnifico misier Marco Michiel presente el padre Fra Marco Orso e Pre’ fra Andrea al presente nostro Confessore, legname per l’andeo delle celle nuove verso i parlatori ...”


Ma ben presto, visto come andavano i costumi e i modi di vivere di quell’epoca, nel Monastero nacque un bel casino o per lo meno una gran confusione d’intenti e soprattutto di regole ... di vita.


Già fin dal 1510 la Priora Suor Maria e altre due Monache se l’intendevano col Prete Francesco da San Stae nella casa del quale si rivennero costosi regali della Monaca Maria pagati a spese del Convento. La Serenissima “dall’occhio e dall’orecchio lungo e attento”, provvide subito a vendere tutto all’incanto per rimpinguare le finanze del Monastero e confinò la Priora “a pane et acqua” imbarcandola e spedendola nella lontana isola di Cipro.


L’immancabile quanto quasi pettegolo Marin Sanudo ricordava: “… In questi giorni fo retenuta per il Patriarca con li Avogadori Suor Maria, Priora di Santa Maria Mazor, con do altre monache, le qual se impazavano con un prete Francesco, stava a S. Stai, bel compagnon, et etiam lui retenuto. Hanno confessato "uterque" quello che facevano; "ergo sub specie sanctitatis multa mala fiunt"; et fo tolte molte robe in casa di prè Francesco che ditta suor Maria ge l'haveva donate, et fo vendute al incanto, e li denari dati alli procuratori di la chiesa predicta. Or fo condannà p. Franc.o a X anni in prexon, e suor Maria confinata in Cypro a pan et aqua, et questo per sententia dil patriarca, et cussì la fu mandata”.


Ma non fu tutto … perché ancora nel 1565 fu interrogato dai Magistrati un Tessitor chiedendogli perché si ostinasse a perdere tempo dedicandosi alle Monache. Costui rispose candidamente: “… qualche volta quel che faccio è per carità et devotion che ho a quel luogo benedito all’honor di Dio … in compenso di … qualche pignatta di panna, qualche pezzo di pan in menestra anche aggua …”



Nel 1594 il Patriarca Priuli(incazzatissimo)andò di nuovo a visitare Monastero, Chiesa e Monache, e nell’occasione approvò la nomina di più di 50 monache a mansioni interne del Monastero che andavano dalla: Speziale, Giardiniera, Infermiera, Bibliotecaria, Sacrestana, Maestra di Coro, Tessitrice, Fornaia, Maestra delle Novizie, e soprattutto confermò nella loro carica di Consigliere Capitolari 6 Monache fra le più discrete, vecchie e prudenti in quanto provenienti anche dalle migliori Famiglie dei Nobili di Venezia.

A produrre nuovi scandali ci pensarono stavolta le Monache Converse Serventi, una specie di figura ibrida intermedia fra le importanti e sontuose Monache Promesse o da Coro e le umili donne che servivano nel Monastero. “…che le Converse vivono con troppa libertà andando fuori sulle fiere et feste … che le Converse alcune volte fare voti al Cristo di Poveggia et alla Madonna di Chioggia per andare a spasso, e questo sono: Suor Michiela, Suor Giustina, Suor Ludovica, Suor Chiara le quali sono le più presuntuose. Che le 4 sopradette vanno spesso fuor di casa insieme e che ciò è male. Che alcuna volta vanno a mangiar fuori Monasterio in casa di loro parenti che sogliono andar in cerca fuori della terra, cioè a Udine, a Porto, in che suol apportar qualche disordine. Che le Converse sono troppe e però bisogneria star senza vestirne per qualche tempo …” tuonò il Patriarca inviperito per il comportamento sconveniente delle Monache che facevano spettegolare e parlare di loro tutta Venezia … e non solo quella.


Il Monastero era ricco, anzi pingue, ben foraggiato e arricchito da benefattori e lasciti. Fra tutti primeggiò il Nobile Alvise Malipiero che volle perfino apporre il suo stemma di famiglia sul campanile e sulla facciata della chiesa, e venne sepolto dentro di essa nel mausoleo di famiglia di fronte a quello dei Mocenigo altra famiglia affezionatissima alle Monache di Santa Maria Maggiore.


Finalmente durante il 1600, “… fors’anche per le terribili bordate inferte a tutta la Venezia Serenissima e al duo Dominio dal “castigo della Peste” … le Monache Clarisse di Santa Maria Maggiore si chetarono alquanto …”


Racconta una cronaca-relazione cittadina:

“In relazione ai sepolcri esistenti nelle chiese del Sestier di Santa Croce, né quali nell’ultima peste furono tumulati cadaveri infetti, esser necessario di ben chiuderli et inarpesarli. In Santa Maria Maggiore ne esiste uno: con nuova terra sia coperto quel cimiterio, lastricato con pietre cotte un pezzo di terreno nel campo in cui esistono eminenze che coprono cadaveri.”


La fama in giro per Venezia circa le Monache Clarisse di Santa Maria Maggiore diceva che erano diventate povere, dormivano sulla paglia, dietro regolare compenso curavano e vestivano come una sposa ingioiellata la Madonna in legno che avevano ricevuto in dono dalla chiesa del Carmine, ed eccellevano per santità e bontà tanto quanto era grande la loro miseria.

I Veneziani si commossero di fronte a quello che era diventato un bell’esempio, e nei testamenti lasciarono al Monastero di Santa Maria Maggiore oltre a denaro contante, anche pane, vino, legna da ardere e carne in perpetuo.

Le Monache erano diventate esemplari, tanto che nel febbraio 1612 si lamentarono: “… perchè due prostitute: Laura Todeschini e la Signora Grana Furno s’erano introdotte in chiesa il giorno della Festa della Madonna Candelora ascoltando due messe all’altare del Cristo e all’altare del Santissimo pur senza disturbare.” Entrambe le donne vennero processate per direttissima dalla Serenissima perché non venisse turbato il buon nome e la serenità del “posto Santo delle Monache”.



Nel novembre 1528 una parte del Maggior Consiglio destinò alla vendita il legname di una Galia Grossa dismessa il cui ricavato andò utilizzato per la sussistenza del Monastero di Santa Maria Maggiore, così che “… le Monache dovranno pregare Dio per il felice stato della Repubblica nostra.”

Nel 1632 la NobilDonna Giulia Fontanachiese: “… d’essere sepolta in chiesa nell’Arca delle monache di Santa Maria Mazor col vestito della Madonna ed il cordone di San Francesco”,raccomandando che prima d’inumarla si celebrassero almeno 100 messe “pro anima soa” lasciando per lo scopo 10 ducati ed una Mansioneria perpetua da celebrare a pagamento ogni giorno. Esattamente dieci anni dopo, la NobilDonna Zanetta Balbi fece altrettanto, e volle essere sepolta in chiesa assegnando e pagando alle Monache una Mansioneria da 12 ducati annui con obbligo di dire 2 Messe alla settimana in perpetuo … sempre “pro anima soa”.


Nel 1657 un potente uragano colpì Venezia intera atterrando 24 case, distruggendo 3.000 camini, facendo crollare la cella campanaria con tutte le campane del campanile di Santi Apostoli, e recando gravi danni al Monastero di Santa Maria Maggiore.


Il Patriarca Vendramin tornò a visitare le Monache del Santa Maria Maggiore, e trovò tutto a posto e in ordine.

I suoi attentissimi segretari e covisitatori stesero nell’occasione un’accurata relazione:


“… Tutto è ben tenuto, Sacrestia, Confessorio, Parlatorio, et hanno un organo bellissimo, et la Cappella Centrale possiede un Assunta del Veronese, la Cappella di San Francesco dei Malipiero con statua del Santo possiede una Mansioneria da 30 ducati e del 1532, la Cappella di San Giovanni Battista della famiglia Nobili dei Polani con la pala dipinta dal Tiziano (oggi all’Accademia) è dotata, invece, di 2 Mansionerie da 35 ducati, mentre la Cappella dei Gradenigo è legata a 10 ducati annui per celebrare Messe.

Il primo Altare a sinistra entrando, ossia quello col dipinto della “Madonna dell’Albero” del Veronese (oggi all’Accademia), appartiene alla Nobile Famiglia dei Marcello. Non è consacrato ma possiede una Manionreria da 20 ducati non officiata, e un’altra da 10 ducati della figlia dei Marcello.

Il secondo a sinistra è l’altare ancora non finito appartenente a Ca’ Giustinian di Cardasco o Carpas chè avrà una pala con “L’Incoronazione della Vergine” di Palma il Giovane.

Il terzo altare è quello del Cristo o degli Odoni, consacrato e con una Mansioneria da 24 ducati offerta dai Cittadini di Ca’ Budini nel 1545. Possiede un dipinto che rappresenta la Beata Vergine Maria con San Giovanni Battista.

Il quarto altare è quello di San Pietro con i mausolei di famiglia dei Mocenigo e Morosini, consacrato e con Mansioneria da 24 ducati e  pala del Bonifacio del 1543 rappresentante “Madonna e Santi”.

Viceversa, il primo altare a destra entrando è quello di San Nicolò o dei Nobili Marini del 1560 con un dipinto della “Presentazione al Tempio”. E’ consacrato ma non ancora officiato perché la Mansioneria non è stata ancora pagata da nessuno.

Il secondo altare a destra entrando è quello di Sant’Antonio: consacrato e con Mansioneria della casa del Cappellano che celebra obbligatoriamente 1 Messa alla settimana. (Il dipinto con “Pisbolica-Ascensione” del 1568 è finito oggi a San Giobbe).

Segue l’altare di Santa Chiara e San Francesco, il terzo entrando a destra, consacrato e con Mansioneria da 10 ducati (dal 1829 è stato trasferito a Santa Maria Materdomini). Poi come quarto e ultimo altare c’è quello della Pietà o dei Nobili Tron, consacrato e con Mansioneria da ducati 24, arricchito da bella pala con “Deposizione del Cristo” del 1530.

(almeno tre di questi altari dal 1829 vennero trasloccati nella chiesa di Santa Maria del Pianto sulle Fondamente Nove.)



Sempre accompagnando il Patriarca come ombre, passo dopo passo durante tutta la Visita, i segretari continuarono a scrivere:

“… si visitò anco la Sagrestia esteriore, ritrovata ben tenuta con quello che bisogna alla giornata, nella quale vi è una porta che passa al luogo del Confessorio, ben tenuti … il corpo della chiesa si è trovato magnificamente fabricato con bellissimo organo, con decenti finestre et parete … fu passato a visitare il Parlatorio unico ma grande, ben tenuto: nel quale vi è una porta che passa al luogo delle Converse visitato in ogni parte, cioè dormitorio a campi et letti, con alcuni oratorii, uno per ogni Monaca, lavoratorio, forestaria, et da basso luogo da lissà, cusina, refettorio, corte et orticello con muri alti: et per essere sua Santità Illustrissima lontano dal suo palazzo patriarcale si fece portare da casa da disnare et se desni nella casella del Reverendo Cappellano, et disnato che hebbe fece la visita oculare del Monasterio entando in esso con le solite solennità: dove fu incontrada da tutte le Monache processionalmente, alle quali dato la benedizione, s’incammino’ verso il luogo del Capitolo, nel quale sua Santità Illustrissima fece quel ragionamento spirituale intorno il buon governo si delle cose spirituali come temporali, qual finito furono licenziate le Monache, con ordine che si riducessero in Choro a prigare al Santo Dio per il felice successo della visita, tenendo la Madre Abbadessa con quattro a se delle più vecchie con le quali andò et accompagnato il Patriarca dalli Sacerdoti si fece il Ufficio per le Anime Defunte, et poi salì de supra e visitò la Sagrestia interiore, la qual trovò fornita de arredi et argenti, come de altri suppellettili della chiesa. Passò a visitare il dormitorio, lavatorio, et altri loghi alti del Monasterio, quali visitati venne da basso et visitò refettorio, lavandaria, et altri luoghi del ditto Monasterio, et il tutto viene decentemente tenuto, visitando anco l’horto et riva, cole terre circondate de buoni et alti muri …”

Secondo il Cicogna nel 1695 dentro al Convento abitavano 122 Monache di cui 73 Professe … ma col secolo seguente iniziò il declino e la veloce decadenza del Monastero che divenne presto desueto e cadente.

Nel 1703 i Provveditori dovettero impedire la vendita degli arredi sacri per provvedere ai restauri … Nel 1721 il Monastero era nella lista di quelli più bisognosi della città, considerato fra i quattro più miseri, ai quali la Serenissima Repubblica regalava: “distribuzioni di burci d’acqua e un sussidio di stara di grano a Pasqua come facevasi con gli Ospedali e gli Ospizi cittadini più poveri come le Convertite, il Soccorso, le Citelle, li Catecumeni, le Eremite, le Capucine della Grazia, le Monache del Gesu’ e Maria, li Miracoli  e le Penitenti di San Job.”


Nel maggio 1724 il Proto Andrea Tiralirilasciò una scrittura per un restauro di 160 ducati del coperto della chiesa di Santa Maria Maggiore perché vi pioveva dentro … nel luglio 1731 si spesero 2.916 ducati per riparare la chiesa dove entravano anche i gatti … nel 1736 il Proto Bettinzani Bernardo rilasciò una perizia per il rifacimento dei muri perimetrali del Monastero riparati dal murer Domenico Tentato a rate per una spesa di 1489 ducati ... Nel gennaio dell’anno seguente si riparò anche il Parlatorio tramite il murador Folin Andrea, e poi ancora di nuovo il Monastero, e nel 1739 l’infermeria spendendo altri 230 ducati.


E’ dell’agosto 1770 una curiosissima registrazione dell’Inglese Charles Burney Musicofilo e Viaggiatore presente a Venezia. Fra le altre cose, passò per la chiesa di Santa Maria Maggiore per vedere alcuni quadri, e descrisse così la musica ascoltata:“… vi capitai mentre si suonava musica così scadente che non avrei creduto possibile che gli Italiani potessero sopportare. L’organo era scordato, gli altri strumenti andavano fuori tempo e le voci avevano entrambi i difetti; la Musica poteva paragonarsi ai primi tentativi di un allievo che avesse appena avuto due o tre lezioni di contrappunto …”


Si era ormai agli sgoccioli, alle ultime pagine della Storia di quel sito che era stato così pregiato e ammirato da molti. Come ben sapete, nel1805 ci pensò Napoleone ad azzerare tutto: nell’agosto ordinò la soppressione di tutte le Corporazioni Ecclesiastiche, e le Monache Clarisse Francescane di Santa Maria Maggiore vennero concentrate assieme a quelle del Santa Croce Grande (Piazzale Roma attuali Giardini di Papadopoli), consegnando i luoghi del Monastero alle truppe di terra.



Inutilmente la Badessa Maria Cherubina:“… impetrò il soccorso dell’Imperatore per le Monache nel maggiore bisogno”.  Napoleone non le rispose neanche.

L’anno seguente il Monastero di Santa Maria Maggiore divenuto caserma prese fuoco, si salvò solo la chiesa, ma continuò ad ospitare militari per altri 100 anni fino a quando nel 1914 si costruirono le Carceri Nuove in sostituzioni di quelle in Riva degli Schiavoni e di quelle Politiche formate nel 1829 dagli Austriaci nella ex chiesa di San Severo. La chiesa di Santa Maria Maggiore venne ridotta a magazzino della Manifattura Tabacchidividendola tutta in capienti soppalchi che rimasero fino al 1961.



Mi piace concludere questa mia “Curiosità Veneziana”ricordando un mio vecchio professore di Teologia di quando negli anni 1970 studiavo da Prete nel Seminario della Salute, la “Fucina dei Preti”. Fra le altre cose era Prete e Cappellano del Carcere di Santa Maria Maggiore … e quasi live ci raccontava a scuola delle sue salite dentro agli abbaini delle Prigioni e fin sul tetto delle Carceri per convincere i Carcerati in subbuglio a rientrare di sotto dalle loro manifestazioni di protesta.



“Avete famiglia, figli a casa che vi aspettano … Fatelo per loro se non per altro.” Aveva provato a dire ai Carcerati. “Desistete da questa bravata, così eviterete d’aggiungere ulteriori danni alla vostra situazione.” I Carcerati in rivolta non diedero ascolto a nessuno se non a lui.

Perciò nella mia mente fu facile assimilare quell’uomo-Prete saggio arrampicato sui tetti a quegli antichi Patriarchi di un tempo che accorrevano negli stessi luoghi per cercare di contenere le stravaganze e le intemperanze delle turbolente Monache di Santa Maria Maggiore. Erano cambiati i tempi e le persone, ma le storie che accadevano negli stessi luoghi erano quasi le stesse.

Peccato che quell’ultimo bravuomo Prete sia stato ingrippato ed aggirato in seguito dalle astuzie furbastre di alcuni reclusi delle Brigate Rosse … Non meritava affatto di uscirne malamente dopo tanto suo generoso e sincero prodigarsi nei confronti di quegli “ospiti speciali”.

Comunque è inutile recriminare … è così che va la Storia, che piaccia o no.


Concludendo, io passo per recarmi a lavorare nella Casa di Cura di Mestre per il Campo e davanti a Santa Maria Maggiore molto spesso, anche questa mattina. Entro ogni volta dentro alla scena surreale color arancione illuminata dai vapori di sodio delle luci. A sinistra supero e lascio sempre la ex Schola degli Stracciaoli avvolta nell’ombra, osservo più avanti le barche del trasporto dei Carcerati ormeggiate nel canale dall’acqua immota. Pochi passi oltre passo davanti al pesante portone chiuso del Carcere un tempo Monastero di Santa Maria Maggiore. Vedo i pacchi dei giornali avvolti nel cellophane appoggiati per terra saturi delle notizie del giorno, qualche metro più avanti noto anche la montagna delle patate, delle erbe, la frutta e i rifornimenti per la cucina del Penitenziario … Osservo gli alberi stecchiti e neri che riempiono il centro della scena, sparati verso il cielo saturo di infinite stelle lontane e indifferenti … infine ascolto i merli nascosti invisibili nel buio che stanno raccontandosi le loro storie impossibili rompendo il tristo e pesante silenzio che domina su tutto.



Santa Maria Maggiore non esiste più … e non solo quella. Sono mondi, storie aliene divorate dal Tempo ... mentre io metto un passo davanti all’altro dentro al mio microscopico oggi Veneziano.


“LIBRERI E MASTINI DI DIO A SAN GIOVANNI E PAOLO … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 90.


“LIBRERI E MASTINI DI DIO A SAN GIOVANNI E PAOLO … A VENEZIA.”


“Ocio ai Libri ! … Qualcuno saria da brusarlo insieme a chi lo lexe … Perché certe pagine sono pericolose, segrete e a volte proibite ... Qualche libro xe capace de farte voltàr la testa, sviàr la mente, capovolgere e accartocciare i pensieri … Certe opere sono del Maligno in persona: vanno distrutte, disintegrate e cancellate nel fuoco prima che feriscano, e la loro cenere andrà dispersa in mezzo al mare o sopra alle acque della Laguna.” diceva a metà del 1500 Fra Tommaso da Vicenza uno dei Frati Domenicani Inquisitori e Predicatori di Venezia.


Fu il primo Inquisitore dei Domenicani di Venezia, e fu con lui che s’iniziò il 29 aprile di ogni anno a bruciare tutti i libri proibiti raccolti in giro per Venezia durante le perquisizioni effettuate durante l’anno sopra il ponte che attraversava il Rio di Castello fra le chiese dei Paolotti di San Bartolomeo e quella degli Inquisitori di San Domenico.

Gli ormai potentissimi Frati Domenicani erano soprannominati da tutti per il loro zelo deciso e per la loro “feroce”dottrina: “I Domini Canes”ossia i Cani, i Mastini di Dio.


E quella non era solo affatto solo una diceria o una canzonatura nei loro riguardi, perché quei Frati residenti anche nel cuore dell’Arcipelago Veneziano della Serenissima erano proprio così: determinatissimi e tremendi. Non scherzavano per niente, e con i loro uomini s’intrufolavano dappertutto, ascoltavano tutto e tutti, e non perdevano occasione per controllare e valutare chiunque fino a portarlo davanti al Tribunale della Fede per poi processarli e condannarli ... Serenissima permettendo. Perché a Venezia l’Inquisizione ha sempre dovuto darsi una grande contenuta e calmata: per la Serenissima la Religione era importantissima, ma prima veniva sempre la “Ragion di Stato”, che significava anche tolleranza e rispetto della diversità e della libertà di pensiero ed espressione di ogni persona ... oltre che strenua difesa di qualsiasi interesse economico, mercantile, diplomatico e commerciale.


Il trascorrere de Tempo di solito obnubila, confonde, stende su tutto e soprattutto su certi posti una patina grigiastra di silenzio e dimenticanza, ma non per questo le cose che nasconde non sono mai capitate: sono, invece, accadute realmente e meritano d’essere ricordate. Sempre lo stesso Tempo, “che è galantomo”, cala un velo pietoso sopra a tante miserie, ma qualche volta vale la pena sollevarlo almeno un poco e curiosarci sotto scoprendo ogni volta cose interessantissime e per davvero curiose.


Lì, all’interno del loro “piccolo Regno Venezianodi San Zanipolo”, quello che noi Veneziani di oggi chiamiamo e vediamo solo come Ospedale Civile di San Giovanni e Paolo, i Frati Domenicani possedevano una Biblioteca stupenda davvero speciale, una Libraria bellissima e molto famosa, tanto che fino agli inizi del 1800 esisteva gente che veniva a visitarla e consultarla da tutta l’Europa e anche oltre.

Ci sono rimaste poche stampe a ricordarcela rivelandocene i dettagli, ma in ogni caso sappiamo che era una Biblioteca fornitissima di volumi di pregio, incunaboli, manoscritti, pergamene e libri di ogni sorta, compresi quelli proibiti a cui era destinata una sezione intera. La “Biblioteca Nuova di San Zanipolo”conteneva perfino una raccolta di “libri antichi e segreti”provenienti da ogni parte del mondo.

La decorazione della Biblioteca era meravigliosa: era stata del tutto tappezzata da arredi e scaffalature intagliate che andavano dal soffitto al pavimento. Un’opera monumentale eseguita da Giacomo Piazzetta, padre del famoso Giambattista e pensata nei più minimi dettagli, perché solo al vederla potesse da sola: “Raccontare la Storia e ispirare la vera Sapienza.”


Il progetto era complesso: si trattava di una numerosa serie di statue lignee intagliate spesso “a Telamonio”, ossia cave all’interno per non pesare troppo sull’architettura dell’edificio. Il manufatto doveva abbellire ma non pesare troppo per non far “imbarcare e sprofondare il pavimento”.

A Venezia e altrove quello dei Telamoni era un accorgimento molto utilizzato da artisti come Sansovino, Baldassare Longhena e Palladio soprattutto nella costruzione di facciate, fontane, mausolei di famiglia e monumenti funebri. Per intenderci, si tratta di quei giganti tozzi che a volte sostengono altre figure, oppure fungono da piedistalli di colonne, cornici e sarcofagi. Sono spesso figure simboliche rappresentano personaggi mitici o allegorici che vanno a integrare, dar sostegno e accompagnare la vicenda che sostengono.

Per farcene un’idea precisa basti pensare al monumento funebre della famiglia Nobile dei Pesaro inaugurato nel 1665 nella Basilica di Santa Maria Graziosa dei Frari. Lì i Telamoni sono evidentissimi come dei Mori enormi e muscolosi il cui significato meriterebbe tutto un discorso a parte. Altri Telamoni sono riconoscibili sui camini interni di Palazzo Ducale, sugli ingressi della Zecca e della Biblioteca Marciana, oppure intagliati mirabilmente da Francesco Pianta nei dossali della Sala Superiore della Scuola Grande di San Rocco; o in quelli eseguiti da Pietro Morando per la Scuola di San Giovanni Battista nell’isola di Murano. Sono Telamoni in legno tutta la serie dei Profeti col cartiglio in mano collocati in alto e dentro alla cupola grande della chiesa della Madonna della Salute, e sono “Telamoni di Pellegrini e Dolenti” quelli osservabili sulla facciata della chiesa dell’Ospedalettoin Barbaria delle Tole a Castello, il cui vero nome sarebbe: Santa Maria dei Derelitti.

Telamoni in legno sono stati utilizzati nella Biblioteca Monastica dei Benedettini di San Giorgio Maggiore in Isola collocandoli sopra gli scaffali delle librerie per indicare gli argomenti, e infine, alti Telamoni di legno, vuoti all’interno, vennero scolpiti e intagliati per allestire la “Biblioteca Nuova dei Frati Domenicani di San Giovanni e Paolo a Venezia detta di San Zanipolo” aperta al pubblico di Venezia e a quello foresto fin dal 1683.


Dove un tempo sorgeva la “Libraria Vecchia di San Giovanni e Paolo”, s’era fatta ideare e costruire da Baldassare Longhena (lo stesso progettista esecutore della famosa Basilica della Salute in punta alla Dogana sul Bacino di San Marco … la chiesa del voto della Peste)  la “Grande Nuova Biblioteca di San Zanipolo”, e il Priore Frate Giacomo Maria Gianvizio commissionò a Giacomo Piazzetta, padre del famoso Giambattista, un lavoro d’arredo e intaglio che venne curato dalla sua bottega per ben dieci anni realizzando un’idea e uno scenario memorabile secondo quanto avevano in mente i Frati Domenicani Inquisitori esperti di Diritto, Teologia, e Dottrina della Fede della Chiesa Cattolica Romana considerati “Il top” della conoscenza e sapienza dell’epoca.

Fra 1678 e 1681, venne realizzata perciò una serie di ventotto Telamoni intarsiati inseriti nel grande arredo ligneo della Biblioteca che copriva la grande sala dal soffitto al pavimento. Erano i tempi della Controriforma post Tridentina e della lotta contro gli Eretici di tutta Europa.  Gli Inquisitori Domenicani erano strenuamente impegnati a combattere usando: Tribunale, prigionia, rogo e tutti gli altri mezzi contro: “il poderoso calderone dei pericolosi Protestanti e Calvinisti d’origine ultramontana”.  I Telamoni della “Biblioteca Nuova di San Zanipolo”dovevano rappresentare un’intera serie di figure d’Eretici sottomessi dalla Dottrina della giusta Religione.


La Nuova Biblioteca foderata di Libri preziosissimi risultò da subito un capolavoro invidiabile, un gioiellino che metteva insieme sculture, pitture e scenografiche soluzioni oltre alla cosa principale che erano ovviamente i Libri: numerosi, preziosi e rari. Quell’ambiente divenne l’emblema, il capolavoro più rappresentativo di quella stagione “culturale e storica felice” vissuta dai Frati Domenicani Inquisitori e Predicatori di Venezia ... che in realtà non erano affatto soli nel condividere e credere in certe “convinzioni”. Infatti trovarono adesione religiosa, sostegno politico e soprattutto contribuzione economia da parte di alcuni facoltosi Nobili e Patrizi Veneziani appartenenti alle Famiglie dei Pesaro, Rezzonico, Pasqualigoe Basadonna, solo per citarne alcune.


“Nella decorazione della Biblioteca si dovrà riassumere in maniera artistica quelle che sono le certezze dei Padri Domenicani e della nostra Fede Cristiana e Cattolica …” raccomandò per scritto il Priore Giacomo Maria Gianvizio all’architetto incaricato ossia Baldassare Longhena.


Chiunque entrava nella Biblioteca rimaneva estasiato e a bocca aperta, perché si trovava davanti plasticamente riassunti e rappresentati insieme tutti i Santi Padri della Chiesa, Personaggi e Autori Cattolici, Filosofie ogni riferimento inerente alla Santa Dottrina. C’erano visibilmente elencate e scolpite nel legno tutte le Virtù, i Vizi, le Allegorieinsieme a numerosi episodi e mirabili richiami delle Sacre Scritture, e non potevano mancare d’essere rappresentati anche gli Eretici che erano considerati: “… i servi, i vinti, i nemici assoluti della Verità rivelata che i Frati di San Domenico perseguono accanitamente ... Sono coloro che sono sopraffatti, incatenati, pestati sotto ai piedi dai Padri, e schiacciati dal peso inesorabile e vincente della Buona Dottrina.”


Ancora nel 1726, il Benedettino Bernard de Montfaucon descriveva entusiasta in un suo diario la sublime Biblioteca dei Frati Domenicani di San Zanipolo lodandone la bellezza durante un suo viaggio fino a Venezia.

Erano numerosissime le copie delle incisioni circolanti per l’Europa intera prodotte dal Generale Francescano Vincenzo Maria Coronelli dei Frari che illustravano l’interno e gli arredi originali di quel mirabile “Locus Divinae Sapientiae”.


Il Monaco Benedettino De Montfauconscriveva:

“… a dir di tutti, non trattasi dei soliti scaffali ordinari, degli armadi a griglie in legno e ottone che dividono i tomi per materia e disciplina. La Sala Granda della Biblioteca Nuova di San Zanipolo mostra un insieme originalissimo e composito di paraste e capitelli e soprattutto di statue lignee intagliatissime che foderano l’intero ambiente dal pavimento alle pareti e fino al soffitto. Trattasi delle figure dei Riformatori Protestanti e degli Eretici che reggono gli scaffali con i libri. Sono resi come Telamoni tutti incatenati, in vari atteggiamenti di rabbia e stizza, e fungono da piedistallo ai loro vincitori depositari della “Vera Sapienza”… Illuminano il locale una grande porta-finestra che da sul giardino e diverse finestre a lunetta inquadrate dalle unghie delle volte che stanno sopra alle scaffalature. Sta inserita nel soffitto una grande cornice con all’interno dipinti dei Padri Conciliari dell’Ordine dei Predicatori, mentre in corrispondenza delle finestre, dentro ad alcuni medaglioni in legno, sono ritratti scolpiti i volti dei Domenicani Inquisitori: ossia i “Vincitori degli Eretici”.

Sopra alla testa di ogni mirabile Telamone sta scolpito un uccello che simboleggia le pecche dell’Eretico a cui è associato ... Diversi sono uccelli del malaugurio: Gufo, Nibbio, Pappagallo, ma mostransi anche altri uccelli il cui significato positivo è stato mutato in negativo come la Cicogna e il Pellicano. Si aggiungono poi, motti e frasi illuminanti della Scrittura che spiegano ciascun simbolo e caso.

L’ispirazione è tratta di certo da alcuni testi di Emblematica e Geroglifici Simbolici tra cui il volume di Pierio Veleriano che sa fondere sapientemente: Simbolismo, Bestiari medioevali e contenuti del Physiologus attribuito all’Epifanio ... Gran mirabile è quella Sala di Venezia !”


Insomma n’era derivata un’opera superba, invidiabile, presto cinta da un’area di arcana quanto struggente atmosfera e fama. Addirittura sono nate delle leggende su quel posto, tanto che si diceva che dietro a quei Telamoni e a quelle Cariatidi di legno si fossero nascosti dei pertugi segreti e degli spazi da dentro i quali la Serenissima e i Frati Inquisitori si nascondevano ad ascoltare le persone a volte provocandole e tirandole in lingua convinte di non essere ascoltate né viste da nessuno.  Più di qualche volta qualche sprovveduto Capitano di Galea o ricco Nobile Mercante si ritrovò torturato nelle Prigioni di Palazzo Ducale dopo una cordiale chiacchierata con qualche Frate dentro alla loro sontuosa Biblioteca.

I poveri malcapitati inizialmente erano incapaci di rendersi conto su come fosse potuto accadere d’essere stati smascherati e scoperti nelle loro losche trame tenute segrete. Solo più tardi, e a volte mai, si capacitavano che quella Biblioteca che pareva silenziosa come un sepolcro, era, invece, finita per diventare la loro tomba per davvero a causa delle loro esternazioni ingenue.


Anche i Frati Domenicani poi, non erano affatto “stinchi di Santo”… anzi. Le cronache di Venezia raccontano che alcuni di loro “presi dalle loro incombenze e necessità”, strappavano le miniature artistiche dai libri e dai manoscritti e se le vendevano sul mercato di nascosto. A poco valsero a fermarli le severe pene in cui incorsero: c’erano Libri che apparivano di qua, scomparivano di là, per riapparire poi altrove dove neanche te l’aspettavi. Il Priore dei Domenicani fu costretto in certi periodi a incatenare i libri agli scaffali e ai muri delle Biblioteca. Ma anche questo non fu sufficiente perché accadde che nottetempo si presentassero dei ladri inviati lì su commissione per appropriarsi di opere considerate uniche, copie rarissime, o di un certo valore.


“La Cultura e la Dottrina non sono incatenabili !” si diceva ironicamente in giro per Venezia.

Inoltre, siccome non solo i Frati Domenicani, ma soprattutto i Letterati Veneziani, i Nobili, e il Doge con la Signoria tutta, erano convintissimi della potenza contenuta nei Libri, ne ebbero sempre non solo un gran rispetto, ma fecero di tutto per favorirne l’edizione, la stampa, l’espansione, la diffusione, la vendita e l’uso.

Come ben sapete Venezia è stata un po’ la “Patria dell’Editoria del Rinascimento”in quanto era uno dei pochi posti al mondo in cui era possibile stampare quasi liberamente un po’di tutto, anche ciò che era rigorosamente proibito altrove.

Immaginate quindi il gran da fare che aveva l’Inquisizione Veneziana per tenere sotto controllo e a freno tutto quel movimento e quella grande agitazione di carta spesso incontenibile.


“I Libri sono armi più potenti delle parole delle persone, perché viaggiano, attraversano monti e mari, sanno giungere ovunque… Sono come la Pestilenza, riescono a lievitare e crescere spandendo conoscenza e sapienza di quantità e consistenza non sempre felice.”


Non fu di certo un caso, se i Domenicani di Venezia si premurarono di ospitare al più presto dentro al loro Convento la Sede della Corporazione o Arte o Schola degli Stampadori o Libreri di Venezia. Fin dalla sua fondazione l'Arte fu oggetto di particolare attenzione da parte del Governo della Serenissima che comminava pene severe a chiunque stampasse senza licenza. In quella maniera anche i Frati Domenicani Inquisitori erano certi di avere tutto sotto controllo e a portata “d’occhio e mano”, in modo da vigilare attentamente su tutto quanto poteva uscire dai torchi dell’Editoria Veneziana.



La Schola di San Tommaso dei Librerie Stampadoriprese accordi con i Padri Domenicani Inquisitori di San Zanipoloche concessero loro un locale in muratura nel Primo Chiostrosotto al Noviziato per un canone annuo d’affitto di 30 ducati per la stanza, e ulteriori 6 ducati per celebrare per i Librai 24 messe l’anno. A parte si doveva pagare per la Festa del Patrono ossia San Tommaso d’Aquino, celebrata il 7 marzo o nel primo giorno festivo utile successivo.


Ancora nel 1773 si contavano attivi in Venezia: 131 Capimastri Librai con 18 garzoni e 318 lavoranti compositori e torcolanti (lavoratori al torchio), e 51 impiegati in librerie. In Venezia esistevano: 35 tipografie e 42 botteghe da Stampadori e Libreri che non potevano rimanere aperte nei giorni festivi e di domenica. All’ombra dei Libreri e Stampadori, inoltre, esistevano anche 23 capimastri Ligadori da libri con 5 garzoni, e 24 lavoranti attivi in 32 botteghe.


Una grande produzione insomma, che iniziò in Laguna probabilmente nel 1469 quando il Senato concesse il privilegio per l’esercizio della stampa di libri con caratteri mobili al Tedesco Giovanni da Spira. Già prima del 1500 uscirono dalle 154 officine veneziane circa 3000 edizioni per più di 2 milioni di copie di libri, mentre durante il 1500 ci fu un enorme diffusione di Stamperie e Libri con 493 ditte che stampavano una media di 3 libri alla settimana. Più della metà di queste ditte erano modeste, ossia in grado di pubblicare una sola edizione in tutto. Accanto a queste però ce n’erano almeno 50 che pubblicarono in pochi anni più di 20 edizioni di alcuni libri, 10 edizioni superarono le 40 riedizioni, e una arrivò ad essere ristampata per ben 140 edizioni.


Gli Stampadori ottenevano dalla Repubblica Serenissima il Privilegio di Stampa”,ossia l'esclusiva per la riproduzione di un'opera valida per 20, 10 e infine 15 anni, mentre dall’Inquisizione ottenevano la “Censura” o “l’Imprimatur”sul contenuto del Libro, ossia il permesso di pubblicare: “cose consone e secondo i sani principi della Religione”.


“I Libri stanno rinchiusi nelle camere, e non si conosce il danno che fanno, se non quando si trova poi che li animi infetti danno fuori il veneno, e la peste contratta da questi libri …”considerava Antonio Maria Graziani Nunzio del Papa residente a Venezia nel 1596.


A Venezia come sempre c’era un gran mercato di tutto, anche di Libri, ed è documentata la presenza di letterati, rappresentanti di editori, e appassionati compratori e cultori dei libri provenienti dalla lontana Germania, ma anche da: Padova, Asti, Firenze e Siena, Napoli e Salerno, Trento, Pesaro, Brescia, Bergamo, Milano, Pavia, Vercelli con Trino Vercellese e Lago Maggiore. Come sempre la Serenissima dovette più volte intervenire per sanare abusi economici, e il mondo del commercio dei Libri subì il controllo del Magistrato contro la Bestemmia, degli Inquisitori di stato, della Santa Inquisizione, e dei Riformatori dello Studio di Padova.


Ogni libro per essere pubblicato a Venezia doveva avere il permesso del “Revisore alle Stampe” e del Priore dell'Arte dei Libreri e Stampadori.



Solo l'introduzione dell'Indice Romano dei Libri Proibiti riuscì a rallentare la produzione di quella fiumana di libri, che tuttavia riuscì a diffondere ugualmente “libera cultura” in tutta Europa: Spagna, Francia, Germania, Danimarca, Svizzera e Ungheria, e perfino in America.

In ogni caso il libro veneziano veniva considerato un prodotto pregiato sia per la carta sempre di ottima qualità, a volte persino dorata, inargentata e miniata, per i caratteri eleganti, il testo corretto, l'inchiostrazione misurata, le illustrazioni sempre molto curate, e le rilegature ricche e fastose talvolta ricoperte di damasco o velluto. Si giunse a pubblicare ben 4416 edizioni con una media di 90 edizioni annue.

Nello Stato Veneto esistevano circa 90 cartiere a volte piccolissime che davano lavoro a migliaia di persone.  Spesso le cartiere presenti soprattutto sulla Riviera di Salò sul Lago di Garda, ma anche nel Bellunese, Trevigiano, Vicentino, Padovano e Pordenonese si trovavano in perenne crisi economica per mancanza di stracci da trasformare in carta, perciò la Serenissima intervenne molte volte per aiutarle con apposite esenzioni sui dazi numerosissimi imposti sui libri e la carta, e mettendo al bando la carta estera che doveva essere bruciata se rinvenuta in circolazione.


Il controllo asfissiante dei Domenicani non fu comunque efficace, perché spesso esistevano dei “liberi battitori” che sparsi per Venezia stampavano anche una sola copia soltanto, o un’edizione di qualche libro interessante e pericoloso. E fatta una copia, il gioco era fatto: “Quando un libro prende il volo è difficile estirparlo ... è come la gramigna: ne strappi una e ne ricrescono cento …  e spesso non c’è peggior modo di quello di proibire i libri per ottenere l’effetto che in molti desiderino e accorrano a procurarsi copia di quanto è più biasimevole e incerto e profano. Così funziona l’animo umano … Anche il rogo del fuoco non è sufficiente a cancellare certe “Male Verità” … e forse non sarebbe neanche sufficiente bruciare con la carta quelli che hanno avuto l’ardire di pensarla e riempirla.”


A Venezia nel 1588 il Libraio Pietro Longo venne condannato a morte, mentre Salvatore de Negri Libraio a San Rocco venne denunciato più volte dai suoi stessi clienti all’Inquisizione che lo inquisì e processò dal 1628 al 1661, anche se lui continuò tranquillamente nei suoi traffici incurante dell’attività dell’Inquisizione.


Insomma: gli Inquisitori di Venezia si scagliarono senza sosta e con poco successo contro: “… Luterani, Calvinisti, Eretici e Miscredenti in genere, ogni forma di Strigaria e Magia, ogni tipo di libertinaggio, novità scientifica deviante, e mancanza di disciplina morale.”


Tremendi quei Frati Predicatori e Inquisitori ! … ma vi dirò meglio la prossima volta qual’era l’altro aspetto della loro medaglia.


Infine, storicamente si sa per certo, che i Francesi Napoleonici distrussero del tutto barbaramente quel pregevole monumento della “Biblioteca Nuova Granda di San Zanipolo” trasformandola in legna da ardere.


Avete capito giusto: legna da ardere !


Sembra che in seguito, nello stesso “luogo liberato”abbiano collocato comodamente l’armeria della loro caserma e ospedale militare che era divenuto l’ex Convento dei Domenicani di San Giovanni e Paolo ossia San Zanipolo.

Venduti, trafugati e dispersi i Libri preziosi, di tutte quelle pregevoli sculture lignee intarsiate, rimase solo un mucchio di legname ammassato in un angolo dei chiostri su cui andò a posare lo sguardo un certo “Sir Inglese” rimasto anonimo di passaggio a Venezia.

Al “Sir”misterioso riuscì di comperare dai Francese tutti quei “rottami ammassati” in cambio di pochissimo denaro, e provò a caricare tutto dentro a un brigantino in partenza dal Molo di San Marco di Venezia diretto in Inghilterra. Intendeva portarseli tutti a casa per arredare bellamente il suo studiolo e dare loro ancora una volta la collocazione che meritavano.

Il “Sir” pagò allora profumatamente alcuni barcaroli Veneziani che trasportarono tutto il materiale di legno dal chiostro di San Zanipolo fino ad ammucchiarlo sul Molo di San Marco nei pressi dell’imbarco sulla Riva di San Biagio.

Quando venne però il momento di caricare la nave e salpare, il Capitano del brigantino sollevò mille problemi e difficoltà per imbarcare quel carico un po’ “particolare”. Non gli era mai capitato di viaggiare per mare con la nave ingombra di statue di legno fracassate, perciò faticò non poco a concedere e sacrificare spazio utile della nave “buono per gli affari” occupandolo con quell’ingombro così poco redditizio e forse inutile.

Perciò di nuovo, dopo un “tira e molla, e molla e tira sul prezzo”, si contrattò alla fine a suon di denari di accettare a bordo buona parte e non tutta quella montagna di statue e pezzi di legno intagliato. Inutilmente il “Sir” cercò di ritornare indietro ai Francesi qualcuna delle statue e i pezzi rimasti sul molo. Non gli rimase che venderle ai barcaroli e ai marinai curiosi fermi sulla riva come legna da ardere per cucinare e scaldarsi, e alla fine il “Sir Inglese” salpò con la nave e fece rotta come previsto per l’Atlantico e poi per l’Inghilterra.

Comprò quasi tutto quel “legname rimasto” uno dei barcaroli, che a sua volta prese accordi con della gente della Contrada di San Jseppo di Castello che provvide a ridurre a pezzi il tutto rifornendo le loro misere legnaie per la cucina e per l’inverno.

Degli arredi intagliati e lavorati dalla Bottega di Giacomo Piazzetta e pagati a caro prezzo dal Priore Giacomo Maria Gianvizio non rimase più niente … Forse solo quei pezzi di statue che alla fine riuscirono a sbarcare in Inghilterra, e dopo varie traversie, raggiunsero intatti la casa di quel misterioso Sir Inglese di cui oggi non si sa neanche più il nome.

(solo negli ultimi anni è spuntato sul mercato internazionale “un pezzo” appartenente alla Libraria di San Zanipolo.)


Dalla metà del 1700, quando Francesco Storti Priore dell’Università dei Librari e Stampadori per il: “…pericolo dell’acqua e del fuoco che guastano i Libri e le onerose spese di trasporto” ottenne da parte di Ser Pietro Foscari de’ Carmini (futuro Doge) e Procuratore Cassiere della Procuratia de Supra, la dispensa: “… dall’obbligo di comparire in Piazza con una bottega di Libri e Stampe per maggior decoro durante la Fiera della Sensa a spese dei Librai più benestanti.”, la produzione dell’Arte dei Libri e della Carta a Venezia era già in aperta crisi.


Se da una parte era cresciuto il numero delle cartiere, dall’altra era scesa la domanda del prodotto perché ne era scaduta troppo la qualità. Da Costantinopoli la Cancelleria dei Turchi faceva sapere e contestava le forniture di carta veneziana perché era: “… cruda, giallastra, difettosa nelle misure, nella massa e mancante di almeno 1/3 del peso promesso…”

Alla fine del secolo delle 455.880 risme di carta prodotte nello Stato Veneto per un valore di 911.760 ducati, si riuscì ad esportarne dalle dogane della Serenissima della Stadella di Verona e della Marittima di Venezia verso il Levante solo 127.227 risme per un controvalore di 254.454 ducati.



( "I Chiostri di San Giovanni e Paolo" di Francesco Guardi )

La perdita era più che evidente … era terminata un’epoca e un modo di “sentire le cose”, così com’era sfumata l’epoca famosa in cui primeggiarono i Frati Domenicani Predicatori e Inquisitori di San Zanipolo di Venezia.

Vi dirò ancora su questo …



“TREMENDI, PARANOICI I MASTINI DI DIO DI SAN ZANIPOLO ... A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 91.


“TREMENDI, PARANOICI I MASTINI DI DIO DI SAN ZANIPOLO ... A VENEZIA.”


Come ben sapete, i Veneziani avevano la mania di sintetizzare abilmente i nomi: così San Trovaso, ad esempio, era la sintesi di San Gervasio e Protasio, mentre dicendo San Marcuola s’intendeva indicare San Ermagora e Fortunato. San Zanipolo perciò era San Zuane e Polo, cioè San Giovanni + San Paolo, che da ZuanePoloè diventato:Zanipolo, San Zanipolo.

Basilica e Convento di San Zanipolo dei Frati Domenicani Mendicanti, Predicatori e Inquisitori… Semplice no ?


Da parte mia, ho sempre chiamato il posto di Venezia dei Santi Giovanni e Paolo, cioè San Zanipolo, confidenzialmente e per praticità: San G & P. Per me quel chiesone e quei posti di Venezia, sono sempre stati un complesso edilizio favoloso che mi ha sempre attratto fin dal mio giovanile vagabondare mattutino per i meandri e i luoghi nascosti di Venezia.

E’ sempre stata una delle mie mete preferite, un posto dove tornare volentieri per capirlo e conoscerlo sempre di più.


Quello che però mi ha sempre attratto di più oltre alle ardite architetture gotiche della chiesa innalzate sul fango con tutto l’ingente numero d’opere d’Arte conservate lì dentro, è stata la Storia che è accaduta non solo lì dentro, ma soprattutto accanto: nel vicino grande ex Convento divenuto poi Ospedale Civile di Venezia. Mi è sempre piaciuto andare a frugare e sbirciare dentro alle vicende antiche di quell’immenso posto diventato in seguito quasi del tutto solo di significato sanitario.


Prima … ormai un paio di secoli fa, era la residenza dei potentissimi Frati Domenicani: i Domini Canes, i Mastini, i Segugi di Dio dell’Inquisizione Veneziana ! … i cui “discendenti”sono rimasti ancora oggi ad officiare la sola chiesa.


Ecco perché ho perfino inscenato lì dentro le vicende del mio ultimo libro-romanzo: “Uno strano Ospizio.”


Comunque passando oggi dentro ai luoghi che sono stati dei temibili Frati Predicatori e Inquisitori, si vedono solo indicazioni e si sente parlare di Medicina II°, Farmacia, Pronto Soccorso, Padiglione Gaggia, Astanteria, Ambulatori, Rianimazione e tutto il resto … Non è rimasto quasi più nulla di quanto caratterizzava la vita e il posto degli antichi Padri, o quel poco rimasto è stato a lungo gelosamente precluso e interdetto ai più che fino a poco tempo fa potevano avventurarsi solo a rubare qualche scatto fotografico quasi di nascosto.

Nei chiostri al posto dei Frati passeggiano persone pigiamate e arruffate in preda ai loro malanni, qualcuno trascina la sua flebo a rotelle, qualche altro mostra controvoglia la sua testa o il suo occhio e orecchio vistosamente fasciati e bendati. Ospedale insomma … e se non sono questi i personaggi, sono quelli in camice bianco che ogni tanto si vanno a “ingrippare”dentro al baretto, oppure quelli “un po’ aspri e temprati” che spingono carrozzine sgangherate e barelle da e verso i Reparti attraversando pertugi vetusti, o ancora altri “scafandrati e coperto come marziani” che portano odorosi carrelli portavivande del pranzo e della cena.

Per fortuna ultimamente l’ospedale si è riciclato e rifatto un po’ il lifting: oggi si presenta meglio e in maniera più accogliente, ha recuperato gli spazi dell’antica Scuola Grande di San Marco, ha racconciato passaggi e mura, e offre una sensazione di migliore accesso e recettività ... anche se l’ospedale rimane ospedale, non certo luogo di felicità.

Tuttavia anche l’occhio vuole la sua parte, così come non dispiace incontrare qualche Sanitario sorridente, Dottoressi o Dottoresse, Infermerari e Infermierone che emanino un po’ di cordialità simpatica oltre che professionalità e competenza … Purtroppo, a volte l’apparenza inganna, e c’è sempre chi … ma lasciamo perdere, non è di questo che volevo parlarvi.

Perciò torniamo ai Frati di San Zanipolo e al loro formidabile complesso architettonico e storico.


Un altro dei bei luoghi di quel formidabile Convento, oltre alla sontuosa e preziosissimaBibliotecaGranda di San Zanipolodi cui vi ho già fatto memoria di recente, (schiaccia il link per saperne di più),era di certo il Refettorio dei Frati Domenicani e Inquisitori.


Chiudete gli occhi … e provate a immaginarlo solo per un attimo.

Nel Convento abitavano stabilmente circa 100 Frati Domenicani con i loro Conversi, i Novizi o Fantoli della Scuola, e una miriade di ospiti di ogni sorta, cultura e prestigio, che andavano e venivano in ogni tempo e stagione per i più svariati motivi. Quel luogo quindi non doveva essere una stamberga, ma il posto dell’accoglienza e della convivialità che poteva poi sfociare in confidenza e cordiale condivisione … Avete capito, insomma.


Anche lì, come in gran parte degli spazi del grande Convento c’era un capolavoro che decorava per intero la parete di fondo. Si trattava dell’ “L’Ultima Cena” dipinta da Paolo Calieri detto il Veronese, il cui titolo fu convertito in seguito al processo subito dal pittore da parte dell’Inquisizione in: “Cena a Casa di Levi.”


Vi segnalo questo perché quel dipinto provocò una storia proprio da “Mastini di Dio”, da provetti Inquisitori.




Nell’aprile 1573, Paolo Veronese completò per il Refettorio il grande telero della “Cena in casa di Levi” ossia “Ultima Cena del Cristo” commissionato e pagato di tasca propria dal Priore Domenicano del Convento: Fra Andrea de’ Buoni, in sostituzione dell’“Ultima Cena” di Tiziano andata distrutta dal fuoco.

Si racconta che nel quadro del Tiziano c’erano dipinti i volti di alcuni Frati Domenicani in quelli degli Apostoli seduti a tavola accanto al Cristo, tanto che chi entrava diceva: “Vedi Fra Antonio ! … Guarda Fra Vincenzo e Fra Nuccio ! … Osserva lì il Nobile Venier e l’Illustrissimo Foscarini seduto alla Divina Tavola Eucaristica del Figliol di Dio !”

Nella nuova tela del Veronese il Priore s’era fatto ritratto “in un canto con la salvietta sopra alla spalla”, ma quel quadro non piacque per niente all’Inquisizionestessa se non altro perché c’erano troppi cani rappresentati sul dipinto. Sapeva di raffinata presa in giro: “Nel quadro del Refettorio il Veronese ha messo i Domini Canes, i Mastini di Dio invitati a Cena sotto alla tavola del Cristo” si ripeteva ridacchiando in giro per il Convento e per tutta la Contrada.


Paolo Caliari detto il Veronese di 45 anni, residente in Contrada di San Samuele a Venezia, marito della figlia del Tiziano, uomo di successo al culmine della sua carriera, con beni in Terraferma, sabato 18 luglio 1573 subì perciò l’interrogatorio da parte dell’Inquisizione di Venezia sui contenuti e la realizzazione della sua tela per il loro Refettorio, definita: “Ultima Cena profana e offensiva”.


Eppure Veronese non era un pittorucolo e un imbrattatele qualsiasi: aveva dipinto per i Dogi e a Palazzo Ducale, aveva foderato e tappezzato di opere d’Arte insigni dal pavimento sino al soffitto l’intera chiesa di San Sebastiano dei Frati Gerolimini, e aveva dipinto un Ciclo mirabile di Storie di Santa Cristina per le Monache di Torcello, e molto, molto altro ancora di splendido e apprezzato da tutti. Veronese era insomma una garanzia di garbo ed estetica, e anche d’ortodossia delle immagini … eppure.


Il giorno del Processo dell’Inquisizione contro il pittore, mentre in giro per Venezia non si faceva altro che parlare di quella strana vicenda, si presentarono: Aurelio Schellino che era Padre Inquisitore: “Homo di buone e polite lettere, zelante nelle cose del Santo Ufficio”accompagnato dal compagno Domenicano Ludovico da Rimini. A Venezia aveva organizzato una campagna di controlli a tappeto delle botteghe di Libri di Venezia eseguendo una vera e propria prima purga controriformistica dei titoli secondo le indicazioni dell’Indice Romano dei Libri Proibiti da distruggere. Nel 1570-1571 istituì anche un clamoroso processo contro Vincenzo Valgrisi commerciante di Libri imprudentemente “al segno dell’Erasmo”, e contro un buon numero di venditori e librai veneziani, applicando su tutti la censura libraria.

Un uomo e Frate tosto insomma, un Inquisitore provetto ... e anche tremendo.


Inoltre era presente al processo: il Romano Giovani Battista detto Dei: Nunzio Pontificio a Venezia e Arcivescovo di Rossano. In realtà si trattava di Giovanni Battista Castagna, nipote del Cardinale Girolamo Verallo, presente al Concilio di Trento fino alla fine dei lavori, Nunzio Papale prima in Spagna e poi a Venezia. Era un uomo di vasta cultura civile e canonica, aveva studiato a Bologna e Padova, ed era stato inviato a Venezia dal Papa per promuovere una nuova alleanza per combattere contro i Turchi. Quell’uomo divenne in seguito Papa Urbano VII che governò la Chiesa nel 1590 per soli 12 giorni (il Papato più breve della storia).

Non mancò di presenziare al processo anche il Patriarca di Venezia Giovanni Trevisanfautore entusiasta della Controriforma e della lotta contro l’Eresia. Anche lui era “uomo tutto di un pezzo”: Abate del famoso Monastero di San Cipriano di Murano, istitutore del Seminario Patriarcale, difensore della classe nobiliare Veneziana che doveva sistemare figli e figlie nei Monasteri, oppositore insieme alla Serenissima alla Visita Apostolica Papale di controllo su Venezia del 1581 progettata dal Nunzio Alberto Bolognetti che per ben due volte non riuscì a trovarlo nella sua sede di San Pietro di Castello.

Accanto a costoro, sedeva a processo anche il Nobile Giacomo Foscarini Savio all’Eresia, Dottore in Filosofia e Greco della Scuola di Rialto, Riformatore dello Studio di Padova, fra i fondatori dei Catecumeni, incaricato nella Zonta e nel Consiglio dei Dieci, Consigliere del Doge, Savio Grande, Deputato Laico, e assiduo presenziatore nei tribunali nei processi contro i Librai di Venezia.

C’era poi lo scapolo Nicolò Venier figlio del Nobil homo Agostino e della Nobil donna Maria Priuli: Savio all’Eresia, incaricato nella Zonta e nel Consiglio dei Dieci, Consigliere Dogale, Procuratore di San Marco, grande estimatore dei Frati Domenicani Inquisitori ai quali in morte lasciò una Mansioneria di Messe da celebrare per 20 ducati annui da officiarsi all’altare del Crocefisso nella chiesa di San Zanipolo.

C’era ancora un altro “pezzo grosso da novanta” ossia il Nobile Alvise Zorzi figlio di Benedetto e di Maria Corner: “…Senatore di grandissima autorità e molto favorevole alle cose di Chiesa…”, Savio all’Eresia, seduto in Zonta per 6 volte, Consigliere Dogale per 4 anni, Savio Grande per 12 anni, Procuratore di San Marco, Provveditore Generale di Corfù, Capitano a Padova.

Infine erano presenti anche i due Nobili Vincenzo Contarini: Savio all’Eresia, due volte nel Consiglio dei Dieci e Giovanni di Bernardo Donà anch’esso Savio all’Eresia, ed eletto Savio Grande dal luglio 1573.


Una sfilza di personaggi aguerritissimi e decisi da cui c’era ben poco da sperare … C’era già chi in giro per Venezia pensava il peggio per il povero pittore.

Alla fine, invece, il processo tanto propagandato e nominato si risolse senza particolari conseguenze per il Veronese: gli fu ordinato di emendare entro tre mesi il quadro, secondo le indicazioni del Santo Tribunale: “Sostituire la figura dei cani con quella della Maddalena, e apporre una scritta sotto al dipinto: “FECIT DOMINO CONVIVIUM MAGNUM LEVI LUCAE CAPITULUM V” ... ossia quella non era affatto un’ “Ultima Cena” col Cristo perché troppo blasfema, ma solo la rappresentazione di “Una Cena a casa di Levi il Publicano peccatore”… un Cristo perciò in mezzo a gentaglia piuttosto che in mezzo a gente Santa, Onesta e Buona come potevano intendersi i Frati di San Zanipolo.


Anche se era vero proprio in contrario: i Frati Domenicani Predicatori e Inquisitoridi Venezia non erano affatto così Santi come volevano far credere … Anzi ! Erano quasi l’opposto … Ma questo ve lo racconterò la prossima volta.


Nel 1697 il Refettorio di San Zanipolo venne distrutto dal fuoco per l’incendio del deposito dell’olio sottostante. In quella circostanza la tela del Veronese venne tagliata grossolanamente in tre parti per salvarla e poi fu ricucita. Fu infine restaurata nel recente 1984, e oggi dopo le traversie Napoleoniche campeggia bellamente nelle sale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.


Andate o tornate a vederla … Di certo l’apprezzerete un po’ più del solito.


In conclusione: quei Frati erano proprio tremendi! … dei veri Mastini di Dio nei confronti degli altri … C’era come un’ossessione, una paranoia che albergava nelle loro menti e nei loro modi. Esisteva una specie di tarlo raffinato e perverso, una smania insaziabile e inarrestabile di perseguire, smascherare, condannare e punire in maniera esemplare in ogni circostanza.


Ripensandoli si prova una sensazione inquietante di persone suscettibili e permalose:

“Bastava un niente per infiammarli … come gettare una scintilla dentro a un pagliaio secco … ed era fuoco e rovina garantita per tutti ... Sembrava quasi ce l’avessero con tutti, anche con se stessi, con i propri simili e consociati, come se niente e nessuno potesse sfuggire fuoriuscendo da quell’ispirazione deteriore proveniente dal Maligno e diffusa ovunque ...”


Noi diremmo oggi senza timore: gente con una visione patologica del Mondo, delle persone, dei fatti e delle cose … ma queste sono considerazioni che potete fare da voi stessi.




“SAN ZANIPOLO DEI MASTINI DI DIO … A VENEZIA.”

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“UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA.” – n° 92.


“SAN ZANIPOLO DEI MASTINI DI DIO … A VENEZIA.”


Fra l’aprile 1533 e agosto 1534, Nicolò Pisani di Zuannefu Podestà Veneziano di Asolo dove esercitò la sua propaganda religiosa anche dopo la scadenza del suo mandato. Lo testimoniò in cella il Frate Francescano Minore Conventuale di Asolo Stefano Boscaia, incarcerato come eretico nel 1547. Nella stessa cella aveva letto la “Tragedia del Libero Arbitrio”scritta dal Bassanese Francesco Negri e pubblicata nel 1546, “… in cui si affermava che la Grazia aveva tagliato la testa al Libero Arbitrio.” Era un libro antiromano e filo Calvinista che metteva in ridicolo l’Autorità Pontificia, portato ai Frati di Asolo da Benedetto Del Borgo, giustiziato a Rovigo nel 1551 come Anabattista e Antitrinitario, che a sua volta riferì che a introdurlo ad Asolo era stato il Podestà Veneziano Nicolò Zuanne Pisani. Nel suo testamento presentato al Notaio Cesare Ziliol nel marzo 1568, l’ex Podestà si dichiarò però fervido Cattolico, iscritto alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, benefattore degli Incurabili e anche del Convento e dei Padri di San Zanipolo sede dei Frati Domenicani Predicatori e Inquisitori di Venezia.


Vi scrivo questo per ricordarvi di tempi in cui le convinzioni religiose e politiche a Venezia “giravano”in maniera molto diversa da oggi, e le autorità Civili e Religiose della Serenissima esercitavano il loro potere in un contesto storico del tutto particolare.


Detto questo, racconto della curiosità veneziana di San Zanipolo, luogo in cui hanno abitato per secoli i temibili Frati Domenicani Predicatori Mendicanti in seguito divenuti Inquisitori: ossia i potenti Domini Canes, i soprannominati “Segugi e Mastini di Dio”per la loro tenacia, fermezza e assiduità nel difendere e propugnare le cose della Fede, della Dottrina, della Morale e della Tradizione Cattolica Romana anche in Laguna e nei luoghi del Dominio della Repubblica Serenissima.


“San Zanipolo a Venezia ? … E dove sarebbe ? … dove si trova ?”, mi dirà ci certo qualcuno a ragione.

Giusto.


Come dicevo di recente, San Zanipolo di Venezia corrisponde a San Giovanni e Paolo di oggi, così come l’ex Convento dei Frati Domenicani coincide con l’area dell’attuale Ospedale Civile di Venezia.


Lungi da me “imbarcarmi”in storie e spiegazioni circa la grande Basilica di San Giovanni e Paolo: esistono esaustive visite guidate settimanali a cui si può facilmente aggregarsi e accedere, così come sull’argomento ci sono pubblicazioni stupende con magnifiche spiegazioni e bellissime fotografie, volumi che a volte sono grandi e grossi e pesano chili.

Quel che c’è da dire, insomma, su San Giovanni e Paolo, ossia San Zanipolo, è già stato detto molto e anche bene, e io come il solito mi accontento di raccogliere qualche briciola caduta per strada, trasformandola nelle mie piccole Curiosità che oso proporvi da assumere un poco per volta.


Per diversi Veneziani di oggi San Zanipoloè uno dei tanti posti da ignorare … Altri, invece, ricordano d’avere trascorso l’infanzia a “sparare” addosso ogni giorno il pallone sulle pareti del chiesone.

In ogni caso, l’ex Convento di San Zanipolo è quel formidabile complesso nel Sestiere di Castello verso la Barbaria delle Tole e le Fondamente Nove, un mastodonte di posto perché occupa quasi per intero una Contrada Veneziana che va dal Campo omonimo fino in faccia alla Laguna aperta di Venezia da una parte, e fino a quella che è stata “la Cavallerizza” di un tempo dall’altra.


“Cavallerizza ?”


La Cavallerizza è stato l’orto, il brolo, il terreno e il cortile, le stalle dei Frati Domenicani di San Zanipolo. Una zona “tutta roba dei Frati”, che veniva utilizzata anche come luogo per i Nobili di Venezia dove andare a “cavalcare in giostree trastullarsi tirando con l’arco e la balestra al Bressaglio” come si faceva anche in altri posti simili di Venezia:in Contrada di San Vidal, a Sant’Alvise, a San Polo e San Tomà… ma quello accanto ai Frati di San Zanipolo divenne il Bressaglio più importante, quello più “in”,il più prestigioso e alla moda che la Serenissima favorì e abbellì in diverse occasioni.


Lì, infatti, c’erano anche due“Tezoni a palchetti con pozzo e pilastri affittate dai Padri a Carnevale per quattrocento ducati e tre soldi in tre ratte, dove si tenevano anche Teatro e Opere Eroiche e non Buffonesche in Canto e Musica.”


In realtà la Contrada intorno a San Zanipolo raccoglieva un consistente agglomerato sanitario Veneziano tutt’altro che giocoso e divertente. Proprio di fronte alla “Cavallerizza” sorgeva e sorge tuttora l’Hospealetto dei Vecciossia: Santa Maria dei Derelitti, così come dall’altra parte dell’area del Convento sorge ancora oggi: San Lazzaro dei Mendicanti cioè un altro Ospedale-Ospizio. Erano vicini, e alla fine risultarono essere uno dentro e accanto all’altro, come una specie di scatola cinese sanitaria veneziana.

Sapete meglio di me che per via delle pestilenze frequenti, ed essendo un porto di mare aperto a tutti, la Serenissima è sempre stata particolarmente soggetta alle epidemie e sensibile all’argomento sanitario e della prevenzione. In giro per le Contrade di Venezia c’erano sparsi ovunque Ospedali, Ospizi e Ospedaletti di ogni tipo, misura e categoria. Nel Sestiere di Dorsoduro sulle Zattere esisteva anche l’Ospedale degli Incurabili usato espressamente per le “malattie veneree” ossia il “Mal franzoso, gallico”, poi c’erano tutti i posti per l’ospitalità degli orfani, gli abbandonati, le prostitute e le giovani pericolanti come: la Pietà, le Zitelle, le Penitenti, il Soccorso, le Convertitee tutto il cordone sanitario delle Isole e dei Lazzaretti della contumacia e delle quarantene come: Poveglia, San Lazzaro degli Armeni, il Lazzaretto Nuovo e il Lazzaretto Vecchio, Santa Maria delle Grazie, Sacca Sessola, San Clemente, San Servolo, e in antico anche: Santa Maria e San Marco in Boccalama e altro ancora.


Venezia insomma era specialista efficiente in Sanità, tanto che venivano da ogni parte dell’Europa e del Mediterraneo per vederla, copiarla e imitarla.


Accontentiamoci poi di aggiungere che la grande Basilica di San Giovanni e Paolo è di dimensioni veramente grandiose: 101,60 di lunghezza, 45,80 di larghezza nel transetto, e 32.20 di altezza, tre navate suddivise da enormi colonne cilindriche e pilastri collegati fra loro da tiranti lignei per sostenere le altissime volte e gli archi gotici.

San Zanipolo è un’altra delle famose “Foreste di Pietra o Boschi Mistici” di Venezia secondo il sentire religioso dell’epoca Gotica, come Santa Maria Graziosa deiFrari, Santo Stefano, la Madonna dell’Orto e Santa Maria del Carmeloossia i Carmini. Nell’idea degli architetti quelle immense colonne e quelle volte erano assimilabili a una grande radura Naturale dove abitava e si poteva incontrare Dio.

Non si è molto lontani dal concetto di culto e Religione di quelli che venivano chiamati pagani e celebravano i loro riti e assemblee dentro in mezzo alle radure dei boschi e delle foreste.

Infatti, In mezzo al grandioso edificio costruito dai Frati Architetti Domenicani: Nicola da Imola e Benvenuto da Bologna, esisteva un tempo anche il Barco del Coro ligneo e di marmo (rimosso, simile a quello che si può ancora vedere dentro alla Basilica dei Frari) ossia “una radura dentro al Bosco Mistico dove ai Frati accadeva il mistero quotidiano dell’incontro mistico con l’Altro Divino”.

Infine, intorno alla Chiesa in quello che oggi è il Campo Veneziano di San Giovanni e Paolo sorgeva l’ampio Cimitero di Sant’Orsola che circondava quasi tutto il perimetro del complesso Domenicano.

Per costruirlo del tutto ai Frati sono serviti quasi due secoli fino alla consacrazione avvenuta nel 1430.

Un gran bel posto, insomma, non c’è che dire !


San Zanipolo è stata anche Phanteon e sepoltura monumentale di ben 25 Dogi, e ai lati e lungo le pareti della chiesa esiste ancora oggi una folla di Cappelle e Cappelline volute e finanziate dalle più illustri e ricche famiglie Nobili di Venezia come: Bragadin, Mocenigo, Pisani, Michiel, Loredan, Morosini, Vendramin, Cavalli, Malipiero, Marcello, Soranzo, Contarini, Barbarigo, Dandolo e Venier a cui apparteneva anche il Doge Sebastiano Venier per citarne uno solo.

Costui, figlio di Mosè ed Elena Donà, è stato l’ottantaseiesimo Doge della Repubblica. Da giovanissimo fu Avvocato, poi Amministratore del governo della Serenissima, Governatore di Candia, Procuratore di San Marco e Capitano General da Mar della flotta Veneziana impegnata contro i Turchi. Si racconta di lui che sia stato uno dei protagonisti della famosa Battaglia di Lepanto a cui prese parte in prima persona a settantacinque anni uccidendo numerosi Turchi con una balestra che un aiutante gli ricaricava perché a lui mancava la forza delle braccia per farlo. Si dice ancora di lui che sia stato anche ferito a un piede da una freccia che si strappò via da solo, e che in battaglia calzava pantofole invece di stivali perché secondo lui facevano miglior presa sul ponte della nave bagnato. In realtà sembra che la vera motivazione sia stata il fatto che soffriva di calli e indossare gli stivali gli faceva male ai piedi. Tornato dopo la pace a Venezia, venne eletto Doge all'unanimità all’età di 81 anni, e di lì a poco morì d’infarto durante l'incendio di Palazzo Ducale.

Detto anche questo, vi ho detto che a me è sempre interessato maggiormente quanto è accaduto accanto e dentro all’immenso Convento dei Frati, sede anche della Scuola Grande di San Marco oltre che di altre 20 Schole d’Arte, Mestiere e Devozione di Venezia di cui vi dirò un’altra volta.


L’Ordine dei Frati Domenicani Mendicanti e Predicatori era stimatissimo dalla Serenissima e dai Veneziani che vedevano di buon grado quei Frati tutti dediti alla Dottrina della Fede, alla Tradizione, ai Dogmi e al Diritto della Chiesa Cattolica. In seguito tuttavia i Padri divennero anche Inquisitori, perciò si considerarono figure maiuscole, temibili e anche sinistre che vivevano dentro a una culla di Cultura, Letteratura, Filosofia, Religione, Arte, buon gusto e molto altro ancora: cioè il Convento di San Zanipolo.

Il Convento era a Venezia uno di quelli più belli che sono andati per secoli “per la Maggiore”,come quello delle Monache Benedettine di San Zaccaria, quello di Santa Maria Graziosa dei Frari dei Francescani, o quello di San Giorgio Maggiore in isola dei Benedettini.

Là dentro sono accadute un’infinità di storia di storie, quel posto è stato un luogo formidabile, un grande alveo che ha ospitato parte della cultura e delle vicende dell’intera nostra Venezia Serenissima.


San Zanipolo dei Domenicani Predicatori e Inquisitori era il top insomma: una potenza in tutti i sensi.


Il Convento era per davvero un bijoux: Refettorio con dipinto del Veronesepieno di storie (premi il link se vuoi saperne di più),celle sontuose che s’affacciavano su corridoi solenni, chiesa stupenda, bellissima, da sballo, ogni tipo di struttura utile per la vita comunitaria … e un’immensa e famosissima quanto decoratissima e fornitissima Biblioteca.

Come vi ho già raccontato, la Biblioteca dei Domenicani di San Zanipoloera talmente bella (premi il link se vuoi saperne di più),che venivano da tutta Europa per visitarla e apprezzarla. Molti dei testi che conteneva erano delle rarità, più di qualche volta opere uniche, tomi di bellezza e contenuto invidiabile e interessantissimi che meritavano un viaggio solo per potervi mettere gli occhi sopra ... o per rubarli !


Il Monaco Benedettino Montfaucon visitando entusiasta la Biblioteca nel 1698 accompagnato da Apostolo Zeno, scrisse fra l’altro: “… si annota con soddisfazione la presenza di numerosi Codici Greci tra cui scritti di Tucidide, Plutarco, Esopo, Polibio, Pindaro e latini … mentre la maggioranza dei libri sono di Scrittori Scolastici ad eccezione di qualche testo di Classici e di Padri. La Biblioteca è ornata da una duplice fila di statue lignee raffiguranti Autori Cattolici da accogliere ed Eretici da respingere tra i quali si trova la statua di Guglielmo di San Amorfe avversario dell’Ordine dei Mendicanti e di Erasmo da Rotterdam considerato colui che ha covato le uova a Lutero …”


La Libraria Nuova Granda di San Zanipolo valeva da sola una visita perché il suo arredamento d’intaglio pregevolissimo era una rappresentazione unica, davvero singolare e originale di quelle che erano le certezze dell’Inquisizione e delle Categorie mentali e di Fede dei Domenicani di quel tempo.

Un capolavoro unico: “… non si trattava dei soliti scaffali ordinati e degli armadi con le griglie in legno e ottone, divisi per materia e disciplina, ma di un insieme originalissimo e composito di paraste e capitelli e soprattutto di statue lignee intagliatissime che foderavano l’intero ambiente dalle pareti al soffitto. Si trattava dei Riformatori Protestanti e degli Eretici che reggevano gli scaffali con i libri ... Resi come Telamoni in vari atteggiamenti di rabbia, di stizza, tutti incatenati, fungevano da piedistallo ai loro vincitori depositari della Vera Sapienza ... Illuminava il locale una portafinestra che dava sul giardino e le finestre a lunetta inquadrate dalle unghie delle volte che stavano sopra alle scaffalature. Inserite nel soffitto stavano una grande cornice e cornici minori con all’interno dipinti dei Padri Conciliari dell’Ordine dei Predicatori, mentre in corrispondenza delle finestre dentro ad alcuni medaglioni in legno si ritraevano scolpiti i volti dei Domenicani Inquisitori: ossia i Vincitori degli Eretici ... Sopra alla testa di ogni Telamone ligneo era scolpito un uccello che simboleggiavano le pecche degli Eretici a cui erano associati. Diversi erano uccelli del malaugurio come il Gufo, il Nibbio e il Pappagallo, ma c’erano anche altri uccelli come la Cicogna e il Pellicano il cui significato positivo era stato mutato in negativo. Inoltre c’erano ovunque c’erano motti e frasi della Scrittura che spiegavano simboli e casi dentro ad appositi cartigli …”


Era quindi impressionante nel suo insieme quella realtà dei Frati Domenicani di Venezia, ma la cosa secondo me più curiosa era che quei Frati-Padri diventati anche Inquisitori non “brillavano affatto di luce propria”.

Come succedeva spesso nei Conventi di quel tempo e quindi anche a Venezia, per il loro “modus vivendi”i Frati “predicavano bene ma razzolavano male”.

Non è una novità mi direte ... Sì. Ma fu per davvero un peccato perché i Domenicani a Venezia avevano iniziato davvero molto bene.


Tutto era iniziato nel 1226 sotto i migliori auspici: e i Veneziani con l’intera Serenissima avevano preso a ben volere quei Padri Predicatori Mendicanti giunti a Venezia che sembravano per davvero entusiasti, sinceri e convinti del loro ruolo di Religiosi. Erano trascorsi appena 13 anni dalla morte del loro fondatore: San Domenico di Guzman, e quegli uomini sembravano per davvero credibili negli intenti e degni d’ogni attenzione.

Il Doge Giacomo Tiepolo, infatti, regalò subito ai Domenicani “una palude d’acqua superlabente” fra le Contrade di Santa Marina e Santa Maria Formosa per bonificarla, imbonirla e costruirvi sopra un bel Tempio con annesso Convento dedicato a San Daniele. Addirittura si diceva in giro che il Doge in persona aveva fatto un sogno speciale: “Aveva visto in visione il nuovo Oratorio dei Frati in una piazza vicina coperta d'olezzanti fiori, e con bianche colombe che vi svolazzavano sopra, mentre due Angeli profumavano l'aere con turiboli d'oro, e si sentivano dal Cielo le seguenti parole: “Questo è il luogo che scelsi a' miei Predicatori”.


Ma siccome per far le cose anche allora servivano soldi e i lavori andavano a rilento, anche il successivo Doge Raniero Zen dispose per testamento un lascito di 1.000 ducati per costruire campanile e portale della nuova chiesa. Pure il Maggior Consiglio fece la sua parte, e decretò di allargare il Monastero e il suo terreno verso l’Isola di Murano mettendo a disposizione appositi fondi.

Giunti i primi decenni del 1300, anche Giovanni delle Boccole per testamento lasciò di Domenicani proprietà a Venezia e nelle campagne intorno a Treviso e Ferrara assieme a 3.000 ducati in contanti per continuare l’ampliamento di San Zanipolo dove volle essere seppellito. Per tutta risposta a queste nuove risorse: i Domenicani si presero un’altra aerea da bonificare, “una piscina” in Barbaria delle Tole, che interrarono del tutto. I Frati insomma si diedero da fare, e in soli due secoli (solo ?) riuscirono a portare a compimento la loro formidabile residenza.


E lì iniziarono subito i tempi dei casini e dei problemi, perchè i Frati Domenicani di San Zanipolo decisero di passare alla Fazione Religiosa dell’Osservanza radicale.


A noi di oggi questa cosa dirà poco o niente e potrà sembrare anche futile, ma invece a Venezia in quel tempo non fu affatto così, fu per davvero una cosa grossa. Accadde concretamente che dopo qualche anno si presentarono a Venezia in gran corteo, chiasso e manifestazione un gruppo di 150 “Bianchi”guidati dal Frate Domenicano Giovanni Dominici.


“Beh … Un corteo, che c’è di strano ?” direte e penserete.


A dire il vero in quei tempi certe manifestazioni non erano molto ammesse e considerate, anzi: erano un azzardo, una provocazione e un’intemperanza che andava a stuzzicare direttamente gli interessi dell’intera Serenissima.


Sta di fatto che i “Bianchi, Uomini e Donne” arrivarono da Chioggia bianco vestiti, con cappuccio e faccia velata-mascherata, gridando: “Misericordia andiam gridando … Misericordia a Dio clamando … Misericordia ai peccator! … Misericordia, o Dio verace … Misericordia, e manda pace … Misericordia alto Signor!”

Lo stesso gruppo era abituato a passare processionalmente di città in città, cantando a squarciagola lo “Stabat Mater” e contestando apertamente le autorità cittadine e Religiose ree d’essere conservatrici e poco Cattoliche.

Figuriamoci allora la Serenissima !

Già non vedeva i “Bianchi” di buon occhio considerandoli una setta fastidiosissima e tediosa. Appena venne a sapere che si trovavano a Chioggia mandò ad avvertirli: “che era meglio se andavano per i fatti loro”.

Ritrovandoseli, invece, proprio in casa, in città a Venezia, la Serenissima non se lo fece dire due volte, e intervenne pesantemente disperdendoli tutti in Campo San Giovanni e Paolo.


Non essendosi tuttavia spaventato più di tanto, il Frate Dominici(che poi diventò Cardinale e perfino Beato) andò la domenica dopo a cantare Messa Solenne in chiesa a San Geremia, e dopo la Messa si mise a capo di una nuova schiera di molte persone marciando un’altra volta verso il Campo di San Giovanni e Paolo.

La Serenissima perse la pazienza, e i Capi del Consiglio dei Dieci fecero trovare i soldati ad aspettare i Bianchi. Giunta che fu la manifestazione in Campo San Zanipolo, i soldati fermarono il Nobile Antonio Soranzo che guidava la testa della processione dei Bianchi: gli strapparono bruscamente di mano il Crocefisso rompendolo, e di nuovo dispersero “con le buone maniere e qualche botta” l’intera brigata.


“I soldati sono segno della Collera Celeste nei nostri riguardi !” commentò il Frate Dominici, che venne condannato a 5 anni di Bando da Venezia e da tutti i territori della Serenissima. Un anno di Bando si prese pure il Prete Leonardo Pisani, e uno anche il Nobile Antonio Soranzo a cui vennero sequestrati tutto i beni. Tutti i Bianchi identificati vennero ammoniti severamente invitandoli: “… a non mettere più su Processioni e scorrerie soprattutto in Venezia …”Inoltre il Consiglio dei Dieci respinse più volte la richiesta di formare nuovi Terzordini Domenicani definendoli: “Scolae non patentes” ossia pericolose e indesiderate.

Perfino il Papa Bonifacio IX dovette scendere in campo a rimproverare e trattenere i Bianchi perché procuravano disordini in giro per l’Italia, agglomerando tante persone di sesso diverso, dormendo nelle chiese e nei Monasteri alla rinfusa sopra la nuda terra … e perchè stavano ormai marciando anche su Roma.


Ciò nonostante, bisogna dire che la Serenissima continuò ad avere lo stesso grandissimo riguardo, simpatia e rispetto per i Domenicani di Venezia, tanto che scelse la loro grande chiesa per celebrare i funerali dei Dogi, e ogni anno Doge e Signoria visitavano solennemente chiesa e Monastero il giorno 26 di giugno sacro ai Santi Titolari. Ci fu addirittura un tempo in cui la Serenissima voleva fare diventare San Zanipolo la Cattedrale di Venezia al posto di quella di San Pietro di Castello ... e la Storia continuò a scorrere.


Nel 1502 i Signori di Notte sentenziarono: “… contra Alvise Benedetto popular che stava a San Zanipolo, il qual costringeva la propria sposa a prestarsi per prezzo alle altrui voglie … et il guadagno teneva scripto in libro et con chi. Decretossi ch'el detto beccho sia vestido de zalo, e con una corona con corne in testa, su un aseno, sia menà per la terra a noticia di tutti, e cossì fu fatto.” mentre nel gennaio di tre anni dopo, facendo gran freddo a Venezia e morendo molti poveri per strada, si eresse un fabbricato di tavole presso il Bressaglio dei Frati di San Zanipolodando ricovero e paglia e legna gratuita ai miserevoli.


Qualche anno dopo, i Frati Domenicani si misero di nuovo in subbuglio sempre per la questione del ritorno del Convento all’Osservanza propugnata stavolta da FràTommaso De Vio Maestro Generale dell’Ordine di tutti i Domenicani. Costui decretò che chiunque partecipasse degli utili delle casse comuni dei Frati fosse tenuto a versare a queste la metà di tutti gli introiti ed elemosine percepiti, mentre coloro che non volevano averne parte in ogni caso erano tenuti a versare lo stesso la terza parte dei loro guadagni.


Ricevuta questa notizia, i Frati Domenicani di Venezia che erano spesso Nobili e diventati ricchissimi andarono fuori di testa:

“Grande esempio di Frati Perfettissimi Conventuali urbani, caratterizzata dal rallentamento delle Discipline, delle Regole, della Predicazione e Assistenza … Nei casi limite si giunse alla dispensa dalla mensa comune, dal Coro, dal dormitorio e alle deroghe dai voti fondamentali, con relativo rilassamento dei costumi e secolarizzazione, fino alla licenziosità, eccessi e corruzione ...”


Marcantonio Michiel nei suoi Diari manoscritti racconta che nell’ottobre 1516 scoppiarono veri e propri disordini tra i Frati del Convento di San Zanipolo: “A dì 6 detto era venuto el General delli Frati Conventuali di San Domenico mandato a chiamar, ovver sollicitato dalli Signori Capi del Consejo dei Diese, però che li Frati di San Zanipolo erano in gran risse tra loro, et haveano date diverse querele un contra l'altro alli Capi, et massime Fra Francesco Colonna havea querelato contro 4 o 5 de li Primarii, et accusavali inter cetera de sodomia e altro ancora … Il General dei Frati Caietano perciò venne et cominciò ad inquisir.

Fra Francesco Colonna, o ch'el dubitasse non esser scoperto, et che fusse conosciuta la mano sua, essendo venuta la querela in le man del General, o per conscientia essendo essi accusati innocenti, andò a confessar et scoprir la calunnia facendosi reo, et chiedendo perdono al General el qual volse ch'el dimandasse perdono al Capitolo. Li Frati accusati intendendo l'autor della loro accusatione fulminarono diverse querele contra di lui, et massime ch'el avesse sverginata una putta, et provorno il tutto. Al che il Generale el bandì de Venetia, et lo confinò a Treviso in vita, e ch'el non potesse più dir Messa, né confessar, et bandì molti altri chi per anni 5, chi per 10; fra gli altri c’erano anche Frà Zanfior, et Frà Martin dal Naso …”


Trascorse solo un anno, e di nuovo il neoeletto Maestro Generale dei Domenicani Garcia De Loaysa fu costretto a richiamare all’ordine e all’Osservanza i Frati recalcitranti di San Zanipolo che per nulla intimoriti si rivolsero a chiedere aiuto e supplicare il Collegio e la Signoria, chiedendo di essere mantenuti al loro posto e con le loro abitudini, pur promettendo di: “fare bona vita”.


Passarono altri dieci anni … e ci rifummo di nuovo: stavolta fu Papa Clemente VII con un “breve papale” apposito che unificò la Provincia Osservante dei Domenicani di Lombardia sfavorendo e desautorando di fatto i Domenicani Conventuali di Venezia. Questi allora si presentano in massa dalla Signoria Serenissima per lamentare la destituzione del loro Maestro Provinciale e la pretesa di Roma di ridurli all’Osservanza. Davanti al Doge gridarono arrabbiatissimi: “… per niente voleno soportàr, più presto se fariano Lutherani ...”

Il Doge fu perfino costretto a rimproverarli per il linguaggio poco da Frati, ma mandò un Ambasciatore di Venezia a Roma per difendere i loro interessi economici e i loro “Studi o Residenze”.

Il Papa allora finse di cedere, dando facoltà ai Domenicani di scegliersi i propri Vicari, ma impose loro che i prescelti dovevano essere confermati dal Maestro Generale che avrebbe privilegiato solo gli Osservanti, e in ogni caso: … tutti i Frati Domenicani entro due anni dovevano diventare per forza Osservanti.


I Domenicani di Venezia insorsero divenendo furibondi … e la Signoria di Venezia dovette attivarsi ancora una volta, rimandare il proprio Ambasciatore a Roma chiedendo un Vicario Provvisorio per i Frati di San Giovanni e Paolo precisando che c’erano solo qualche Frate “un po’ discolo, mentre gli altri sono honesti”.


Come risposta il Papa inviò a Venezia come Vicario il Domenicano Frà Leonardo da Udine col compito di ridurre tutti i Domenicani all’Osservanza forzando i Frati riottosi. La Serenissima reagì subito difendendo i suoi Frati, e costrinse Leonardo da Udine ad abbandonare l’incarico.

Alla fine fu il Papa a cedere lasciando una certa libertà d’azione e di comportamento ai Frati Veneziani.

Intanto anche a Venezia s’era attivata l’Inquisizione gestita proprio dai Frati Domenicani dopo l’insuccesso inziale dei Frati Francescaniconsiderati troppo deboli e remissivi: nel 1533 a Venezia venne arrestato e processato come Eretico Antonio Mastro Marangòn, ossia falegname, della Contrada di San Giacomo dell’Orio: l’Inquisizione aveva incominciato a fare sul serio.


“Dallo stesso processo risultano anche delle predicazioni sospette di due Frati Domenicani: Fra Zaccaria e Fra Damiano tenute nelle chiese della Trinità in Punta alla Salute, alla Fava e nello stesso San Giovanni e Paolo. Inoltre risultò che alcuni aderenti alle Dottrine Eretiche: un maestro di scuola, un forestiero di 25 anni “Gran Luteran”, alcuni Tedeschi e alcuni Toscani, erano in possesso di scritti di Lutero, dei “Gravamina Nationis Germanicae”, e di Bibbie in volgare (la prima traduzione Italiana in volgare è stata stampata a venezia nel 1471 a cura di un Monaco Camaldolese di Murano: Nicolò Malerbi) ... Costoro avevano fondato una comunità clandestina in cui vigeva una forte solidarietà sociale e reciproca, e all’interno di essa si trattavano temi delicatissimi e sospetti come: Confessione, Purgatorio, Libero Arbitrio, Papa, Giustificazione, Quaresima, Culto dei Santi e altro ancora ...”


Il processo si concluse con la condanna del Falegname a carcere perpetuo.


Nel 1534 a Carnevale una maschera urtò in Piazza San Marco un Frate Domenicano di San Zanipolo che bighellonava e si divertiva in giro per Venezia in compagnia di “bone femmine”. Ne seguì una rissa e un parapiglia in Piazza perché sotto alla maschera venne fuori che c’era un altro Confratello, ossia un altro Frate Domenicano di San Zanipolo. Il Nunzio del Papa a Venezia: Girolamo Varallo che aveva provato a quietarli e mettere inutilmente un po’ d’ordine, alla fine denunciò tutti al Papa di Roma affermando che il Convento di San Zanipolo di Venezia viveva ai limiti della legalità:

“… donnacce albergano intra moenia … i Frati non obbediscono ai superiori … si batteno fra loro et voglian cavar gli occhi, et fino a tendersi agguati notturni per ammazzarsi fra loro, a tal punto che sarebbero più sicuri in un bosco che lì dentro al Convento…Quelli sono veri Diavoli di Frati … che vivono da perfetti mondani … anche se la maggior parte dei Frati sono virtuosi…”

Da Roma dove le vicende del Convento erano già note “… anche per qualche lutheranità …”, gli pervenne l’ordine di lasciar fare e di non impicciarsi.


Comunque la faccenda non finì lì, perché la riduzione all’ordine del Convento Veneziano di San Zanipolo divenne a Roma un affare di Stato, e Papa Paolo III con un breve apposito affidò la riforma dei Frati Veneziani al Domenicano Agostino Recuperati da Faenza nominato per l’occasione Commissario Apostolico. Costui partì immediatamente per Venezia, dove l’operazione andò in porto solo a metà, in quanto il Convento si divise in due fazioni: una favorevole alla Riforma cappeggiata dal Priore Sisto Medici col sostegno del Maestro Generale e del Nunzio di Venezia, l’altra tradizionalista con a capo Niccolò Biriano già Priore in precedenza in più di un’occasione. Con Sisto Medici si schieravano anche i Frati Giulio Alberghetto, Niccolò Croce, Arcangelo Sagredo.

Lo scontro ideologico e disciplinare fra gli 85 Frati di San Zanipolo degenerò di nuovo in tumulti: i Frati si menarono e picchiarono alla grande, e iniziò una lunga sequela d’azioni legali ... Fra Sisto Medici e Fra Niccolò Biriano, i più esagitati di tutti, vennero convocati in giudizio a Roma davanti al Cardinale di Santa Croce Marcello Cervini, e vennero entrambi allontanati per punizione non solo dal Convento di Venezia ma anche dalla Vicaria del Veneto Dominio.


Di nuovo nel giugno 1544 il Papa inviò a Venezia Ludovico Beccadelli per stigmatizzare e risolvere la situazione del Convento che non era affatto cambiato, e finalmente a luglio si riuscì a ricomporre le discordie chiedendo alla Signoria Serenissima di esercitare sul Convento un protettorato attento eventualmente riscrivendo e chiamando a intervenire il Papa di Roma in persona.


“Roma con Papa e Cardinali definiscono incurabile la piaga Veneziana.” riferì al Doge l’Ambasciatore di Venezia presso il Pontefice di Roma ... Infatti lo era.


Nel 1564, tornata apparentemente la calma, nel Convento di San Zanipolo abitavano 100 Frati Domenicani che pagavano 20 ducati annui per l’Organista, 50 ducati per i Cantori del Canto figurato delle Liturgie in chiesa, 50 ducati per il Maestro di Musica e quello di Grammatica per i Fratini del Noviziato. Il Convento di San Zanipolo possedeva anche 40 campi a Ronchi di Loreggia sotto Camposampierodati in affitto a Mastro Antonio Gardane che era anche Libraro in Venezia. Costui pagava in tutto ai Frati: 36 stara di frumento e nient’altro, mente il Convento affittava anche “il luogo del fumo” a Mastro Tommaso e Zammaria Zonta; e un magazzino sotto al Refettorio a Mastro Ottavian Scoto che era anche lui Libraio e pagava ai Frati Domenicani 14 ducati annui.

Due anni dopo, cercando di dare una conclusione alla lunga stagione dei conflitti e delle lotte interne al Convento dei Frati di San Domenico, si iniziò una vera e propria epurazione “dei Frati Cattivi soggetti o Frati incorreggibili e apostati”. Vennero considerati dai Frati Domenicani Osservanti come morti, e iscritti nel “Libro dell’Emortuale” compilato dal Domenicano Padre Urbano Urbani, come se fossero deceduti per davvero, anche se in realtà lo erano solo metaforicamente.

Fra 1567 e 1576 si dichiararono morti ben 30 Frati Domenicani fra cui Fra Domenico Luciano, considerato morto, ricercato dall’Inquisizione, e trovato nel 1579 che faceva di nascosto il Piovano in territorio di Treviso.



Ancora nel 1569, quando Fra Pierino Lauretti da Venezia era Priore di San Giovanni e Paolo, il Convento di Venezia era l’unico dell’intero Ordine Domenicano d’Italia e di tutta Europa a disattendere la Riforma dell’Ordine voluta dal Papa di Roma. Perciò il Cattolicissimo Nobile Vincenzo Giustinianiandò a lamentarsi con Doge e la Signoria, perché non s’impedisse la Riforma dei Frati Veneziani: “ … per favorir qualche uno … essendo fra quelli Frati di San Zuanne Polo molto discoli et vitiosi … gran vituperio della Religione et disonor di quella nostra inclita Città … che quel Convento sia come un antro de homeni scelerati et di mala vita …”



Solo alla fine dell’anno i Domenicani accettarono le risoluzioni del Capitolo Romano degli Osservanti, tranne due Frati appoggiati dalla Signoria di Venezia: fra cui Fra Tommaso Pellegrini protagonista d’insubordinazione d’ogni tipo che si rifiutò anche di scendere a Roma a Capitolo. Chissà perché … non volevano saperne del divieto di accettare in Convento Novizi ossia Fratini inferiori ai 16 anni, né volevano assolutamente che fosse un Frate Osservante a comandare la Vicaria di San Domenico di Venezia.

Ancora nel 1570 venne nominato dai Frati Veneziani nuovo Priore di San Zanipolo: Camillo Spera da Venezia, “figlio del convento”, Teologo esemplare a Padova, stimatissimo dalla Serenissima. Immediatamente i vertici dell’Ordine Domenicano di Roma invalidarono l’elezione, e l’Ambasciatore di Venezia il Nobile Surian dovette correre a Roma a difenderne la causa presso il Papa che era arrabbiatissimo con la Serenissima perché era appena accaduto l’omicidio di un Frate per questioni di donne presso il Convento di Sant’Agostino di Padova.

Giovanni Antonio Facchinetti Nunzio del Papa a Venezia si presentò in Collegio rimproverando la Signoria di non favorire la Riforma voluta da Roma, e chiese a nome del Papa al Doge Alvise Mocenigo l’intervento entro 4 giorni del braccio secolare della Repubblica Serenissima per ridurre del tutto all’Osservanza i Domenicani di San Giovanni e Paolo prevedendo anche l’uso di Scomunica e Interdetto. Inoltre propose come Priore il candidato Osservante: Tommaso da Murano in sostituzione di FraCamillo Spera, e nello stesso giorno informò del suo presunto successo il Papa. Come risposta, Doge e Collegio fornirono al Nunzio una loro lista-poliza di 20 nomi di Domenicani Conventuali graditi e secondo loro adatti alla carica di Vicario di San Domenico e Priore di San Zanipolo.


“Era un “tira-molla” senza fine, un “batti e ribatti continuo” fra Venezia e Roma senza né vinti né vincitori, mentre i Frati Domenicani di Venezia continuavano a passarsela bellamente e liberamente …”


I problemi dei Frati Domenicani durarono fino all’incendio del Convento accaduto nel 1571 quando ebbero altre urgenze e altre cose a cui pensare. “La notte del 14 febbraio 1571 andò in fumo il Refettorio con l’”Ultima Cena” del Tiziano e della sua bottega, insieme al granaio e la cantina di San Zanipolo … per causa delli soldati che alloggiavano et stanziavano in esso …”


Il Capitolo dei Frati Inquisitori sollecitò subito la ricostruzione chiedendo contributi straordinari anche all’Editore di Libri Luca Antonio Giunta e ai fratelli Giulio e Girolamo Croce ai quali condonarono il debito della Mansioneria annuale di Messe da celebrare di 6 ducati istituita dai loro avi in cambio della donazione “una tantum” di 100 ducati: “…per fabrichar quella parte del Monasterio che si ha brusato ultimamente ...”



Approfittando del subbuglio dell’incendio, partì un altro colpo col sapore di compromesso da parte di Roma ! … Nell’agosto 1571 il nuovo Maestro Generale dell’Ordine dei Domenicani Serafino Cavalli istituì d’ufficio come Vicario della Vicaria di San Domenico e Priore di San Zanipolo il Frate Domenicano Osservante Eliseo Capys, “figlio del convento Osservante di San Domenico di Castello”, Priore, Teologo al Concilio di Trento, Rettore e Inquisitore dello Studio di Bologna e Ferrara con sentenze esemplari e durissime. In seguito fu il turno di Remigio Nannini da Firenze, detto Remigio Fiorentino: Poeta, Scrittore, Editore, Traduttore, Studioso nello Studio di Padova, Allievo di Sisto de Medici, autore dell’unico volgarizzamento della Bibbia autorizzato da Roma e scampato ai roghi dell’Indice Clementino del 1596, stampato, letto e utilizzato ovunque fino al 1863 dopo l’unità d’Italia.


In seguito fu il turno del Priore Inquisitoriale Giacomo Maria Gianvizio che ideò con Baldassare Longhena la Biblioteca in chiave antieretica, ma diede anche ulteriore impulso allo sviluppo artistico, economico ed edilizio dell’intero complesso di San Zanipolo. Fu inoltre Cassiere, sovraintendente della ricostruzione della Farmacia, e viaggiò fino a Roma dove ottenne privilegi per il Convento pagandoli alla Dataria Vaticana presieduta dal Cardinale veneziano Pietro Vito Ottoboni (futuro Alessandro VIII), e speciali patenti che lo riconoscevano come Commissariocon l’autorità di punire e reprimere con precetti, censure e carcere: “… i Frati dell’Ordine fuggitivi, vagabondi et che vanno soli nelle hostarie, camere, locande overo case de secolari così in Venetia come nelle isole adiacenti ...”


Nel 1637 morì il Conte di San Donà di Piave Domenico Trevisanche aveva progettato di collocare 16 statue di suoi antenati nelle nicchie della facciata di San Zanipolo finanziandole con rendite di due poderi nell’isola di Torcello che i Trevisan lasciarono in eredità ai Frati Domenicani nominati Commissari Testamentari insieme a Fiorenza primogenita del Trevisan. Lo stesso Trevisan aveva lasciato alla moglie Donata Tiepolo: “… 4.000 ducati annui a vita per se e per mantenere sua madre e la casa, 25.000 ducati ciascuna alle figlie per sposarsi, e 15 quadri dei suoi antenati da donare ai Frati Domenicani per appenderli fino al Barco in chiesa dai quali ricavare l’immagine per le statue della facciata ed altri 3 quadri personali da appendersi dove volevano i Frati … dispose inoltre di suffragarlo con 100 Messe in qualsivoglia chiesa di Venezia, donò 25 ducati a ciascuno dei 4 ospedali cittadini; una Mansioneria a Santa Maria delle Grazie in San Donà di Piave e una alla Chiesa Ducale di San Marco al Capitello, infine di donare 10 ducati a ciascuno dei servitori che dovevano vestirsi a lutto…”


Ovviamente i Frati Domenicani tramite il Priore Marco Cerchiariconcessero il permesso di costruire la nuova facciata della chiesa a spese del Trevisan, ma cinque giorni dopo la moglie Donata Tiepolo contestò e impugnò tramite Notaio le volontà del marito revocandone le concessioni e la gestione del suo patrimonio. Moglie, figlie ed eredi si rivolsero agli Auditori Vecchi tramite l’Avvocato Giovanni Salvioni chiedendo d’annullare il testamento del Trevisan accusandolo d’aver testato secondo i suoi scopi dimenticandosi della sua famiglia. Il testamento, infatti, venne annullato anche dalla Quarantia Civil Vecchia con 25 voti contro 1, definendolo “malefatto e dannoso per moglie e figlie” ... e i Domenicani di rimando non apportarono alcuna modifica alla facciata della loro chiesa che rimase spoglia come si può notare ancora oggi nonostante in seguito il Nobile Francesco Maria Zen, fattosi seppellire nella tomba di famiglia a San Giovanni e Paolo, avesse promesso di spendere 5.000 ducati e altri 300 ducati annui per 7 anni ponendoli nel Banco Pubblico con lo scopo d’abbellire la stessa facciata dove c’era anche il sepolcro di suo padre. Suo padre Reniero Zen aveva lasciato la bellezza di 120.000 ducati di debiti da pagare per aver giocato a Bassetta durante un’Ambasceria all’estero, perciò il Nobile invitò i figli e i suoi discendenti a non giocare “per non dannarsi e perdere l’Anima.”


Potremmo continuare fino a domani mattina e oltre a raccontarci di altri episodi cha hanno caratterizzato la vita e le stagioni di quel spettacolare Convento dei Frati Domenicani Inquisitori e Predicatori di San Zanipolo … ma questo è solo un blog, mica un saggio di Storia, perciò mi fermo qui.


I Veneziani Nobili e non facevano a gara per farsi seppellire dentro alla chiesa dei Frati Domenicani, o almeno nel vicino cimiterietto di Sant’Orsola … mentre i Domenicani che possedevano rendite annuali da immobili siti in diverse Contrade di Venezia continuavano ad affittare case, botteghe, un inviamento da Forner … e a rivestire con abiti e collane d’oro la Madonna del Rosario che stava in chiesa. Restaurano: soffitto, finestre, tavole, spalliere, arredi e pavimento del gran Refettorio, spesero 400 ducati per restaurare anche il dormitorio superiore del Convento, lastricarono di macigni i Chiostri e a proprie spese anche l’intero Campo di San Zanipolo… ma durante l’ennesima ispezione vennero trovati inadempienti della celebrazione non eseguita di 16.400 Messe già pagate dai devoti fedeli di Venezia.


Nel 1770 Charles Burney, viaggiatore musicofilo inglese di passaggio a Venezia raccontò: “… lunedì 6 agosto. Stamane il doge si recava in processione alla chiesa di San Giovanni e Paolo, seguito da tutti i nobili validi che si trovavano in città… Vi fu una Messa cantata a quattro parti accompagnata solo dall’organo ma fu così perfetta che non ricordo d’aver mai provato tanto piacere in questo genere di musica ...”


Nel 1782, il giorno di Pentecoste, proprio in mezzo al Campo San Giovanni e Paolo, il Papa Pio VI, assiso sopra una loggia maestosa costruita per l’occasione, benedì tutto il popolo di Venezia concedendo in quella circostanza un “Giubileo di quindici giorni” ... corsi e ricorsi storici: ancora Giubileo come quest’anno.


Non mi voglio dilungare di più su questo argomento, vi dico solo che vi ho fatto sopra un intero romanzo:“UNO STRANO OSPIZIO”,(se volete saperne di più cliccate sopra al link qui accanto).Comunque di tutti quei capolavori non è rimasto quasi più nulla: i Francesi col loro buon dannato Napoleone hanno soppresso, chiuso, depredato e sfasciato tutto facendone mucchi di pietre e legna da ardere. I 43 Frati Domenicani rimasti vennero progressivamente espulsi dal Convento e dispersi per Venezia sostituendoli con i militari e le loro famiglie, finchè rimase un unico Frate Domenicano a custodire la chiesa di San Zanipolo e tutto il resto divenne Ospedale Militare e Caserma.


Come ultimo colpo di coda storico, essendo morto nel 1813 il Nobile Zaccaria Valier, venne sepolto in chiesa di San Zanipolo nell'arca monumentale dei Dogi Valier architettato da Andrea Tirali nel 1708. Nell’occasione i sacrestani-nonzoli della chiesa aprendo la tomba trovarono vari oggetti dorati fra cui un leone, una Madonna e una Croce che corsero immediatamente a vendere di nascosto, “… ma scoperto l'affare, i nonzoli passarono dalle loro abitazioni che avevano in quello stesso circondario a vedere il sole a scacchi in prigione.”

Nell’ottobre 1916, quando in zona abitavano circa 4000 persone divise in 960 famiglie, una “bomba barbarica causò danni e guasti per 35 lire sopra San Zanipolo”, mentre un esercito di 75 Suore continuarono a prestare servizio nell’Ospizio-Ospedale Civile con 780 malati e 550 vecchi.


Dei temibili Mastidi di Dio Inquisitori: più nessuna traccia … Non si sono più visti nè risentiti ... o quasi.

“QUALCOSA DI BUONO PERO’ L'HAN FATTO"… ANCORA SUI MASTINI DI DIO A VENEZIA.

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 93.


“QUALCOSA DI BUONO PERO’ L'HAN FATTO"… ANCORA SUI MASTINI DI DIO A VENEZIA.


In certi secoli a Venezia si contarono fino a 70.000 poveri veri, ossia quasi un terzo dell’intera popolazione della città lagunare e Serenissima. Erano miseri veri non come quelli finti e di professione di oggi che per mestiere girano elemosinando e facendo anche di peggio. Quella volta trovavi intere famiglie intente a morire di freddo e fame sotto ai ponti, ai portici delle chiese, o dentro a qualche barca. Le cronache veneziane raccontano che: “ … ti s’aggrampavano addosso e ai vestiti … e non si poteva trascorrere per strada senza che qualcuno ti prendesse gridandoti: “Ho fame ! … Muoio di fame ! ... Abbi pietà ! … ed era vero.”


Intorno e dentro ai luoghi di San Zanipolo esisteva un’intera serie di iniziative caritatevoli efficienti che si premuravano d’assistere e farsi prossimi a quell’immensa folla di diseredati e sfortunati. Fu il “buon cuore” dei Veneziani di quei tempi che associandosi e affidandosi alla direzione dei Frati Domenicani di San Zanipoloriuscì in quell’impresa ardua di arginare quel fenomeno così disastroso e incontenibile. In quel modo i Frati Predicatori e Inquisitori, i famosi Segugi e Mastini di Dio, di certo trovarono il modo di pareggiare e controbilanciare la fama di alcuni di loro, che a detta di tutti i Veneziani erano: “… Padri strapazzoni, libertini e arroganti, dediti solo alla loro smania inquisitoria …”


Già vi ho detto delle tese o tettoie del Bressaglio della Cavallerizza di San Zanipolo messe a disposizione dai Frati regalando: “… riparo, pane e legna da ardere per i più miseri.”

Bisogna aggiungere che le venti e più Schole d’Arti e Mestiere e Devozione ospitate nei luoghi e nei chiostri di San Zanipolo, oltre a regolare, difendere e propugnare i loro interessi, si occuparono “alla grande” di quella triste realtà sparsa cittadina. Oltre a quelle, e prima fra tutte, c’era incorporata dentro al Convento di San Zanipolo, incastonata proprio in facciata, la famosa Scuola Grande di San Marco, una delle otto Scuole Grandi di Venezia. Era una realtà cittadina munifica e gloriosa, ricchissima e potente, che faceva a gara per primeggiare anche in Carità con le altre Scuole Grandi di Venezia, soprattutto con la Scuola Grande di San Rocco che fra tutte è forse stata la maggiore.


Fu variegatissima la qualità delle Schole che vennero ospitate a pagamento dai Frati Domenicani Inquisitori di San Zanipolo.Si andava dalla semplice e modesta Schola dei Ligadori del Fontego dei Tedeschi, alla celeberrima Scuola del Rosario che divenne per un certo tempo la nona Scuola Grande di Venezia, e alle semisconosciute Schola di Sant’Orsola o delle Undicimila Vergini, la Schola del Santissimo Nome di Diocontro i bestemmiatori, la Milizia Angelica e altre ancora.


Curiosa per davvero in mezzo a tutto quel grandore la presenza della Schola degli Artieri della Santissima Trinità dei Ligadori e Imballadori del Fontego dei Tedeschi. Era una delle Associazioni o Schole Piccole di Veneziache riuniva i Facchini o Bastazi di Nazionalità Tedesca impiegati per l'imballaggio delle merci dei Mercanti Allemanni e non presso il Fondaco dei Tedeschi di Rialto. Un lavoro che oggi praticamente non esiste più, o perlomeno è stato trasformato del tutto, ma che allora a Venezia aveva una sua precisa identità e valenza anche pratica. L’attività degli imballaggi era regolata da un tariffario del 1424, era diretta da un Gastaldo che ricopriva il ruolo di Direttore dei lavori o Protomagistrodei 18 Ligadori che in seguito divennero 25 e poi 38. Esercitavano il monopolio “sotto bolletta di carico” anche fuori dal Fontego, e avevano il compito di:“… imbottar, imbarilar, insaccar polvere de zucharo, legname, fighe, allume, mandorle di proprietari Tedeschi.” Non potevano esercitare al di fuori del commercio che gravitava sul Fontego dei Tedeschi, e operavano a due per volta alla presenza di un Messeta o Sensale.

Tutti erano sotto l’attento controllo quotidiano dei Tre Visdomini del Fontego, e nel 1421: “… la tariffa andava da un max di lire 5 e soldi 6 per balla, da lire 2.800 a 3.000 a barile di polvere di zucchero, a un minimo di soldi 2 per una cassa di Cannella “a cusir intorno alla canevaxa …”


Un’altra presenza modesta ma assidua dentro a San Zanipolo, era quella degli uomini della Scuola del Traghetto di San Giovanni e Paolo o dei Barcaroli della Beata Maria Vergine.

La Fraglia era composta dal solo Tragheto in Rio dei Mendicanti con sedici Libertà” (ossia permessi, licenze di esercitare la professione di Gondoliere e Traghettatore) che prestava “servizio da parada per le isole di Murano, Torcello, Burano e le altre isole lagunari, manon teneva barche in servizio durante la notte.” Si trattava perciò di uno dei “Traghetti de Dentro” di Venezia, ossia uno dei tanti servizi di trasporto interno alla città che offriva anche collegamenti col resto della Laguna.

Un frammento malconcio rimasto dell’antica Mariegola della Schola del Traghetto di San Zanipolo andata rubata insieme alla gondola di Giacomo chiamato Andrea Gastaldo della Schola, raccomandava d’imporre una giusta pena o multa ai compagni che avessero “bestemmiato o pronunciato parole nefande o male parole ", mentre un altro ordinava che il primo Compagno” del turno del mattino aveva il compito di provvedere a rifornire d'olio “il cesendelo” che ardeva notte e giorno davanti al “Capitello della Madonna del ponte”

I Barcaroli Gondolieri stabilirono che dal primo di agosto 1637 si dovevano celebrare per loro dodici Messe annue all'Altare della Croce nella chiesa di San Zanipolo, e fu per questo che: “… anche i Gondolieri dello Stazio di San Zanipolo giravano scalzi, col cappello in mano, e segnandosi frettolosamente il volto per i Chiostri dei Frati Domenicani a levare, prendere e riaccompagnare i Padri che necessitavano dei loro servizi …”


Piccole realtà lavorative quelle dei Ligadori del Fontego e dei Gondolieri Traghettatori, quasi microscopiche direi, che però ruotavano anch’esse dentro e intorno al grande complesso e ai luoghi dei Frati Domenicani di San Zanipolo. Immaginate il contrasto fra certi “papaveri illustrissimi”di grande pregio e nome che frequentavano i Chiostri dell’Inquisizione, e la presenza umile, quasi trasparente, dei semplici lavoratori devoti di questo tipo: un abisso ! … ma convivevano e s’incrociavano sotto le stesse volte dei Chiostri di San Zanipolo.


Di spessore artistico, culturale, religioso, sociale, devozionale e caritatevole ben diverso era, invece, la presenza di altre realtà inglobate dentro ai luoghi dei Domenicani, come quella della Scuola Granda del Rosario.

A considerarla dal nome sembrerebbe una semplice Frataria, una Congrega apparentemente bigotta, di vecchiette intente a pregare dalla mattina alla sera non sapendo che altro fare. In realtà non è stato affatto così.


La Schola in onore di Santa Maria del Santissimo Rosariovenne istituita con apposito decreto del Consiglio dei Dieci del 17 ottobre 1575 a ricordo della vittoria della Battaglia di Lepanto e alle Curzolariricostruendo gli spazi della Cappella già nel 1582 sotto la direzione del Vittoria. Nel 1765 verso gli ultimi anni della Repubblica, la Schola che possedeva tra beni mobili e immobili un capitale di mezzo milione di ducati e usufruiva di numerose Commissarie: Girardi, Gherardo Wahemans, Grassi e Pietro Negri (per testamento in tempo di peste lasciò tutti i suoi beni alla Scuola del Rosario di San Zanipolo dove viveva come Frate Domenicano suo nipote Fra Pietro Martire Degna) venne ascritta fra le Scuole Grandi di Venezia assumendone tutte le prerogative e ottenendo speciali privilegi e indulgenze da Papa Pio VI.


In quell’occasione l’edificio venne ricostruito su disegno di David e Filippo Rossi e Jacopo Guarana dipinse il soffitto, mentre Jacopo Tintoretto dipinse: “I trionfi dell’armi cristiane sopra il Turco”, e Tiziano Vecellio un: “San Pietro Martire” .

Di certo meglio di me descrive la Cappella del Rosario il Gradenigonel 1761 nei sui “Notatori” su Venezia:

“…ottenuta la grande e memorabile vittoria contro i Turchi del 1571, crebbe in maniera la devozione del sacro Rosario in S.Giovanni e Paolo che i signori confratelli di esso rinnovarono la loro cappella et altare adornandolo di rare sculture formate da Alessandro Vittoria che fu allora anco l’architetto e da Girolamo Campagna; cosi’ di eccellenti pitture; poiché Giacomo Tintoretto nell’ovato del soffitto dipinse la vergine in atto di porgere rosari a S.Domenico et a S.Caterina da Siena con il pontefice, imperatore, re e doge della repubblica che in quell’età fiorivano alleati. Vi sono inoltre quadri del Tintoretto, del Corona, del Palma che tra le altre cose spiegarono la Lega Cristiana, anziché Tintoretto fece li ritratti al naturale di Pio V, Filippo II e Luigi Mocenigo, dietro a quali annicchio’ le sembianze de vittoriosi Generale Marcantonio Colonna, Giovanni d’Austria e Sebastiano Venier et inoltre graziosamente fu posto il Guadiano della scuola medesima…”


La Schola Grande del Rosario venne soppressa dal “caro” Napoleone nel 1806, e andò bruciata, quasi distrutta perdendo gran parte delle opere che conteneva il 16 agosto 1867.


Accanto alla Scuola del Rosario, lasciando perdere per questa volta la Storia avvincente e straraccontata della Scuola Grande di San Marco, una delle più splendide e ricche di Venezia, c’è da notare, invece, la presenza di un’altra realtà spazzata via ancora dal solito Napoleone: la Scuola di Sant’Orsola delle Undicimila Verginie Martiri che sorgeva addossata alle pareti del chiesone di San Zanipolo (l’attuale Canonica di oggi dei pochi Frati Domenicani rimasti)dando nome anche a tutto il cimitero che contornava la grande chiesa.


Quella di Sant’Orsola e delle undicimila amiche Vergini e Martiri era una leggenda amata e diffusissima in tutta Europa fin dal Medioevo a cui erano affezionati tutti i devoti Cristiani, e quindi anche i Veneziani.

Secondo la leggenda, Orsola era una bella principessa undicenne cristiana d'Inghilterra figlia di Re cristiano. Chiesta in sposa da un Principe pagano, Orsola già consacratasi segretamente a Dio, chiese tre anni di tempo per pensarci, e per rendere la cosa ancora più difficile chiese la conversione del futuro sposo, e anche mille compagne per sé e per ciascuna delle sue dieci ancelle al suo seguito: ossia undicimila fanciulle in tutto, ovviamente Vergini.

Fate salire tutte su undici navi, Orsola attraversò il mare, risalì il corso del fiume Reno fino in Svizzera, e poi proseguì per Romain devoto pellegrinaggio. Ma tornando a casa per la stessa strada, le undicimila fanciulle incapparono negli Unni che nel 385 d.C. stavano assediando Colonia, perciò furono prese in ogni senso senza tanti complimenti, e infine uccise nello stesso giorno. Si salvò solo Orsola di cui s’innamorò perdutamente Attila capo degli Unni che le chiese di sposarlo in cambio della vita. Orsola, donna e credente tutta di un pezzo nonostante la giovanissima età rifiutò, perciò Attila annoiato che aveva altro a cui pensare, la fece uccidere da una squadra dei suoi arcieri.

A Colonia effettivamente si conservano le Reliquie di “certe Donne Vergini e Martiri” fra cui una certa Orsola, ma probabilmente gli undici anni d’età della ragazzina sono stati confusi con le undicimila donne ... e non solo quello.


E’ una leggenda infatti … ma andate a guardare gli otto grandissimi teleri del Ciclo delle Storie di Sant’Orsola dipinti da Vittore Carpaccio tra 1489 e 1498 finiti all’Accademia di Venezia (l’altare e le balaustre di pietra della Schola di Sant’Orsola sono stati venduti e acquistati dalla chiesa di Santa Maria Formosa dove stanno ancora adesso).

Alle Gallerie dell’Accademia potrete vedere dentro a uno stanzone: “Arrivo e partenza degli Ambasciatori”, “La città del Re Inglese”, “La partenza degli Sposi”, “L’Apoteosi di Sant’Orsola”, “Arrivo a Roma”, “Il sogno del Martirio”, “Arrivo a Colonia” e il “Martirio e Funerali di Sant’Orsola” dipinti amabilmente dal Carpaccio: capolavori sublimi (almeno per me, e non solo.)


Vedrete che spettacolo, che splendore, e che dovizia di particolari e colori!

Non voglio neanche pensare a quanto bello doveva essere quel ciclo pittorico quando stava inserito nel suo contesto originario incluso nella chiesa di San Zanipolo.


Fino dal 1300 a Venezia intorno alla Leggenda di Sant’Orsolasi coagulò una notevole folla di Devoti tanto che col consenso del Doge Piero Gradenigo e del Minor Consigliodella Serenissima si costituì un’apposita Schola che pose la sua sede presso la chiesa dei Frati Domenicani di San Zanipolo che c’interessano. Precisamente oltre a un generoso lascito testamentario lasciato da un ricco Confratello Mercante Pollini, fu la Nobile Famiglia dei Loredan di San Cassianoche fece della sede della Schola la propria Cappella mortuaria di famiglia, perciò per più di un secolo finanziò e controllò direttamente l’attività e le espressioni di devozione di tutta la Schola di Sant’Orsola con tutti i suoi numerosissimi Devoti.

La costruzione gotica della Schola era un edificio rettangolare preceduto da un portico, con a piano terra le stanze ad uso della Schola e l'Oratorio dipinto della Santa, al piano superiore “a soler” stava, invece, la Sala dell’Albergodella Schola.


I Confratelli di Sant’Orsola stabilirono che non potevano appartenere e iscriversi alla Schola chi provocasse danni allo Stato, chi dimostrasse "despresio" per il Doge, chi aveva subito qualche condanna. Ogni nuovo Confratello doveva promettere d’osservare le indicazioni della Mariegola (la Madre di tutte le Regole)davanti all'Altare di Sant’Orsola ricevendo in cambio “il bacio di pace e benvenuto”da parte del Gastaldo rappresentante di tutta la Schola. Chi rifiutava di assumere le cariche interne d’amministrazione della Schola a cui era stato eletto veniva espulso, la Schola beneficiava ampiamente i poveri di Venezia che però dovevano essere iscritti alla Schola da almeno cinque anni.


Si stabilì anche di dare: “…  36 lire l'anno ai Frati di San Zanipolo comprensivi delle Messe della Seconda domenica di ogni mese e di quelle del lunedì con l'impegno per i Domenicani di non cambiare la cifra al rialzo, e per la Schola al ribasso x la scuola ... Ai Frati Domenicani doveva venire corrisposto 720 soldi l'anno in totale.”


I Frati Domenicani di San Zanipolo ci tenevano perciò moltissimo alla Schola di Sant’Orsola, tanto che intervenivano processionalmente ogni volta in dodici con un cero acceso ciascuno in mano quando c’era da celebrare per essa una delle “Messe Ordinate per le Aneme Nostre” pagate con i ricchi lasciti dei Defunti e con i fondi della Schola … Nei cinque giorni precedenti la Festa di Sant’Orsola la Schola inviava dei suonatori di flauto e tromba con le insegne, i simboli e gli stendardi della Schola di Sant’Orsola a bordo d’imbarcazioni lungo tutto il Canal Grande da San Marco fino a Rialto per annunciare le solenni celebrazioni cantate che avvenivano a San Zanipolo nella vigilia e nel successivo giorno della Festa quando sarebbero state esposte grandi immagini della Santa da baciare, regalate altre da custodire, e dato un “pane et candela benedetti” ad ogni Confratello iscritto.

Nel 1488 i Confratelli che avevano l’obbligo di partecipare a un Messa mensile, di confessarsi a Natale e Pasqua, di partecipare alla Festa Patronale, e di presenziare al Capitolo della Schola due volte l’anno per eleggere i “Quindici Ufficiali della Banca di Sant’Orsola”, decisero di autotassarsi severamente per abbellire l’interno dell'Oratorio con “le istorie di Madonna Orsola”, perciò commissionarono la decorazione a Vittore Carpaccio che la eseguì impiegandovi cinque anni per dipingerla.

I quindici uomini eletti annualmente come “Ufficiali della Banca di Sant’Orsola” coprivano le cariche di: Gastaldo, Vicario, Scrivano, di due Masseriper tenere i libri contabili della Schola, due Bagnadori per andare a lavare i Confratelli morti e prepararli per i “Corpi o Funerali”organizzati dalla Schola, e dodici Degani(due per Sestiere di Venezia) con i compiti obbligati di: “… partecipare alla Messa cantata dello Spirito Santo prima delle elezioni annuali, di presenziare alla Messa del lunedì di suffragio (almeno due Degani al mese), visitare a domicilio gli infermi iscritti alla Schola, partecipare in Processione con la Cappa Bianca della Schola e con Croce e Pennello recitando 25 Pater e 25 Ave ai Corpi o Funerali pagando 4 soldi di piccoli, selezionare e ricevere nuovi affiliati, cercare n giro per Venezia dove fosse stato necessario che la Schola esercitasse la Carità”.

Per i poveri era prevista: “Sepoltura onorevole e gratuita” e celebrazioni in Rito Greco se qualche Albanese si fosse fatto seppellire nel Cimitero di Sant’Orsola della Schola.

I Veneziani che s’iscrivevano alla Schola pagavano la Tassa di Benintrada di 12 grossi subito e 20 soldi annui per i maschi, mentre le donne pagavano 12 grossi subito e 12 soldi annui, oltre che 6 soldi a parte il giorno della Festa della Presentazione per la Tassa della Luminaria:

“…ancora volemo che sempre di e note arder debbia un cesendelo in la gliexia de Madonna Santa Orsola ale spexe dela Schola e a loro honor santisimo e per Aneme de tuti le Frari et dele Soror che andrà alturio (aiuto) e conseio a questa Benedetta Schola.”


Inoltre ogni Confratello maschio era tenuto a pagare altri 2 grossi (gratuite le femmine) ogni prima domenica del mese quando i consociati dovevano “Levar Toleta o Tolella”cioè ritirare una targhetta personale che provava i loro pagamenti, una specie di tessera personale per poter accedere alle riunioni e alle votazioni del Capitolo della Schola.

Chi non pagava secondo i tempi stabiliti veniva multato, e se era recidivo: “era fuori”… però si sa che la Schola provvedeva ogni anno alla dote di molte ragazze povere, e sosteneva fino al giorno della morte economicamente 12 sorelle e 8 fratelli che vivevano in condizioni indigenti estratti con un ballottaggio fra coloro che erano in situazione peggiore.


All’inizio del 1500 la Schola di Sant’Orsola era frequentatissima e sovvenzionata dai Veneziani funzionando “alla grande” anche perché a lei erano collegate le sepolture nel prospicente Cimitero di Sant’Orsola. Ininterrotto e redditizio afflusso insomma, tanto che scoppiarono come il solito liti e dissidi fra i Confratelli e i Frati Domenicani di San Zanipolo per la gestione dei soldi della Schola e delle Reliquie della Santa.

I Frati non volevano avere l’obbligo di fornire e pagare i Suonadori e i Cantori per far la Messa Solenne e la Processione il giorno della Festa della scuola, la Schola considerato quanto dava e pagava ai Domenicani, ovviamente voleva il contrario.

Sempre come il solito, dovette intervenire il Doge e il Minor Consejo per calmare gli animi, e la Serenissima stabilì che la Reliquia della testa di Sant’Orsola non apparteneva né ai Frati né ai Confratelli ma alla la Signoria Serenissima stessa che l’affidava in pura custodia ai Frati Domenicani perchè l’esponessero dentro alla Schola nei giorni della Vigilia e della Festa della Santa. Le generose offerte che si raccoglievano ogni anno in quell’occasione dovevano servire per costruire un “degno tabernacolo” dove ostendere la Reliquia, e solo le rimanenze delle offerte dovevano essere suddivise in parti uguali fra i Frati Domenicani e i Confratelli della Schola ... con pace e tranquillità di tutti … altrimenti sarebbe di nuovo intervenuta la Serenissima e il Doge privando tutti della Reliquia che sarebbe stata in custodia ad altri.


Nel 1551 Gerolamo Santacroce per 25 ducati dipinse per la Schola di Sant’Orsola: “un grande penelo da campo"(gonfalone)… mentre i Provedadori alla Sanità concessero che la Schola avesse un proprio questuante vestito con "un gaban de griso, una vesta in tela rossa e un cappello da piova"che girava per la città raccogliendo olio da bruciare per le lampade dentro un recipiente sigillato a favore della Schola.


Inspiegabilmente però all’inizio del 1700 la Schola, nonostante possedesse rendite annuali di 40 ducati da beni immobili siti in varie Contrade di Venezia, subì un grave declino, tanto che fu costretta a chiedere aiuto economico e sovvenzioni a tutti i Guardiani delle altre Schole. La Serenissima sospettosa come sempre intervenne subito con i suoi Provveditori da Comun precisando: “Non si dovranno dare alla Schola di Sant’Orsola più di 5 ducati ciascuno !”… e i Frati Domenicani fecero porre una campanella all'esterno della Schola per avvisare i fedeli, i vicini della Contrada, e i presenti nel Cimitero, che nell’Oratorio di sant’Orsola stavano per iniziare delle Funzioni.


Spreco infine altre due parole per ricordare una realtà di San Zanipolo secondo me curiosissima: la misteriosa quanto microspica Cappella della Madonna della Pace.

A vederla sembrava quasi un bugigattolo insignificante, un cantuccio povero di significato a confronto con certe costruzioni monumentali immense sparse ovunque per Venezia. Era inglobata, completamente inserita e incassata nel mezzo della facciata del Convento di San Zanipolo, dove c’era fino a qualche anno fa la Farmacia dell’Ospedale Civile di Venezia, mentre uno dei pochi resti di ciò che conteneva è finito chissà come in uno dei sottoportici dell’Ospedale.

A noi forse il nome di quella Cappelletta non dirà niente, ma per i Veneziani dei secoli passati quel posto era una “calamita potente”, un luogo che attirava l’attenzione in maniera particolarissima. Si trattava di una specie si Santuarietto potentissimo, che si dice sia sorto sopra a un antichissimo tempio pagano a cui convergevano le genti di tutta la Laguna. Vero o non vero che fosse, sta di fatto che i Veneziani accorrevano lì di sovente fiduciosi che quella “Madonna fra le Madonne” fosse capace di “fare loro la grazia di cui avevano bisogno in quel momento”: fidanzati e mariti da sposare o non perdere, figli da riuscire ad avere, mantenere, far crescere e sistemare, salute malferma, fortune economiche scarse, i cari Defunti, sogni e desideri reconditi … e tutto il resto che sapete bene far parte della vita delle persone qualsiasi.


“Dalla Madonna della Pace dei Domenicani si può ottenere di tutto !” dicevano i Veneziani, e i Frati Domenicani lo sapevano bene. Per questo l’hanno incorporata e resa parte integrante del loro immane Convento. Era meglio tenere anche quel fenomeno sottocchio … anche dal punto di vista del fiume non indifferente degli introiti e delle elemosine che ne derivavano ogni giorno. Che fossero un tantino esosi i Frati ? … Ma no, dai … sono io che esagero ... o forse no.


Curiosità fra le curiosità: nell'atrio della Cappella della Madonna della Pace con le pareti dipinte da Giulio dal Moro, Leandro Bassano e Celesti, e col soffitto del Litterini trovò sepoltura nel 1355 dentro a un anonimo sarcofago di marmo il Doge traditore Marin Falierodecapitato per aver tramato contro la Repubblica Serenissima di Venezia. I resti del suo corpo sono stati rinvenuti con la testa tagliata posta fra le ginocchia e sono stati trasposti nell'ossario dell’Isola di Sant’Ariano.


Basta … mi fermo qui circa le vicende e i luoghi deiMastini di Dio di San Giovanni e Paolo o San Zanipolo.

Quel (bip) di Napoleone ovviamente ha sbriciolato, devastato e cancellato quasi tutto, e quel che non ha fatto lui con i suoi soldati l’ha fatto il fuoco o l’impalpabile capacità del Tempo di superare e far dimenticare ogni cosa. Comunque non è scomparso proprio tutto, nell’aria dell’Ospedale Civile e di San Giovanni e Paolo, la mia San G & P, rimane come un eco, una memoria che aleggia capace di attrarre ogni volta la nostra curiosità e calamitare le nostre emozioni e il nostro spirito di Veneziani … forse un po’ nostalgici dei tempi andati.


PS. Per “buttare un occhio” sui luoghi dei Frati Domenicani Predicatori e Inquisitori … i Mastini di Dio.

Clicca qui sui link:

Ecco qua com'erano fra 1700 e 1900 i luoghi di San Zanipolo dei Mastini di Dio ossia San Giovanni e Paolo dei Frati Domenicani Inquisitori di Venezia finiti imprigionati anche dentro al mio nuovo libro-romanzo: UNO STRANO OSPIZIO.

I luoghi dei Mastini di Dio di San Zanipolo a Venezia: gli interni della splendida chiesa dei Frati Domenicani Inquisitori che è stata anche Phanteon di ben 24 Dogi e di numerosi Condottieri e Capitani da Mar della Serenissima. 
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=673490719458774&set=pcb.673493676125145&type=3&theater

Per completare un discorso, secondo me curioso (anche se potrei sbagliarmi) sui Frati Domenicani Inquisitori e Predicatori di San Zanipolo di Venezia (http://stedrs.blogspot.it/…/san-zanipolo-dei-mastini-di-dio…), ecco alcune foto dei luoghi del Convento di San Zanipolo di cui ho tanto parlato ... con la sua famosa Biblioteca (http://stedrs.blogspot.it/…/libreri-e-mastini-di-dio-san-gi…), e il suo famoso Refettorio (http://stedrs.blogspot.it/…/trementi-paranoici-i-mastini-di…).
Quel posto mi ha così avvinto e impressionato da costruirci sopra un intero romanzo: è un'altro dei luoghi magici e curiosi di Venezia saturo d'opere d'Arte e soprattutto di tantissima Storia. Come resistergli ?



“IL CAMPANIL DEL CONTRABBANDO … E LE VERGINI DEL DOGE ... ANCORA A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 94.


“IL CAMPANIL DEL CONTRABBANDO … E LE VERGINI DEL DOGE ... ANCORA A VENEZIA.”


Il contrabbando esiste da quando esiste l’uomo come esiste la necessità irrinunciabile di certi beni come il sale, il grano e la farina. E’ sempre accaduto che proibendo socialmente qualcosa gravandola di monopolio si è subito attivato il traffico inarrestabile del contrabbando illegale a caccia di profitti più o meno facili.

State pur certi che se ci sarà qualcosa d’interdetto ci sarà sempre qualcuno che si farà in quattro per inventarsi il modo di procurarlo esaudendo la corrispettiva “fame proibita”.

E dove abita il proibito è altrettanto solito che accadano: intensi traffici, truffe, raggiri, corruzioni, contraffazioni, sopprusi, abusi fiscali, violenze, alterchi, delitti e rogne di ogni tipo … Così come quasi ogni volta la liberalizzazione di certi prodotti ha provocato la caduta e l’arginazione di quei fenomeni correlati.

Immaginate solo per un attimo, così tanto per farsi un’idea, che cosa accadrebbe oggi se si liberalizzasse l’uso della droga vendendola a un centesimo al quintale insieme a tutte le altre Spezie dentro a ogni rivendugolo o pizzicagnolo ? Di certo si decreterebbe la fine del grande epifenomeno di coercizione, sopprusi e delinquenze che stanno segnando la società di quest’ultimo nostro secolo.


E’ solo un esempio opinabile, per farci tornare, invece, alla nostra Venezia curiosa di ieri. I documenti antichi Veneziani sul contrabbando sono ricchissimi di notizie, e fra questi ce n’è uno che cita esplicitamente il nome e il sito del “Campanil del Contrabbando”. Era quello della Contrada del Vescovo, ossia quello di San Pietro nel Sestiere di Castello ovviamente a Venezia.


Non fraintendetemi ! Non andate subito a pensare che il Reverendissimo Ecclesiastico che abitava la Cattedrale di San Piero di Castello fosse coinvolto in persona e direttamente dentro ai loschi traffici (anche se non sarebbe da meravigliarsi). Il Campanile del Contrabbando era di certo sua proprietà e competenza, ma in cima e dentro allo stesso accadevano tante cose di cui lui era probabilmente all’oscuro, o di cui era indotto a sopportarne passivamente l’accadimento.


Questo non si sa, non è molto chiaro dai documenti.


Sta di fatto, che proprio lì in cima a quella torre, forse anche faro portuale, presente ancora oggi sul confine estremo e periferico di Venezia prospicente sulla Laguna e su una delle “bocche di Porto” aperte sul Mare Adriatico, accaddero a lungo azioni proibite e di certo non legali.

L’entrata del Porto di Venezia interessata è quella di San Nicoletto del Lido, quella più importante e considerata dai traffici mercantili in arrivo e partenza da e verso l’attivissimo Emporio di Rialto. Di solito la Serenissima stendeva una grossa catena su zatteroni sopra alle acque del tratto di Laguna fra San Nicolò del Lido e il Forte di Sant’Andrea dalla parte opposta per controllare i traffici di cose, natanti e persone che entravano e uscivano via mare dal cuore della Repubblica.


Nel Forte di Sant’Andrea c’era istallata una bella serie di bocche da fuoco: 42 cannoniere quasi sempre pronte all’uso oltre ad altre artiglierie più grosse ospitate sulle terrazze, sul torrione e lungo le cortine laterali capaci di tenere sotto tiro incrociato tutto il Porto del Lido fino al mare aperto e le isole vicine. Per ricordarvene una, fu proprio sparando da una di quelle cannoniere che nel 1797 il Capitano e Comandante Domenico Pizzamano centrò e affondò con un’unica bordata il primo veliero Francese, il "Liberatore d'Italia”che osò varcare i confini della Laguna senza il permesso previo del Doge e della Signoria. Peccato che con quel gesto il “povero” Napoleone si sentì aggredito, e trovò la scusa valida per prendere subito possesso dell’ormai decadente e indifesa Venezia.


Come potete immaginare, nella Contrada del Vescovo o di San Piero di Castello abitavano in gran parte Marinai, Arsenalotti, Bastazi e Artieri di ogni tipo avezzi e abili a trattare familiarmente con mare e con tutto ciò che lo concerneva … affari e traffici illeciti compresi.

“… il campanile di San Pietro di Castello era la torre di gestione, guardia ed avvistamento di tutto il contrabbando organizzato del mercato veneziano che riusciva ad evadere sistematicamente i Dazi e i controlli della Serenissima. Con le proprie peote andavano a scaricare e caricare le navi contraddistinte da specifiche vele colorate avvistate al largo nel mare. Da quei traffici fuorilegge si otteneva un netto guadagno del 30% su tutto quello che si riversava o usciva via mare dai Fondaci e dalle Mercerie di Rialto.  Spesso la Serenissima non entrava neanche in quella zona difesa dalla fama di uomini armati di archibugi ... Venezia in ogni caso ne guadagnava ugualmente ... e anche tanto.”


Comunque nella Contrada di San Piero di Castello non esisteva solo il contrabbando, perché era soprattutto una tipica e vivissima Contrada popolare di Venezia:

“Fin dal 1612 Daniel Campanato viveva da Marangon dell'Arsenal, e come Piero fio de Stefano Campanato faceva il Calafato in Contrada di San Piero di Castello morendo di peste nel 1621 ... mentre il 25 giugno 1771 Lorenzo Campanato anche lui Marangon dell'Arsenal, s’impiccò nella sua casa posta nello stesso posto di Castello dove un tempo sorgeva una “palus o palude Plombiola” … Nella stessa zona in Corte Coltrera abitava Cristoforo quondam (ossia figlio del defunto)Domenico di Benedetti ricco Coltrèr che possedeva parecchie case in parrocchia di San Piero e diversi beni in Mestrina … Il Campazzo e Campiello delle Erbe poco distanti, e sempre in Contrada di San Piero, ancora nel 1713 erano un orto lasciato libero per pascolare cavalli e altro bestiame … Poco distante da quel posto abitava un Sartor da Calze, e in Calle delle Ole, ossia delle pentole o “pignatte”, sempre in fondo a Castello esisteva una bottega diroccata da pentolajo accanto ad alcune case poste dietro al Campiello della Vigna in Quintavalle appartenenti al Patriarcato … Bonavisa Marangon e Mastro Zonta da Ferrara ottennero con un prestito del Doge di poter costruire 4 mulini “su sandoni” nel vicino Canale di Castello ... e Antonio Coppo dal Confinio di San Piero di Castello Confratello della Scuola Grande della Misericordia venne condannato a 300 lire di multa per aver ferito in faccia Albertino di Verga Priore dell'Hospedal de San Vio al Traghetto di San Gregorio.”


Tutte cose normalissime insomma, anche se mi tocca dirlo, oltre a tanta gente qualsiasi nella Contrada di San Piero vivevano anche i Canonici del Vescovo di Olivolo o Castello da cui l’intera zona aveva preso il nome.

Il chiesone-Cattedrale di San Piero era un po’ il fulcro di tutta la Contrada, ed era circondato da un cimitero non ancora delimitato e recintato nel 1500 che finì per diventare: “piazzetta pubblica spatiosa”.


Da una nota della Mariegola dei Casselleri del 1449 (quelli che facevano i cassoni dipinti e decorati per mettervi i corredi delle doti nuziali) sembra che anticamente tutte le “novize”,ossia le promesse spose di Venezia, andassero a maritarsi dal Vescovo di San Pietro di Castello, o che almeno si recassero lì le dodici povere donzelle, “quelle famose Marie” dotate a spese del Comune e rapite leggendariamente dai pirati.


L’istituzione Ecclesiastica del Vescovo di Castello era una fra le più antiche di Venezia, in quanto la Cattedrale di San Piero veniva considerata una delle otto “Protochiese” fondate secondo la leggenda da San Magno Vescovo transfuga da Altino. San Piero era perciò Chiesa Matrice, ossia di riferimento obbligato, per ben 26 “Parrocchie filiali” sparse per tutta Venezia. In quei tempi non esisteva come oggi la giurisdizione unica del Patriarcato di San Marco, perciò chiese, Monasteri e fedeli di Venezia venivano spartiti fra la Chiesa Dogale di San Marco, il Vescovo di Olivolo, e l’influenza e controllo del Patriarca di Grado che risiedeva a San Silvestro accanto a Rialto.

Nella fattispecie la Chiesa di San Piero esercitava controllo e giurisdizione sulle vicine chiese e Contrade del Sestiere di Castello: Sant’Antonin,San Giovanni in Bragora, San Biagio, SantaTernita, Santa Giustina, San Severo e San Martino, ma anche sulle più lontane chiese collocate nel Sestiere di San Polo e Rialto come: San Giovanni Elemosinario, Santa Maria Materdomini, San Zan Degolà e Sant’Aponal.

La stessa giurisdizione poi si allargava a comprendere nel Sestiere di Dorsoduro anche le Parrocchie di San Basilio, San Nicolò dei Mendicoli e Sant’Eufemia della Giudecca, mentre nel Sestiere di Santa Croce gestiva e controllava “le Anime” di Santa Croce de Luprio, San Stàeossia Sant’Eustachio e dei due San Simeone Grando e Piccolo.  Nel Sestiere di Cannaregio, invece, lo stesso Vescovo di Olivolo “governava”le chiese-parrocchiali di San Marcuola, Santa Fosca, San Geremia, San Leonardo, Santa Maria Maddalena, San Marziale e sul Monastero di Santa Luciaper spingersi infine a controllare da lontano anche le genti di Santa Maria Elisabetta del Lido.


Niente male come influsso e controllo sul territorio Veneziano, vero ?


Praticamente più di mezza Venezia stava sotto l’occhio e orecchio vigile e attento del Vescovo di Olivolo … mentre la Serenissima a sua volta vigilava ancor più attentamente supervisionando tutto e tutti … Vescovo e Canonici di San Piero di Castello compresi.


Secondo la storia antica, sembra che la prima piccola chiesetta dedicata ai Santi Sergio e Bacco sia stata voluta e costruita in quella zona della neonata Venezia dalla ricca famiglia dei Sammacali detti poi Caotorta. E proprio lì è accaduto che il Vescovo di Olivolo-Castello abbia voluto porre la propria sede circa cento anni dopo sul Castrum(Castello) alla foce del Flumen ossia il futuro Canal Grande, mentre il centro commerciale di Venezia era già attivo nel nuovo Emporio di Rialto proveniente da Malamoccoabbandonato perché scomodo, piccolo e sommerso dall’acqua.

Arrivato il Vescovo, si ricostruì la Chiesetta intitolandola a San Pietro Apostolo ... e da chiesetta divenne ovviamente chiesona.


Nel Campo di San Piero di Castello la famiglia Mastelizia poi Basegio assalì il Doge Giovanni Partecipazio, gli rase i capelli e la barba, e lo condusse vestito da Monaco in un Monastero di Gradofacendo eleggere il suo successore Pietro Tradonico ... così come nello stesso Campo de San Piero Stefano Caloprini uccise per ragione di donne il Nobile Domenico Morosini fuggendo poi da Venezia. In seguito toccò ai Morosiniuccidere tre Caloprini mentre ritornavano in barca dal Palazzo Ducale continuando la faida fra Nobili Famiglie di Venezia ... Ne fece le spese il debole Doge Tribuno Memmo incapace di mantenere l’ordine in città e fra i Nobili, che perciò venne a sua volta deposto e costretto a farsi Monaco nel più vicino San Zaccaria rimanendo a Venezia.


Poco dopo questi antichi fatti, iniziò la lunga catena degli affari e della azioni del Vescovo e dei Canonici di Castello sempre più in crescita di prestigio socio-religioso e di capacità economica. Prima ottennero dal Doge di vendere una terra e un “paludo Sancti Petri“ adatto per pescare di proprietà dell’Episcopato di Olivolo, poi diedero in concessione un Livello a Chioggia, e ottennero l’obbedienza e sudditanza di ben 8 Monasteri Veneziani fra cui il potentissimo Monastero di San Giorgio Maggiore mai stato soggetto a nessuno fino ad allora … infine prese fuoco la chiesa di San Piero ancora in costruzione e bruciò tutto crollando anche il campanile facendo morire di crepacuore il povero Vescovo Vidal Michiel.

Al successore fu concesso che tutti coloro che abitavano in zona e che lui “amministrava in Spiritualia” gli pagassero “la decima”(una tassa dovuta solo in base alla residenza sul territorio) assegnandone però un quarto alla chiesa di San Salvador come dovette ricordargli il Papa Eugenio III in quanto il Vescovo s’era tenuto tutto per se stesso: “… pars Episcopo, alias Clero, III pauperibus, IV vero Ecclesiae sartetectis deputata esse dinoscitur.”


Già nel lontanissimo 1186 dovette intervenire Papa Urbano III per una lite sorta fra i Canonici di San Piero e i Piovani-Plebani di San Pantalon, San Giovanni Crisostomo, San Silvestro e Sant’Aponal che si consideravano defraudati delle loro “Decime” che percepivano per antica consuetudine. I Canonici di San Piero volevano arrogarsele perchè secondo loro la dotazione economica canonicale era troppo povera. Inoltre i Canonici volevano ottenere il diritto d’eleggersi un Vescovo di loro gradimento, alcuni divennero “Notai e Dottori in utriusque Leges”… e dentro alla chiesa di San Piero fecero costruire una Pala tutta d’argento pesante 1364 once e con 26 figure: “… in due parti divisa quale si chiude continuamente e s’apre solo nei giorni delle festività principali et in essa appariscono molte figure d’argento indorate di diversi santi che rendono molta vaghezza …”


Trascorsi secoli più o meno tranquilli, nel 1420, Marco III Lando Vescovo di Castello cercò d’irregimentare e ordinare il “comportamento esuberante” dei Canonici di San Piero indicendo un apposito Sinodo Diocesano. Sotto pena di scomunica i Canonici della Cattedrale dovevano cambiare registro di vita: “… somministrare i Sacramenti per lo scopo per cui furono istituiti e non per denaro … andare in Coro cum bireto Almutia sive Zanfarda et cotta … si dovevano puntare e segnare le loro assenze, erano obbligati a risiedere in zona, dovevano vestire da Ecclesiastici anche quando uscivano dalla chiesa di San Piero usando un apposito anello di riconoscimento, portare obbligatoriamente la tonsura, non frequentare taverne sotto pena il carcere, non organizzare rappresentazioni in chiesa, non tenere concubine in casa pena la perdita definitiva del Beneficio economico.”


Una trentina d’anni dopo, siccome non tutto nelle isole di Venezia andava per il verso giusto, Papa Nicolò V mise a posto molte cose nominando il Nobile Lorenzo Giustiniani come primo Patriarca di Veneziaunificando in lui le cariche di Vescovo di Olivolo, Malamocco, Caorle, Jesolo o Equilio, Eraclea e di Patriarca di Grado e Aquileia a cui si aggiunsero in seguito anche la titolarità sulla Diocesi di Murano e Torcello, il Primariato della Dalmazia, e l’autorità sul Campardo Trevigiano.

Quel Lorenzo Giustiniani, poi diventato Santo, s’era dato molto da fare in Laguna, e s’era inventato un’esperienza particolarissima e intensissima insieme ad altri giovani Nobili di Venezia fra cui un certo GabrieleCondulmerche finì per diventare in seguito addirittura Papa (Eugenio IV). Si è trattato dell’esperienza eremitica e mistica degli entusiasti Canonici Regolari dell’isola di San Giorgio in Alga vestiti d’azzurro … Ma questa è un’altra storia di cui racconterò forse un’altra volta.


Comunque fu proprio in quegli anni, fra 1464 e 1474, che si fece cotruire in pietra d’Istria da Mauro Codussi quello che divenne “Il campanile del contrabbando”… e già che c’erano riattarono anche la Cattedrale: via il Battistero a cupola e colonne davanti alla Chiesa e aggiungi, invece, un paio di Cappelle al suo interno … e perchè no ? Si aumentò anche il salario dell’organista della Cattedrale … dandogli di più farina come compenso !


A San Piero di Castello s’istituì una Scuola Sestierale dentro ai luoghi del Patriarcato, che purtroppo era riservata solo ai Chierici, e il Patriarca fu determinato nel chiedere a tutti i Canonici e ai Preti della zona di mantenerla a proprie spese pagando il Maestro Don Bartolomeo Boni “pro docendo Clericos ipsius Sexterii” ai quali s’insegnava: “… a lezar et a scrivar, … la Tavola, el Salterio, el Donado, Fior de Virtù, le Trasformation de Ovidio, le Metamorfosi, l’Ariosto et Evangelii vulgari con le Regule della Dottrina Cristiana”.


Voltando ancora la pagina del Tempo, nei primi decenni del 1500 venne improvvisamente a mancare la quiete di quella zona Veneziana e accadde un gran subbuglio perchè accadde proprio là che Ballabio Domenico morì di peste di ritorno da un viaggio in Oriente con la nave “Salvagna” carica di cotone. Venezia comunque era abituata ad affrontare le pestilenze, e anche quella volta tutto riprese a scorrere e succedere come il solito … con qualche migliaio di tombe in più.


Nel secolo seguente in Contrada di San Piero c’erano 150 Botteghe e tre Speziarie da Medicine, e vivevano circa 9.000 Veneziani per la maggior parte poveri, soprattutto: Calafati, Marangoni, Marineri, Sabionanti, Squeraroli, Remeri, Pescadori, Merlettaie e Impiraperle, e Galeottiliberi o forzati che andavano a morire nell’Hospedal delli Sforzadi… ma in Ruga di San Piero abitavano anche i Nobili anche se non appartenevano ai rami delle Casade più ricche e illustri di Venezia. C’erano: Priuli, Balbi e Dolfin in Rio della Tana, i Donà abitavano un poco più dietro, i Giustiniani in Riello, i Querini e Marcello in Calle del Caparozolo, i Boldu’in Calle di San Gerolamo, Erizzo presso la chiesa di San Domenico, i Badoer, invece, di fronte e al di là del ponte: nei pressi di San Francesco dei Paolotti mentre i Contarinistavano in Corte del Soldà.

In quegli stessi anni il Consiglio dei Dieci della Serenissima ordinò la condanna capitale per impiccagione di Adamo e Alvise Dragona entrambi da Castel Guglielmo e di Mario Camin da Este perchè avevano ferito in Campo di San Piero un Nobile Bernardi... e lo stesso Consiglio Serenissimo intimò di nuovo ai soliti Canonici di San Piero di smetterla di lamentarsi e di pretendere anche la precedenza nelle Processioni tra le Congregazioni del Clero Veneziane creando scontento e agitazioni di continuo.

Non se la passavano poi così male i Canonici di San Piero da quanto comunicò l’Arcidiacono Benedetto Cappis in una sua relazione scritta al Patriarca Morosini:

“… le Rendite del Capitolo dei Canonici prevedono per ciascuno: la casa di residenza, 170 ducati, gli introiti della vendita del formento dei 200 campi posseduti e affittati a Dosson di Terraglio dai quali ricevono anche: 70 scudi di vino e regalie di pollastri, caponi, ovi e galline … Molto meno ricavano dal Bosco di Giovera del Montello dove si hanno 18-20 campi che producono solo l’affitto e poco vino perchè la casa colonica è rovinosa e necessita d’essere riparata … Oltre le rendite di Marcujaco e Miran, da Biancade di Treviso ricavano 18 stara di affitto e 200 lire per il vino, mentre dalla Zecca di Venezia ottengono 110-115 ducati usati in parte per le distribuzioni quotidiane, ed altri per pagare a chi le celebra le 39 Mansionarie di Messe ed Esequie … Oltre a tutto questo, i Canonici percepiscono le Decime Mortuarie, le Offerte degli Altari e degli Oratori della Parrocchia, le Offerte dei fedeli e degli ex voto provenienti dall’Altare di San Piero di cui si fa a metà annualmente col Patriarca. Inoltre per Diritto Canonico ricevono pranzi dal Patriarca in alcuni giorni segnati, e dai Parroci neoletti in Venezia che sono tenuti a mettere a disposizione due barche per andarli a prendere e riportare di nuovo fino a San Piero.”


Insomma il Capitolo dei Canonici “poveretto” non guadagnava poche briciole.


Ma adesso basta con i Canonici di San Piero, e parliamo, invece, delle Vergini del Doge.

Le Vergini erano Monache che abitavano nella stessa Contrada di San Piero, poco distante, anzi, proprio di fronte al Campanìl del Contrabbando della Contrada del Vescovo, un solo ponte più in là rispetto alla chiesa. Per secoli il loro Monastero-Convento ospitò le intricate e intriganti vicende delle “Vergini di Santa Maria Nascente di Castello o Santa Maria in Gerusalemme dette le Monache Canonichesse di Sant’Agostino o le Vergini del Doge”.
E’ un altro di quei luoghi Veneziani scomparsi densi di Storia e non solo, di cui oggi rimane solo il sentore, un segnale sospeso in aria, oltre che qualche scarno reperto e il “Nobile Giardino delle Vergini”utilizzato saltuariamente dalla Biennale d’Arte di Venezia per qualche esposizione temporanea.  


Ma perché: “Vergini del Doge” ?


Non me la sono inventata io quest’etichetta, ma proviene dai dati storici che raccontano le vicende e la Storia di quel particolare Monastero oggi scomparso.

Il Monastero delle Vergini era a Venezia uno di quei Monasteri in cui Doge, Senatori e ricchissimi Nobili Patrizi e Mercanti erano abituati a rinchiudere doratamente le loro figlie che non riuscivano o volevano piazzare in pomposi e splendidi matrimoni di convenienza.  I matrimoni si sa, sono ed erano più di oggi un costo … a certi livelli sociali poi ? I ricchi Veneziani era notoriamente furbi e taccagni, perciò prima d’impegnare un ingente capitale nella dote delle figlie ci pensavano non una, ma mille volte. Era intanto più conveniente richiuderle dentro a qualche Monastero, magari in attesa dell’occasione giusta, e spendendo per monacarle “una dota”di certo più contenuta e modesta rispetto a un pomposo “maridarse de Casada”.

Non che la dote per finanziare una monaca fossero quattro soldi in tutto !  Per diventare Monaca alle Vergini, come al San Zaccaria o al San Lorenzo di Castelloaltre piazzaforti dove piazzare figlie Nobili, servivavano parecchi ducatelli: anche 5.000-6.000 di media … a secondo della stagione storico-economica che stava vivendo il Monastero interessato.


Per capire meglio, nel Monastero Claustrale delle Vergini vennero rinchiuse a più riprese le figlie di diverse Famiglie Nobili prestigiose di Venezia: Condulmer, Giustinian, Navagero, Badoer, Morosini, Contarini, Malipiero, Zane, Bondumier, Zorzi, Querini e molti altri ... “la crème de la noblesse de Venise”.


Rinchiuse ? … Sì, ma per modo di dire, perché quel che non entrava ufficialmente nei Monasteri di Clausura per la porta, entrava alla grande e molto di più dalle finestre che erano non solo spalancate, ma praticamente inesistenti.

La vita di quel Monastero ufficialmente di Regola Benedettina Agostinianaera, infatti, tutt’altro che religiosa e dedita soprattutto alle incombenze e scadenze spirituali e liturgiche. C’era sì qualcosa, in quanto si ufficiava la chiesa, si celebravano i riti e le funzioni e tutto il solito menage conventuale … ma anche no, perché lì dentro per secoli accadde un po’ di tutto.

Lo intuite anche voi il perché. Il fatto che si rinchiudessero lì dentro le figlie dimenticando a bella posta la porta aperta, non è che le privasse per davvero del loro “status”felice e potente di Nobildonne, anzi. Molto spesso si finiva per trasporre e prolungare dentro alle mura del Monastero quelle che erano le condizioni agiate e le abitudini economiche, culturali, gastronomiche, ludiche … nonché le tendenze amorose della famiglia che continuava a vivere nei sontuosi Palazzi di Venezia.

Lo sapete meglio di me, quelle Monache era costrette a quel genere di vita per il quale non dimostravano alcuna vocazione salvo qualche raro caso significativo. Perciò nella maggior parte dei casi quelle “Nobili Figlie” facevano buon viso a cattiva sorte … ma molto spesso anche no.

Le tradizioni e le vicende di quel singolare Monastero delle Vergini, infatti, confermano proprio quell’intenso legame esistente, quel cordone ombelicale permanente con le famiglie Nobili d’appartenenza e non solo, perché il Monastero delle Vergini esprimeva anche una fortissima “figliolanza maritale” col Doge in persona.


Quando annualmente, il primo di maggio, il Doge di Venezia con la Signoria al gran completo andavano a trovare ufficialmente le Monache Agostiniane “per fruire dell’Indulgenza della Porziuncola” concessa alle Monache da Bonifacio IX, il Doge baciava la Badessa del Monastero sulla bocca, nel senso vero e proprio della parola.

Come mai ?

Semplice, perché la Badessa delle Vergini veniva considerata a Venezia come una specie di “moglie supplementare e adottiva del Doge”, tale era il legame intenso che legava il Monastero alla Signoria Serenissima. Si voleva così e in quel modo dichiarare e mostrare quel senso d’affettività particolare, e riconoscere e motivare quella protezione strettissima del Dogado e dello Stato su quell’Ente Religioso di Monache davvero particolari e considerate preziose.

Nella stessa occasione la Badessa recitava un forbito discorso sfoggio di cultura innanzi al Principe, e gli regalava un mazzetto di fiori con manico d'oro e guarnito di merletti di Burano.


“Dai non farla grande … Non era mica un bacio passionale ! … era solo un bacetto simbolico.”

“Infatti, quando giunse Napoleone a Venezia, ovviamente fece: “Raaasp !” e livellò e spazzò via tutto e tutti.”


Visti i presupposti, come potete immaginare le Monache delle Vergine furono storicamente alquanto “birichine”.


Nel Monastero delle Vergini, ad esempio, venne rinchiusa “provveduta d'annua pensione” la moglie del Carmagnola dopo la decollazione subita dal marito, che però vista la situazione pensò bene di lasciarsi sedurre e indurre a fuga da “alcune donne di Lombardia”.


Non si sa bene se a fondare il Monastero delle Vergini sia stato nel 1124 il Cardinale Ugolino Vescovo di Ostia(poi Papa Gregorio IX) inviato da Onorio III a venezia per trattare con Federico Barbarossa. Sembra che in quell’occasione l’Alto Prelato abbia persuaso il Doge Pietro Ziani ad erigere una chiesa intitolata a Santa Maria Nuova in Gerusalemmeomonimi di quella occupata dai Saraceni in Terrasanta. Un’altra tradizione, invece, racconta che la fondazione delle “Vergini” sia da attribuire al Doge Sebastiano Ziani ispirato dal Papa Alessandro III venuto a Venezia per far pace con lo stesso Barbarossa.

Cambia poco … La chiesa venne edificata sopra a un basso isolotto paludoso a nord della chiesa di San Daniele dove c’era ovviamente già una primitiva chiesetta, e poi accadde la solita trafila storica che ben conosciamo circa le entità ecclesiastiche di Venezia. Prima Pietro Pino Vescovo di Castello per interessamento dello stesso Cardinale Ugolino diventato Papa Gregorio IX regalò una vasta palude per ampliare il Monastero per la quale le Monache litigarono a lungo con gli Ufficiali del Piovego della Serenissima…  Poi le Monache come i Mercanti ottennero conferme e privilegi particolari dai Carraresia tutela del proprio diritto di esportare e importare in Venezia … Ancora, per testamento Maria vedova Giacomo Gradenigo dispose cospicui legati e denari soprattutto a favore delle Vergini dove volle essere sepolta ... Infine, durante il 1300 anche le Monache delle Vergini avevano proprietà di circa 100 campi anche a Selvanae lungo i corsi dei fiumi Sile, Zero e Desea sud di Treviso per i quali esigevano un censo in frumento annuo impegnando un esercito di Fattori, Gastaldi e personale addetto alla conversione e gestione del patrimonio delle Monache Verginidi Venezia.

Insomma, via via si mise insieme il solito mega-patrimonio che caratterizzava gran parte dei Monasteri Veneziani.


“E le Monache come si comportavano ?”

“Bene come sempre … o quasi.”


Già nel 1295 il Piovano di San Bartolomeo Leonardo Falierovenne incaricato da Papa Bonifacio VIII d’intimare al Priore e ai Religiosi della Congregazione di San Marco di Mantova di allontanarsi e non più ritornare al Monastero delle Vergini in cui abitavano insieme alle Monache procurando intemperanze, scandali, discordie e liti. Alle Monache venne assegnato d’ufficio un “Confessore Prete” e si stabilì che non potessero gestire direttamente le loro rendite, nè eleggere la loro Badessa se non con la conferma Apostolica del Papa di Roma. I Canonici di San Marco di Mantova se ne andarono, ma non mancarono di sottoporre periodicamente il Monastero delle Vergini ad accurate visite pastorali e non solo ... Tanto che: nel marzo di tre anni dopo, lo stesso Papa Bonifacio VIIIdovette intervenire di nuovo tramite il Primicerio di San Marco per allontanare ancora il Priore e Frati di Mantova che erano andati ad abitare in una casa contigua al monastero e “… qui inhonestae conversationis erantcum Monachae Virginorum.”


“Ma dai ! … Non evidenziamo sempre le pecche delle Monache.”


Giusto …  nel 1363 infatti, il Procuratore e padre di Madonna Cecilia Zustinian Maestra del Coro delle Monache le lasciò 200 ducati così che lei potesse pagare di tasca propria il “Messal per el canto”, mentre Agnes Justinian Priora delle Vergini completò “le historie della Madonna che ornano il Capitolo pagando del proprio” ... e quando due anni dopo il Monastero venne distrutto del tutto da un incendio, da allora i Papi fecero a gara per accordare molte indulgenze alle “Vergini” per favorirne la riedificazione … Papa Urbano V concesse: “Cento giorni d’indulgenza dalla permanenza in Purgatorio” per chi avesse soccorso le Nobili Vergini Veneziane, e regalò alle angustiate Monache il Priorato Benedettino di Santa Maria o Santa Maddalena o Santa Margherita di Polverara o Polverosa nel Padovano con tutte le sue (scarse) rendite e pertinenze … mentre il Doge Michele Steno concesse il permesso alle Monache di vendere una parte dei loro beni immobili per ultimare i lavori di restauro.


In ogni caso il Monastero delle Vergini di Venezia rimase all’ottavo posto fra gli Enti Monastici Veneziani più ricchi e illustri.


“E le Nobili Monache abituate ad ogni agio ?”

“Le cronache Veneziane raccontano che arrivarono perfino a privarsi del vino quotidiano per contribuire alla ricostruzione del loro nuovo Monastero.”

“Grandissime !”


Al di là di questo, fra 1381 e 1486 il Monastero subì ben 15 processi per gli abusi sessuali delle Monache con la nascita di cinque bambini nel Monastero ... Si condannò il Nobile Gerolamo Da Molina un mese di“Carcere Inferiore” per inonestà e lascivie commesse nel Monastero delle Vergini ... Si condannaro per lo stesso motivo e alla stessa pena i Nobili Benedetto Barbarigo, Matteo Contarini e Girolamo Nani e si assolsero invece Lorenzo Foscari figlio del Doge e Francesco Lombardo altro Nobile. Erano entrati con violenza nel Chiostro delle Vergini aggredendo e sputando in faccia ai custodi che volevano impedirglielo … Negli stessi anni la Badessa delle Vergini pose il veto all’entrata in Monastero di alcuni Chierici inviati dal Patriarca Lorenzo Giustiniani pretendendo di scegliersi i Preti che consideravano più adatti a loro. Il Patriarca non la prese bene, e ordinò che le Monache rimanessero senza Sacramenti per tutta la Quaresima.

La Badessa non si scompose affatto, e si rivolse direttamente al Papa di Roma che di rimando ricordò al Patriarca Giustiniani la diretta dipendenza delle Monache dalla Sede Apostolica di Roma. Perciò gli vietò d’interferire sul governo delle Vergini ... il Senato a sua volta condanno’ a due anni di carcere e pena pecuniaria Francesco Campanato per essere entrato in Monastero ed aver “conosciuto carnaliter”la Monaca Franceschina Giustinian ... Si giudicarono “i monachini”Giovanni Frescobaldi e Francesco Spizzica fiorentini, e i Nobili Veneziani Giorgio Contarini e Giovan Francesco Giustiniani accusati di entrare di notte nel Monastero delle Vergini usando sacrilegio con le Monache e provocando una rissa col vicinato sempre riguardo le stesse Monache.


Nel 1455 la Badessa Pantasilea Contarini, e le Monache Cristina e Bianca Zorzi, Lucrezia Zustinian ed Elena Zane, Orsa Bondumier e Bianca Querini donarono fornimenti di gran prezzo con oro, gioie e perle ad ornamento “della loro Chiesa delle Verzeni” ... per l’investitura a nuova Badessa delle Vergini di Margarita Badoer furono invitati 500 ospiti al banchetto, e le Monache delle Vergini uscivano dal Monastero in abiti secolari per andare a visitare parenti e conoscenti o per far “listòn in Piazza San Marco”.


Nell’aprile 1518 s’inasprì la lotta contro i Monasteri troppo libertini, e il Patriarca Contarini e il Vescovo di Torcello chiesero al Senato della Serenissima provvedimenti contro “i Muneghini”. Il Senato si attivò in merito il 21 dello stesso mese, e nel frattempo giunse da Roma il Nunzio Apostolico Altobello Averoldo che ottenuta la lista dei Monasteri più turbolenti inziò nel maggio seguente proprio dal Monastero delle Vergini intimando alle Monache di ritornare all’ordine.


Fu un grande e inutile buco nell’acqua.


Siccome i tentativi di riordino non ebbero alcun esito, il Patriarca deliberò di dividere il Monastero in due parti: una in cui ospitare alcune “Monache Osservanti” provenienti e immesse dal vicino Convento di Santa Giustina, mente l’altra parte doveva ospitare le “Monache Conventuali ribelli delle Vergini”.

La cosa non piacque affatto alle Conventuali delle Vergini, che risposero subito: “… qua comenza una opera dolorosa chiamata luctus di tutte le Monache dei Conventi di venezia, per le novità volute da Patriarca Contarini … e da quel figlio d’un giudeo, asino, e artefice diabolicodel Vicario Generale Ottaviano Brittonio attuatore di riforme.”


In giugno iniziarono i lavori di separazione del Monastero distinguendo perfino le entrate delle “Monache Osservanti” a cui andò in mano l’economia di tutto il Monastero, da quelle delle “Monache Conventuali” a cui si lasciò poco o niente per vivere per indurle all’Osservanza.

Le “Conventuali delle Vergini” però non si persero d’animo, ci voleva ben altro per fermarle. Infatti gridando e strepitando demolirono il muro di separazione ancora fresco, rubarono il grano delle “Osservanti”, e s’appellarono di nuovo direttamente al Papa che finì col citare in giudizio non le Monache ma il Patriarca stesso che venne invitato a presentarsi davanti al Tribunale della Sacra Rota di Roma. Le “Conventuali”quella volta suonarono le campane tutta la notte in segno di vittoria, ma il giorno dopo il Patriarca andò dritto davanti al Doge e al Collegio per segnalare quell’atteggiamento conciliante del Papa che sapeva di derisione.

Alla fine il Papa dovette adeguarsi alle intenzioni riformatrici soprattutto del Doge che del Patriarca Contarini che non perse un attimo per ordinare ai Confessori delle Vergini di non abitare più nel Monastero insieme alle Monache, e che: “… le Conventuali non dovranno possedere più nulla di proprio, dovranno mangiare e dormire e vivere in comune con tutte le altre Monache …”

Le “Conventuali” per tutta risposta fuggirono inviando tutti i loro beni fuori dal Monastero presso parenti e amici, e inviarono le Badesse delle Vergini, San Zaccaria, Santa Maria della Celestia e Santa Marta insieme a molti parenti in delegazione a supplicare il Doge di difenderle dal Patriarca trovando anche il consenso e appoggio di alcuni Savi del Collegio che avevano figlie e sorelle nei Monasteri. Il pericolo e il danno della Riforma non incombeva solo sulle “Vergini” ma su tutti i Monasteri delle “Figlie Nobili di Venezia”.

Le Monache si gettarono platealmente ai piedi del Doge, e la Badessa delle Vergini pronunciò un discorso-orazione in latino a difesa della loro situazione monastica ed economica. “… Al San Zaccaria dove le Monache erano tutte Nobili, ora sono poste Monache di un altro Ordine ed altra Regola ed abito, et bastarde Greche e popolari … qual anni 760 è sta cussì, le Monache hanno speso ducati 46.000 nel far la Chiesa e Monasterio e nel Refettorio bellissimo e li è stato tolto …”


Doge e Nobili cercarono di trovare un’intesa e di mettere il tutto a tacere, ma il Patriarca Contarini fortemente indignato rispose con la scomunica delle Monache Conventuali e contro tutti coloro che le avessero aiutate nei loro intenti ribelli.  Il Consiglio dei Dieci disapprovò l’operato del Patriarca ma si ridusse ad appendere sui muri di Piazza San Marco e in altri luoghi della città i manifesti della scomunica che vennero presto strappati via da ignoti in segno di protesta.

Infine si arrivò a compromesso, e un’apposita comissione di tre delegati trattò col Patriarca arrivando: “… a equa spartizione dei beni fra le ricche, Nobili e illustri Monache Conventuali e le povere quanto insignificanti Monache Osservanti” ... mentre il nuovo Papa Adriano VI, venuto a sapere tutto, si schierò apertamente a favore delle Conventuali inviando a Venezia Tommaso Campeggio Vescovo di Feltre come Legato Apostolico per accusare il Patriarca di voler spogliare le Monache delle Vergini dei loro beni legittimi.


Nell’agosto 1525 poco o niente era cambiato nel Monastero delle Vergini nonostante i tentativi delle azioni della Riforma. Il nuovo Patriarca Gerolamo Querini intervenne in quanto le Conventualivestivano ancora: “mondanamente, tutte scollacciate, immerlettate, ingioiellate ed eleganti come Nobildonne qualsiasi, e prive di vero e proprio abito monastico”. Persa ogni remora e controllo, il Patriarca entrò di mattina presto nel Monastero delle Vergini, prese la Monaca Tagliapietra per i capelli, e le tagliò di persona le treccie mettendogliele in mano. Ordinò poi di mettere in prigione altre due Monache, e allora tutte le altre impaurite gli gridarono: “di aver clemenza e perdonarle, e tutto si risolse quella volta in una severa ammonizione paterna.”

Stavolta gli effetti dell’azione del Patriarca si videro, e negli anni seguenti le Conventuali rimasero solo in quattro, tre delle quali alla fine decisero di abbracciare anch’esse le Regole dell’Osservanza.


Ancora nel maggio del 1559 il Consiglio dei Dieci dovette occuparsi dei fratelli Scipione e Aurelio Porcellaga diBrescia abituati a frequentare il Monastero delle Vergini. I Dieci stavolta intervennero tempestivamente e se la sbrigarono presto: alcune Monache compresa la Badessa vennero allontanate, trasferite in altri Monasteri e consegnate al Nunzio Pontificio per farle processare, mente i due arrestati vennero rilasciati e banditi fuori della Serenissima Repubblica.


Nel gennaio 1572 dopo la sua visita pastorale e ispettiva ai Monasteri di Venezia il Patriarca Giovanni Trevisan fu categorico: “… del mandato del Patriarca di Venezia sia commesso a tutte le Madre Abbadesse, Prioresse et Monache di cadaun Monasterio … che in virtu’ de Sancta Obbedienza et sotto pena de escomunicatione debbino obbedir al mandato del Patriarca del 11 gen 1565 altre volte intimidatori, di non ammetter né permetter che nelli parlatori si habbi a disnar, né mangiar per alcuna persona sii di che condizion e grado si voglia, né padre, né madre, né fratelli, né sorelle, né admetter maschere, buffoni, cantori, sonadori et de simili sorte persone sotto niuno pretesto, né modo, che immaginar si possa, né permetter che in essi parlatori si balli, né si canti né si soni per alcuna persona sii che si voglia …”


Nel luglio 1596 alla successive visita del Patriarca Priuli al Monastero delle Vergini si relazionò:“il Monastero delle Verzeni ha debiti per 3.000 ducati pur avendo grosse entrate … Che Mastro Paulo organista prattica troppo spesso e con troppa familiarità nei parlatori e che sempre che viene a Castello va alle Vergini si fa dar da mangiare et anco porta via de la robba doppo che ha mangiato …”

Nella stessa occasione le Monache da Coro delle Verginiriferirono al Patriarca:“… l’Abbadessa non si sa far ubbidir a dette Converse, le quali quando sono state cinque o sei anni nei Monasteri pretendono tanto quanto quelle da Officio rovesciando le gerarchie del Monasterio.”

Si considerava una delle cause del lassismo comunitario il fatto che le Monache mangiassero nelle proprie celle e non nel Refettorio comune:“… che l’estate la sera non si va a Compieta perché le Monache cenano a cinque e sei in cella e lo fanno spesso … che si consumano 600 e più stara di frumento all’anno essendo solamente 68 Monache … che si consuma gran farina in far bozzolai, fugazze et altre robbe quando si fa pane … che vi sono debiti di 3.000 ducati, e pure le entrade sono grosse …”


Il Patriarca spazientito ordinò che si facesse il pane fuori dal Monastero con un risparmio di 200 stara di frumento e che si pagassero gli operai solo in denaro e non con donazioni … mentre il Doge intimò alla Badessa e alla Monaca Portonera del Monastero “… di non permettere ad alcuno di cantare o far cantare musiche sacre o profane nel parlatorio o nella chiesa, ed erano in obbligo di deferire allo stesso Doge i nomi dei cantanti e denunciare chi avesse eseguito musiche per acqua nei contorni del Monasterio delle Verzene …”


Nel 1647 su commissione della Badessa Grazia Contarini, l’architetto Baldassare Longhena (lo stesso che costruì la Madonna della Salute)Andrea Caminelli eressero l'Altar Maggiore delle Vergini sormontato da uno splendido tabernacolo adornato con marmi di Carrara, pietre finissime e grandi statue, mentre Joust Le Court(l’autore delle statue con la Serenissima e la Peste poste sopra l’Altare della chiesa della Madonna della Salute) s’impegnò a costruire altre due figure, dei puttini con un festone nel parapetto, due “Vittorie” e due “Angioli negli angoli” che dovevano sostenere il baldacchino ... Prè Giovanni Battista Rovetta Maestro della Cappella Marciana chiese licenza al Doge per poter insegnare musica per quattro mesi alla NobilDonna Elena Pisani Monaca alle Vergini.L’ottenne e poi gli fu anche rinnovata ...il Nobile Benetto di Valerio Soranzo della Contrada di San Antoninfece educare le sue figlie da zie e prozie che erano Monache nel “Nobilissimo Monastero di Santa Maria delle Vergini… Nello stesso tempo, i beni che possedevano le Monache delle Vergini a Zimella furono dati in affitto a Giovanni e Marco Sacchiero, mentreil bosco a Santa Caterina di Musestre in cui era proibito tagliare i Roveri apparteneva al Monastero delle Vergini di Venezia, e il guardiano era autorizzato e pagato dalle Monache per usare a tal proposito anche lo schioppo ...Baldassare Galuppi e Giovan Battista Graziolimusicarono più volte la cerimonia di vestizione di una “Nuova Professa” del Monastero delle Vergini come si faveva già in molte altre occasioni.


A metà del 1700 secondo “i Notatori” del Gradenigo: “… grata di molto costo fu introdotta nella chiesa delle Monache Vergini penetrate da certa animosa e divota rivalità a confronto di altre grate modernamente apprestate in questi ultimi tempi dalle Monache di Sant’Anna e San Daniele nel Sestiere di Castello, con elaborate manifatture di ferro et altre eleganze indorate da primari artefici della dominante nostra. L’anno seguente poi con marmi rossi e verdi hanno reso il tutto più speciosi nei laterali ... Un famoso e sontuoso mosaico con immagine di San Giorgio possiedono le Nobilissime Monache dette le Vergini di questa Dominante. In essa la Nazione Greca si esibì d’acquistarlo con esborso di 200 scudi, ma gli fu negate …”


poi prosegue ancora:

… festa di ballo alquanto numerosa che duro fino alle nove ore della scorsa notte nel parlatorio delle Vergini a divertimento di quelle Monache, stante che danzarono più Gentildonne, più Cittadine, più Nobili ed alquanti della Signoria a suono d’ogni sorte di competenti strumenti e illuminazione, non senza distribuzione generosa di cose dolci …”


Ancora nel 1806 le 23 Monache Agostiniane delle Verginiavrebbero voluto “… rimanere al loro posto sino al termine dei loro logori giorni”, ma dopo aver ospitato le Monache dello Spirito Santo andarono ridistribuite e ricollocate in parte nel Monastero cadente di San Girolamo e in parte in quello stretto e angusto di Santa Giustina.


Il loro tempo era scaduto, e invano si offrirono d’ospitare altre comunità di Monache ... Ora era giunto il tempo di far spazio alle truppe della Marina Napoleonica che ne presero del tutto possesso.

In breve tempo l’ex Monastero delle Vergini divenne Bagno Penale Marittimo dei Forzati, il ricco Oratorio della Visitazione(di cui non vi ho detto, ma ci sarebbe da dire) divenne Corpo di Guardia, l’artistico Barco pensile intagliato del Coro delle Monache delle Vergini che girava tutto attorno alla Chiesa raggiungendo l’Altar Maggiore divenne prima Infermeria dei Forzati, e poi venne demolito perchè considerato troppo scomodo e ingombrante.

Infine fra 1844 e 1869 vennero rasi al suolo tutti gli edifici rimasti per scavare un nuovo Bacino di Carenaggio annesso all’Arsenale, mentre “Giardino e luoghi delle Vergini” vennero utilizzati come area di deposito di carbone e cisterne di combustibile per le navi.


Oggi delle Vergini rimane solo una parte di portale quasi invisibile infisso sui muri esterni dell’Arsenale a metà del Rio de le Verzene. Forse quel pezzo artistico stava un tempo all’entrata dei Chiostri del Monastero, e finchè non verra cancellato del tutto dale intemperie, si può ancora notare raffigurato un Dio Padre benedicente” e una Madonna fra San Marco e Sant'Agostino” con sotto un’iscrizione che dice:


“MDLVIII ADI II MA[r]ZO - SPES ET AMOR GRATO - CARCERE NOS RETINET - S. M. DELE VERZENE.”


Ho finito, e quasi concluso.


Ancora oggi esistono zone di Venezia non calpestate dall’orda dei turisti perché troppo distanti dalle fermate dei vaporetti, o perché troppo lontane per essere raggiunte camminando. Vengono considerate a torto posti poco significanti, con poco da mostrare, aree d’estrema periferia, “un po’ così”, dove è anche meglio non recarsi a certe ore.

Sono Contrade estreme di Venezia dove è facile trovare una lavatrice posta a scaricare in un Campiello fuori dalla porta della casa troppo piccola … Lì si potranno vedere case con finestre rotte e rattoppate da cartone e compensato, muri scrostati e senza dipintura e intonaci. Altre volte si vedranno pareti, callette strette e volte basse mangiate giorno dopo giorno dalla salsedine, ridotte a mucchietti polverosi sgretolati per terra e slavati via dalla pioggia.

Sono posti in cui l’acqua alta della marea torna e ritorna ogni giorno da sempre: la vedi salire, ristagnare come sospesa e poi scendere lentamente scivolando via in fondo al portichetto che poi si fa riva e infine basso canale.

Sono zone talmente periferiche dove certe parti non sono state mai neanche pavimentate … Ci sono mattoni infilati in terra tenuti insieme dalla stessa terra battuta, e le fognature ogni tanto o spesso invadono gli spazi andando a grondare nel vicino canale, un po’ come le grondaie contorte e divelte dai tetti che vanno a scaricare dentro a un bidone lasciato lì quasi da sempre. I tubi del gas s’arrampicano sui muri come quelli dell’acqua capaci di diventare improvvisamente canna di gomma buona per innaffiare tutte le piante e il verzume posto negli angoli comuni della piccola Corte.

Sopra ai tetti bassi c’è un’unica antenna della televisione flagellata e incurvata dal vento a cui sono allacciati un po’ tutti, e come segno della modernità c’è anche saltuariamente una parabolica appoggiata per terra accanto allo stendino della biancheria multicolorata di qualche studente alloggiato in un pianterreno scuro e umido.


“Esistono ancora angoli del genere a Venezia ?”

“Certo ! Esistono eccome … Provate ad avventuravi fino a lì in fondo e andare a vedere ... Piazza San Marco, Palazzo Ducale e Rialto sono solo eco lontane … Lì è tutta un’altra cosa.”


La gente che potrete incontrare assomiglierà un po’ ai posti ... Ci sarà la vecchierella senza tempo, zitella o vedova “ab multos annos”, che pioggia o sole, neve o acqua alta, uscirà fuori dalla sua casupola in ciabatte e consunta vestaglia da camera per ramazzare, capelli radi “sparati in aria o inbigodinati”, i pochi metri quadri “di sua pertinenza”davanti alla porta di casa. Non mancherà di parlare con i Geranei e con i vari vasi di Piante e Fiori che collocherà ogni mattina all’aria e in mostra ... le sembrano quasi sue creature, come sarà normale vederla familiarizzare con i gatti: veri padroni di quelle Contrade solitarie.

Sempre la stessa nonnetta socchiuderà “a libro” gli scuri sgangherati delle sue finestre nelle ore più torride del giorno per proteggersi gli occhi acquosi e stanchi … e accenderà la luce in casa solo all’ultimo istante, quando le luci della sera saranno talmente flebili da obbligarla a procedere a tentoni nei suoi spazi ridottissimi.


E’ una Venezia che c’è e non c’è, o che forse non c’è quasi più. Frammenti di una Venezia che finirà col scomparire insieme a quell sempre più rare vecchiette … Le Cronache di ieri descrivevano la Contrada di San Piero: “Zona de miseria, masene e scoazzere, un grumo de case grezze, basse e scure … Posti da prostitute, pescatori e nullatenenti che s’industriano ogni giorno tentando in qualche maniera di sopravvivere …” ma era pur sempre anche il posto dei Canonici di San Piero, del Campanil del Contrabbando e delle interessantissime Monache delle Vergini.


“LE MONACHE NERE DI SAN ZAN LATERAN …”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 95.


“LE MONACHE NERE DI SAN ZAN LATERAN …”


Ci sono posti a Venezia che non esistono … ma ci sono. Li hai sotto gli occhi, ci passi davanti e accanto mille volte, eppure non li vedi. Forse perché sono offuscati dal tanto fulgore e dalla bellezza di tanti altri luoghi più celebri, o forse perché di loro sono rimaste poche tracce, qualche segno sbiadito, qualche muro quasi insignificante … Eppure sono ancora là, sono quelli, quasi gli stessi, e hanno tantissime cose nascoste da svelare e raccontare … se solo si volesse ascoltare un poco e soffermarsi ad osservare in maniera diversa … forse curiosa.

Fra tutti quei posti di Venezia diciamo “un po’ speciali”, ce n’è uno che ufficialmente non esiste più ed è solo un luogo, un nome posto su una Fondamenta affacciata su un Canale che porta lo stesso titolo. E’ un posto che c’è e non c’è, perché se andrete lì ad osservare con attenzione vi accorgerete subito che c’è qualcosa che non torna. Lì deve essere accaduto qualcosa di diverso, e quei “muri strani di palazzo non qualsiasi” devono avere di certo qualcosa da rivelare e raccontare, anche se non molto da mostrare.

Qual’è e dov’è questo posto ?

Si tratta di un canale del Sestiere di Castello, parallelo alla Barbaria delle Tole, poco prima del Palazzo dei famosi e ricchi potenti Nobili Cappello, e proprio di fronte a quello che è stato dei fieri e ricchi Nobili Morosini. Si trova sulla Fondamenta e Rio di San Giovanni in Laterano, dove un tempo esisteva: “Cjesa e Monastiero dele Muneghe Nere”che oggi non ci sono più.

Se troverete tempo e voglia di vagabondare per Venezia fino a spingervi in quella zona remota e solitaria, scoprirete una riva che va a finire nel niente, un vecchio portale massiccio murato, e un basso edificio tagliato dalle fondamenta in pietra possenti dentro a una stretta calletta … Quella era la chiesa delle Monache di San Zàn Lateràn.

Contornando lo strano palazzo, noterete anche i resti di un giardinetto “morto” che trasbordano fuori oltre un alto muro: quello era il “Giardino delle Muneghe”… e guardando ancora meglio vedrete anche che la Fondamenta ha una pavimentazione insolita e differente, e che è tutta occupata da un alto palazzone con grosse sbarre poste su file sovrapposte di tozze finestre tutte uguali e squadrate, davvero insolite per un palazzo Veneziano qualsiasi. Quello era infatti l’antico Monastero di San Giovanni in Laterano, oggi perfettamente mimetizzato fra le case di quel che è stata quell’antica Contrada.


Il nome di Monastero di San Giovanni Battista in Laterano venne presto sintetizzato dai pratici Veneziani in: San Zan Lateràn, e come quasi tutti gli altri Monasteri di Venezia era “patrocinato”,sovvenzionato e protetto dalle antiche Famiglie Veneziane ricche, nobili e potenti dei Nani e dei Cappello che vivevano proprio lì accanto, distanti pochi passi.

Vien da se ripensando al nome, che il sito s’ispirasse alla Basilica dei noti Canonici Lateranensi di Roma. Infatti è stato proprio così, i Canonici Romani erano padroni del posto a Venezia, ed eleggevano a vita e a loro piacimento un Prioreche gestiva il Beneficio-Monastero ricevendo 21 ducati annui pagati dalla Nobile Famiglia Patrizia Veneziana dei Da Lezze. Domenico Da Lezze, infatti, aveva fatto antiche donazioni al Capitolo dei Canonici Lateranensi di Roma, fra cui anche 2 campi di terra nel Trevigiano oltre all’appezzamento Veneziano.

Fa un po’ confusione, quindi, e forse sbaglia lo storico Galliccioli quando riferisce che il posto di Venezia si chiamava San Giovanni Terràn o Terratoper via di un’antica tomba di terra detta “teràn”.


Ma tornando alle “Muneghe Nere”, all’inizio di tutto come spesso accadeva a Venezia, c’era stato in zona una specie di primitivo “catapecchio Sacro” di tavole, un Oratorietto mezzo impaludato in questo caso dedicato alla Madonna dell’Umiltà… Qualcun altro in seguito ha parlato di “altarolo”leggendario inserito “sotto al Barcodell’Oratorio” dove in passato avrebbe celebrato Messa Papa Alessandro III di passaggio per Venezia.

Di reale esiste solo un accordo in data 11 ottobre 1216, fra il Capitolo dei Canonici Lateranensi di Roma ed il Rettore di una chiesa Veneziana: don Stefano Gaspare.

Vero o no che fosse tutta questa antica leggenda … sembra insomma, che ancora che nel 1488 in una casa vicina all’Oratorietto vivessero delle: “… vecchie donne decrepite dette Romite di San Agostino, forse le Eremite più vecchie dell’intera Laguna Veneziana …” già ospitate come Monache nel Convento di San Rocco e Santa Margherita esistente vicino al chiesone di Santo Stefano, e poi messe lì a vivere per conto proprio accanto a quell’Oratorietto vecchio come loro.


Qualche anno dopo quando ormai le Monache godevano anche dell’appoggio dell’Ambasciatore Veneziano a Roma, un tale Frate Gerolamo dell’Ordine dei Domenicani Predicatori di Venezia (i “Mastini di Dio”, che vivevano distanti solo pochi passi) ottenne dal Papa indulgenze pontificie per i benefattori dell’Oratorietto con la condizione che le elemosine raccolte fossero impiegate per risanare i poveri edifici in degrado dove vivevano le vecchierelle similMonache.


Poi accadde “a ruota” quello che spesso succedeva a Venezia per le Nobili Monache: alle porte del nuovo secolo 1500 venne donato alle Eremite da parte di Don Benedetto di Monte Fiasconeabitante a Venezia un terreno in parte paludoso confinante coi beni di Giuliano De la Palada e delle vicine Monache ricche e potenti di San Lorenzo di Castello. Al Capitolo Lateranense di Roma, invece, s’iniziò a pagare un affitto annuo perpetuo di “un censo di 12 libbra di cera bianca la vigilia della Natività di San Giovanni Battista in giugno”, e in cambio si potè iniziare a costruire in quel posto una nuova “chiesa con convento” col titolo di Santa Maria e San Giovanni Battista in Lateràn.

Nel dicembre 1504 dopo la solita girandola di donazioni e lasciti, tutto era ormai pronto, e le ex “Eremite vecchierelle”nominarono entusiaste la loro prima nuova Badessa: Mattia di San Servilio.Da Roma i Canonici Lateranensi approvarono, e replicarono dicendo pressappoco: “Bene ! Brave ! … Ma da adesso, visto che navigate in buone acque, inizierete a pagarci un censo annuo doppio, ossia 24 libbre di cera bianca, o se preferite 4 libbre di perfetto Zafferano … mentre il Signor Sebastiano de Pezzati godrà il Beneficio col titolo di Priore dell’ex Oratorietto percependo i soliti 22 ducati che gli verranno versati come sempre dalla Nobile Famiglia Da Lezze di Venezia”.


Una classica storia Veneziana mi direte … Una delle tante. Vero, è andata proprio così !


Infatti, all’inizio in quel posto non accadde nulla di speciale se non qualche baruffa e contenzioso con i vicini Nobili Morosini che abitavano “al di là dell’acqua, di fronte alle Monache”, ai quali le Monache dovevano 170 ducati d’affitto arretrato e mai pagato per un pezzetto di terra dato in uso. Il Nobile Sjor Antonio Morosini figlio di Michiel del Ramo della Schiavina che doveva essere un tipetto focoso, spazientito per l’attesadegli arretrati dell’affitto,andò giù pesante con le Monache buttando giù un muro che avevano costruito sopra quello che era il suo terreno. Perciò le donne furono costrette a rattoppare il loro Monastero con tavolacci di legno “per non trovarsi spalancate verso la pubblica strada”.

Ordinarie beghe Veneziane … Senonchè, come capitava spesso a Venezia, prese fuoco tutto e le vecchie Monache dovettero andare a cercare rifugio in giro per gli altri Conventi e Monasteri di Venezia, mentre di San Zan Lateràn rimase solo un cumulo di macerie e rovine fumanti.

E come nelle fiabe: passarono anni su anni, e quando venne il momento di rientrare nel Monastero rimesso a posto, gran parte delle Monache o perché troppo vecchie per spostarsi ancora, o perché si trovavano bene a vivere altrove dov’erano, non vollero più tornare in San Zan Lateràn.

Ne ritornarono solo due: Clementina Corona che divenne Badessa per la maggiore età, e la Monaca Ottavia Zorzi l’unica a sopravvivere alla fine della fine. Non si sa bene come, in breve tempo la Monaca riuscì quasi dal nulla con l’aiuto spirituale e materiale del Patriarca Antonio Surian a rinnovare e allargare gli ambienti annettendo diverse caxette vicine, e a mettere insieme ben cinquanta nuove Monache giovani e pimpanti … anche fin troppo.

In realtà Ottavia Zorzi morì quasi subito di febbre maligna in 7 giorni a 60 anni lasciando nel Monastero le prime 5 nuove Monache che non erano apparse dal nulla, ma si trattava di due Monache Professe e due Converse trasferitesi lì dal Monastero Benedettino dell’isola di San Servolo in Laguna. Da lì proveniva la Monaca Scolastica ossia Nicolosa Borsa di Modone cheera già stata Badessa, e costei divenne perciò la nuova Badessa del Monastero di San Zan Lateràn che dalla Regola Agostiniana iniziò a seguire la Regola Benedettina.


Ecco allora spiegato l’epiteto di “Monache Nere di San Zan Lateràn” affibbiato dai Veneziani delle vicine Contrade … Si riferivano all’abito nero da Monache Benedettine delle nuove arrivate, e non chissà a quali altre astrusità, stravaganze e malignità fantasiose e “noir” che si andavano già raccontando in giro per Venezia su quelle donne.

Infatti le nuove Monache all’inizio vissero in maniera esemplare, tanto che il Patriarca Marco Antonio Contarini prese qualcuna di loro dalla “vita Santa”, e le mandò a riformare il Monastero “scapestrato e ribelle”di Sant’Anna di Castello. Questo anche perché le Monache di San Zan Lateran cresciute ormai di numero non ci stavano più dentro nello stretto Monastero: “… l’anderà parte che attrovandose in questa nostra città un Monasterio de donne Observante quale de vita religiosa ma povera de canto a San Zuane Laterano che abitano in un loco incomodo et piccolo del qual pagano fitto, et è Convento attrovandose un altro Monasterio amplo, di donne di Sant’Anna Conventuale, le Monache di Sant’Anna con questa conditione che sia facoltà de quelle donne di Sant’Anna che vorranno intràr in quella Religione de San Zuane Laterano poter farlo …”


Comunque, sapete bene come vanno le cose: capita quasi sempre che se si fa del bene e ci si “comporta a modo” non si fa notizia, e tale comportamento viene considerato da tutti normalità e cosa dovuta. Il fatto che le Monache di San Zàn Lateràn fossero buone e brave, e primeggiassero per coerenza e interiorità in realtà non interessava più di tanto aiVeneziani e alla Serenissima ... almeno finchè la fama delle “Monache Nere di Venezia” divenne per davvero “nera” attirando l’attenzione di tutti.


Nel marzo e aprile del 1555 i Provveditori Sopra i Monasteri della Serenissima dovettero intervenire a causa di alcuni episodi di “scarsa morigeratezza” accaduti presso le Monache di San Zàn Lateràn che vennero così inquisite. Dai verbali dell’indagine risultò che: “… un secolare fu trovato a letto con una Monaca e poscia fuggito insieme a lei …”

Si trattava della Monaca Faustina figlia illegittima di Francesco Polo fuggita per la terza volta dallo stesso Monastero e sospettata anche d’essere incinta. Secondo il padre interrogato dai Magistrati, era stata inizialmente la zia Tadia Monaca al San Teonisto di Treviso a indurre la nipote a convivere con lei nel Monastero come educanda. Il patrigno riferì d’averla più volte dissuasa dal seguire quel tipo di vita, cercando anche di distrarla portandola persino al Carnevale di Venezia. Ma Faustina aveva pianto e aveva voluto tornare al Convento a tutti i costi, perciò a lui non era rimasto nient’altro da fare che versare al Monastero una dote di 200 ducati e far vestire alla figliastra l’abito nero da Monaca di San Benedetto.


Morta la zia Monaca però, Faustina diventata ormai Monaca Professa da Coro, iniziò ad avere liti e contrasti con tutte le altre Monache del Monastero di Treviso che secondo lei la perseguitavano. Per questo un giorno Faustina fuggì con un cugino a casa di una zia materna, perciò il patrigno fu costretto ad andarla a prendere e trasferirla nel Monastero di San Zàn Lateràn di Venezia.


Altro che perseguitata dalle altre Monache ! … Qui poco dopo Faustina ebbe una relazione con un dipendente del Monastero: Francesco delle Crosette con quale fu scoperta a letto anche qualche anno più tardi.

Le Monache di San Zàn Lateràn interrogate dai Magistrati della Serenissima testimoniarono che il Crosette era “figlio del Convento”,una specie d’impiegato tuttofare del Monastero con mansioni diverse a seconda delle necessità: “… trasportava acqua e materiali edili aiutando i Mureri per i restauri del Monastero, aiutava le Monache a fare il pane … e andava in giro per Venezia anche dieci volte al di quando le Monache chiedevano per i loro bisogni …”

Suor Zuana di Tomasi testimoniò agli Inquisitori: “… veniva qualche volta a far qualche servizio per il Monastier, perché l’aveva anche una sua ameda nominata la Mare Suor Serpahina, che è la Priora di questo Monasterio ... Et così el prese poi amicitia con la detta Monaca Faustina … el parlava spesso con la ditta, et steva purassai qua in Parlatorio, et diceva a noi altre che essa lo mandava in diversi suoi servizi …”

Entrambi erano già fuggiti per i tetti due anni prima, appena arrivata la Monaca Faustina presso San Zàn Lateran. I vicini testimoniarono che furono costretti ad aprire una botola sui tetti per farla scendere, e la Monaca li supplicò dicendo:

“… aiuteme per Amor di Dio, che se voi non mi aprivi così presto, me voleva gettar giù dai coppi perochè son stata mesi sei in prigion sotto la scala del Monastero di San Zàn Lateràn …”

La Monaca in fuga spiegò ai vicini della Contrada Veneziana che aveva un posto dove andare a rifugiarsi e anche un marito che la stava aspettando. Un’altra Monaca di San Zàn Lateràn, infatti, confermò durante l’indagine che la Monaca Faustina aveva effettivamente ricevuto una promessa di matrimonio da parte di un uomo che successivamente venne per questo bandito da tutto il Territorio della Serenissima.

Francesco delle Crosette, infine, testimoniò a sua volta che il patrigno di Faustina l’aveva strappata al marito, e lei stessa finì col dichiarare che il padre e la matrigna l’avevano costretta a monacarsi controvoglia imprigionandola in quella vita di supplizio.


Però ! … Che storia ! …  e non fu tutto, perché nel gennaio e marzo 1556 accadde un’altra: “… tresca scandalosa di un Prete coll’Abbadessa ed altre Suore di San Zàn Lateràn con testimonianza di una tale Suor Vittoria presente in tale Monastero da 40 anni …”


Finchè nel febbraio 1573 più di qualche Veneziano andò in giro gridando “di un segno della Provvidenza e castigo delle Monache da parte della Giustizia Divina”, perché un fulmine a ciel sereno e fuori stagione si abbatté sul Monastero incendiandolo e facendo ardere tutto, rovinando tutti gli edifici, incenerendo l’Archivio, i documenti e le scritture e costringendo le Monache a rifugiarsi in parte a Sant’Anna di Castello, in parte ad Ognissanti di Dorsoduro e a San Biagio della Giudecca. Nell’incendio morirono ben 7 Monache compresa la Badessa Serafina Molin: “… a seguito dell’incendio dei giorni passati si era verificata la compassionevole morte di molte monache, et dal qual sono scampate fino al numero di sei, le quali per fuggir la morte si sono precipitate nude dalli tetti d’esso monasterio con manifesto pericolo …”


Passata l’ennesima burrasca … per il San Zàn Lateràn fu di nuovo un “crescendo fortunato” perché elemosine e donazioni permisero al Procuratore del Monastero Vincenzo Datis Senser de Biave di acquistare dai Savi ed Esecutori alle Acque nuovo terreno di risulta dalla realizzazione delle Fondamente Nuove spendendo 2.240 ducati e grossi 10 … All’inizio del 1600 le Monache affidarono al banchiere Antonio Strozzi altri 6.436 ducati “da farli girare sopra i cambi”, e il capitale venne restituito alle Monache qualche anno dopo maggiorato di 800 ducati liquidi d’interesse … Alla fine del 1612 la nuova fabbrica del Monastero era terminata spendendo 14.200 ducati … “Ruggeri Ruggero figlio quondam Bortolomio, Mercante Drappier insieme a suo fratello Alessandro nella bottega in Drapperia “All’Insegna dei Tre San Marchi”, per testamento lasciò una casa in Contrada di Sant’Aponal affittata al Libraio e Stampatore Gasparo Bindoni, alcuni Livelli su campi di Maerne di proprietà di Franceschina degli Accesi Pizzocchera a San Francesco della Vigna, e un quadro “dell’Annunciata” al Monastero di San Giovanni in Laterano.”

Anche il Consiglio dei Dieci decretò nel maggio 1663 che “… alle Monache fossero dati in elemosina 509 legni del Montello … portati e contati entro il 29 agosto da Toedoro Zanetti onde possano servire per pali in una fondamenta della fabbrica che vanno costruendo.”… e il Murer Andrea Fanelo, il MarangonGiorgio Fossati, il Scalpellino Giacomo da Par Gastaldo dell’Arte dei Tagjepiera demolirono tetti e scale e infissero 5.255 pali per le fondazioni, e continuarono alzando di tre piani tutta la costruzione costruendo il chiostro con portici e terrazza, travature portanti, solai e centine del quadriportico, colonnette, elementi lapidei e balaustre … “il Fravo Plati All’Insegna della Madonna del Carmine procurò la ferramenta per la scalla in bovolo per le Reverende Muneghe de San Zan Teràn … Antonio Moreschi percepì 9.000 lire per archi e chiavi, colonne, peducci, stipiti, soglie ed architravi per finestre, porte e portoni, e Luca di Bianchi realizzò il pozzo con vera con colonne e scalini … il Terrazzer Giovanni Longo suddivise fra terzi, pavimenti interni e terze sopra il quadriportico e lavori minori ... Zanne Cavazà pavimentò in cotto il Refettorio in bianco e rosso a 14 lire al passo, e gli ambienti al pianterreno e le ali del chiostro ...”


Il Senatoinoltre, autorizzò le Monache ad entrare in possesso di 6.400 ducati offerti da Gerolamo di fu Tommaso dei Nobili Morosini… e il Monastero continuò a ingrandirsi ed espandersi fino al 1728 acquistando tutto l’acquistabile degli edifici confinanti comprese alcune casette contermini rovinose per passi otto di lunghezza e per passi dieci in larghezza sopra le quali si poteva fabbricare ulteriormente … le Monache attraverso la Badessa Chiara Garzari acquistano per 4500 ducati alcune case vicine al Monastero di proprietà di Piero fu Zuanne Minotto e altre case circonvicine ... Il Nobilissimo Vincenzo di Gerolamo Cappello presentò una supplica al Serenissimo Doge per poter acquistare una casa contigua al Monastero che sarebbe pervenuta alle Benedettine per fabbricare delle nuove celle e altri luoghi necessari tramite la Monacazione delle figlie Maria e Laura … Antonio di Zanne dalla Malvasia “… per agiutare esso Monasterio nel presente bisogno della fabbrica che fanno dette Rev.de Madri … ha sborsato ducati 200.”… La Monaca Franceschina Zonlasciò al Monastero diversi stabili in città, beni alla Badia et Bottenigo, depositi al Sal, al Dacio del Vino e capitali in Zecca valutati 11.200 ducati e contanti e preziosi per altri 478,14 ducati. In cambio chiese d’essere sepolta nel Monastero, e che si rileggesse il suo testamento ad ogni elezione di nuova Badessa, scrivendo una lapide e facendo officiare diverse Mansionerie di Messe pagate in perpetuo. 


Il Monastero di San Giovanni in Laterano divenne insomma uno splendore, e continuò ad ospitare come educande il fior fiore fra le figlie della Nobiltà Veneziana che contava: Zorzi, Nani, Avanzago, Bragadin, Basegio, Crotta, Donà, Tiepolo, Dandolo, Flangini, Pisani, Soranzo, Contarini, Cappello, Da Lezze, Baglioni, Corner della Regina, Mocenigo, Corner Piscopia e Ruzzini.

Per ben 63 volte le figlie di questi Nobili coprirono la carica di Badessa fra 1578 e 1797. Entravano nell’Educandato tra gli 8 e 12 anni pagando una retta annuale di circa 100 ducati ciascuna, e i Nobili rinsaldavano i legami fra loro con matrimoni incrociati delle ragazze che erano state educande in San Zàn Lateràn.


Si stava bene in San Zàn Lateran, come raccontava e scriveva la Monaca Lucrezia Baritta: “… habbiamo pane, vino, manestra e fuogo dal Monasterio, e tre volte la settimana un poco di carne eccetto che nell’Avvento e nella Quaresima … Così anco in tempo di malattia, il Monastero non paga Medico, né medicine, né altro… e il Monasterio ha fatto ampliamento della Spicieria per levar l’aggravio considerabile di pigliar medicine da altre spezie fuori del monastero … una Monaca si mise a distillar acque medicinali e far altre composizioni di solievo delle inferme …”


Infatti, il Mercante da Colori Zaccaria Perini ci mise dentro come educande le figlie Isabetta e Chiara che visse nel Monastero fino a 82 anni … I Conti Sceriman che abitavano a ridosso del Monastero le figlie Regina ed Elena ... Antonio Cavagnis  Mercante da Bergamo mandò educande Bortolacon le sorelle Angela e ReginaMartino Moscheni Mercante mandò le tre figlie di 8, 9 e 10 anni … il Nobile Tommaso di Nicolò Morosini della Sbarra le 3 figlie Adriana, Maria e Chiara… Andarono educande anche Chiara e Pisana Da Lezze che entrarono a 5 e 7 anni vestendo l’abito delle Monache insieme alle zie e Consorelle Maria Chiara Celeste e Maria Fortunata mentre il fratello Andrea Da Lezze sposò a sua volta un’altra delle educande ospite del Monastero di San Zàn Lateràn.


Ancora fra 1717 e 1728, quando nel Monastero vivevano 80 donne fra Monache ed Educande, le Monache acquisirono ulteriori case vicine e parti dell’isola comprandole dagli eredi Molin, Franceschi e Calbo Minotto allargando l’area del Monastero Nuovo.  Nel giugno 1728: “… si spesero ancora 16.892 ducati per restaurare il Monastero di ogni sorta di materialli, compresi li materialli vecchi di ogni genere, pagando compreso il disfacimento: Tagjapiera, Mureri, Fravi, Terrazzeri, Verieri, Burcieri per condur via rovinassi, far fori de armadure, far pallade nelli due canali occorendo pur le nuove fondamente …”


Verso metà del 1700 però si ruppe e bloccò qualcosa, cambiarono i tempi, e i modi di vivere e “sentire” anche dei Veneziani.

Quando Pietro Trevisan detto Vettorello barcarol dallaZuecca di anni 44 venne impiccato per ordine del Consiglio dei Dieci perchè aveva strangolato un altro barcarol detto Tombola sotto il Ponte di San Giovanni in Laterano rubandogli tutto, le educande del Monastero di San Zàn Lateràn s’erano ormai ridotte a circa sette in tutto contro le usuali 16, mentre iniziarono anche a diminuire le vocazioni e le monacazioni … Le Monache lamentavano sempre più penuria d’elemosine che annualmente riscuotevano da benefattori sempre più scarsi di numero: “… al cantone ove ora è il ponte di San Zàn Lateran già pochi hanni v’era un Immagine sotto a cui era posta una cassella scrittovi sopra elemosina per il Povero Monastero …”

Il Monastero un tempo illustre versava quasi in miseria, e nonostante le ancora “Nobili Monache” si autotassassero per provvedere ai necessari e sempre costosi restauri, il Monastero versava in situazione finanziaria scadente, e la situazione debitoria lo costrinse a vendere alcune argenterie sacre considerate superflue, e si vendettero anche alcuni “fili di perle e i manini antichi della Vergine” per pagare “la facitura” di certi quadri, e “il servizio” della chiesa.


L’8 maggio 1797 Maria Luigia Ruzzini iniziò il suo mandato triennale di Badessa di San Zàn Lateran con 7 voti a favore delle Monache: Pisani, le due sorelle Frari, Valatelli e Morosini succedendo alla zia Maria Teresa Ruzzini che aveva governato il Monastero per ben sei mandati consecutivi e ininterrotti dal 1779 fino alla morte del 1797.

Nel mese seguente avvenne l’ultimo Capitolo della Storia del Monastero durante il quale si decise per la prima volta d’accettare come Monaca la “non Nobilee Cittadina Antonia Giorda” ... Si era ormai al declino definitivo.

In luglio dello stesso anno, infatti, la Badessa fu costretta a consegnare controvoglia biancheria per rifornire gli alloggi delle Truppe Francesi giunte in Venezia e dislocate nel Monastero di Santa Maria dei Servidi Cannaregio. Offrirono costrette: 6 paia di lenzuola, 12 intimèle, 12 sugamani e 24 tovaglioli ricamati.

In ottobre le 8 Monache Professe e 14 Converse “da scàfa” di San Zàn Lateràn erano ormai ridotte alla fame, tanto che la Deputazione alla Istituzione della Casa Patria inviò loro 620 lire per scaldarsi e comprarsi da mangiare. Un’anziana Monaca di 83 anni morì di tubercolosi polmonare e venne sepolta dentro al Monastero ... Finchè alla porta di San Zàn Lateran giunse a bussare un certo “Sjor” Napoleone.


San Zàn Lateràn delle Monache Nere, infatti, vantò il triste record d’essere stato il primo Monastero di Venezia ad essere chiuso e soppresso dai Napoleonici: le Monache vennero trasferite al Sant’Anna di Castello dove c’erano ad attenderle le poche Consorelle rimaste, così che divennero: 18 Monache Professe e 27 Converse ossia 45 donne in tutto.

San Zan Lateràn divenne caserma … e molto tempo dopo Archivio Notarile … e poi finì in grande, tristo e totale abbandono e rovina.


Oggi San Zàn Lateran non esiste più … è luogo di scuola risistemato, tranquillo liceo di studenti e studentesse chini più o meno sui libri. Non ci sono più le Monache che “fuggono per i tetti” o “imprigionate sotto alla scala a bovolo” del Monastero. San Zàn Lateràn è solo un posto di Venezia quasi anonimo, che nasconde segreti assopiti, vecchie storie sussurrate al vento colte da chi è disposto a tendere l’orecchio e strizzare l’occhio della mente per ascoltare e individuare qualche fantasma trasparente, qualche monito e ricordo fra le inesauribili pieghe traboccanti della Storia della Serenissima.


Sàn Zàn Laterànè muri e ombre che stanno ancora là … Se solo potessero parlare e raccontare …



“FISOLO … PERSA IN FONDO ALLA LAGUNA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 96.


“FISOLO … PERSA IN FONDO ALLA LAGUNA.”


E’ un quasi insignificante affioramento dall’acqua, una motta di terra o poco più. Non verrebbe neanche da chiamarla vera e propria isola nel senso che diamo alle nostre belle isole lagunari che ci passano per la mente. Io di isole me ne intendo … sono Buranello oltre che Veneziano, e quindi sappiamo bene che cos’è e come si vive in un’isola vera e propria.

Mi piace però una volta tanto considerare un posto del genere, quasi al limite di quello che è l’orizzonte ricchissimo della nostra monumentale Storia Serenissima e Lagunare che è un pozzo senza fondo pieno di bellezza, vicende, persone e cose incredibili.

A Fisolo non c’è niente.

Le Enciclopedie di Ornitologia Lagunare dicono: “Fisolo Canariòl o Sfisoèo de Mar è un uccello acquatico apparentemente senza coda, simile a Gabbiano, Tuffetto o piccolo Svasso … Etimologia dall’origine incerta … mentre per Fisolèra s’indica una peàta piccola e bassa usata dai Barcaroli per portare poche persone …”

I Veneziani di ierihanno quindi chiamato l’isoletta:“Fisolo”proprio come quel piccolo uccello palustre delle barene che si chiama allo stesso modo. Quindi Fisolo indica qualcosa di minuscolo, leggero, libero, quasi gentile, selvatico e solitario nella Laguna come lo è quel piccolo uccelletto che ancora oggi svolazza sopra le nostre terre emerse e bagnate insieme.

Mi piace quel posto senza niente … un paio di coordinate geografiche nella Laguna di Venezia a: 45°21′47″Nord e 12°17′27″Est, poco distante dalla Bocca di Porto di Malamocco e degli Alberoni, e a poche centinaia di metri dall'Ottagono Abbandonato e dalla ex Batteria Poveglia(che non è la famosa isola di Poveglia) … Un microluogo senza storia insomma: niente persone, case, chiese … niente di niente. Solo qualche briciola di storia raccontata in poche righe quasi misteriose e commoventi.

Fisolo mi ricorda le mitiche isole perse della Laguna di Venezia, quelle sommerse prima ancora delle famose Ammiana e Costanziaco. Nomi di Isole che quando le sentiamo dire ci lasciano a bocca aperta perché quasi non ne abbiamo mai sentito pronunciare il nome: Gajada o Gaja, Verni, Albiola, Basegja, Castrasia, Marcelliana, Olivaria, Monte San Martino, Falconara, Abbondia o Vigilia, Sant’Antonio Abate o della Laguna, Correggio o La Mara, Fogolana,Bevenara e altre ancora mangiate dal Tempo passato.


“Fisolo o Forte di Sotto”è una superficie emersa di poco più di 6.200 m² sul Canale Re di Fisolo, ed è una voce-argomento assente o: “ancora in abbozzo che necessita di ulteriori notizie e precisazioni”, sia nelle Enciclopedie di carta che nei Motori di Ricerca online di Internet che sembrano sapere sempre tutto di tutti.

Le uniche notizie recenti che riguardano quella microisola sono che oggi è inserita nel “Piano di recupero morfologico delle Isole Minori” curato dal Magistrato alle Acque di Venezia che si limita alla messa in sicurezza degli argini per preservarli dall'erosione posizionando blocchi in marmo d'Istria lungo tutto il suo perimetro e lasciando a Verde selvatico il suo interno.

L’altra notizie è che quasi ogni anno in maggio si realizza in quella zona sperduta della Laguna la “Regata dei Fortini” riservata alle barche a velasul percorsocon partenza dall’Isola di Santo Spirito, andando versoFusina: area lacustre della perduta isola di San Marco in Boccalama, passando accanto a Poveglia, e fino a doppiare appunto Fisolo per arrivare infine verso Malamocco oltre l’Ottagono Abbandonato. Qualche anno fa l’evento è passato nella Cronaca di Venezia perché i Pompieri sono dovuti correre a recuperare un regatante che si era capovolto appunto doppiando Fisolo... che se la rideva divertito, mentre il regatante no.


Di antico si dice ben poco su Fisolo: si sa che la Repubblica Veneta fin dal 1347 eleggeva Tre Savi o Provveditori di Terra poi divenuti Magistrati di Sanità con compiti di Polizia Sanitaria Marittima, ed era abituata a confinare in Quarantena navi e carichi eventualmente infetti o sospetti nei Canali di Fisolo e Spignon, mentre le persone e i Marinai li mandava nell'isola di Santa Maria di Nazareth, il Nazarethum o Lazzarethum delle Contumacie.

Nel gennaio del1735 “more veneto” fu redatta dai Periti della Serenissima Boschetti LorenzoIngegnere e Vice Proto e da Piccoli DomenicoPerito ai Fiumi e Proto una relazione con disegno dell’affioramento anche di Fisolo accuratamente misurato in lunghezza e larghezza, e con aggiunte le misure degli scandagli nella zona circostante del Canale di Campana e Re del Fisolo.

Nell’agosto 1750, invece, la Serenissima decretò: “Permettendo circostanze del tempo e dell’acqua, obbligato ammiraglio Malamocco condur bastimenti in una sol volta al loro luogo: li provenienti da luoghi infetti in Fisolo, quelli di minor sospetto in Poveglia.e già nel 1797 da una lettera del Provveditore alla Lagune e ai Lidi, il Nobilomo Zuanne Zusto, risultano già costruiti i nuovi sette fortini in legno costruiti su pali e con pareti in muratura a difesa della città di Venezia.

Nel gennaio 1811, Bernardino Zendrini Matematico della Repubblica Serenissima di Venezia raccontò e stampò presso la Stamperia del Seminario di Padova: “Delle memorie storiche dello Stato antico e moderno delle Lagune di Venezia e di quei Fiumi che restarono divertiti per la conservazione delle medesime”.

In quelle “memorie di tipo più idraulico che storico” fra le tante cose curiose si raccontava che: “… Fisolo era zona di mulini ad acqua dove le loro code deviavano il flusso delle acque e delle correnti provenienti dalle paludi di San Marco in Boccalama …40 anni appresso c’era un piccolo canaliolo quasi secco, ora si è piuttosto allargato a 20 passi e 11 di profondità …”


E siamo già a Fisolo Batteria-Cannoniera da Guerra dell’epoca dell’occupazione Austriaca di Venezia. Una delle quattro batterie più piccole di forma semicircolare, faceva parte del complesso di Difesa Lagunare e della Terraferma Mestrina, ed era adibita al controllo della Bocca di Porto degli Alberoni. Si allineavano sette Batterie poligonali con bastioni, terrapieno, polveriera, casermetta e piattaforme mimetizzate dei cannoni collocati all'interno, che in seguito divennero otto: Fisolo, Campana, Poveglia e Trezze nella Laguna Sud; Campalto, Tessera, Carbonera, Buel del Lovo o Batteria San Marco nella Laguna Centrale o Nord.

Durante la Seconda Guerra Mondiale anche Fisolo divenne bunkerdi cui sopravvivono ancora le rovine, rafforzato intorno da “un giro di scogliera artificiale in bianca pietra d'Istria”.

Oggi l'intero isolotto di proprietà privata è in totale abbandono, ridotto a un ammasso di pietre, pochi ruderi, tracce di basamenti e pavimentazioni coperti da Rovi e basse Robinie frequentato da qualche imbarcazione occasionale e da rari turisti nella stagione estiva. Il perimetro dei massi bianchi rende l'isola facilmente riconoscibile anche da molti chilometri di distanza … però ci svolazza sopra ancora qualche piccolo Fisolo de Mar… che riporta fin laggiù le memorie e i pettegolezzi della Serenissima con le Glorie del suo antico e moderno Leòn.

  




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