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“UN GRIDO DISPERATO LUNGO SECOLI … ANZI: UNA VITA INTERA … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 130.

“UN GRIDO DISPERATO LUNGO SECOLI … ANZI: UNA VITA INTERA … A VENEZIA.”

Come sapete, ormai da lungo tempo per mestiere faccio l’Infermiere d’ospedale, perciò ritengo di saperne qualcosa, almeno un pochino, circa il significato del Male, della malattia, del dolore e quindi della Morte. Sono argomenti ostici e indigesti, lo so … pensieri da cui si vorrebbe il più possibile girare alla larga ed evitare.
Ma morir bisogna, c’è poco da fare, non si scappa, è il nostro destino ... anche se speriamo accada per tutti non solo più tardi possibile, ma anche nella maniera più indolore e meno fastidiosa possibile per noi e per gli altri.
Quel che voglio dire però, è che oggi si muore in maniera diversa da ieri. Adesso “si va” in maniera asettica e a volte anonima, spesso dietro a una porta chiusa d’ospedale davanti a Infermieri, Medici e “addetti ai lavori” perfettamente sconosciuti, mentre familiari e congiunti sono indotti ad aspettar fuori … come quando si nasce … (strana coincidenza).

Fino a qualche tempo fa, invece, si nasceva e moriva nel proprio letto e a casa propria, accanto a moglie, figli, parenti, amici e conoscenti, e in mezzo a tutte le proprie cose … magari nello stesso posto in cui si era stati anche concepiti, o dov’erano vissuti e transitati tutti quelli di famiglia. Tutto era diverso insomma, di certo più personale e partecipato. C’era maggior coinvolgimento degli altri, tanto che in certe stagioni storiche “lo star male”, l’essere infermo, l’agonizzare e il morire diventava un fatto condiviso e pubblico … Si moriva in un certo senso “in compagnia”. Il morire, “l’andarsene” non era solo “affar tuo” ma anche degli altri. Si moriva faccia a faccia, davanti a tutti, e col debito accompagnamento “prima, durante e dopo” dell’intera comunità sociale. Il grande balzo nell’Oltre buio e misterioso del “dopo” invisibile era condiviso ... Per noi di oggi, invece, “l’appuntamento” rimane lo stesso, ma abbiamo cambiato molto il nostro modo d’affrontarlo, di “sentirlo” e di viverlo.

In ogni caso rimane invariato per tutti quel che uno scrittore moderno ha descritto così: “… Ciascuno di noi è un pacco anonimo che un postino invisibile s’affretta a trasportare dall’ostetrica al becchino …”

Immagine un po’ squallida … E’ vero … ma esprime forse in maniera giusta il nostro modo attuale di concepire l’esistenza senza tanti fronzoli e in maniera un po’ cinica ed essenziale ... e solitaria. Qualche tempo fa si era forse un po’ più interiori e riflessivi, forse più romantici e fantasiosi, e un po’ più propensi a stare insieme … Chissà ?

A parte le battute, se andrete in giro per l’Italia, ma anche qui da noi a Venezia non farete fatica a vedere interpretato artisticamente in maniere diverse una sorta di “Grande Grido” che riassume bene il nostro stato di persone costrette ad affacciarci allo “spettacolo” del nostro declino personale e della nostra Morte. (Avrete visto di certo i “Gruppi del Compianto” in Lombardia, Umbria, Toscana ed Emilia Romagna. A Bologna per esempio, ce n’è più di qualcuno. Sono opere d’Arte esemplari che rendono visibile quello stato d’animo, quel dramma finale che vive ogni persona davanti al Dolore e la Morte. E’ un grido ultimo, disperato, tragico, che scaturisce dagli animi di tutti quando siamo costretti a guardare in faccia la tragedia della Morte. Non è un comune pianterello, ma un “sentire profondo” che spesso finisce per segnare la nostra esistenza. La foto in alto mostra un dettaglio del “Compianto” di Santa Maria della vita in Bologna.)

Comunque c’è poco da spiegare e da dire: soffrire e morire non piace a nessuno, è l’antivita, l’anti noi stessi, è quella condizione che tutti vorremmo non solo negare ma anche evitare, ne proviamo un immane senso di ripulsa … Ma non si può. Ce la dobbiamo tenere e prima o poi la dobbiamo affrontare … che ci piaccia o no.

Per questo il nostro non poter essere esonerati da questa esperienza ultima si traduce in un immane “Urlo secolare” che è lunghissimo … tanto quanto è lunga l’esistenza dell’intera umanità. La Morte ci sta stretta anche se a volte la inseguiamo, e a volte siamo noi a procurarla insulsamente. Ricordate il “Grido”di Munch … Ecco: quello è soltanto uno dei tanti possibili “urli”, ma ne esistono tanti quanto è il numero delle persone viventi, e anche di più.

Venezia Serenissima lungo la sua Storia ha curiosamente considerato moltissimo questo aspetto significativo del vivere. Lungo tutto il corso dei secoli è stata quasi maestra nell’intendere, interpretare ed esprimere quel “Grido maiuscolo”. Diciamo che ha saputo porsi di fronte al mistero del dolore e della Morte in maniera del tutto singolare e intensissimo, e l’ha fatto modulando quel suo interesse soprattutto nell’incarnato del suo vivere quotidiano.

Come sapete, a Venezia si viveva gomito a gomito col pensiero della Morte perché per secoli c’è stato un’infinità di cimiteri e cimiterietti sparsi ovunque per ogni Contrada della città. Ciascuno aveva i Morti appena fuori dalla porta di casa sua, sempre sotto agli occhi, per cui era costretto a pensarci non dico sempre ma di certo spesso. Nei tempi andati i Veneziani si recavano in chiesa spesso, di certo molto più di oggi, diciamo che più di qualcuno lo faceva un giorno si e un altro giorno anche. Per far questo si doveva attraversare ogni volta il cimitero della Contrada dovendo per forza considerare quello “status futuro” che sarebbe capitato a se stessi e già accaduto ai propri cari Morti. Venezia fino a napoleone è stata un “colossale deposito di Morti”dovuti a guerre, pestilenze e morti comuni di persone decedute negli Ospedali, negli Ospizi e soprattutto nel proprio letto.

Santa Maria Formosa, San Giovanni in Bragora, Anzolo Raffael, San Trovaso, San Giovanni e Paolo, Santa Maria Materdoni, San Silvestro, Sant’Anzolo, San Francesco della Vigna, San Giacomo dell’Orio, i Frari… erano tanti i cimiteri cittadini inframezzati alle case di Venezia, la lista sarebbe lunghissima. E si faceva a gara, in proporzione delle proprie finanze, a farsi seppellire nelle chiese, nei chiostri dei Monasteri o in qualche “posto Santo” per essere in qualche maniera “più vicini a Dio”, o perlomeno “a tiro, o a ridosso”delle orazioni dei vari Preti, Frati e Monache ... “che male non facevano ai Morti … anzi ! … Ce ne fossero di più !”

A Venezia ci conviveva con un accatastamento immane di tombe, arche, sepolcri, monumenti funebri e mausolei di famiglia, perciò quel “Grido”a cui accennavo era avvertito più che mai, era come nell’aria, respirato da tutti quasi in maniera ossessiva e quotidiana, onnipresente. Un “Grido”, non dimentichiamolo, sempre insopportabile, drammatico, terribile, doloroso, mai digerito e assimilato a sufficienza. Un “Grido” di ripulsa, di rifiuto, d’angoscia, incomprensione, protesta, disperazione … e anche di speranza, rassegnazione e conforto … ma sempre un “Grido” allucinato e doloroso da provare a esorcizzare, contenere, superare … ma non allontanare e ignorare (a differenza di noi di oggi).

Quando entrate nelle chiese di Venezia, oltre ad ammirare le architetture e le splendide opere d’Arte, provate a guardarvi meglio intorno osservando certi particolari. Noterete che sotto ai vostri piedi ci saranno spesso tombe, arche e lapidi, così come potrete vedere in qualche angolo un Altare Nero dei Morti o un altrettanto Nero Crocifisso, o un intero apparato di marmi neri, paraste buie, simboli di teschi e di Morti, o segnali lignei intarsiati e dipinti con Anime Purganti avvolte da fiammeappartenute a Schole della Buona Morte o a Schole delle Anime del Purgatorio.

Per i Veneziani di sempre, come per noi di oggi, la Morte è stata e rimarrà sempre un totale salto nel buio ignoto. Fino ad oggi, che io sappia, nessuno mai è tornato a dirci con chiarezza ciò che ci aspetterà oltre quell’immensa e ineludibile “Porta socchiusa”. (Che ci piaccia o no, siamo fatti così, perché paradossalmente anche quando siamo usciti dal grembo materno non ne sapevamo nulla. Del “prima e del poi” di noi stessi non sappiamo niente, non ci appartiene … Quindi Morte e Vita, fine e inizio, in un certo senso s’assomigliano … Chissà … forse ci sarà un senso in tutto questo).

Tornando a Venezia … Intendevo dire che a differenza di noi di oggi, i Veneziani di ieri guardavano maggiormente in faccia il fenomeno del declino fisico e della Morte. Non che non ne avessero paura, ma forse erano più coraggiosi di noi di oggi, perché in ogni momento preferivano celebrarlo, sottolinearlo e ricordarlo come se ne volessero prendere le contromisure, e volessero gestirlo un po’ per volta e in maniera meno traumatica … e più speranzosa.

Direte che era una pia illusione … E’ vero … Però i Veneziani di ieri hanno avuto quell’interesse e quell’attenzione per secoli, il che significava che ne percepivano una certa utilità, e che in qualche maniera ne provavano beneficio.

Per questo allora, Venezia ha avuto per secoli un tripudio d’iniziative associative che prendevano in considerazione di continuo il declino personale e la Morte. Forse non si è mai considerato abbastanza questo fenomeno culturale, ma in Venezia e in tutta la Laguna, e poi ovunque anche nella Terraferma, esisteva un concentrato di realtà che consideravano e celebravano di continuo questi temi così ostici, macabri e terminali.

Tutte le Scuole Grandi di Venezia, ma anche quasi tutte le Scuole Piccole d’Arte e Mestiere, di Devozione e Nazionalitàsi sono occupate sempre dei “Corpi” ossia del “problema” del soffrire, agonizzare, morire, essere seppelliti, del suffragio e aiuto economico post mortem ai rimasti. E’ sorprendente il numero delle Schole che si sono dedicate a questo scopo in maniera specifica ... Per farvene una vaga idea provate a cliccare la lista che ho provato a stendere qui sotto.


Vi sorprenderà il numero delle Schole di Venezia dedicate in maniera specifica alle agonie, al trapasso, alla Morte e alle sepolture, nonché il numero dei Suffragi dei Defunti, le Schole dei Morti, e le Associazioni di conseguenza dedite all’accompagnamento delle vedove, degli orfani e dei sopravvissuti.
Venezia si è impegnata, quasi spremuta per secoli in una continua, assidua ritualità che prendeva in considerazione senza sosta il trapasso dall’esistenza e quanto derivava da quell’evento. Venezia quindi non era solo evasione, Carnevale, goliardia, mangia e bevi, mercanti, lavoro, guadagni, guerre e libertinaggio ... i Veneziani avevano testa, e pensavano anche a molto altro.
Agonizzare, vivere le stagioni del dolore e Morire se non erano una festa, erano di certo un Rito, “qualcosa” da celebrare e guardare in faccia insieme senza scappare. Per i Veneziani era importante “Morire Bene, far una Buona Morte”… Ecco perché sorsero numerose Confraternite con quel nome e soprattutto con quell’intento.

Migliaia di Veneziani di ogni estrazione sociale si sono iscritti e hanno appartenuto per secoli a Schole Nere e a Fraterne dei Morti diffuse e radicate un po’ ovunque in giro per Venezia e la sua Laguna. Quelle Schole a volte erano realtà un po’ gotiche, talvolta buie e legate ad austere pratiche penitenziali di Suffragio anche notturne, o ipogee e sotterranee collocate in luoghi privi anche della luce del sole. Erano un mondo saturo di “catafalchi da Morto”, luminarie, teschi e ossa, sepolcri e sepolcreti, cordogli, e già che c’erano i Veneziani non omisero di aggiungere anche una buona dose di speranze cabalistiche e contenuti superstiziosi. 
Ne venne fuori un intero mondo di Compagnie dedite a inanellare di continuo tutta una serie di: “preci da Morto, Esequie, Ottavari, Anniversari buoni per ogni tipo di tasca”. E come sempre, a Venezia si mescolò “Sacro e Profano”, e il suffragio e il dolore per la perdita dei congiunti divennero occasione anche per guadagnarci sopra qualcosa, e per risollevare a volte ampiamente le sorti di quelli che“rimanevano di qua”

Tutto questo è durato a lungo, fino ad oltre metà del secolo scorso, e ancora nel secondo dopoguerra non era difficile trovare in mezzo ai campi o ai crocicchi delle strade dei Capitelli con dipinti di fattura popolare in cui sotto ad “Anime di Morti Purganti” avvampate da lingue di fuoco si poteva leggere detti simili a questo: “O viandante che passi di quaggiù, io era come sei tu … Tu sarai come son io … Leggi questo e vai con Dio.”

“Ricordati che c’hai da morì !” si diceva bussando ogni mattina sulle porte dei Monaci per svegliarli dal sonno che era in fondo “una piccola Morte transitoria”… e chissà quante volte si sono toccati in tanti, e fatto gli scongiuri per allontanare quel momento così indesiderato.

Quello di Venezia è stato quindi un “Grido” enorme, non un urlo qualsiasi, ma un’esclamazione potente e prolungata, quotidiana, straziante, durata fin quasi a noi di oggi ... che forse abbiamo dimenticato un po’ come si fa a “gridare”certe cose e situazioni.

Ricordo personalmente che ancora negli anni ‘60 e ’70 del 1900 nella mia isoletta di Burano spersa in fondo alla Laguna, il vecchio Piovano mi portava con se a “far visita” alle persone che stavano accompagnando in casa l’agonia di qualche moribondo o moribonda. Essendo “fuori mano” ed isolati, si usava ancora morire in casa (come nascere). Ricordo che alcune case erano piene di gente che letteralmente circondava la persona “in partenza”, era tutto un andirivieni in punta di piedi fatto di cortesia, gesti e parole sommesse di consolazione, preghiere, sguardi e grandi silenzi. Era proprio “un accompagnare” efficace e condiviso … anche se poteva sembrare un far da spettatori a una morte “in diretta”. Quella volta l’ho percepito come una cosa bella e molto viva e giusta, mentre viceversa nell’ospedale in cui lavoro oggi il “fatto del trapasso”è a volte un momento per davvero squallido e solitario, quasi vuoto. Si fatica a riconoscere la giusta dignità a quel momento e a quella persona ... o perlomeno non viene spontaneo.

C’era inoltre anche un altro aspetto curioso e secondo me positivo che ho vissuto e visto nella mia isoletta di Burano. L’ho poi ritrovato a lungo anche quando ho vissuto a Venezia. In alcuni Buranelli e Veneziani c’era la convinzione molto condivisa che i Morti dopo il decesso rimanessero ancora “per un certo tempo” presenti fra noi, come in una specie di“Limbo d’attesa”. I Morti venivano considerati come “in transito e stazionamento”prima della loro “partenza definitiva” che avveniva solo in seguito. C’era chi affermava che i loro cari defunti “C’erano ancora nelle vicinanze pur non essendoci più” almeno per un altro intero mese, o forse due, o di più … Quella sensazione aveva forse un intento consolatorio per rendere il distacco meno drammatico, una rottura più soft e un po’ rinviata rispetto a quella che era la realtà nella sua crudezza dura da assimilare.
Non sto qui ad elencare i gesti e le attenzioni che derivavano da quelle convinzioni (servirebbe un libro apposito al riguardo). Era comunque un’abitudine, un modo di porsi condivisi da tanti … In quasi tutte le case c’era, ad esempio, il “cantonàl”: una specie di angolo speciale dove si conservavano “gli agganci, i ricordi, e le memorie efficaci” per richiamare coloro che erano Morti (c’erano: foto, medaglie, oggetti che erano appartenuti ai defunti capaci in qualche maniera misteriosa non solo d’identificarli, ma anche di evocarli … e contattarli). Era un mondo a parte, davvero speciale ... che non c’è più, o quasi.

Le donne anziane del paese mi spiegavano esternando una specie di loro “Sotereologia spicciola” da Contrada: “I Morti subito dopo il decesso assumono la condizione di “Aneme Purganti” … Rimangono in “Un luogo” dell’aldilà in qualche modo a nostra “portata di mano”, o almeno a “portata delle nostre preghiere e dei nostri pensieri”… Si può continuare a convivere con i Morti, parlare con loro, confidarsi e raccontare del nostro vivere … E loro ci sono vicini, ci ascoltano, condividono e proteggono le nostre sorti … Anche intercedono, propiziano per noi (come non si sa).”

Ascoltavo sempre molto interessato questo genere di discorsi … Li ho sentiti a lungo sulle bocca di tante persone molto convinte … Suggestioni ? …. Non lo so. Di certo maniera diverse d’affrontare e vivere e gestire quel famoso “Grande Grido” che provoca inevitabilmente ogni Morte.

E c’era ancora dell’altro nei Veneziani di ieri, come pure nei miei Buranelli. Erano convinti che “il Divino, l’Eterno” fosse coinvolto in prima persone, “direttamente presente” nel grande dramma del distacco e della sofferenza umana. Anzi, pensavano che i Santi e la Madonna, e Dio-Gesù Cristo in persona fossero come i protagonisti, gli antesignani, i battistrada, i precursori, gli esempi del “come” affrontare in maniera “giusta”e forse più indolore il “Grande Grido” della fine dell’Esistenza e dell’inizio della Morte.

Ecco perché sono sorte in Venezia e in Laguna numerose Schole dedicate a San Giuseppe, ad esempio.

San Giuseppe oltre ad essere stato il famoso “Falegname e Padre Putativo del Cristo Divino” era considerato anche il “Patrono della Morte e dell’Agonia”, il “Signore del Transito”, il maggiore interprete, il “buon esempio” del come vivere la “Tragedia del Trapasso della Morte”. Forse perché aveva “accompagnato” il Cristo durante la sua esistenza, così forse era stato e poteva essere “Bravo e capace” ad accompagnare chiunque nel momento della Morte … Lui stesso aveva vissuto e affrontato in maniera “esemplare” il proprio trapasso.

La diffusione in Occidente nel 1522 del culto del “Transito di San Giuseppe”è dovuta al Frate Domenicano di Milano Isidoro Isolano, che in un certo senso ne codificò i contenuti in una sua “Summa de donis St.Joseph” stampata a Pavia. Lì menzionava e faceva riferimento a una leggendaria “Vita di San Giuseppe” di origine ebraica risalente al 1340.
A partire dall’azione del Frate Domenicano la “Devozione a San Giuseppe Rifugio e modello degli Agonizzanti, Speranza dei malati, Patrono dei morenti, Terrore dei Demoni” si diffuse rapidamente in tutta l’Italia: prima a Bolognanel 1557, a Toffia di Rieti nel 1673, a Ferrara nel 1677, a Casto di Vercelli nel 1721, a Carpi di Modena nel l805 … e in precedenza anche a Venezia con numerosi esempi di Schole e aggregazioni specifiche (osservate la lista allegata).


Nella Leggenda di San Giuseppe si raccontava che “Il Transito di San Giuseppe fu fortunato”. Fu lo stesso Gesù a descriverlo perché fosse d’esempio per tutti: “… Giuseppe invecchiò e si portò avanti negli anni. Tuttavia il suo corpo non ebbe indebolite le sue forze, né gli si offuscò la vista degli occhi, né gli cadde alcun dente dalla sua bocca, né la sua mente divenne decrepita in qualcosa … Ed io mi comportai con lui in ogni cosa come fossi figlio suo ... Chiamavo Giuseppe: Padre, ed egli mi chiamava: “Figlio suo” ... e obbedivo in tutto a mia Madre e a Giuseppe … Amavo molto Giuseppe come fosse la pupilla dei miei occhi. Ma si avvicinavano i giorni della morte di Giuseppe. Gli apparve l’Angelo del Signore e gli disse che presto avrebbe dovuto lasciare questo mondo per raggiungere i suoi padri. Egli ebbe paura, si alzò e andò a Gerusalemme. Entrò nel tempio e a lungo pregò Dio che gli fosse propizio nell’ora della sua morte … Dopo aver pregato, ritornò a Nazaret; entrò in casa e non reggendosi più in piedi cadde sul suo lettino e la sua infermità si aggravò di molto. Allora io entrai da lui e gli dissi: Salute, padre mio, Giuseppe. Cosa c’è che fa turbare così un uomo santo e benedetto? …  Egli, avendo udito la mia voce, così rispose: “O figlio mio diletto, Gesù mio, tu che salverai molte volte. Figlio mio, il dolore e la paura della morte mi hanno circondato, ma appena ho sentito la tua voce l’anima mia si è ripresa. Infatti, tu, o Gesù, sei il Salvatore e il Liberatore della mia Anima. Tu sei il velo che nasconde i miei peccati … E avendo detto questo, prevalse l’infermità e non poté più parlare ... Il vecchio girò dunque la sua faccia verso di me e con grandi sospiri ansimava verso di me ... Io mi chinai verso di lui, toccai e accarezzai i suoi piedi, e tenni la sua mano tra le mie mani per una lunga ora. Giuseppe mi faceva segno come meglio poteva di non lasciarlo e fissava i suoi occhi su di me. E vennero Michele e Gabriele da mio padre, Giuseppe. Così spirò in pazienza e letizia. Io con le mie mani chiusi gli occhi e la bocca, ricomponendo il suo volto … Tutta la città, apprendendo della morte di Giuseppe, venne a fargli visita. Parenti e amici suoi lavarono il corpo di Giuseppe e lo unsero con ottimi unguenti. Io nel frattempo pregai il Padre mio. Finita la preghiera, venne una moltitudine di Angeli. E comandai a due di loro di vestire il corpo di Giuseppe. E gli stessi Angeli rivestirono con una veste candida il corpo del vecchio benedetto, Giuseppe. Io benedissi il suo corpo affinché non andasse in putrefazione ...  E dissi anche: ‘Io benedirò e aiuterò ogni uomo della Chiesa dei giusti che nel giorno della tua memoria, o Giuseppe, offra un sacrificio a Dio ... E chi mediterà sulla tua vita, sulle tue fatiche, sul tuo transito da questo mondo, quando l’Anima di costui uscirà dal corpo, io cancellerò dal Libro i suoi peccati onde non vengano mai puniti nel giorno del Giudizio. Nella casa dove ci sarà il ricordo di te, non entrerà né la pestilenza, né la morte improvvisa’…”

In poche parole: sulla scia di questi contenuti a Venezia fiorirono diverse Schole dedicate all’Agonia affidate alla “protezione” di San Giuseppe: “l’uomo capace della Pia Morte”… un modello da imitare anche nella comune vita delle Contrade di Venezia fra ponti, calli, corti, fondamente, canali e campielli. Quello che era capitato a Giuseppe poteva capitare ad ogni Veneziano.

Oltre a San Giuseppe, anche la Madonna a sua volta e molto di più, è stata intesa dai Veneziani come modello e come versione femminile protettiva e utile da imitare. La Madonna era “la Donna” con una sensibilità più raffinata rispetto a quella di San Giuseppe (maschio), e più potente nell’intervento e nella protezione essendo “La Madre del Signore”.

La Beata Maria Vergineè stata accostata “alla grande” alla gestione della Morte, del Dolore e del Trapasso. Maria avendo preso fra le braccia “il figlio morto di Croce”, era “la Madre Addolorata e del Pianto” per eccellenza, il prototipo da imitare, e un “totem potentissimo” a cui rivolgersi per implorare “aiuto e forza” in quei momenti difficili e d’estrema tensione emotiva esistenziale. A Venezia perciò sono fiorite a grappoli le Schole dell’Addolorata, della Donna di Pietà, e della Madonna dei Sette Dolori. La Madonna legata e coinvolta alla Passione e alla Morte del Cristo era sinonimo del “percorso umano dolente” e dell’esperienza luttuosa che capita nella vita di ogni persona. Il dramma della Madre Dolorosa celebrato di continuo in chiesa era l’archetipo, il modello, la rappresentazione di ciò che capitava in ogni casa e in ogni famiglia di Venezia e della Laguna.

Il culto e la venerazione della “Maria dei Sette Dolori e dell’Addolorata”è antichissimo: risale circa al 1221. Sembra sia nato nel Monastero di Schönau in Germaniadove pare si sia stato costruito il primo altare dedicato alla “Mater Dolorosa”. Subito dopo il culto dell’Addolorata è giunto in Italia e fu fatto proprio dalla Compagnia dei Laudesi Fiorentini detta dei “Servi di Maria” che ogni mattina cantavano le loro “Laudi della Madonna” davanti alle immagini “vestite a lutto e visibilmente addolorate” poste nelle vie di Firenze, vestendosi a lutto come Lei, e ritirandosi a vita di penitenza e preghiera sul Monte Montesanario da dove scendevano per fare “opera missionaria”, predicare pace e fare proseliti.

Di lì il culto si espanse a macchia d’olio: nel secolo seguente la devozione “dell’Angoscia e dei Dolori di Maria Dolores della Soledad (solitudine triste dopo la morte), dell’Entierro(la sepoltura), del Pianto e della Compassione di Maria ai piedi della Croce” si diffuse ovunque per l’Europa e per tutta l’Italia ... e quindi anche a Venezia con numerosissime liturgie, Schole dedicate, uso degli “Scapolari neri” da indossare e portarsi sempre appresso, processioni, recite della “Corona dei Sette dolori della Beata Vergine Maria Addolorata e del Pianto”, e la celebrazione della “Via Matris” in parallelo e integrazione della “Via Crucis” utilizzando il famosissimo canto dello “Stabat Mater” che ha attraversato i secoli nella Letteratura Ecclesiastica e Musicale.

I Veneziani aderenti e iscritti alle varie Schole dell’Addolorata o della Vergine di Pietà o in quelle della Vergine diConsolazione o delPianto vedevano riflessa nella “Madre consumata dalle tribolazioni e da ogni amarezza … trafitta dalla spada del dolore … privata del Figlio … Tortora gemente ... Fonte delle lacrime, Campo delle tribolazioni, Fiume di sofferenze, Modello di pazienza, Rupe di costanza, Ristoro nelle pene, Gaudio degli afflitti, Ara dei desolati, Rifugio dei derelitti, Scudo degli oppressi, Vincitrice degli increduli, Consolazione dei miseri, Sollievo degli infermi, Medicina dei sofferenti, Forza dei deboli, Patrona dei perseguitati, Porto dei naufraghi, Refrigerio nelle tempeste, Compagna di chi soffre, Terrore del Maligno …” la condizione di ogni donna, madre, sposa, vedova e orfano di Venezia.

Ricordo sempre nella mia Burano, che molte vedove o madri di figli caduti in guerra portavano al collo medaglioni con su una parte la foto del figlio morto, e dall’altro lato un’immagine della “Madonna Addolorata e Afflitta”.
Un passo ulteriore, sempre legato a questa dimensione della Fede e della Devozione tipica di gran parte del Veneziano e del Veneto fino alla fine dell’altro secolo, era quella di vedere più di tutti nel Cristo Crocefisso, Morto, Deposto e Sepolto (e poi Risorto) la raffigurazione di tutto quanto accade nel destino della vita di ciascuno di noi.

Insomma si pensava e credeva che il Crocefisso Morto fosse il riassunto di ogni vita, la rappresentazione del nostro destino finale e conclusivo vissuto tramite il dolore e la sofferenza psicofisica. Il Crocefisso era l’esempio, un essere martoriato, come lo era ed è chiunque finisce per morire passando attraverso la malattia, l’infermità e i drammi dell’esistenza. Ecco che anche in questo caso Venezia si è riempita di Schole del Crocefisso o della Croce… immagine e contenuto che per fra l’altro è uno dei cardini dell’intero Credo Cristiano.

A Sant’Eufemia della Giudecca, ad esempio, dove gli stessi 81 uomini e donne appartenenti al Suffragio dei Morti della Beata Vergine del Pianto che“Facevano mensilmente questue per le Anime, e celebravano ogni primo sabato del mese “messe in terzo” per ogni confratello defunto che accompagnava fin sulla barca sulla Riva della Zuecca con la cappa e la “mazza nera profilata d’oro con l’immagine della Vergine del Pianto”, e andavano a celebrare esequie presso i Monasteri delle Monache per dimostrare celebravano per davvero le Messe promesse e già pagate; passarono nel 1685 per scarsità  d’entrate e pagamenti non in regola degli iscritti a formare e iscriversi alla nuova Compagnia del Crocefisso della Bona Morte che portò i propri aderenti ufficialmente a 100 regolarmente paganti e abusivamente a 200 iscritti fra cui diversi poveri ... in ogni caso capaci di finanziare un giro di Messe ed Esequie da celebrare per 31 ducati e 18 grossi annui…”

I Veneziani hanno come concentrato e sintetizzato in quel Crocifisso, ridotto per secoli in maniera plastica, quasi riassunto in quell’emblema se stessi e la propria “condizione dolente e morente”. Ecco perché molti Veneziano amavano portare spesso al collo un piccolo Crocifisso.

Partecipare quindi, essere iscritti a una Schola del genere significava dare una precisa connotazione alla propria Morte oltre che alla propria esistenza, e anche decidere di condividerla e spartirla con gli altri. Il Crocifisso veniva inteso oltre che come simbolo, anche come “fotocopia”del proprio stato di viventi, trasposizione, amplificazione portata al massimo della propria fine, e sublimazione del comune vivere transitorio … nonché speranza recondita di poter subire lo stesso destino di Rinascita Salvifica.

Voglio dire insomma che nell’arcipelago Veneziano si è sviluppato per secoli l’intenso fenomeno delle Schole del Compianto, del Dolore e della Morte. E’ stato un fenomeno Sociale oltre che Religioso che innescato fin dal primo Medioevo si è protratto fino al 1800 e alle devastazioni e soppressioni napoleoniche, e sopravvissuto anche a quelle si è prolungato oltre fin quasi ai giorni nostri.

Di alcune di queste piccole realtà sono rimaste solo poche tracce, in qualche altro caso, invece, sono rimaste notizie e memorie ben più corpose e visibili. Potremmo dire che il fenomeno delle “Schole dei Morti e delle Aneme Purganti” di Venezia ormai si è spento o perlomeno in gran parte assopito e quasi scomparso, però credo rimanga ancora in alcuni  Veneziani la “propensione” a questo particolare “sentire” di fronte alla Morte.

All’inizio del 1800 napoleone provò a cancellare tutta quella realtà Veneziana in un colpo solo. Si è premurato di far scempio di tombe, svuotare monumenti e mausolei funebri, arche appese nelle chiese, sepolcri e cimiteri raccogliendo e buttando ogni tipo di ossa alla rinfusa nell’isoletta di Sant’Arian dietro a Torcello in fondo alla Laguna senza curarsi di distinguere fra Dogi e comuni popolani. Ha fatto di tutto e tutti un gran mucchio d’ossa e resti anonimo.

I Veneziani distrutti nelle loro abitudini ebbero un breve periodo di smarrimento e sbandamento, poi si ripresero immediatamente e si riorganizzarono inventandosi le Compagnie di Sant’Adriano o Sant’Arianche si diffusero ovunque in città supplendo al tanto che era stato cancellato e vilipeso. (vedi ancora la lista).



Queste nuove realtà associative di Suffragio per i Morticoltivarono a lungo la tradizione di recarsi a turno ogni anno in pellegrinaggio con barche fino all’isoletta Ossario di Sant’Arianquasi a prolungamento di quel Culto per i Morti che si era celebrato per secoli a Venezia. Ad ogni Compagnia potevano essere iscritte 33 persone come il numero degli anni di Cristo … e ci si recava ogni volta all’isola dove un Prete celebrava una o più Messe e poi si processionava in tondo cantando, pregando e benedicendo ad ogni angolo e direzione a ricordo dei Morti di ogni tempo accaduti nella Venezia Serenissima.

Nel gennaio 1785 anche tutto quel movimento finì: “… abolite 22 compagnie di Sant’Adriano, il Magistrato non permetta ad esse l’accesso a quest’isola…”  Vennero soppresse tutte le Compagnie di Sant’Ariàn perché quelle spedizioni in Laguna erano divenute troppe volte occasioni da gita fuori porta con eccessi, bagolate,“bisbocce e garanghelli”, canti e qualche sregolatezza strada facendo che facevano passare troppo in secondo piano il ricordo e il Suffragio dei Morti.  Oggi negli anni 2000 è rimasta un’unica Arciconfraternitaquasi anonima e dallo stile un po’ conservatore e nostalgico che sopravvive un po’ a modo suo conservando le memorie e quello “stile e interesse per i Morti”che un tempo ha riempito Venezia ma che ormai è andato perso e superato del tutto.

Infine un ultimo paio di curiosità …

Già in altre occasioni l’ho accennato, e mi sembra giusto riproporlo in questo contesto. I Veneziani erano anche molto devoti a San Vincenzo Ferreri … e non a caso. Non vi dirà quasi niente il nome di questo Santo … Vero ?

San Vincenzo Ferreri era un Santo molto amato dai Veneziani perché veniva chiamato “Il Santo dell’Impossibile … in quanto riesce ad arrivare dove gli altri Santi non riescono … o non osano”. Al di là di quello che il Santo aveva per davvero vissuto nella sua esperienza, a Venezia si era fatto un alone particolare, una sorta di particolare “dote e capacità di Protezione e Patrocinio”.Il motivo dei Veneziani era curiosissimo, se non semplice. Quando durante l’esistenza capitano “certe Croci pesanti”, come ad esempio un malato degente in casa da molto tempo che ha coinvolto e impegnato a lungo i familiari in un’assistenza lunghissima (anni) fino a renderla intollerabile, impossibile da sopportare e prolungare ulteriormente; ebbene … in questo caso era lecito quanto doveroso rivolgersi a Dio e ai Santi dicendo qualcosa come: “Basta ! Abbiamo già dato fin troppo … Più del necessario … Liberate quindi questo malato da tutte le sue sofferenze eccessive facendolo morire … ma liberate anche noi da questa pena e da questo pesante fardello assistenziale senza fine ... Lasciateci vivere, insomma !”

San Vincenzo Ferreri veniva allora chiamato a Venezia: “Il Santo destrigaletti”(ossia il Santo capace di svuotare un letto occupato). Era cioè il Santo deputato all’inverosimile, perché non essendo giusto chiedere la Morte di nessuno, tantomeno a Dio, però a lui si poteva rivolgersi con quel specifico intento. Insomma, San Vincenzo Ferreri era un Santo in un certo senso connivente con la sorte umana, uno disponibile che ne capiva di più ragionando secondo una logica “più bassa, terrena e popolare”. Era un tipo di Santo che sapeva stare compiutamente a cavallo fra Divino e Terreno, fra Sacro e Profano, e fra giusto e opportuno.

A farla breve, ci si doveva rivolgere a lui nelle situazioni difficili che si protraevano “troppo”,si dovevano chiedere a lui certe grazie di “morti liberanti che tardavano a sopraggiungere”. Ricordo distintamente un anziano Prete di Venezia che ai disperati che si rivolgevano a lui in Confessione chiedendo aiuto e consiglio perché non ce la facevano più a supportare certi infermità troppo durevoli o situazioni simili, lui con la massima disinvoltura consigliava: “Ascoltate me … Serve una bella Novena a San Vincenzo il Destrigaletti … Nove giorni di Messe ben dette, un bel cero al suo altare, un po’ di preghiere sincere ben dette a San Vincenzo, una buona elemosina … e vedrete che si sistemerà tutto …”

Forse non mi crederete … C’era chi tornava riconoscente perché “aveva funzionato”.

Nel marzo 1676, invece, nei pressi di Cattolica naufragò la nave “Redentor del Mondo” del Patron Angelo Baffo detto Cavallotto. Trasportava una cassetta contenente 10.000 Zecchini appartenente alla Serenissima Repubblica. Il Patron promise alla Schola del Crocifisso di San Giacomo di Galizia della Giudecca che se avesse recuperato la cassetta le avrebbe donato 100 Zecchini. La Schola “ci mise del suo con le orationi”, e il Baffo recuperato fortunatamente la scatola preziosa ottenne 2.000 Zecchini in premio dalla Serenissima donando alla Schola del Cristo della Giudecca due candelieri e una croce d’argento commissionati a “Benedetto Orefice a Rialto all’insegna del San Giovanni Battista” del valore di 100 Zecchini.

Ho ricordato questo episodio per mostrare “l’altro aspetto della medaglia”, ossia e per dire che le Schole di Venezia erano luoghi di Devozione dove ci si curava del “Grande Grido della Morte”, ma anche posti e associazioni dove ci s’interessava di questioni ben più basse e pratiche inerenti a quelli che erano interessi terreni “meno ultimi e finali”. L’umanità insomma non si è mai smentita lungo il corso dei secoli … neanche a Venezia.Intorno all’Eternità e per avere un “buon passaporto” per essa, anche a Venezia si sono pagate per secoli cifre esorbitanti. Per approssimarsi alla “Salvezza Eterna” soprattutto chi poteva permetterselo spendeva una fortuna per “gridare più forte degli altri verso il Cielo”.

In definitiva c’era anche un grande commercio, e “l’accesso all’Aldilà” era condizionato anche da lasciti, testamenti, indulgenze, suffragi e molto altro ancora. Qualche Nobile e Mercante di Venezia ha compiuto autentiche follie per garantirsi una sepoltura dove ci fosse qualcuno che per secoli passasse o sostasse di continuo davanti ricordando il suo nome a suon di lumini, preghiere ed elemosine. Dico questo perché durante la mia giovinezza è toccato anche a me percorrere e girare mille volte e mille sere intorno a un chiostro per continuare a suffragare, e pregare recitando “requiem” a ricordo e in suffragio di Benefattori Defunti deceduti decenni e talvolta secoli prima.

Venezia era, è stata anche questo ... Una città che ha interpretato per secoli “Il Grande Grido umano”…  E i Veneziani di ieri non erano affatto stupidi e banali … Anzi … Forse erano più lungimiranti e sensibili e pensatori di noi di oggi.

Il popolo dei Veneziani e questa città sospesa fra acqua e Cielo si sono dimostrati ancora una volta essere una realtà davvero singolare e molto interessante.




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