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LA FAME VERDE DELLA SERENISSIMA.

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“Una curiosità veneziana per volta.” - n° 97.

LA FAME VERDE DELLA SERENISSIMA.

A un certo punto della Storia della Serenissima è accaduto ai Veneziani di ieri qualcosa che ancora noi di oggi, che pensiamo di sapere spiegare sempre tutto a tutti, non sappiamo motivare, spiegare e determinare con chiarezza.
E’ accaduto qualcosa d’insolito, quasi incredibile, che ha rotto ogni logica e regola che funzionava da secoli fino a un quel momento … Provate a dirmi che non è vero ? E’ successo che quasi improvvisamente, di certo in breve tempo rispetto all’intera Storia della Repubblica di Venezia, il Doge ha deposto il mantello, le vesti, e il Camauro dorato mettendosi in testa un cappellaccio di paglia, gli illustri e sussiegosi Senatori, i Consiglieri, i Nobili Patrizi, i valorosi Capitani di Mar, i Giudici, i Savi dei Consigli, i Procuratori di San Marco hanno deposto le loro toghe paludatissime e severe, le armature luccicanti e i titoli pomposi per sporcarsi le mani col fango e il concime, indossare grezze traverse, contare sacchi di grano e farina, costruire Barchesse, e roste per i Molini dentro all’acqua impetuosa e lenta dei fiumi Veneti.
Preti, Frati, Monache e Canonici non hanno saputo essere da meno, e anche loro hanno fatto lo stesso lasciando le Chiese, i Santuari e i Monasteri di Venezia addobbatissimi, “vestiti d’Arte leggiadra”, dipinti, scolpiti, ricchissimi e coccolatissimi per andare a relegarsi nelle piccole Cappellette essenziali di campagna dove c’era solo lo stretto necessario per ripetere in sordina i soliti Riti. Anch’essi hanno deposto abiti, tonache, cotte, e indumenti sacri per dedicarsi alle Delizie della Villa, al Verde e alla Natura e per occuparsi di terreni, campi, vigne, prati, orti, boschi, foraggi, bestie e tutto quanto concerneva la vita della così detta Campagna interessandosi d’affitti, vino, bestie, censi, ortaglie, pollame, farina e salumi.
Arrivò un tempo strampalato in cui perfino il Maggior Consiglio venne disertato dai grandi nomi dei Nobili più importanti e famosi della Capitale Serenissima. Le Cronache Veneziane raccontano che si presentavano a Palazzo Ducale solo quattro sbarbatelli brufolosi e incapaci di tutto, senza esperienza e consapevolezza di niente, solo pieni di boria e di voglia di strafare e primeggiare … tanto che i pochi Saggi rimasti scuotevano la testa desolati e perplessi, ripensando a quando in quelle sale s’inventava per davvero la Storia di buona parte del Mondo di allora, di certo di quello Mediterraneo.
Allo stesso modo e nello stesso tempo nella città Lagunare sempre scintillante di bellezza e di vitalità vispissima, erano diventati assenti dall’Emporio di Rialto, dai Fondaci, dai Mezzanini e dai Banchi di Piazza tutti coloro che avevano fatto grandissima Venezia Serenissima col Commercio e la Mercandia solcando i Mari, valicando i Monti, e varcando i confini del Levante e del Ponente fin dove era possibile arrivare … e andando anche oltre.
Era quasi misteriosamente scomparsa del tutto la folla dei Notai, dei Banchieri, dei Mercanti, degli Assicuratori, degli Avvocati, dei Patroni di Nave, dei Senseri che procuravano e gestivano gli affari, dei Marinai, degli Agenti e Fattori d’oltremare, e dei grandi Viaggiatori Esploratori e Appaltatori … e le Galee delle Mude che un tempo partivano “a grappoli” armate e cariche fino all’orlo di rematori, merci, soldi e soldati rimanevano issate o rovesciate con le chiglie all’aria sugli scivoli e sotto le tese deserte dell’immenso Arsenale. Le botteghe, e i magazzini sotto alle volte e i portici delle Contrade languivano con poche cose esposte … Rimaneva sì nell’aria quel profumo, quei colori, quella voglia di vendere, comprare e trafficare, e quel fascino esotico e multiforme animatissimo da kasbah … ma non era più com’era un tempo.
Che cos’era accaduto ? Dov’erano andati tutti ?
I Veneziani s’erano trasformati, erano divenuti fanatici del Verde, della Terra, della Natura e della Campagna. Divenne come una fame insaziabile, una necessità irrinunciabile, una voglia irresistibile che s’allargò a macchia d’olio in laguna coinvolgendo tutti sempre di più. Fu come una pioggerellina fine che piano piano s’ingrossò fino a diventare temporale e nubifragio mentale che inzuppò ogni persona da capo a piedi portandoli fuori da Venezia. La Serenissima di sempre subì come una trasformazione, anzi, una trasfigurazione di se stessa. Scoprì insomma un valore aggiunto fino ad allora poco considerato. Il Verde, la Terra e la Natura divennero una nuova vocazione dei Veneziani.
Terminò quasi di botto la stagione del Mare, della Navigazione e della Mercandia, i palazzi sul Canal Grande e suo Campi di Venezia lasciarono il posto alle Ville, i Canali alle Riviere, i Bucintori dorati e le Peote da Regata vennero sostituiti dai Burchielli e dai pigri Burci pesanti che scendevano lungo i fiumi tirati dei cavalli lungo le “sponde-rastere”. Le scalinate dorate e ricoperte di stucchi lasciarono il posto alle gallerie di Rose e Glicini, alle Limonaie e alle Orangerie, alle sale da ballo sature di Musica, Poesia e Teatro della Campagna. I Veneziani Nobili abbandonarono le stanze affrescate nostalgicamente d’uccelli palustri e piante, i giardini asfittici e gli orti “stitici” chiusi dietro ad alti muri e con poco sole, quasi strappati a forza dalle acque limacciose della Laguna, e lasciarono spazio alle distese aperti dei grandi Parchi ariosi delle Ville ricchi di fontane, amene collinette, grotte e boschetti evocanti momenti “Sacri e Magici”. Gli angusti Teatri cittadini del Carnevale lasciarono il posto alle arene all’aperto, ai labirinti Verdi, ai giardini ubertosi e alle file senza fine di alberi che accompagnavano quasi senza discontinuità le curve dolci dei tanti Canali e Fiumi che s’addentravano fin nel cuore “saldo” della Terraferma.
E fiori su fiori … distese di fiori … e arbusti, alberi, filari lunghissimi di Pioppi, Salici, Gelsi, Magnolie, Cipressi, Querce, Olmi, Platani, Bagolari … e gustosissimi e coloratissimi Peschi, Ciliegi, Meli, Cachi … e Viti e Ulivi … ed Edere, Rampicanti di ogni sorta capaci di ricoprire tutto come una coltre tiepida e protettiva … e piante mediche, Erbe Semplici dalle ancestrali e segrete doti medicamentose e risananti, dagli effetti quasi magici oltre che benefici.
Ecco dov’era nascosto il mistero che calamitò e rapì i Veneziani di quell’epoca che divenne “felice” quanto bucolica !
Tutto quel Popolo di Veneziani, tutti quei grandi Nomi, tutta quella gente che era rimasta stipata e costretta per secoli dentro alle scomode quanto anguste navi, disertarono il Mare e il Commercio per spalancarsi, concedersi e lasciarsi prendere da un “qualcosa” che fino ad allora avevano fin troppo trascurato: i grandi spazi aperti e liberi del Verde e della Natura.
Vi ricordate quel famoso condottiero antico Romano che a un certo punto dopo l’ennesima battaglia, e dopo aver salvato Roma, mollò tutto e disse: “Me ne torno ai miei campi !”… Era Cincinnato mi sembra. Ebbene i veneziani fecero qualcosa di simile: basta navi, Dominio da Mar, naufragi, tempeste, diarrea a bordo, cibi malfermi e panbiscotto, vino annacquato da quattro soldi, topi, sporco, ristrettezze, puzzore di ogni tipo, compagnia obbligata di galeotti al remo pronti a risse e a combinarne sempre di nuove, pirati e tutto il resto. Basta con tutto ciò ! Basta con Porti e Portolani, scambi, traffici, compravendite, ruberie, carovane, carovaniere, caravanserragli, oasi e vie delle Asie e dell’Africa, e tutte quelle cose e persone e usanze di ogni genere … Basta !
I Veneziani volsero le prue alla Terra, e issarono e tirarono in secco le barche di sempre abbandonandole quasi del tutto.
Finalmente, invece, un po’ di pace, di distensione, di calma, di gaiezza e di godimento dei sensi e un po’ di quieto vivere gustoso. I Veneziani scoprirono quello che molti altri avevano scoperto già da molto tempo … In verità fu come scoprire “l’acqua calda”,ma i Veneziani, soprattutto la loro elite, fecero fagotto, lasciarono la Laguna e si diedero alla vita bucolica e agreste. E per loro fu come rinascere.
Lo dimostrano ampiamente l’immensa schiera delle centinaia di Ville splendide che punteggiano ancora oggi l’intero Veneto e anche oltre. Ovunque progressivamente divenne “Terra di Venezia Serenissima”, e Nobili, Cittadini, Clero e meno nobili fecero a gara per decine e decine di anni, per un paio di secoli e più, per procurarsi il più possibile terreni, latifondi da bonificare, paludi da dissodare, campi senza fine, boschi, acque e proprietà di ogni tipo ed estensione da accudire e coltivare.
I posti presero perfino il nome dei Veneziani che li occuparono e gestirono: Pettorazza Grimani, Morosina, Gradeniga, Barbarara, Badoere, Contarina, Papozze
Negli angoli segreti degli splendidi Parchi di Villa Pisani, Emo, Nani e di molte altre Ville sono spiegati i motivi di questo gran cambiamento, c’è come il volto del perché di quella grande svolta Verde dei Veneziani verso la Terra e la Natura. I Veneziani lasciarono a Venezia le loro certezze di sempre su cui avevano fondato i loro evidenti successi di Governo, Politica e Religione, e si preoccuparono di assimilare e dedicarsi ad altri contenuti che avevano trascurato e che invece meritavano la loro attenzione.
Che cosa aveva preso i Veneziani ?
La spiegazione la fecero scolpire nella pietra. I Giardini si riempirono di statue dedicate ai Sensi: all’Odorato dei profumi, al Gusto, alla Vista, l’Udito e il la palpabilità del Tatto … Così facendo i Veneziani riconobbero e affermarono che nella vita c’è dell’altro da considerare. Scandirono nella pietra i volti del Tempo, dei Mesi, deiGiorni e delle Stagioni, così come monumentalizzarono anche: la Fatica, l’Abbondanza, la Grazia, la Bellezza, l’Amore, la Leggiadia… Sempre nella pietra spiegarono che l’idea del Mondo non può comprendere solo i soldi e il commercio, ma dissero che c’era da apprezzare e valorizzare anche: Musica, Poesia, Letteratura, Scultura, Scienze Matematiche, Filosofia, Pittura, Danza, Teatro, Architettura… Affreschi vivaci e coloratissimi tappezzarono le Ville spiegando a chi li osservava che il Mondo è grande e curioso: non è solo Venezia, ma anche Africa, Asia, America… e nuovi Continenti ancora da scoprire e considerare.
Ma c’era anche qualcos’altro di più che meritava d’essere compreso oltre i soliti parametri economici: il Mondo era ache un miscuglio curiosissimo e interessante d’elementi nascosti, alchemico e palese: d’Aria, Acqua, Fuoco e Terraaffidato e impastato dagli enigmi del Tempo … il Mondo è anche Flora e Fauna, anzi: è anche qualcosa di sfuggente e impalpabile come Zefiro, i Satiri, le Ninfe, le Aguane… e più in alto, sopra le teste, il Mondo è anche le Stelle e Costellazioni dell’Astronomia. Inoltre c’è molto altro di sfuggente che spesso si è portati a ignorare ma è espresso e rappresentato e sottointeso nei Miti raccontati mille volte dagli Antichi come quelli di: Arianna, Teseo, Ercole, Ganimede, Narciso, le Nereidi, Orfeo, Perseo, Leda, Paride, Orlando e tutti gli altri … un racconto senza fine che Parchi e Giardini non riescono a contenere e dire a sufficienza.
Il Verde suggerì ai Veneziani un immenso senso di libertà e leggerezza:
“… la mente umana non deve ristagnare nelle strettezze delle consuetudini di sempre, nei dogmi precostituiti della Religione e del classico “Buongoverno” ... La Campagna suggerisce che esiste un “surplus godibile” a tutte le solite consuetudini, esistono altri valori che trasondano ed esuberano oltre il nostro solito considerare. Sono valori già conosciuti dagli Antichi,  valori concentrati e impersonati nelle figure degli Dei Immortali come Apollo dell’Armonia e della Luce, Bacco dell’evasione e dell’esuberanza euforica e incontrollata, Giove della Potenza Creativa infinita, Cibele della Generazione e del Ripetersi delle cose e dei Viventi, Diana della Caccia, Giunone della femminilità sponsale ed erotica, Marte del Sangue dato e perso, Mercurio della novità, Minerva Sapienza Medica, Nettuno dei mari e delle profondità acquatiche misteriose … e tutti gli altri che popolano le nostre Leggende Antiche.” spiegava in una sua lunga lettera un Nobile Emo di Venezia datosifelicemente“alla Villa e alla Vita di  Campagna”.
I Veneziani comunque non si sbilanciarono, nè persero “la tramontana” tradendo se stessi e la loro identità di sempre. Non è che dandosi al Verde della Terra fossero diventati vanesi e vuoti, anzi. Sempre le pietre scolpite nei Parchi ripeterono per secoli che per ben vivere serve non serviva solo la Spensieratezza ludica, libertina ed evasiva, ma era necessaria anche la Vigilanza, e un mix di utili Virtù come Prudenza, Temperanza e le altre, così come per “star bene” serviva evitare i Vizi e gli eccessi inutili come: Accidia, Invidia, Ira, Gola, Superbiae altro ancora.
Con quella grande apertura e trasfigurazione culturale a cui andarono incontro i Veneziani, maturò e si dilatò la loro consapevolezza esistenziale e la loro lungimiranza dando uno spessore e un senso diverso alla loro Storia Serenissima.
“Perché affannarsi tanto a conquistare il mondo e le cose, se poi perdi di vista te stesso ?” commentò un altro Nobile Veneziano smanioso delle “beltà della Villeggiatura” ancora alla fine del 1700. C’è stato perfino uno di loro che per un intero anno pagava un intero paese perché i giovani paesani s’ingegnassero nell’imparare, studiare e recitare commedie, rappresentazioni, drammi e teatro per rappresentarli quando lui si recava lì “in Vacanza da Venezia con la sua famiglia”.
“Vivere il Verde e la Villa ! … Quello è bel vivere!” ripeteva spesso a se stesso e agli altri rendendolo quasi suo motto.
Era l’eco di un “sentire comune”, di una Civiltà Veneziana delle Ville, i cui segni hanno bellamente trapuntato l’intero nostro Veneto Serenissimo diventando Storia e nostro insigne patrimonio culturale di cui ancora oggi godiamo ... e forse partecipiamo mentalmente.




“L’OREFICE ADDORMENTATO DI RIALTO.”

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“Una curiosità veneziana per volta” – n° 99.

“L’OREFICE ADDORMENTATO DI RIALTO.”

Venezia come il resto dei posti è quasi invasa dai “segni e frutti” di quest’ultima stagione di crisi economica. Fra questi ci sono i mille negozietti spesso ambigui e chiacchierati dei “COMPRA-VENDO ORO”, che con tutto rispetto per chi lavora, a me e non solo a me fanno molta tristezza. Dico questo perché qui da noi a Venezia, sotto ai Portici e ai piedi del Ponte di Rialto si sapeva non bene, ma benissimo che cos’era l’Oro e gli Oresio Orefici, così chi erano e che cosa sapevano creare e vendere i Diamanterida Duro e da Grosso, e i Giogelieri o Zogielieri.
Di tutto quel mondo ricco, scintillante e un po’ fabuloso di Artieri provetti dalle manine letteralmente d’oro, oggi a Venezia sopravvivono solo le ombre … o forse gli sbadigli.

C’è ancora una botteguccia nei pressi di Rialto che osservo ogni tanto, mi colpisce ogni volta per la sua curiosa scena. Illuminata da una tenue e fredda luce al neon sembra un ambiente smunto, quasi pallido e malato, un po’ dimesso. L’unica luce buona più intensa e sempre accesa è quella posta sopra al desco da lavoro posto in un angolo accanto al massiccio bancone. Sopra lì stanno abbandonati monocoli, pinzette, piccoli cacciaviti e tutta una serie di minuscoli quanto strani martelletti.
Sempre lì dentro e sopra al bancone fuori moda, proprio in mezzo, campeggia una bilancia di precisione con i piatti ossidati, mentre in corrispondenza proprio di sotto sul pavimento sta sempre un vecchio cane acciambellato intento a sognare tempi migliori. L’Orafo è sempre presente “da mane a sera”, ed è un po’ come la sua bottega. Se ne sta con gli occhiali posti sopra alla punta del naso a leggere il quotidiano di cui ogni giorno sviscera tutto fino all’ultimo annuncio … La giornata è lunga da trascorrere, e il tempo non gli manca … Quel che manca sono i clienti, oltre che i capelli sulla testa volati via insieme agli anni.
La moglie, avvenente commessa un tempo, rimane per gran parte della giornata seduta accanto al marito con le gambe gonfie alzate sopra ad uno sgabelletto … Anche lei se ne resta muta e placida intenta a sferruzzare all’infinito per i nipotini.
E sembrano quasi in pendant: una volta l’uno, e una volta l’altra … Lui ogni tanto “pisola” ciondolando di qua, mentre lei “gli fa il verso e il ritornello”appoggiando il mento sopra il petto prosperoso russando a sua volta di là.

“C’è un’umidità perenne sotto a queste volte basse dove non arriva mai a battere il sole … Dopo tanti anni ci è penetrata dentro fin nel più profondo delle ossa … Ci fa quasi compagnia al posto dei rarissimi clienti …”

“Non abbiamo più in vetrina quella merce ambita, sofisticata e “di buona mano” che un tempo richiamava acquirenti da ogni parte di Venezia, della Laguna e anche da fuori … Oggi c’è solo un po’ di “roba” firmata, tutta uguale, proveniente da altrove, qualche patacca e qualche orologio di marca … e poi la solita paccottiglia di cinturini, bigiotteria e collanine senza pretese buone per ogni tasca.”

“Credo che perfino ai ladri non interessiamo più … e qui dentro siamo tutti a turno come quello là …” e mi hanno indicato un gatto pasciuto, indifferente e addormentato in un angolo, proprio sotto “alla mostra” della vetrina. “Anche lui è stanco d’inseguire i topi che non ci sono più ... Anche lui non ne ha più per nessuno, non ha più motivi per darsi da fare … come noi che siam qui veci e stanchi e in attesa d’essere “bonificati”.”

“Se voleste potrei e saprei ancora costruirvi di tutto … Basterebbe solo che tiraste fuori i soldi per pagare.” ha aggiunto ironico l’anziano Orese un po’ rassegnato alla fine dei discorsi.“Ormai sono quasi “cotto” e da pensione … e penso che fra poco chiuderò baracca e burattini lasciando il posto a un altro bugigattolo che venderà souvenir provenienti da Taiwan e dalla Cina … Ormai a rimanere qui non c’è più alcuna convenienza … anche perché l’affitto da pagare è diventato quasi una specie di bestemmia …”

Eppure lì da quelle parti e sotto alle volte di quei stessi portici, nella Ruga degli Oresi di Rialto un tempo è passato “il Mondo”, ossia molti di quelli che contavano … L’Imperatore Federico II ordinò a Marino Nadal Orefice di Venezia l’esecuzione di una corona aurea ornata di perle e gemme, e in seguito anche il suo ricchissimo trono ... ma non lo pagò mai. L’Orese perciò si rivolse al Governo della Serenissima che semplicemente mise e mantenne l’Imperatore in debito e mora finchè pagò per intero tutto il dovuto … Il Re d’Ungheria, invece, commissionò a Venezia preziosi paramenti dorati per la sua corte ... Carlo II di Napoliarricchì il tesoro di San Nicola di Bari con vari oggetti “ad opus venetianorum” ... e perfino dal lontano Monte Athos della Grecia, l’unica Repubblica Monastica e Teocratica del Mondo, un potente Archimandrita ha attraversato il Mare Egeo, il Mediterraneo e risalito tutto l’Adriatico per giungere fino a Venezia a bussare nelle botteghe degli Oresi de Rialto per ordinare Reliquiari cesellati e preziosi per contenere i “Sacri Resti del Giardino della Madonna” ossia la Penisola Athonita dei Monaci Ortodossi.
Nel 1495: Paolo Rizzo che aveva bottega sotto ai Portici d Rialto “All'Insegna della Colombina” stimò le gioie date in pegno alla Repubblica di Venezia da Lodovico il Moro… Negli stessi anni Domenego Orese vantava crediti da personaggi come Mattia Corvino Re d'Ungheria, la Regina Beatrice, Ferdinando Re di Napoli, Innocenzo VIII, Lorenzo e Giuliano dei Medici, e dai Signori di Pesaro ... Durante il 1500 Pascià Ulug-Alì che combattè a Lepanto come Comandante della flotta Turca, ordinò all’Orefice Battista Rizzoletti con bottega a Rialto “All’Insegna del Gesù”, un cofanetto d’argento per gioie destinato alle Sultane … Lo stesso noto Diarista Veneziano Marin Sanudo raccontò di aver venduto a Rialto: “… un anello d’oro, sopra al quale è un horologio bellissimo, qual lavoro dimostra le ore et sona, et quello vuol mandare a vendar a Costantinopoli …”
A metà del secolo seguente l’Orese Rialtino Ortensio Borgisi tagliò a forma di “rosa" la famosa pietra preziosa "Gran Mogol" appena scoperta … e nella stessa epoca Antonio Maria Cavalli, facoltoso uomo d' affari e Priore del Pio Luogo delle Zitelle, intrattenne rapporti commerciali con Orefici e Mercanti di Napoli, Roma, Bologna, Firenze e Cremona. Tra i suoi clienti c’erano le Nobili Famiglie Memmo, Pesaro e Borghese, e il Conte Mortsin Gran Tesauriero di Polonia che si rivolse a lui per incastonare una partita di preziosi.
L’Arte Orafa di Venezia eccelleva insomma nell’intero mondo d’allora, e i più grandi Signori d’Italia volevano avere “… le cose rare et divinae lavorate da Paolo Rizzo che si firmava Paulus Ageminus, ageminatore finissimo delle botteghe di Ruga degli Oresi dove splendevano anelli, collane, braccialetti, cinture, bottoni, catene, cibori e ogni altro oggetto da chiesa …”

L’Emporio di Rialto era una miniera d’oro e preziosi, una fucina inimmaginabile di creazioni meravigliose, e allo stesso tempo luogo di abili compravendite, creste sui prezzi, valutazioni azzardate, liti e controversie e grandi arricchimenti per qualcuno.

Nel marzo 1532, i figli del Bailo Veneziano a Costantinopoli si consorziano per ordinare a due famosi Oresi di Rialto: Lodovico Caorlino e Vincenzo Levriero, un oggetto preziosissimo da mandare a Costantinopoli per venderlo al Sultano. Il manufatto era: “… un elmo con quattro corone tempestato di gioie, pennacchio d’oro lavorato exelentissimamente con ligati 4 rubini, 4 diamanti grandi et bellissimi, valeno li diamanti ducati 10.000, perle grosse de carati 12 l’una, uno smeraldo longo et bellissimo, una turchese grande et bellissima, tutte zoie de gran pregio; e nel pennacchio v’era una pena de uno animal che sta in aere et vive in aere fa pene sottilissime et de vari colori venute de India, val assai denari …”.
L’originale gioiello venne affidato al Mercante Marcantonio Sanudo dandogli subito 2.000 ducati per favorirne la vendita, e promettendogli il 2% sul ricavato finale. Sansovino racconta che Solimano II rimase stupefatto di fronte a quella meraviglia, e che committenti e Mercante Veneziani divennero ricchi.
Si fa ancora memoria che Re Enrico III desiderasse molto possedere uno scettro d’oro ornato con pietre preziose esposto nella vetrina degli Oresi Dalla Vecchia di Rialto, e che questi abbiano rifiutato la sua offerta di 26.000 scudi d’oro per averlo giudicandola insufficiente.
Furono inoltre ricchissimi ma soprattutto abili gioiellieri del 1600 Veneziano: Marco Imberti che aveva bottega “All' Insegna del San Michiel”, e fu anche Priore dell'Arte degli Oresi nel 1631; e l’Orese Andrea Balbi con bottega "Al Cappello"in Contrada di San Moisè.

L’Arte-Mestiere degli Oresi era fra quelli scolpiti sugli Arconi della Basilica dorata di San Marco e sui Capitelli di Palazzo Ducale … Faceva parte di quelle Arti e Mestieri che avevano fatto grande la Serenissima al pari del suo gran darsi da fare e Mercanteggiare sopra e dentro ai Mari del Mediterraneo e lungo le Carovaniere dell’Asia e dell’Africa e del lontano Oriente e Occidente Europeo.

La Zecca della Serenissima apponeva sugli oggetti preziosi prodotti a Venezia ben cinque bolli e punzoni: quello del Maestro, quello della Bottega, i marchi di controllo settimanale sulla purezza dell’oro e a caccia di frodi dei Tastadòri e Tocadòri Ufficiali de Zecca, e il punzone di “garanzia e qualità” ossia il Sigillo di San Marco con il Leone Marciano “in moleca”.
Tocadòri della Serenissima duravano in carica due mesi, ricevevano dall'Arte stessa un compenso simbolico, e dovevano mettere per iscritto l'esito delle loro ispezioni. Erano quattro divisi in due gruppi: i "Tocadòri de Dentro li Ponti" che visitavano le botteghe al di qua del Canal Grande, e i "Tocadòri de Fora de li Ponti" che ispezionavano le botteghe poste al di là del Canal Grande e del Ponte di Rialto.
Nel gennaio 1340, l’Orese Leonardus Rosso vendette come autentica e di qualità dell’argenteria fatta in lega d’argento scadente. Confessato il crimine, venne condotto legato con un cartello al collo da San Marco a Rivoaltumattraverso la Ruga degli Oresi proclamando la sua colpa. Non potè più esercitare la sua professione, e venne condannato a un anno di carcere.

Altri tempi ! … che sembra non siano neanche mai accaduti.

La maggior parte degli Oresi di Venezia teneva bottega soprattutto a Rialto in Ruga Vecchia di San Giovanni detta anche Ruga dei Oresi o degli Anelli, e assieme agli Intagliatori di Diamanti, i DiamanteriVeneziani erano super specializzati nel lavorare a cesello, bolino e sbalzo, “a filigrana”, e a intarsiare ad “agemina” applicando su metallo altri metalli diversi, cristallo di monte, smeraldi, rubini, diamanti, granati e smalto realizzando: collane, bracciali, monili o entrecosei (intrigosi)in raffinata maglia d'oro che vendevano a Rialto o esportavano ovunque con gran puntualità e in gran segreto.
Oresi e Diamanteri producevano anche i famosi Manini o Armille d’oro tempestati a volte di preziosi, cioè quelle lunghissime catenelle formate da anelli minutissimi che formavano vere e proprie matasse d’oro.
Fin dal Capitolare degli Oresi del 1233 era vietato per gli Oresi incastonare pietre false o di vetro, e proibito il commercio di ori, argenti e gemme da parte degli Strazzaroli e degli Ebrei ... Dopo la metà del 1500 la Schola degli Oresi acquistava "1.000 corbe annue de carbon"e le dispensava gratuitamente ai Compagni Oresi più poveri perchè risparmiando su quella spesa potessero lavorare e commerciare più serenamente.
Nel 1601 il Doge Marino Grimani concesse agli Oresi con l'onere di offrire ogni anno al Doge due pernici il giorno di Santo Stefano, di poter costruire un loro Altare dedicato a Sant’Antonio Abate, Patrono dell'Arte degli Oresi, "a man sanca de la porta granda", e di mettere un Banco di rappresentanza nella di San Giacometto ai piedi del Ponte de Rialto in Ruga degli Oresi dove varie volte l’anno, ma soprattutto il Giovedì Grasso si teneva “la caccia dei tori”.

Esiste una nota curiosa redatta fra 1599 e 1605 in cui si attesta che l’Altare degli Oresi costruito in San Giacometto di Rialto venne fabbricato acquistando marmi e colonne dell’antica chiesa dell’Isola di Poveglia spendendo complessivamente lire 2315 e soldi 12.

“Si fa nota in questo libro a perpetua rei memoria, de tutte le spese che fu fatto nel far l’Altar nostro de Zoiolieri et Oresi nella chiesa de San Jacomo de Rialto in Venetia … per spesi in gondola si andò a Povegia per veder una quantità di pietre serpentine et altre in chiesa de Povegia … per spese in gondola si andò a Povegia con persone dell’Arte a veder le sopraditte pietre … per spese in gondola si andò a Povegia con un Protto e un Tagjapiera … per contadi a Messer Zuane Tagjapiera per sue mercede, vene a Povegia per conseggiar delle dette pietre … per contadi similmente a Messer Domenego Tagjapiera per conseggiar delle ditte … per contadi al Clarissimo Sjor Tomaso Zustinian per pagamenti d’un safil azuro, fu comprà per donar al Reverendo Prior di Povegia acciò consentisse di vender ditte pietre … Per spesi in far acconzar detto safil … Per contadi al Sjor Gerolamo dal Stendardo Orese per l’ammontar d’un secchiello d’arzento da donar, et fu donato insieme col safil al detto Reverendo Priore de Povegia … per spesi in gondola si andò a Povegia per comprar dal detto Reverendo Prior due collone de marmoro …”

Il Priore dell’Arte degli Oresi rimaneva in carica per un anno, e veniva scelto ed eletto una volta fra gli Oresi della Ruga Granda de Rialto e la volta successiva fra quelli della Ruga degli Anelli.

Nel 1630 dopo la grande pestilenza che devastò l’Europa e accoppò metà dei Veneziani, la Schola degli Oresi de Rialto commissionò ai suoi Oresi un prezioso quadro-icona d'argento con "il Crocifisso, San Rocco e San Sebastiano da una parte e Sant’Antonio Abate dall'altra tutti in rilievo e con soàze (cornici) di ebano e foglie d'argento",che veniva portato "in procissiòn traversando Venesia fino alla giesja de San Rocco il giorno de San Bastian in rengraziamento per la scampada pestilenza.”
Parallelamente l’Arte si costruì fin dalla fine del 1600 per le proprie riunioni e convocazioni un “Alberghetto de la Schola” in Campo Rialto Novo (all’anagrafico odierno San Polo 554) foderato all’interno con dossali in legno, dove sulla lunetta in ferro battuto sopra la porta, sono visibili ancora oggi le iniziali: “S.O." ossia Schola degli Oresi.

Nel 1552 e 1553: la Schola ingaggiò ben due Compagnie di Cantori per celebrare la festa del Titolare: quella di Pre’ Alvise delle Villotte Cantore di San Marco, e quella di Messer Pre’ Marco Moschatello Piovano di San Silvestro, ossia le migliori Compagnie di Cantori di Venezia … Nel 1596 si concesse all’Arte degli Oresi e dei Marzeri il privilegio di esenzione dal servizio personale come “vogadori” nelle galee di Stato pagando sostituti come facevano gli iscritti alle Scuole Grandi di Venezia.

Fin dal 1379 gli Orefici distribuivano alle “figlie povere dell’Arte” doti di 106,1 ducati in media e altre da 35 a 200 ducati … e ancora nel 1600 per incrementare il Fondo d’assistenza per i “poveri dell’Arte”, gli Oresi depositarono 100 ducati con interesse del 4% presso i Monaci Benedettini di San Giorgio Maggiore ... Santo Zambelli di Bernardo Orefice in città “Al Segno del Santo Iseppo di Rialto” lasciò nel 1667 all’Arte degli Oresi un Legato di 1500 ducati da investire in perpetuo e destinarsi come dote per quattro fanciulle figlie di Confratelli Oresi da maritare o monacare. Lasciò inoltre altri 150 ducati perché fossero fatti “… nel tempo de mesi doi un paro de candelieri d’argento per uso della Schola … come segno de devotion, e a suffragio de la me Anema …”

Nonostante nella Storia di Venezia ogni tanto si decretasse a favore dell’Austerità e della Morigeratezza e contro il lusso degli abiti, delle acconciature e dei gioielli, come nel maggio 1529 quando si proibì ai Nobilhomeni e Nobildonne d’indossare: “Alcun lavoro fatto per man di Orese, ma possino portar scuffia d’oro o d’argento … al cabezo possino portar gorgiere o camisole …”; ancora nel 1733 gli Oresi che si contavano a Venezia, iscritti regolarmente alla loro Schola erano 416 attivi in 122 botteghe insieme a 204 Gioiellieri da Falso(bigiotteria), e 101 Diamanteri da Duro e da Tenero … Una piccola folla di più di 720 Artigiani specializzatissimi, creativi, scaltri e operosi quasi tutti assiepati sotto ai Portici e alle Volte di Rialto.

Trovarne qualcuno adesso !

Nel dicembre 1757 la Zecca della Serenissima elencò in un proclama a stampa le leghe consentite agli Oresi, i prezzi, i controlli e le garanzie per i compratori. Si distingueva la produzione di Oresi, Diamanteri e Gioiellieri in: Capi Voluttuosi o di Lusso e Capi Comuni.
Erano considerati Capi voluttuosi o di Lusso: le “Bozzette da spiriti” tutte d’oro e di cristallo con oro, le “Catene d’orologlio” per donna e uomo, gli “Equipaggi per dame”, i  “Sigilli-Matrici”tutti d’oro e con cristalli e  corniole, i “Bossoletti per attacar alli orologlii”, le “Scatole” decorate grandi e piccole, i “Cerchi o Soàze” per scatole e ritratti, le“Guarniture e Taccuini”, i “Pomoli da baston”, le “Casse e sopracasse lavorate per gli ororlogli”, le “Bruitole”, i “Tirabusoni, guarniture e cartellini per frutti”, i “Calamaretti da scarsella”, le “Fiube lavorate”, e i “Bottoni da camisa a filo d’oro ad uso di Francia”.
Ogni oggetto venduto doveva essere “saggiato” preventivamente in Zecca, ed essere accompagnato da una polizza sottoscritta dall’Orefice come certificato di garanzia.

Venezia è stata, insomma, e lo è ancora oggi in parte, una miniera di “Ori”d’ogni sorta. Sparsa per chiese e musei si conserva ancora una montagna di Calici, Ostensori, Reliquiari, Pissidi, Paci, collane, posate, coppe, candelabri, Cartegloria, anelli, ex voto, pugnali, monete, paramenti, corone, vasellame, scudi, bottoni di filo dorato, e decorazioni d’oro d’ogni tipo.
Anche a me personalmente è toccato più volte nel passato l’onore-onore di rivestire e ingioiellare con le mie mani la Madonna della Salute il giorno della sua festa il 21 novembre … Ogni anno la si ricopre letteralmente d’oro ... o meglio: di quell’oro che Napoleone ha “gentilmente”lasciato ai Veneziani.
Infatti, tutto ciò che ho provato a raccontarvi è accaduto fino al 1804 … quando si è presentato a Venezia quell’ometto piccolo ma potente …  che ha intascato tutto e disfatto malamente tutto il resto.


La Schola degli Oresi secolarizzata e spogliata si scorge ancora oggi in Campo di Rialto Novo ed è servita o serve ancora come deposito sussidiario dell'Archivio di Stato di Venezia, mentre nella chiesa di San Giacometto accanto al Ponte di Rialto è ancora visibile il bell’Altare della Schola degli Oresi con l’austera statua nera di Sant’Antonio Abate di Gerolamo Campagna ... poco distante il vecchio Orese continua a “pisolare”i suoi sogni beati.

“CASA SORA CASA … I GHETTI DI VENEZIA COMPIONO 500 ANNI.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 100.

“CASA SORA CASA … I GHETTI DI VENEZIA COMPIONO 500 ANNI.”

Il Ghetto, gli Ebrei, la Shoah sono argomenti più grandi di me. Mi è difficile parlarne e dire cose che non siano già state dette e per di più: dette molto bene. Le parole a volte sono troppo povere e superflue, perciò è meglio tacere e accontentarsi di contemplare e riflettere su certe memorie che sono realtà ancora vive e mai concluse.

Mi diceva uno che del Ghetto se ne intende: “Gli Ebrei del Ghetto sono: casa sora casa … strato sora strato, Storia dopo Storia, Ghetto dentro a un altro Ghetto … tutti compattati insieme come una torta millefoglie … Ghetto è paradigma di una lunghissima Storia che appartiene a tutti i Veneziani, un susseguirsi ininterrotto di vicende, scontri e incontri, frammistioni e sovrapposizioni, tolleranze e intolleranze, rifiuti umilianti e offensivi amalgamati con grandi passioni umane e intense devozioni … Il Ghetto è un denso costrutto, uno stretto abbraccio, un condensato mirabile di Venezianità religiosa, sociale, artistica e storica difficile da spiegare e ridurre a poche parole … Il Ghetto è un posto da vivere e incontrare.”

“A dire il vero, i Veneziani li hanno un po’ strapazzati gli Ebrei, spremuti e strumentalizzati … In questo caso l’immagine della Serenissima sempre aperta, accogliente e tollerante è un po’ fasulla …”

“Vero ! … La Serenissima è sempre stata interessata innanzitutto ai suoi affari e ai suoi successi politici ed economici … In fondo i Veneziani hanno relegato, murato, esorcizzato e circoscritto il fenomeno degli Ebrei dentro alla “Corte di case e al Comune ridotto” chiuso fra canali e con portoni e cancelli, con i guardiani e le barche che vi giravano intorno. Gli Ebrei hanno avuto la possibilità di esserci solo nella misura in cui potevano rivelarsi utili e funzionali per la Repubblica …”

“Per quanto si voglia indorare e raddolcire la pillola amara, bisogna dire insomma che i Veneziani sono stati interessati ai soldi e alla capacità imprenditoriale e mercantile degli Ebrei più che ad altro … Volevano confinarli in isola alla Giudecca, e forse a Murano come si era fatto con i scomodi Vetrai pericolosi per il fuoco, e per i Pelletteri, Curameri e Tintori che ammorbavano l’aria e l’acqua con i loro prodotti pestilenziali e puzzolosi.”

“E’ l’atteggiamento che ha mostrato per secoli tutta l’Europa e l’Occidente … Anche a Venezia l’estraneo, il foresto, il diverso è sempre stato figura da digerire e assimilare un poco per volta … quasi come una medicina amara ma necessaria.”

“Ho sentito che il Parroco della Contrada di San Marcuola, quella dentro e vicino alla quale gravitava il Ghetto, intendeva costruire una succursale della sua chiesa proprio nel bel mezzo del Ghetto per ribadire anche plasticamente e visivamente, se ce ne fosse stato bisogno, chi era a primeggiare e comandare a Venezia, quale fosse stata “la maniera giusta di vivere” che meritava considerazione … Per gli Ebrei c’era solo “la strazzaria”, e li hanno spinti a fare il commercio a Mestre, e non se ne parlava di risiedere stabilmente in Laguna …”

“Sì … però … Poi le cose sono andate diversamente: quell’idea della chiesa in mezzo al Ghetto per fortuna non è andata in porto … e la Serenissima in qualche modo si è raddolcita verso gli Ebrei … Tanto è vero che nel Ghetto esiste un miscuglio di Sinagoghe giustapposte: Levantina, Ponentina, Spagnola, Tedesca … Dentro al Ghetto s’è mescolato di tutto, è diventato parabola di coesistenza, come la regola di ciò che è possibile fare e non fare insieme …”

“Mi fanno impressione quelle “Pietre d’inciampo” collocate davanti a certe case del Ghetto … Quei nomi di vite devastate e strappate sono pietre esemplari, moniti che fanno molto riflettere … Sono la conferma che certe catastrofi non sono mai lontane ed estranee, ma ci accadono proprio in casa, dentro alle nostre mura … Sono pestilenze mai superate e terminate …”

“Infatti, anche se facciamo finta d’ignorarlo, il Ghetto di Venezia è tutt’oggi “luogo e obiettivo sensibile” … C’è la casamatta blindata con i soldati dentro nel bel mezzo del Campo del Ghetto, vigili e attenti ventiquattro su ventiquattro … Però la realtà del Ghetto è anche sinonimo di Speranza, di capacità di fiorire nonostante tutto, opportunità per confondersi e associarsi insieme in maniera costruttiva e non banale … Quasi un invito all’incontro fra Popoli e realtà diverse …”

“Sì … E’ un’atmosfera che si respira e si percepisce anche visivamente attraversando il Ghetto … Infatti, ogni tanto ci vado e lo attraverso da parte a parte, oppure ci faccio un giro dentro e poi me ne ritorno sui miei passi … E’ una sensazione da riprovare ogni tanto, come un bisogno di rispolverare una certa consapevolezza storica  … E’ come se dal Ghetto uscisse di continuo un appello silenzioso e invisibile a cui aderire …”

“La Comunità del Ghetto celebra quest’anno 500 anni di Storia e inquietudini … Il Ghetto compie 500 anni … ma non li dimostra, o forse sì, li porta sul groppone proprio tutti con tutti i suoi copiosi significati … In questi giorni sul Ghetto piovono le iniziative e ronzano le telecamere … Il Ghetto sembra in gran spolvero e magnetico più che mai.”

“Qualche giorno fa, un giovane intervistato che parlava in Televisione, diceva: “Mia madre è Ebrea, mio padre Musulmano, i miei amici sono di tradizione Cattolica … Io sono figlio di nessuno, non sono neanche ateo perché sarebbe una scelta troppo impegnativa. Sono solo senza radici come un apolide … Forse potrò anche soffrire di questo, ma mi trovo ad essere apatico, refrattario, indifferente ed equidistante di fronte a certe realtà anche storiche … Però rispetto, anche se ignoro e non m’interessa …”

“Forse è troppo poco … Il Ghetto dei Ghetti, invece, induce per forza a non ignorare, sembra quasi una specie di “nido invitante, tiepido e accogliente” appollaiato com’è sopra e dentro all’albero frondosissimo che è l’intera Venezia lagunare … Il Ghetto induce a riflettere, a pensare, a non vivere distratti.”

“A me gli Ebrei sono sempre stati simpatici fin da piccolissimo ... Simpatici oltre che per le loro vicende epiche e Bibliche i cui racconti hanno ampiamente popolato la mia infanzia, anche per quel modo domestico e quotidiano d’intendere la Religione ... A differenza un po’ di noi Cristiani con la religiosità quasi del tutto relegata dentro alle chiese, un Dio da andare a trovare ogni tanto quasi come il nonno in casa di riposo …”

“Gli Ebrei percepiscono un Dio che va a braccetto con loro nella Storia e viceversa: sanno riconoscere l’azione di Dio anche dentro al dramma struggente della loro epopea tragica già vissuta, e nell’attesa messianica mai compiuta abbastanza e ancora senza compimento definitivo ... Gli Ebrei vedono la Storia secondo una prospettiva alternativa, hanno un modo di filtrarla e vederla diverso, suggestivo ...”

“A proposito di Ebrei … Ho un ricordo di quand’ero piccolo e un po’ “bastiàn contrario” … Forse è stato in quel momento che mi sono diventati simpatici … Quando facevo il zaghetto-chierichetto nella mia isoletta di Burano sperduta in fondo alla Laguna … E’ stato lì che gli Ebrei mi hanno incuriosito e calamitato … C’erano le vecchie bigotte e pettegole del paese che usavano dire: “El ghà un fjo che xè un Zudèo”, e lo si dicevano in maniera preoccupata e spregiativa intendendo dire che quel figlio era uno che aveva tradito le sane aspettative della famiglia, disatteso i valori del giusto modo di vivere ... Quel figlio era un libertino spudorato insomma, una carogna, un traditore … “Un ingrato che spùa dentro al piatto in cui gha magnà” … Mi chiedevo: perché lo assimilavano ai Giudei, agli Ebrei ?
Quando andavo a servir Messa poi, e ci andavo più che spesso (anche più di una volta al giorno in certe occasioni), indossavo la tonaca lunga fino a terra con le scarpette da calcio prese a prestito e i tacchetti chiodati che facevano un gran baccano e rimbombo ticchettando continuamente sul pavimento della chiesa. Non c’era tempo da perdere in qui momenti: al di là della parete della chiesa c’erano i miei amici che giocavano a calcio nel campetto della Parrocchia, e quindi dovevo al più presto precipitarmi anch’io a inseguire a perdifiato quella benedetta palla …”

“Potenza del pallone ! … Quanto siamo ridicoli a inseguire avanti e indietro quella palla.”

“Già … Iniziavo la Messa, poi uscivo in veste e cotta per la porticina socchiusa della Sacrestia a tirare a calcio durante la predica del Piovano … poi rientravo per buttargli l’acqua sulle mani e raccogliere le elemosine dei fedeli, e tornavo ancora una volta a calciare per qualche minuto … Sudato e grondante rientravo di nuovo a tenere il piattino sotto al mento dei fedeli per la Comunione, e rimanevo in chiesa giusto il tempo per dire ancora un paio di “Amen e Rendiamo Grazie a Dio … e “Prosit !” rientrando in sacrestia. Ma quanto il Piovano rispondeva: “Deo Gratias” ero già di nuovo scomparso e tornato a giocare lasciando veste e cotta strada facendo … Bei tempi !”

“Ma gli Ebrei che c’entrano con questo ?”

“Ah sì ! … Nella chiesetta di San Martin, che a me sembrava chiesona, durante la Settimana Santa partecipavo ammaliato a tutte le ore a ogni Liturgia possibile. L’edificio era tutto parato a lutto dal soffitto al pavimento come si usava tradizionalmente in quegli anni … “Ma perché tutto questo mortuorio ?” chiedevo al mio buon vecchio Piovano a cui ero affezionatissimo.

“Xe morto el Signòr … Gesù Christo !” mi spiegava.

“Ancora ? … Ma non è già accaduto molti secoli fa ?”

“Non capisci niente “Diaconetto” … muore ogni anno di nuovo il Venerdì Santo per risorgere a Pasqua.” provava a spiegarmi.

“Ah ! … Non è mai finita, insomma ?”

“Capirai crescendo … Spero che capirai  ! … Per questo ogni anno c’è la Settimana Santa.”

“Ah … Va bè ! Ecco spiegato perché c’è tutto questo lutto qui intorno!”

Mi affascinava un mondo tutto quel sbaraccare, trasformare e mascherare la Chiesa coprendola di tende e teli viola e neri come se fosse morto per davvero qualcuno d’importantissimo. Ogni Crocifisso veniva racchiuso dentro a un sacco viola che lo faceva scomparire del tutto, perfino ogni pala d’altare e affissa sui muri della chiesa veniva coperta da una bella tenda scura che nascondeva tutto il dipinto. La chiesa mi sembrava trasformata in un grande cinematografo in cui non si proiettava più niente, e dentro a quel gran contenitore si susseguivano coreografie, luminarie e accadimenti per me incredibili che non smettevano d’accalappiarmi e incuriosirmi ogni giorno di più.
Era per me un immenso gioco, un’attrattiva irresistibile … Non c’era altro di meglio in quegli anni.

“Ma si son rotte le campane ? … che non suonano più quest’oggi ?” chiedevo al Sacrestano Aldo.

“Sono legate per lutto ! … perché è morto il Signore.” mi spiegava pazientemente mentre non smettevo di seguirlo come un cagnolino di famiglia.

“Ci sono tutte le candele spente in chiesa ! … Qualcuno deve aver fatto un dispetto !”

“Ma no testòn ! … Si sta al buio perché è morto il Signor … Per questo tutto è tutto spento e ho nascosto i Christi, i Santi e le Madonne.” mi spiegava ulteriormente.
Però rimanevo anche perplesso di fronte a tutto quell’allestimento tenebroso e lugubre. Tutto, ma proprio tutto era “parato da morto”: colonne, altari, panche e statue. Tutto era “vestito” con drappi e teli neri o viola, tutto sembrava fermo e buio. In quei giorni sembrava che in chiesa si fosse rotto e guastato qualcosa ... Chiesa, campanile e dintorni, ossia il nostro grande campo da gioco, avventure e battaglie, sembravano devitalizzati, paralizzati e fuori servizio.

“Vedrai la differenza a Pasqua … quando il Risorto illuminerà e rivitalizzerà di nuovo tutto e tutti con la novità della Rissurrezione … Sarà tutta un’altra sensazione: di gioia e di festa luminosa e colorata …” ci spiegava il ViceParroco don Enrico sfoggiando immagini Teologiche che ci lasciavano a bocca aperta incapaci di comprendere.

“Ah … Va ben !” rispondevamo andando a sbarruffare fra noi per avere il privilegio di portare a spasso il fanaletto illuminato con i vetri coloratissimi, o per suonare a due mani il grumo delle campanelle dietro all’altare: “Tocca a me ! … No ! … A me ! … Se non mi lasci questo turibolo te lo do in testa ! … Le torce non le voglio portare perché sono troppo pesanti ! … Io voglio portare “la bugia” sull’altare ! … Io voglio starmene comodo a fare “l’Assistente del Monsignor” !” … Eravamo sempre così … di continuò.

“Basta smettetela con questa confusione !” interveniva in Parroco togliendoci le mani di dosso l’uno dall’altro.
“Dovete stare buoni e tranquilli in questi giorni … perché è morto il Signòr !”

“Ancora ?” chiedeva di nuovo un mio compagno. “Zitto, lascia stare … dopo te lo spiego,” gli dicevo, “ il Piovano ha già detto a me che cosa è successo.” gli sussurravo all’orecchio, e provavamo a metterci quieti per qualche minuto, non di più, prima di tornare ad essere furibondi come sempre.”

“Terremoti di bambini ! … Ma gli Ebrei ?”

“Sto arrivando … Il clou della faccenda accadeva la sera del Venerdì Santo con la grande processione notturna in giro fino a tardi per le strade dell’isola. Era bellissimo, pieno di gente, di amici … e di ragazze … e ci divertivamo un sacco facendone di tutti i colori … Molto meglio che rimanere in casa a guardare la televisione … tanto non ce l’avevo neanche. Poi non era finita, si continuava con quella faccenda anche nei giorni seguenti con la Veglia del Sabato Santo e il festone del giorno di Pasqua: una meraviglia ! … Meglio che andare al “Cinema dei Preti” a vedere un film dopo l’altro come si faceva quasi ogni domenica pomeriggio.
Ed era durante quel Venerdì Santo che il vecchio Piovano cupissimo, spogliato di ogni paramento sontuoso e colorato, come se fosse ridotto in camicia da notte, pregava a lungo per tutto e tutti in maniera interminabile e noiosissima. Noi fra una preghiera e l’altra “in latinorum” scalpitavamo sull’altare come cavalli selvatici chiusi in un recinto … Sembrava non terminare mai quella “tiritera”... Finchè finalmente il Parroco arrivava a dire una frase che mi catalizzava, ed era per noi un segnale, qualcosa che attirava la nostra attenzione, o perlomeno la mia. Il Piovano alzava le braccia per l’ennesima volta, e diceva: “Preghiamo adesso per i Perfidi Giudei !”

“E perché ? … Che ci hanno fatto ?” chiedevo al Piovano alla fine della cerimonia.

“Toco de asino ignorante ! … Dopo tutta la Storia Sacra che ti abbiamo insegnato e spiegato … Sono quelli colpevoli d’aver messo in croce e ammazzato Gesù Christo, nostro Signor … E’ per questo che la loro storia è stata tutta una crocefissione e una sofferenza … Se la sono un po’ voluta … Per colpa di quel loro sbaglio universale che ha cambiato l’intera Storia dell’Umanità, ne hanno patito in seguito di tutti i colori ... e patiranno ancora poveretti ... Ma non sono cattivi … E’ solo il loro destino tragico ... La sai la storia della Guerra Mondiale e dei Campi di Concentramento ? … Vero ? … Sai che ci hanno messo dentro gli Ebrei ?”

Ovviamente mi fecero subito compassione quei poveri Giudei, anche se non capivo bene il nesso fra la faccenda della Croce e i forni di Auschwitz … Comunque mi divennero simpatici. Non era giusta tutta quell’ingiustizia che dovevano soffrire … Perfidi, semmai, erano gli altri ! … Erano comunque i tempi dell’infanzia in cui finivo col mescolare gli Ebrei con Zorro, l’ultimo dei Moicani con gli Schiavi Neri, i “pobrecitos” Messicani con gli Apache e con Robin Hood Principe dei poveri e dei diseredati.
Nella mia mente c’era un senso, una logica che accomunava tutte quelle cose … ma era molto sfumata, quasi inconscia e recondita ... un sentire tutto mio.

Comunque, crescendo, ho studiato un pochetto, e ho scoperto ovviamente che le cose non erano andate proprio come mi aveva spiegato il mio vecchio Parroco che aveva fatto qualche forzatura storica ed emotiva.

In seguito, da Prete e Credente ho subito l’immenso fascino dell’Antico Testamento, della Bibbia, ma anche di tutta l’immensa letteratura fascinosa, sapiente e misteriosa degli Ebrei e della loro riflessione Rabbinica che per secoli, anzi millenni, è cresciuta intorno alle Pagine Sacre. Uno stupendo “castello interiore e intellettuale” secondo me bellissimo, di una ricchezza incredibile che a volte riversavo come esempio dentro alle mie prediche.

“Non sono mica sicuro che sia giusto dire in predica le cose che dici degli Ebrei …” mi richiamava il Parroco dove vivevo da Prete a Venezia, “Non sono mica cose Cattoliche quelle che racconti ! … Sono degli Ebrei … mica della nostra Religione ! … Non dovresti dirle !”

Io gli rispondevo placidamente: “Di recente il Patriarca Luciani ci ha dato una spiegazione illuminante di tante cose dicendo: “Esiste un unico Dio Padre di tutti, anzi, Madre amorevolissima di ogni persona che esiste sulla faccia della Terra. Perciò fra noi dobbiamo considerarci tutti fratelli e sorelle a prescindere dalla Religione che professiamo. Che sia Alah, Eloim, Padre Nostro, Jahvè o Manitù fa lo stesso … è sempre Lui con nomi e aggettivi diversi … E’ come se alla stessa mamma tu dicessi: Mamma bella, buona, brava, cara … ma la mamma è sempre quella a cui vogliamo infinitamente bene … Dovrebbe essere sempre così anche fra le Religioni diverse … Altro che contrapposizioni e lotte inutili … Dovremmo incontrarci, stare insieme e dialogare come fratelli e sorelle …”

Gli Ebrei perciò non sono “altro da noi”, sono la nostra radice, la nostra paternità religiosa, la fonte ispiratrice del Cristianesimo. Sono l’uno la chiave e la serratura dell’altro, così come il Nuovo Testamento Evangelico non è altro che il compimento, l’ampliamento, la chiusura del cerchio dell’Antico Testamento … Non esistono più i Perfidi Giudei”.

Il Parroco in quell’occasione mi ha ascoltato dubbioso non trovando altri argomenti per ribadire … ma dentro di me ho sentito che in un certo senso avevo reso giustizia a quella faccenda del “preghiamo per i Perfidi Giudei” che aveva popolato la mia infanzia.

Questi sono comunque argomenti delicati e dottrinali in cui è meglio per me non entrare … Dico solo che in fondo Ebraismo e Cristianesimo hanno lo stesso sangue nelle vene. Che piaccia o no, siamo un continuum l’uno dell’altro, è come se gli Ebrei fossero i nonni dei Cristiani ... Punto e basta.”

Ecco spiegato allora perché il Ghetto di Veneziam’ispira ancora oggi particolarmente. E’ una realtà Veneziana che mi ha sempre coinvolto direttamente.

Già nel 1378: “… Ser Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino … andò a un Giudeo di Mestre perché gli mancavano 10.000 ducati …”
Infatti nel 1395 era risaputo che gli Ebrei di Mestre gestivano un: “… totum mobile …” costituito da pegni d’oro, argento e perle ... Nel 1405 circa: Maistro Abram Giudeo Fisico abitante in Venezia acquistò case per 1.000 ducati … “Maistro Salomon Ebreo, Mathasia e Bonaventura suoi fioli acquistarono case a Padova dagli ex beni dei Carraresi” … e dieci anni dopo a Venezia si faceva divieto agli Ebrei di avere rapporti carnali con le meretrici Cristiane del Castelletto di Rialto e viceversa, pena da sei mesi a un anno di carcere e multa di cinquecento lire delegando ai Capi di Sestiere e ai Signori di Notte il controllo … Gli Ebrei a Venezia non potevano esercitare alcun'Arte e Mestiere, eccetto la medicina … e dovevano essere riconoscibili da un berretto o da segno di stoffa gialla sul petto ... Alcuni Ebrei tenevano a Venezia scuole di ballo, musica e canto frequentatissime … e si elevarono le multe per gli Ebrei fornicatori con donne Cristiane da 500 lire a 500 ducati e da 1 a 2 anni di carcere.

Nel 1460 i Preti delle Contrade di San Marcuola e di San Geremia litigarono fra loro sulla pertinenza della zona abitativa del Ghetto dove i Da Brolo avevano fatto scavare tre pozzi nel Campo e costruito nuovi ponti verso la Contrada di San Girolamo ... Nel 1504: “… tutto el Ghetto posto in Canareglio andrà in dote alla sposa di Lorenzo Minotto come equivalente di 2.700 ducati d’oro … Consiste in una trentina di caxette abitate da Tessitori e piccoli artigiani che se ne servono per stendere lana …” ll Ghetto era quindi anche zona di Chiovere e l’isolotto a settentrione rimaneva un prato libero per esercitarsi con la balestra.

Dieci anni dopo la Serenissima autorizzò l’apertura di 12 botteghe “di Strazaria”comprendenti non solo vestiario ma anche arredamento, tappezzerie, arazzi e tappeti in cambio di un nuovo prestito straordinario di 5.000 ducati degli Ebrei verso lo Stato … e nel luglio 1519 Marco Michiel comunicò alla Signoria di aver sopraelevato una delle case insieme ai comproprietari Da Brolo per costruire una soffitta-deposito di pegni per il Banchiere Anselmo: fu l’inizio delle sopraelevazioni del Ghetto.

Poi comparvero a ruota la Scuola Canton, e l’Università degli Ebrei ospitò tre Nazioni ed epoche migratorie: la Levantina, Ponentina, e Tedesca … gli Ebrei a Venezia erano 1.424, e pochi anni dopo erano già diventati 1.694 e poi 3.000 con tutto un susseguirsi di “condotte”e permessi di soggiorno e allargamenti residenziali del Ghetto da parte della Serenissima che li autorizzò a praticare l’Arte della Strazzaria, far velami e scuffie, e tenere 3 (e fino a 5) “Banchi da pegno e scambio di denaro”: Rosso, Verde e Nero dati in appalto a rotazione alle famiglie ebraiche più ricche: Ansimo del Banco, Luzzato, Calimani sotto il controllo di uno scrivano ... il Consiglio degli Ebrei elencò 11 società che prestavano soldi alla Serenissima.

L’Inquisizione di Venezia allestì bel 78 processi contro gli Ebrei: i protagonisti testimoni o imputati furono: Portoghesi, Ebrei Sefarditi e Levantini, e fra 1569 e 1579 si tennero sette processi con gli stessi imputati: Righetto Marrano, la famiglia Ribeira e De Nis, con delazioni contro Michele Vas, Felipa Jorge e Consalvo Baes, e procedimenti e denunce “Contra Lusitanos et Marranos” riguardanti anche Maria e Simon Lopes mercante portoghese esercitante in Venezia.

Nel Ghetto c’erano 27 botteghe, 4 pozzi pubblici e diversi privati da cui l’acqua veniva venduta a secchi … e si stipulò una nuova convenzione cimiteriale con i Monaci Benedettini di San Nicolò del Lido ... Nel dicembre 1631 in tempo di peste: Lorenzo Moro quondam Alvise venne imputato con due complici di “… fatto levar a diversi hebrei in diversi tempi e giorni ein strade pubbliche danari con violenza, minacce e offesa a chi non glieli voleva da r…” Venne bandito a vita da Venezia con un suo bravo, e il suo nome fu cancellato dalla Nobiltà Veneziana … Baldassarre Longhena, l’autore del Tempio della Salute, restaurò la Schola Spagnola una delle Sinagoghe del Ghetto degli Ebrei dove per la peste morirono 454 persone delle 40.490 di tutta Venezia.

Nel 1635 venne effettuato un grave furto di mercanzia in Merceria, poi ritrovata nel Ghetto, e ciò provocò un grande scandalo in giro per tutta Venezia …Marco Da Brolo affrontò una controversia giudiziaria per le entrate e i diritti sulle sue 46 case di proprietà in Ghetto, dove sosteneva che 15 abitazioni pagate dai locatari poco più di 241 ducati, venissero sublocate abusivamente per 952 ducati, mentre per un altro gruppo di case stimate per 947 ducati, in realtà ne percepiva solo 230. “… Persino per gli stazi delle beccarie gli affittuali cavano l’utile et entrata per ducati 199, et a me pagano solo ducati 30.”

Nel 1673 gli Ebrei versarono all’Erario della Serenissima 250.000 ducati annui, e diedero lavoro a non meno di 4.000 Artigiani Cristiani producendo merci che spedivano in altre parti del mondo … Nel gennaio 1700, il Senato a causa della crisi economica obbligò gli Ebrei di Venezia a donare altri 150.000 ducati alla Serenissima … Fra 1740 e 1761 nella Contrada del Ghetto esistevano ancora 80 botteghe e si censirono 5 gondole come appartenenti a famiglie degli Ebrei, cosa non concessa nei tempi precedenti … Alla fine del 1787: Abram Geremia Calimani, figlio del Rabbino Simone Calimani, di 58 anni, scortato da Girolamo Ascanio Molin e dal Curato di Santa Sofia: don Martino Ortolani e da Francesco Ballarin si fece battezzare alla Pia Casa dei Catecumenidopo aver seguito completamente l’itinerario tipico riservato ai Catecumeni.

E poi si andò verso la fine della Repubblica Serenissima: per favorire la difesa della città dall’arrivo dei Francesi, la Scuola Grande di San Rocco offrì al governo: 50.000 ducati, la Scuola Granda di San Giovanni Evangelista25.000 ducati, i Monaci Benedettini60.000, il Clero di Venezia diede 4.000 ducati, i Mercanti sborsarono 75.000 ducati, tutte le Scuole Piccole di Devozione e di Arti e Mestieri fecero un loro dono economico, come le case commerciali dei Mercanti Ebrei Bonfili, Vivante e Treves che offrirono 10.000 ducati ciascuna, mentre altri 24.000 ducati vennero offerti dall’Università degli Ebrei.

Paradossalmente durante il fatidico periodo Napoleonico e Austriaco che prostrarono Venezia alla grande, gli Ebrei residenti a Venezia, invece, ebbero un rilancio e un’onda di successo economico incredibile.

La Repubblica era caduta da poche settimane, e le porte del ghetto denominato “Contrada della Riunione” erano state abbattute il 13 luglio 1797, con una solenne cerimonia. Saul Levi Mortera , “coadiutor al scrivano dell’Università dei cittadini Ebrei” compilò un’anagrafe della Comunità del Ghetto comandata da alcune vecchie famiglie veneziane e da un gruppo di facoltosi Ebrei Corfioti.

Nel Ghetto risiedevano 820 uomini e 806 donne raccolti in 421 famiglie, e più di metà dei capifamiglia erano di provenienza eterogenea: dalla Terraferma Veneta, dal Friuli e dalle terre del Papa: Ferrara, Ancora, Pesaro, ma anche dalle aree Imperiali e Ducali di Mantova, Trieste, Reggio Emilia, Torino e Casale. Altri erano ricchissimi mercanti, sarti, biadaioli e mendicanti provenienti dallo Stato da Mar di Venezia: Spalato, Zante, Corfù.
Altri ancora erano “Levantini” cioè Ottomani o Barbareschi provenienti dai “Serragli” di Serajevo, dei Balcani, Tripoli, Salonicco, Candia, Rodi, Costantinopoli, Smirne, ma anche Marocco e Barberia. E c’erano inoltre Ebrei Europei nativi della Polonia, Ungheria, Olanda e Germania.

Nel Ghetto: Motta, Costantini e Fano erano facoltosi Banchieri; Treves, Vivante, Curiel, Todesco e Maltaerano fortunati mercanti internazionali che trafficavano in frumento, zucchero, olio, generi coloniali, drappi e panni. Alcuni Ebrei lavoravano come “senseri da cambi” nei tre Banchi del Ghetto, altri erano “cattapegni”, altri ancora maestri di scuola o addetti al culto e Nonzoli delle 7 scuole del Ghetto: Italiana, Spagnola, Tedesca, Canton, Levantina, Koanin e Messulamin. Molti degli Ebrei vivevano d’espedienti o da mendicanti, come servitori, massere e domestici, camerieri de Casada residenti presso i padroni facoltosi e manovali. Una grossa parte lavorava da “strazzeri, bottegheri da strazze” o “rivendugoli e compravendi” che uscivano dal Ghetto comprando, vendendo e affittando, e andando nell’Emporio di Rialto dove rischiando il carcere riuscivano ad esercitare abusivamente anche la professione di Orefici e Gioiellieri e Cambiavalute e Tappezzieri usando spesso prestanomi Veneziani autorizzati e mettendo mano sugli affari più consistenti, accusati anche di speculare sui prezzi e giocare al rialzo sui cambi della moneta.
Samuele Emmanuel Coen Mondovì nel febbraio del 1805 presentò perfino al Governo Austriaco la supplica di “per poter esercitare l’Arte Chimica ed aprire una Speziaria come ogni altro suddito di Sua Maestà”. Ma fin dal 1565 serviva per iscriversi all’Arte degli Spezieri l’Atto di battesimo, perciò venne escluso.

Il Parroco della Contrada di San Marcuola Antonio Borgato rivolse una supplica all’Imperatore chiedendo un “contribuito di compenso alla perdita di molti proventi perché diminuivano i suoi “incerti di stola” a causa degli Scomunicati Ebrei che si erano allargati abitando con i Cristiani fuori dal Ghetto, occupando magazzini per commerciare e tenere pegni e cinque palazzi e 19 case, la maggior parte di molti piani.”

A metà del 1800: le proprietà degli Ebrei nel Veneziano assommavano a 8.500 ettari, possedevano altre migliaia di ettari nel Polesine e sulle foci del Po, e centinaio di ettari (314 campi) tra Padova e gli Euganei, nella Riviera del Brenta, Codevigo, Altino, Loreo e altri terreni dell’Abbazia di San Zeno nel Veronese. Gli Ebrei furono protagonisti della bonifica di Ca’ Corniani del Portogruarese e nel Sandonatese, sedevano nell’amministrazione delle Assicurazioni Generali, e i vari Nobili Zorzi, Grimani, Giustinian, Gabriel, Querini, Papafava e Spinola, oltre ad altri Borghesi, Mercanti e Capitani Marittimi erano indebitati con loro per decine di migliaia di ducati e anche di più, forse per più di un centinaio di migliaia di ducati.

Durante il crudo e duro inverno del 1857, laFraterna Vestire gli Ignudie laFraterna Generale degli Ebrei dispensarono:50 mantelli, 25 coltrici, fazzoletti da collo ed abiti per 20 donne, lenzuola a puerpere e pannilini ai neonati …Si spesero di lire 63.000 di cui lire 27.000 per sussidi fissi e straordinari a bisognosi, e lire 2.000 per iniziare i giovani alle Arti e Mestieri, mentre la Fraterna di Misericordia e Pietàdispose annualmente lire 5.000 per soccorsi, assistenza, malattie, indigenze e tumulazioni.

Infine la Prefettura di Venezia raccomandò a più riprese di non molestare in alcun modo gli Ebrei perché: “giungono ad aver tra mani per così dire tre quarte parti dell’intiero residuo commercio di questa piazza, e ad esser poi quasi i soli capitalisti sui quali poter far conto.” Bisognava evitare ogni misura ostile nei loro confronti, ottenendo il risultato di non farli emigrare verso “altri paesi non lontani nei quali sono tollerati e protetti … cercando di contenere l’antigenio della popolazione pegli Ebrei … che deve attribuirsi alle antiche abitudini.”


il Ghetto rimase sempre ed è ancora oggi quel cocktail umano, quell’Animo eterogeneo e impressionante … che continua a giustapporre e amalgamare persone molto diverse fra loro formando parte della nostra amata Venezia.

“CI RITROVIAMO IN PIAZZETTA AD AMMIANELLA ?”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 101.

“CI RITROVIAMO IN PIAZZETTA AD AMMIANELLA ?”

Ultimamente scherzando, Matteo, un mio amico e collega Fisioterapista, mi saluta spesso proprio così:

“Ciao Stefano !  Ci rivediamo in piazzetta ad Ammianella ?”
“D’accordo !” gli rispondo di solito, “Passo per Torcello e Costanziaco, e andiamo a bere qualcosa in osteria in piazzetta ad Ammianella.”
“Ultimamente queste cose della Laguna di Venezia mi prendono davvero tanto … Mi portano via … e a volte mi perdo per ore in Internet a inseguire notizie, leggende e storie su quei luoghi e quelle vicende davvero curiose ...”
“Vero Matteo ! … Così si fa ! … Siamo fortunati a vivere qui a Venezia con le sue storie e il suo sorprendente isolario a portata di mano.”

Con Matteo capita spesso così … quasi ogni fugace volta che c’incrociamo fra le pieghe strette e intense delle ore di lavoro.

Lo sapete già, l’isola di Ammianella oggi non esiste più: è poco più di uno specchio d’acqua lucido nelle lagune dietro a Torcellosotto delle quali, immerse nel fango delle barene, o ricoperte dalle Salicornie e dai Ligustri, riposano i resti di tanta Storia vissuta e accaduta dimenticata spesso dai più, e gridata in cielo solo dalle tornate Rondini che spettegolano coi Gabbiani, le Folaghe e i Cormorani … che a loro volta le raccontano ai Tuffetti d’Acqua, ai Go’, ai Scèvali, le Anguelle e ai rari Passarini immersi nell’acqua della Laguna.
Loro sì che sanno tutto … Forse più di tutti noi messi insieme … anche se solo nella mia fantasia.

Ammianella coincideva precisamente con Sant’Andrea e San Giacomo Apostoli detti Sant’Andree e Jacopo de Torcello o Sant’Andrè Imani.

Imani ?

Sì: Imani… Non so bene perché ... Qualcuno sospetta della presenza nell’area di un antico tempio Romano delle Lagune ... ma forse è solo un’ipotesi, e per di più anche un po’ gratuita, poco fondata.

In verità non è che se ne sappia tantissimo di quell’angoletto remotissimo, di quello spicchio della Laguna Nord davvero tanto nascosto quanto dimenticato ... personalmente ho trovato solo un centinaio di righe in tutto su Ammianella e i suoi segreti storici.

Eppure per certi versi quel posto è stato anche per un certo tempo un’eccezione: Sant’Andrea di Ammianella è stata l’unica Comunità maschile di Monaci della Laguna Nord di Venezia: c’erano i Canonici Regolaridi Sant’Agostino.

Su Ammianella leggo in uno dei tanti vecchi testi che raccontano della Laguna di Venezia: “Piccola isola collegata ad Ammiana da un ponticello. Possedeva un proprio castello o castrum e formava una comunità separata ed un proprio nobile monastero dedicato a Sant’Andrea e San Jacopo dipendente dalla Matrice di San Lorenzo di Ammiana alla quale pagava annuo censo di 1 libbra d’olio ... Fu eretta in memoria dell’antico Oratorio costruito da Sant’Eliodoro ad Altino ... L’isola, infatti, si trovava ad appena un miglio da Torcello … e si dice che le sei colonne in essa esistenti fossero costituite da raro marmo, tanto che fu promulgata una legge nel 1329 che ne impediva l’asportazione più volte tentata ...”

Ecco qua ! … Questa è più o meno tutta la Storia di Ammianella che sono riuscito a trovare.

Una storia collocata fra 1152 e 1455: trecento anni in tutto  … Quasi niente.

In una mappa acquarellata presente nel fondo di San Girolamo, il luogo dove sorgeva Sant’Andrea di Ammianella viene presentato con un disegnetto. Ingrandendolo un poco (ammesso che riporti per davvero qualcosa su com’era quel luogo realmente) si notano solo due edifici (chiesa e monastero ?), o magari erano solo due stanze l’una accanto all’altra, in riva a zone paludose affioranti appena emerse sul livello delle acque della Laguna: “... sulla Palude di Sant’Andrea o Sant’Andrà e Giacomo di Ammianella di Limani oltre il Canale di San Lorenzo …”

Osservando ancora la stessa carta, Sant’Andrea sorgeva poco distante dalla chiesola di San Anzollo Michele dei Nani (che era Monastero di Monache Benedettine)… Poco distante c’era la deserta isoletta di Centranico che dal nome sembra essere stato l’affioramento al centro del minuscolo arcipelago oggi scomparso del tutto. Al di là spuntavano dalle acque basse anche l’isoletta di San Marco e Crestina, e più oltre ancora, anche l’isola di San Pietro di Casacalba sull’attuale Motta dei Cunici.

Poi c’era Ammiano, come si legge su certe antiche carte, con San Felice collegata attraverso un sottile ponticello con l’isola di Castrazio dove sorgevano la Pieve sulla motta di San Lorenzo, e l’altra chiesetta dei Santi Apostoli. Appiccicata, c’era, infine: Costanziaco deserta su una mappa, e, invece, con la chiesetta di San Giovanni o San Zuane su di un’altra.

Insomma: quei luoghi emersi poco distanti dall’Emporio Torcellano era zone di: Fondazzi, secche, Tumbae, argini disfatti, “Palùe de Paltàn seràe da grisiole”, antiche torri d’avvistamento, e canali bassi come quello di Gagìa o Gagiàn, e “pali fini incassai in gran numero per far valle”, e rari Lavorieri … Su una mappa si legge distintamente: “Sant’Andrea di Ammianella: chiesa diruta in fazza al Fondazzo di Valle di Ca’Zane”

Ossia già all’epoca di quel disegno, quel posto era rovinoso e malandato del tutto ... Altro che l’amena piazzetta con l’osteria di cui fantasticavamo insieme a Matteo !

Comunque quelle erano zone della Laguna su cui si avanzavano diritti, si contendevano acque, peschiere e mulini, e dove si provava a costruire e coltivare orti e vigne. Si conoscono anche alcuni nomi misteriosi di quei appezzamenti, che però ci suggeriscono poco o quasi nulla: “Fundatium”“Piscaria Memo que est prope ecclesiam Sancti Andree de suprascripta Amiani ”… poco distante della acque paludose “… de Septem Salariis …  in començaria Sancti Andree de Amiana” … “Vigno Storto” … “Doça”.

Una grande nebbia fumosa e incerta di una Storia che fu … dentro alla quale fra storie dette e ridette, mezze sgarruffate e contorte, qualcuno ha scritto che il primo documento certo riguardante la chiesa di Sant’Andrea e San Giacomo di Ammianella sia stato del 1153, ma che chiesa e Monastero sono stati soppressi già nel 1180.

Ma come ? … Neanche trent’anni di vita in tutto ? … Com’è possibile ?
Incredibile ! … Il Monastero non ha neanche fatto tempo a nascere che era già morto ?

Poi si va a guardare meglio, e si trovano date cambiate e diverse: la prima notizia incerta su Sant’Andrea o Ammianella di Torcelloè del 1170, mentre la soppressione è accaduta nel 1549 … Da un’altra parte però si legge che quella data è riferita alla scomparsa di un’altra chiesa poco distante: forse Sant’Anzolo di Ammiana… o forse a San Pietro di Casacalba di Torcello… Che Ammianella coincida con la Motta dei Cunicci ?

Che confusione ! … Ma poco importa.

Sembra insomma che fra 1179 e 1180 un certo Prete della Contrada di Santa Sofia di Venezia: Prè Domenico Franco, abbia ottenuto in dono dal Piovano di San Lorenzo di Ammiana: Prè Marco Greco: chiesa e Monastero diroccati di Sant’Andrea Apostolo di Ammianella.

Quindi alla prima data utile riportata dalla Storia: significa che Ammianella se era ormai rovinosa era già arrivata alla fine di un suo primo misterioso ciclo di vita e storie di cui non si sa nulla.

Di certo poco importarono queste considerazioni a Prè Domenico, che si affannò a riedificare tutto, e introdusse in quel nuovo Monastero lagunare i Frati Eremiti dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino… gli Agostiniani.

I Papi Urbano III e Innocenzo III si affrettarono ad approvare e confermare a più riprese la bontà di quella scelta.

In ogni caso qualche anno dopo, nel 1197, un altro documento si premura di confermare che era ancora il Piovano Marco Greco, succeduto nell’incarico agli Arcidiaconi Torcellani: Domenico Memmo e Aurio Vitale a comandare tutto e a gestire ogni acqua, pietra e tutti i beni di quella parte della Laguna: “Si plebanus viveret … nullum lapidem asportasset abbas …”

Che fosse chiaro per tutti ! … In quella zona comandava soltanto lui.

Intanto Prè Domenico Franco divenne Priore… Ma Priore di che ? … Di niente ? … Di pochi metri d’acqua, cappelle dirute e aree paludose grondanti e stagnanti abitate da uccelli palustri e invase dagli insetti ?
Non solo … non solo … Pre Domenico Franco si diede parecchio da fare, perché sembra sia stato nel 1200 anche il primo Priore di un’altra isoletta posta fra due paludi fra San Nicolò del Lido e San Pietro di Castello dove c’era un’altra chiesetta soggetta al Vescovo di Olivolo-Castello col titolo di Sant’Eufemia e Compagne Martiri. Si trattava della futura isola di Sant’Andrea della Certosa.

E non è ancora tutto ! … perché sempre gli stessi Canonici di Sant’Andrea di Ammianella crescendo d’importanza e consistenza economica, nel 1225, diedero in concessione tramite il loro Priore Michael le acque di Sant’Arianin cambio di 550 cefali da corrispondere ogni anno nella festa di San Michele.
I Canoni dieci anni dopo erano diventati ormai più di una settantina, e con vari permessi rilasciati da Papa Gregorio IX iniziarono a ricevere sempre più elemosine e donazioni testamentarie da parte di persone e devoti di Torcello, San Nicolò del Lido, Venezia, e perfino Aquileia, e di conseguenza iniziarono ad acquisire rendite e terreni e proprietà un po’ dappertutto spendendo 15.000 denari per acquistare nel Padovano, Trevigiano, Concordiese e Cenedesee fino in Istria ... Sant’Andrea di Ammianella possedeva anche l’isola della La Granza ubicata tra il fiume Sile e il Siletto nel Trevigiano.

E’ lunga la lista di coloro che continuarono a far donazioni a Sant’Andrè de Amiano: Pietro ZianiIsabetta moglie di Marchesino da Mugla della parrocchia di Santa Maria Zobenigo ... Maria vedova di Giacomo GradenigoMarco Bocasso figlio di Pietro Bocasso residente in Contrada di San Simeone Profeta a Venezia ... Zorzi MarsilioMiglano de Remondino da Verona e molti altri ancora.
Gli stessi Canonici godevano della fiducia e della stima Papale, tanto che Innocenzo IV incaricò il Vescovo di Caorle, il Priore di Sant’Andrea di Ammianellae l’Arciprete di Torcello di gestire a suo nome la vertenza tra il Monastero di Santa Margherita di Torcello e il Monastero di San Tommaso dei Borgognoni di Torcello circa la soggezione del primo al secondo e la proprietà dei relativi beni.

Deduciamo perciò che in quei secoli quella parte della Laguna di Venezia davanti a Torcello e Burano era popolatissima e attivissima. In quelle plaghe bagnate e in quelle discoste contrade lagunari fervevano molto la vita e le attività economiche, commerciali e sociali: nel dicembre del 1269, infatti, a Torcello davanti all’Arciprete dell’isola e Notaio Leonardus Deodato: ViolaCocafiglia del quondam (defunto)Nicola Coca del Confinio di Sant’Andrea di Torcello con il consenso di suo marito Giovanni, divise con Giacomo suo fratello del detto Confinio una terra e una casa lignea sita nel Confinio di Sant’Andrea di Torcelloconfinante col Rio Maggiore, la palude e la proprietà di Giacomo Contarini.

Nell’estate del 1251, invece, sotto ai Portici di Rialto davanti al banco del Notaio Dominicus Russo Subdiacono di San Canciano di Venezia: Agnese Viaduri figlia del quondam Domenico Viaduri da Torcello, abitante nel Confinio di Santi Apostoli, vendette a Cecilia Dolfin Badessa di Santa Margherita di Torcello e a Palma Gradenigo del Confinio di Santa Maria Materdomini una terra e casa sita nel Confinio di Sant’Andrea di Torcello per lire 115 e soldi 5. L’appezzamento confinava con la via Comune lungo il Rio, la palude, Santa Maria di Torcello, e le proprietà di Palma Gradenigo.

Ancora nel dicembre 1283, e sempre a Torcello davanti al Notaio Matteo de Crescencio Pievano di Santa Sofia di Venezia: Cristiano Abate di San Tommaso di Torcello e Frate Michele Soranzo Priore di Sant’Andrea di Ammiana esecutori testamentari di Palma vedova di Marco Cappello già abitante a Santa Maria Materdomini e poi a Torcello nel Confinio di Sant’Andrea, locarono dopo una lunga lite nata fin dall’agosto 1272, ad Agnese Badessa di Santa Margheritaun orto sito a Torcello confinante con la via ed il Rio Comune e il Monastero per lire 11 di annui denari veneti.

Sono solo alcuni esempi, per ricordare come ad Ammianella si viveva per davvero … e chissà ? Forse esisteva anche quella micropiazzetta con l’osteria di cui scherzavamo con Matteo.

All’inizio del 1300, invece, si capovolse la Storia. Il Monastero di Sant’Andrea di Ammianella subì di certo, non si sa bene perché, una grave crisi economica: i Canonici da 30 diventarono solo 7, tanto che il Papa affidò la conduzione del Monastero ad Alirone Vescovo di Torcello nel tentativo di salvare il salvabile, e risollevare le sorti del Monastero con la sua isoletta.

Niente da fare ! Non si riuscì nell’intento, perché le cronache e i documenti raccontano che Ammianella sia stata abbandonata del tutto dai Canonici-Frati fin dal 1340, e che nell’aprile 1355 il Monastero di Sant’Andrea di Ammiana fosse già segnalato come in rovina, e demolito per ordine del Senato Veneto:“Inoltre si deliberò che i Procuratori della chiesa di San Marco possono prendere colonne, pietre e legnami del Monastero e della chiesa di Sant’Andrae de Aymanis che stanno andando in rovina e vanno dispersi per i restauri e i lavori e a beneficio e ornamento della chiesa di San Marco … concedendo per tutto ciò che prendono un’equa e proporzionale elemosina al Monastero di San Girolamo secondo libertà e discrezione.”

Cento anni dopo di Sant’Andrea di Ammianella era rimasto solo il titolo con alcune rendite e le zone acquose limitrofe piene di fango e zanzare.

Nel 1423 l’isola della Granza sul Sile appartenente a Sant’Andrea di Ammianella e descritta come territorio composto da più pezze di terra arativa e prativa coltivate e in parte incolte, e con boschi su cui esisteva una casa e certe teze di legno ... venne data “a livello” ai Nobili Loredan dal Priore del Monastero di Sant’Andrea: l’unico Frate titolare rimasto che però non abitava più i luoghi.  Nel 1485 gli Avogadori da Comun della Serenissima, dopo aver condannato Lorenzo Loredan per aver derubato la Cassa dell’Ufficio delle Cazude, misero all’asta l’Isola de La Granza sul Sile che venne assegnata per 4.200 ducati a Nicolò Morosini… Cinque anni dopo una disposizione del Doge Francesco Foscari vietò di trafugare materiali dalle rovine dell’isola di Sant’Andrea di Ammianella, e fu necessario ribadire la cosa più e più volte minacciando pene severe … Solo nel 1436 però Lorenzo Giustiniani non ancora Patriarca di Venezia (1451) e ancora solo Vescovo di Olivolo decretò la soppressione definitiva del Priorato di Sant’Andrea di Ammianella donandone le residue rendite al Monastero delle Monache di San Girolamo di Venezia da poco istituito e andato quasi subito disastrosamente in fiamme.
Il suo amico il Nobile Gabriele Condulmer diventato Papa col nome di Eugenio IV approvò e confermò immediatamente.

Poi: … tutto finì … e basta … Di Ammianellala Storia non ha detto più niente … Si è trattato in definitiva di una brevissima parentesi di “piccola Gloria” di uno spicchietto di Laguna Veneziana presto tornato ad essere depresso e spento.
Nel 1832 durante un ciclo di scavi archeologici si è rinvenuta sul posto di Ammianella una fondazione ottagonale medioevale, ma si sospetta che Sant’Andrea di Imani possa aver avuto, invece, una normale pianta basilicale … I documenti non dicono altro, e comunicano solo grande incertezza interrogativa.

Ammianella ?  Boh ! … Che è ? …Dov’era ?

Era forse l’erede sovrapposto all’antichissimo San Felice in Ducia dove esisteva anche una sorgente d’acqua sul cui usufrutto litigavano Frati e Preti della zona?

Fra 1970 e 1980 sono state fatte prospezioni aeree individuando sentieri sommersi da almeno un metro d’acqua, resti di edifici, mura perimetrali oltre a quelli del Monastero e la chiesa, condotte per acqua dolce, pavimentazioni e tombe insieme a qualche sinuoso canale che serpeggia rincorrendo le ore della marea che per sei ore cresce … e per altre sei cala, per poi tornare a salire, e poi ridiscendere di nuovo … come un’infinita ninnananna senza fine che si ripete all’infinito sulla Laguna cantando antiche storie e leggende.

E’ strana la sensazione che si prova oggi di fronte a tale spettacolo … Un tempo lì c’era tanto, anzi, tantissimo.

Un antico “Manuale della guerra” diceva che dentro alle vicende della Storia alla fine vincerà sempre colui che non solo avrà più carri, cavalli, armi, uomini, idee e vettovaglie:
“Non sarà vincitore colui che sarà più ricco in astuzia, consapevolezza, organizzazione, forza e intraprendenza … ma colui che avrà da mettere nella bilancia delle opportunità un retroterra esistenziale, culturale, interiore più ricco e variegato oltre al suo saper guerreggiare ... Sarà tutto quello a far pendere la bilancia dalla sua parte come il peso di una libbra contro un solo chicco di grano.”

La Serenissima di un tempo tutte queste cose le sapeva bene … Per questo aveva quella sua Laguna satura di un esercito di uomini e donne che pulsavano, vivevano, anelavano formando un grande cuore segreto potentissimo su cui Venezia poteva sempre contare. Nella sola isola di Torcello oggi sparuta e deserta sorgevano almeno una decina fra chiese e Monasteri, un’altra decina a Mazzorbo proprio di fronte … cinque-sei a Burano al di là del canale, non meno di quindici a Murano, e non meno di un’altra dozzina nelle sommerse Costanziaco e Ammiana fra cui anche in nostro Sant’Andrea e Jacopo di Ammianella.

Insomma: un vero e proprio esercito d’insediamenti e persone … un patrimonio, un serbatoio immenso di storie, risorse e accadimenti che si fatica solo a immaginare.

Oggi è difficile cogliere i segni di tutto quel ricco passato trascorso per sempre: di fronte a noi c’è solo una distesa acquea liscia amena e silenziosa piena di niente ... Però chissà, forse chiedendo alle Rondini, e ai Tuffetti d’acqua, o alle Salicornie e alle Anguelle del fondo … oppure fantasticando come con Matteo sull’osteria in piazzetta ad Ammianella … forse potremo riappropriarci di qualcosa che in fondo è ancora nostra … soprattutto di noi Veneziani.

Sognar non costa niente …





“ACCADIMENTI FIORENTINI AL BANCO GIRO DI RIALTO A VENEZIA ... NEL 1621.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 102.

“ACCADIMENTI FIORENTINI AL BANCO GIRO DI RIALTO A VENEZIA ... NEL 1621.”

Sapete meglio di me come fervevano la vita, i commerci e gli affari nell’Emporio di Rialto di Venezia.
Fra tutti, c’erano anche i Mercanti di Panni, Banchieri, Argentieri, Cambisti, Assicuratori e Artieri Tessili, Serici e Lanieri della “Nazione Fiorentina” residenti a Venezia.  
I Fiorentini a Venezia erano una presenza molto considerata dalla Serenissima, tanto che ben 672 di loro ottennero la “Cittadinanza de intus” … cosa rarissima per i “foresti”presenti a Venezia.

La Comunità Fiorentina residente in Venezia godeva perciò di particolari esenzioni daziarie e fiscali, ed era favorita nella gestione dei commerci in entrata e uscita da Venezia in transito col Levante e Ponente, con la Lombardia e col resto d’Europa. I Fiorentini furono abilissimi a prendere accordi con i Nobili Veneziani fino a imparentarsi e sposarsi con alcuni di loro: il ricchissimo Nobile Paolo Francesco Labia, ad esempio, sposòLeonora Baglionizia di Michelangelo Baglioni, uno dei rappresentanti più significativi dei Fiorentini a Venezia, e il figlio Giovan Francesco Labiasposò nel 1614 a FirenzeLeonora Antinoridi una delle famiglie Fiorentine più significative.

In alcune epoche i Mercanti Banchieri e Finanzieri Fiorentini privilegiarono molto investire “nel pubblico” di Venezia sfruttando l’attività di scritta e le lettere di cambio dei Banchi della Piazza di Rialto e del Banco del Giro(dal 1619) considerandoli uno dei Mercati più sicuri e redditizi d’Italia.
Viceversa, in altre situazioni storiche quando esisteva conflittualità fra la Serenissima e Firenze, gli operatori Toscani venivano espulsi prontamente da Venezia, ma erano sempre altrettanto pronti a ritornare, così come venivano a rifugiarsi in Laguna se erano banditi o espulsi dalla loro Patria.

A conferma di questo, nel 1435, siccome molti Fiorentini residenti da tempo a Venezia erano morti durante la peste senza soccorsi materiali e spirituali, non volendo più vivere “… inconsulte et imprudenter”, deciserotramite il Chierico Baldulfi e Giovanni Battista Gamberelli e Giacomo Nardi di aggregarsi in apposita Schola Compagnia di Devozione "come si fa a Fiorenza" riunendosi prima presso i Padri Domenicani di San Zanipolo, e poi presso i Francescani di Santa Maria Graziosa dei Frari.

Il solito Marin Sanudo dei Diari racconta: “… secondo gli ordini della Compagnia del 1503 nella Confraternita dei Fiorentini si praticava la disciplina … cioè ministri e cerimonieri doveva imporre il sermone, il capitolo, le preci, la lauda … e tutto quel che fusse giudicato a proposito per la consolazione dei fratelli …”

La Confraternita-Compagnia dei Fiorentini accordandosi di pagare 20 ducati annui, ottenne dai Frati della Ca’Granda dei Frari “un luogo congruo et decente" collocato all’interno del loro Convento e un’altare-Cappella "in pietra viva"dentro alla chiesa entrando dalla porta maggiore, sulla sinistra, lungo la parete rivolta a mezzogiorno.
Lì la Compagnia de San Zuane Battista della Nazione dei Fiorentini avrebbe collocato il loro mirabile “San Giovanni Battista” scolpito da Donatello, le insegne della Schola, e il simbolo gigliato del Comune di Firenze ... Ai lati della porta avrebbero ricavato alcune arche per seppellire i Fiorentini morti a Venezia, e in mezzo al campo avrebbero infisso “un’abate in pietra d'Istria”per esporre il loro “penelo Gigliato” nei giorni di festa quando i Fiorentini si riunivano indossando una veste nera con l'immagine del Battista posta sulle spalle.

Nel 1445 i Fiorentini erano presenti a Venezia, perché i Vescovi di Padova e di Concordia insieme agli umanisti Francesco Barbaro e alla Fiorentina Palla Strozzi parteciparono alla laurea di Maffeo VallaressoCanonico Prebendato come i veneziani Giovanni Priuli e Giovanni Condulmer parente di Papa Eugenio IV.

Viceversa, all’inizio del 1500 i Frati della Ca’Granda dei Frari cercarono di appropriarsi della Cappella dei Fiorentini che s’erano di nuovo allontanati da Venezia, tanto che il Legato Apostolico intervenne condannando il Convento: “ … a ridur in pristino stato tutto quello che da loro fu demolito nella Cappella di detta Schola …”
Anche un’ulteriore delibera del Consiglio dei Dieci obbligò i Padri: “a dover conseniàr detta Schola de Fiorentini nel pacifico possesso di detta Cappella …” perché i Toscani stavano tornando a Venezia un’altra volta.

Nel 1621 Michelangelo Baglioni era uno dei venti “principali Gentiluomini”, Signori della Nazione Fiorentina a Venezia: Vice-Console dei Fiorentini, mentre Alessandro Franceschi era Consigliere, Pietro Mannelli Vice-Consigliere. Giulio Strozzi e Carlo di Alessandro Strozzi assieme a Francesco Bonsi organizzarono a Venezia ai Santi Giovanni e Paolo “il negoziodella Nazione dei Fiorentini” delle Solennissime Esequie ufficiali celebrate anche a stampa, per la morte del Granduca Cosimo II de Medici, usate dai Mercanti anche come occasione per affermare e pubblicizzare se stessi e i propri affari a Venezia.

L’anno seguente, invece del successo, giunse anche a Venezia la crisi economica, e i Mercanti Fiorentini si trovarono di nuovo in difficoltà fino ad abbandonare “la piazza della Serenissima”.
Nel 1622 Pietro Manelli schivò per un soffio il fallimento per voci di mancato credito, e fu costretto a depositare in tutta fretta una considerevole somma di ducati sul Banco di Giro di Rialto.
Qualche mese dopo, invece, voci di contrabbando di seta coinvolsero Carlo Strozzi ricchissimo Nobile,Mercante e Banchiere Fiorentino residente in Contrada di San Canciano portandolo a un fallimento che fece insorgere rabbiosi molti Nobili Veneziani che si rifiutando di rispettare gli accordi pattuiti con lui per i cambi di moneta:

“Il fallimento di questi Strozzi arriverà a 500.000 ducati per quel che si dice per la Piazza, a 200.000 di quali restano sotto molti di questi Nobili et Senatori Principalissimi, che avezzi a non perder mai, et ad essere serviti et ringratiati, mettono strida alle stelle, e … qui tutto il Mondo grida contro di lui et della Natione Fiorentina … Carlo Strozzi si è assentato havendo lasciato in abbandono ogni cosa, et nella sua casa sono state bollate le scritture, mercantie, mobili et ciò che vi è …”

Gli Strozzi e i Fiorentini erano fuggiti in fretta e furia da Venezia un’altra volta.

Comunque nelle Cronache Veneziane e nei documenti del 1613 si può ancora leggere: “… alli signori Ruberto Strozzi et Donà Baglioni, mercanti in Venezia, lire dese settemila et sono per l’amontar di stara mille formento di Fiandra a peso mullin a lire 17 il staro.”… il 06 agosto 1619 venne battezzata a Venezia la soprana e compositrice Barbara Strozzi … mentre nell’agosto 1644 morì a Venezia l'artista Bernardo Strozzi, detto “il Cappuccino” o“il Prete Genovese”.

I Fiorentini erano quindi tornati a Venezia, o forse non se n’erano mai andati via del tutto … ma di certo non fu più come accadeva una volta a Rialto.

Ancora nel 1658-1675 i Fiorentini residenti a Venezia pagavano regolarmente l’affitto di 20 ducati annui stabilito nel 1443 dai Frati del Convento dei Frari, nonostante fosse diminuita quasi del tutto la presenza dei Mercanti e Operatori finanziari Fiorentini sul mercato Veneziano. Anche gli spazi all’interno della Cappella in chiesa ai Frari risultarono progressivamente abbandonati, tanto che nel dicembre 1703 il Fiorentino Matteo Teglia residente a Venezia rinunciò definitivamente ai locali per “le riduzioni” della Schola al pianterreno del Convento, e i Frati si premurarono di assegnarli subito alla Schola di Sant’Antonio... “almeno fino a quando i Fiorentini non fossero ritornati in massa a operare a Venezia”precisava il documento di disdetta dei locali usati dalla Confraternita dei Fiorentini.

Ma la cosa non avvenne mai più.





UNA BIBLIOTECA ANTICA DEPREDATA E NASCOSTA IN CUI FIOCCAVANO SUI SEMINARISTI FRECCE TRIBALI AVVELENATE AL CURARO … A VENEZIA.

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 103.

UNA BIBLIOTECA ANTICA DEPREDATA E NASCOSTA IN CUI SUI SEMINARISTI FIOCCAVANO FRECCE TRIBALI AVVELENATE AL CURARO … A VENEZIA.

Ve lo anticipo dai ! … Intendevo inserire questo episodio dentro al prossimo volume della mia Trilogia autobiografica che sto tentando di partorire ormai da tempo. Dopo aver scritto “Il Pifferaio” riferito alle esperienze “singolari” che ho vissuto come Prete a Venezia negli anni 1982-1987, sto pensando di guardare indietro e far scorrere il film della mia vita raccontando quando mi è accaduto prima: ossia durante la mia infanzia e giovinezza quando vivevo nella mia isoletta di Burano spersa in fondo alla Laguna, e quando stavo nel Seminario della Salute di Venezia “impastandomi e lievitando e crescendo” per diventare un Prete Cattolico ... cosa che poi è accaduta nell’ormai lontano 1982.

Quello della “Biblioteca nascosta in cui fioccavano sui Seminaristi frecce tribali avvelenate al curaro” è un episodio reale che fa parte del mio vissuto di un tempo, però per gustarlo meglio è necessario prima comprendere almeno un poco che cos’era quel posto davvero speciale in cui è accaduto quell’episodio. Quella che è stata la Biblioteca dei Somaschi della Salute è un luogo che c’è ed esiste ancora a Venezia, ed è un altro di quei bijoux e scrigni nascosti quasi sconosciuti per gran parte dei Veneziani, molti dei quali non hanno mai avuto la fortuna di poterci entrare anche solo per visitarlo un attimo.
A tutt’oggi rimane per vari motivi un posto recondito e precluso ai più, ma conserva tuttavia tutta la sua precipua bellezza e la sua microstoria interessante perfettamente integrato con tutto il resto che forma la Storia della nostra Venezia Serenissima.

Per farla breve, posso riassumervi che un tempo la Libraria dei Somaschiresidenti accanto alla Basilica della Madonna della Salute di Venezia è stata un’antica Biblioteca con più di 30.000 preziosi volumi, una fra le tante belle e fornite che punteggiavano la Venezia del 1500-1600. In quanto a valore e consistenza non era proprio fra le ultime in quanto anche il famoso incisore Coronnelli la ritenne degna d’essere illustrarla e rappresentarla nelle sue celebri stampe su Venezia.
Veniva chiamata anche Libraria Zanchi dal nome del Fondatore dei Convento di Venezia il Preposito Generale dei Somaschi Geronimo Zanchi e conteneva al suo interno oltre ai libri, anche intarsi e decorazioni lignee preziose degli scaffali, e opere pittoriche di Girolamo Brusaferro, Sebastiano Ricci e del Bambini, oltre a una preziosa decorazione del soffitto ricoperto da tele di Antonio Zanchi.

Come vi ho già detto poco fa, era insomma: un bijoux, un luogo coccolo di Sapienza, Cultura e Bellezza che meritava grande considerazione da parte di Veneziani e Foresti.

A volte non ci rendiamo conto a sufficienza dello scempio prodotto dai Francesi Napoleonici con il loro passaggio distruttivo a Venezia … C’è perfino qualcuno che si ostina a minimizzarlo apprezzando, invece, la ventata di modernità liberalizzante e innovatrice portata dai Napoleonici in Laguna. Benvengano la libertà, la modernità e le nuove idee … ma rimane il fatto che i Francesi giungendo a Venezia hanno depredato, saccheggiato e distrutto più che innovato e valorizzato. Provate a leggere un attimo qui di seguito, e ditemi poi se per caso ho torto.

Un recente articolo presente su Internet elenca quanto è rimasto oggi dell’antica Biblioteca Monumentale dei Padri Somaschi: “… nella Biblioteca Monumentale si contano attualmente oltre 200.000 volumi e opuscoli a stampa, 72 incunaboli, 1637 edizioni cinquecentine e 1350 manoscritti.”

Il saccheggio di quella Biblioteca mirabile iniziò già nel 1797, ma ad essere precisi, molti libri e manoscritti famosi e di pregio erano già stati rubati, tenuti per se, nascosti o venduti in antecedenza anche dagli stessi Frati. Si sa, ad esempio, che i Padri Somaschi della Salute per procacciarsi vitto e denaro per sopravvivere vendettero al libraio Adolfo Cesare 1.000 libri rari per 1 ducato ciascuno a sua scelta, e che in precedenza ne avevano spostati altri altrettanto pregiati altrove, forse a Roma o a Somasca. Altri libri di minore valore provenienti dalla stessa Biblioteca vennero utilizzati sempre dagli stessi Frati per pagare pescivendoli, venditori di pepe e bottegai.
Ma al di là di tutto questo furono Napoleone & C a fare le cose per davvero in grande.

La lista dei “Libri asportati dai Commissari Francesi dalla Libreria dei Reverendi Padri Somaschi di Santa Maria della Salute di Venezia l'anno 1797.”è lunghissima: “I Francesi prelevarono innanzitutto 122 libri preziosissimi: soprattutto ricche riproduzioni eleganti illustrate e arricchite da incisioni di opere di Classici Antichi Latini e Greci come Aristotele, Demostene, Isocrate, Omero, Cicerone, Seneca, Lucano, Orazio, Quintilliano, Plauto ma anche appartenenti alla Letteratura Italiana come: Petrarca, Dante Alighieri, Boccaccio, Tasso, Ariosto. S’impossessarono poi di diverse “Aldine” di Aldo Manuzio del 1400-1500, di diversi erbari e illustrazioni minuziosissime d’animali, e di una sfilza lunghissima di eccellenti stampe, miniature e incisioni in carta o in rame riproducenti alcuni Dogi di Venezia, opere di Michelangelo, Canaletto, Durer, Vandyck, Ricci … Fra tutto il resto, i Francesi s’impossessarono anche dell’ “Hypnerotomachia, cioè pu­gna d'amore in sogno” di Francesco Colonna ossia Polifilo, edita in folio a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499 … Oltre a questo, non disdegnarono di appropriarsi di una nutrita Raccolta di volumi di Opere di Musica scritte da: Benedetto Marcello, di moltissimi Madrigali di Claudio Monteverdi, Andrea Gabrielli, Nasco, Monte, Cipriano, Rabbini, Balbi, Mazzoni, Lauro, Jacques, Archadelt, Tardini, Bontempi, Postena, Augerio, Crossi e altri ancora senza ricordarli tutti ... Asportarono inoltre 20 volumi in folio di Stampe e Libri rappresentanti la statuaria e la pittura delle Scuole antiche e moderna: Romana, Veneziana, Fiorentina, Bolognese, Fiamminga, Tedesca e Francese …”

Un’altra fonte del 1800 precisa: “In tutti li venti volumi esistevano stampe n. 6.175 …e in aggiunta alle sopra riferite stampe e libri, sono passati in possesso dè suddetti Francesi, volumi XI di Disegni, parte de quali erano originali, e parte delle diverse scuole, in tutto N. 3.000 ... Nell’insieme mancarono nella libreria de Padri Somaschi della Salute di Venetia, levati dà Francesi, volumi N. 325.”

Che ve ne pare ?

Poi, come sapete meglio di me, il decreto Napoleonico del 25 aprile 1810 sancì la soppressione di altri 14 Conventi e Monasteri di Venezia fra i quali nel Sestiere di Dorsoduro quello dei Gesuati, il Redentoredei Frati Cappuccini, la Salutedei Padri Somaschi e i quello dei Girolamini diSan Sebastiano. Tutte le loro biblioteche insieme al loro patrimonio passarono al Demanio, e si salvarono solo gli Armeni dell’Isola di San Lazzaro dove sventolava la bandiera Turca-Ottomana di cui Napoleone & C avevano ancora un qualche rispetto ... se non timore.
E non fu tutto, perché dopo la soppressione e le ruberie del 1810 si distribuirono ancora altri 16.129 libri e manoscritti prelevati dalla stessa Biblioteca dei Somaschi distribuendoli alla Biblioteca Marciana, al Collegio di Marina di Venezia, alla Società Medica di Venezia, alla Direzione Generale della Pubblica Istruzionedi Milano sezioni: Storia d’Italia, Lettere e Filosofia, e ai Seminari di Venezia(per fortuna) che allora risiedeva ancora a San Cipriano nell’Isola di Murano, e a quelli di: Concordia, Chioggia, Comacchio, Rovigo e Ceneda(Vittorio Veneto). Alla fine per completare l’opera si vendettero alla rinfusa “come scarti” altri 14.100 libri.

Un vero scempio ! Una disgrazia ! … Credo siate tutti d’accordo.

Sette anni dopo, nel 1817, il Demanio rinvenne a casa di Giovanni Bianchi, laico che operava dentro al Monastero dei Somaschi della Salute, ben 1.835 volumi sottratti di nascosto dalla stessa Biblioteca dei Somaschi che vennero assegnati 315 alla Biblioteca Marciana, 1.198 al Seminario Patriarcale, 80 alla Direzione Provinciale di Venezia, e 6 … chissà perché … al Protocollo della Direzione Generale. E già che c’erano, ancora una volta furono venduti “come scarti” altri 236 libri.
Si sa inoltre che numerosi disegni dei Somaschi, fra cui 54 figure del Tiepolo, vennero vendute dal Demanio al Conte Leopoldo Cicognara e poi al Canova, e ora sono proprietà del Conte Alessandro Contini di Roma.

Ecco fatto ! Vi ho riassunto brevemente le cose importanti e storiche che contano, quelle che vale la pena di conoscere e sapere per davvero. La Biblioteca dei Somaschi della Saluteè stata quindi un luogo davvero speciale, una bomboniera di squisita bellezza e fattura … un altro spicchietto recondito della nostra meravigliosa Venezia.

Detto questo veniamo all’altra storia secondo me curiosa, quella anticipata nel titolo di questo post, sempre strettamente connessa con quella mirabile Biblioteca Antica. Si tratta di una serie di episodi per me preziosi, perché in quella Biblioteca ho personalmente vissuto per parecchi anni (undici) frequentandola in una maniera o nell’altra durante buona parte della mia giovinezza.

Quella che ho incontrato e visto io, è stata però una Biblioteca diventata parecchio diversa da quel che è stata al tempo dei Padri Somaschi. Era quel che rimaneva di quel prestigioso luogo dopo il travagliato passaggio di Napoleone prima, la devastazione di altri dopo, l’incuria e il disinteresse di molti altri in seguito, e l’inesorabile danno del tempo che appiana, livella, consuma e distrugge inesorabilmente tutto e tutti … Ma ciò nonostante la Biblioteca era bellissima !
Inizio perciò questa parte delle mie storie col dirvi che mentre vivevo e crescevo in Seminario, il Rettore di tutto e tutti mi conferì l’ennesimo suo incarico di fiducia (cosa frequente nei miei riguardi)
Un giorno mentre me ne zufolavo tranquillo per i fatti miei, mi richiamò nel suo studio e dopo tutta “una delle sue paterne pappardelle indagatrici e valutatrici”, mi disse in conclusione prima di “rilasciarmi al mio destino di Chierico-Seminarista di nuovo libero sulla parola”: “Ah ! … dimenticavo … Avrei bisogno che tu ogni mattina, visto che la Biblioteca Granda Antica soffre per l’umidità e le infiltrazioni, passassi ad arieggiarla un poco aprendo alcune finestre … Mi servirebbe poi che ogni sera tu ripassassi nuovamente per richiudere tutto … Durante il giorno, invece, provvederò io in caso di maltempo e temporali … Siamo d’accordo ? Guarda che è un incarico di fiducia ! Non combinar danni … mi raccomando. La Biblioteca non è un giocattolo … Abbine cura … Ma so già che l’avrai.”

Così iniziò il mio nuovo incarico: ogni mattina andando a scuola: scendevo, aprivo e arieggiavo … e ogni sera prima di salire nella chiesetta per recitare Compieta e finire la giornata: tornavo in Biblioteca, controllavo, chiudevo, e spegnevo tutto riponendo la chiave sotto al solito posto segreto. Ogni santo giorno, per anni: scendevo, aprivo e arieggiavo … tornavo, controllavo, chiudevo, spegnevo e riponevo … per migliaia di volte, con costanza e puntualità ... estate, autunno, inverno e primavera … e poi di nuovo ancora.
La fiducia è una cosa seria … e credo che il Rettore l’abbia bene riposta in me … almeno abbastanza. E fu così che con quella Biblioteca finii col diventare: amico e simpatizzante accanito. Ero contento di aver avuto l’opportunità di metterci il naso dentro di frequente.

Già a quei tempi la Biblioteca veniva tenuta rigorosamente chiusa, ufficialmente perché aveva dei problemi statici. In realtà i tecnici che erano venuti in sopralluogo a valutarla dopo meticolose indagini e controlli soprattutto sui tiranti antichi e sulle travi affossate dentro al pavimento conclusero: “Bah ! Sembra che la Biblioteca tutto compreso sia in buona salute … e che il pavimento sia ballerino come tutti quelli dei palazzi di Venezia … Certo non si dovrà farvi sopra le gare di corsa, né caricarlo più di tanto … Però con una certa cura e delicatezza si potrà continuare a conservarla senza essere costretti a grandi interventi urgenti.”

“In verità,” mi spiegò il solito Prete ricercatore saggio e anche Bibliotecario, “La Biblioteca ha subito numerosi danni dopo i famosi saccheggi del 1800. Anche in anni relativamente recenti si sono avvicendate orde di Chierici campagnoli, famelici quanto ignoranti, che hanno strappato, asportato e rubacchiato molto rivendendo per conto proprio … Gentaglia, che è andata perfino a rubare le lenti del telescopio della Specola del Seminario, e che per fortuna è stata poi allontanata e cacciata via … Però i danni sono rimasti, e anche questa Biblioteca ne ha vistosamente sofferto … Per questo si è deciso di tenerla chiusa ... Ci vengo io ogni tanto a inventariare e compiere qualche ricerca, e vi accompagno eventuali studiosi e ricercatori in visita … Per il resto teniamo tutti fuori cercando di preservarla in attesa di tempi migliori.”

“Va beh !” commentai,“Io mi accontenterò di aprire e chiudere … e anche un po’ guardare.”

“E ce n’è qui da guardare se vorrai ! … Mi raccomando: fanne buon uso.”

Infatti così accadde per un bel pezzo: andavo, aprivo, “scannocchiavo” in giro … tornavo, chiudevo, e curiosavo ancora.

Una meraviglia ! … e già che c’ero, dopo un po’ di tempo e dopo averci pensato sopra, decisi di coinvolgere liberamente in quella mansione particolare i miei due più fidi amici e compagni di avventura e vita: Paolo e Walter. Furono subito entrambi entusiasti di potere accedere anche loro, seppure in punta di piedi come me, in quello scrigno formidabile.

Dovete però sapere un’altra cosa.

Ogni tanto capitava che morendo qualche anziano Prete Monsignore o qualche Canonico di San Marco, costoro lasciassero gran parte dei loro averi a favore del Seminario. Capitava perciò che sfuggendo alle rivendicazioni e alle grinfie rapaci di nipoti e familiari del deceduto spesso in agguato, arrivassero nel Seminario della Salute veri e propri “carichi” di materiale e oggetti donati appartenuti a quei testatori più o meno illustri.

“Un altro carico di carabattole e cianfrusaglie!” commentava quasi ogni volta sconsolato il Rettore, “Dove metteremo tutte queste cose anche questa volta ? … Dovrò fare la consueta cernita a caccia di qualcosa di valido, e poi si dovrà cercare di collocare il tutto sparpagliandolo per il Seminario in adatte sistemazioni … Nel frattempo faremo depositare tutto … nella Biblioteca Granda.”

Ed era così, che molto spesso, l’andito della Biblioteca Antica si riempiva di “un’imbarcata”di cose, un’infinità di oggetti curiosissimi da sistemare. Le cose più preziose il Rettore riusciva a farle stimare e venderle sul mercato antiquario di Venezia sempre vispissimo e disponibile. Rimanevano però le solite pendole capaci di suonare tutti i tipi di Ave Maria del Mondo, cucù barocchi col povero uccelletto metallico che penzolava a testa in giù dalla sua molla stirata fuori dalla porticina della sua casetta ... Mobili su mobili di ogni foggia e tipo e capienza, sedie, sgabelli, tavoli, lampade, poltrone, pianoforti sgangherati, e ogni altro tipo di soprammobili immaginabili. C’erano poi libri su libri di ogni tipo, alcuni di pregio e rari, e molti altri comunissimi per cui il Seminario si ritrovava a possedere la copia della copia della copia di qualche testo … Gira e rigira, volta e rivolta, i Preti di Venezia leggevano sempre le stesse cose.
Inoltre arrivavano bauli su bauli pieni di biancherie fuori moda d’altro secolo, e di abiti da Prete, da cerimonia e da comparsa liturgica e ufficiale. Cappelli tondi neri e rossi “a disco volante”, berretti da Monsignore pieni di fiocchi colorati, umili baschi e baschetti, scuffiotti da notte, fasce, cotte, rocchetti, mantelline, abiti talari neri, rossi, paonazzi, violacei con i cordoni e i bottoni rossi o bordati dello stesso colore … e poi cappotti lunghi, e palandrane inverosimili passate di mano in mano, di Prete in Prete, insieme ad ampi tabarri, sciarpe e sciarponi, scarpe e scarponi e molto altro ancora.

Il Rettore del Seminario era letteralmente terrorizzato dal fatto che noi giovani potessimo mettere le mani sopra a tutto quel bendidio di vestiario e costumi … perché sapeva bene che quegli aggeggi avrebbero scatenato le nostre goliardate e le nostre smanie teatrali … cosa che accadeva puntualmente. Mi sono divertito anch’io tantissimo in quella maniera … Per certi versi era sempre teatro fra noi … e ogni occasione era buona per inventarci ed inscenare situazione inverosimili divertentissime. Sapete meglio di me quanto si presta l’ambiente preteresco a certe parodie … Standoci e vivendoci dentro quotidianamente poi !

Eravamo dei veri e propri esperti della materia. C’erano poi un deposito del vecchio teatrino, e un particolare armadio … guardati a vista da una Suora preoccupatissima, che ogni volta che riuscivamo ad entrarci dentro e metterci mano: era immediatamente Festa e grandi Carnevalate !

Ma di questo vi dirò un’altra volta.

Ancora nella stessa Biblioteca Grande un bel giorno finì “provvisoriamente” in deposito anche tutta una serie di oggetti portati dall’Africa da un nostro amatissimo Monsignore e Professore responsabile dell’Ufficio Missionario di Venezia. Uomo intelligentissimo ma molto alla mano, recatosi in Kenya aveva raggiunto alcuni villaggi davvero sperduti dove i Capi Villaggio l’avevano accolto con grande onore, facendogli tanta festa e riempendolo di numerosi regali dal valore altamente simbolico. Se n’era tornato a Venezia pieno di copricapi piumati, sgabelli simbolo dell’autorità perché tutti si sedevano di solito per terra, vasellame vario, utensili per il fuoco, mortai rudimentali per ridurre in farina semi, zucche e otri per l’acqua, pettorali decorati con segni dell’autorità e del potere, e tutto il necessario per cacciare: lance, e faretre in pelle piene di frecce … comprese micidiali frecce coperte di altrettanto velenoso curaro mortale.

Un insieme bellissimo, singolare e anche prezioso, che in seguito finì con l’essere collocato e sistemato in un apposito museetto etnico.

“Mi raccomando,” ci suggerirono il Monsignore e il Rettore all’unisono, “Non toccate nulla, anche perché queste frecce e lance sono pericolosissime !”
“Si … Si …” ci affrettammo a dire tutti in coro dopo aver visto e toccato tutti quei bei oggetti curiosi. E la Biblioteca venne richiusa come il solito … ma non per me.

Nei giorni seguenti, anzi fin dalla sera stessa, tornai numerose volte a osservare, soppesare e guardare tutti quei bei oggetti curiosissimi e per davvero interessanti per un Veneziano come me che non era mai uscito dall’Italia.

“Questi sono parte di un altro Mondo … Sono pezzi di una cultura completamente diversa dalla nostra … Bellissimi !” commentavo coi i miei amici durante le nostre abituali visite serali alla Biblioteca.

Erano le armi però a incuriosirmi di più, soprattutto gli archi e le frecce. Perciò da solo e in gran segreto, nei giorni seguenti iniziai prima a soppesare quegli oggetti con un certo timore vista la presenza del nero curaro, e poi sempre con maggiore dimestichezza e disinvoltura.
Arco e frecce divennero un mio nuovo divertimento. Prima iniziai a tendere gli archi e scagliare qualche freccia a livello del pavimento, poi via via, giorno dopo giorno, acquisii una vera e propria abilità nel maneggiare quelle vere e proprie armi micidiali. Recuperai e portai nella Biblioteca una vecchia sedia sfondata, e per un bel po’ di tempo ho trascorso diversi minuti ogni sera allenandomi a tirarvi contro con l’arco e frecce sempre da maggiore distanza e con maggior precisione.

Funzionava … perché dopo un po’ di tempo riuscivo a centrare discretamente la vecchia sedia, a differenza di oggi che credo rischierei di “spararmi” una freccia sui piedi. Finchè venne “il gran giorno” in cui mi sentii talmente abile e sicuro da poter alzare lo sguardo più in alto mirando a bersagli differenti.

“Svusss !” facevano le frecce più grosse volando via, e poi “Tònf !” quando andavano a infiggersi su qualcosa.
“Ssssshhh!” facevano invece le frecce più leggere sfrigolando in aria con le loro alette piumate, e poi “Stàk !” seccamente quando andavano a trafiggere qualcosa violentemente impiantandosi in profondità. Facevano impressione … erano vere armi micidiali.

Sullo sfondo e in alto nella Biblioteca, sopra a tutte le scaffalature dei ballatoi superiori riempite di libri, c’era e c’è ancora oggi un grande Leone Marciano in legno. Il Bibliotecario mi aveva spiegato che era una copia senza valore di un originale collocato là in cima dopo il passaggio devastante dei Francesi che avevano sbricciolato il Leone dorato che stava sullo stesso posto.
Posizionandomi davanti alla porta d’ingresso della Biblioteca, a una quarantina di passi di distanza, alzai l’arco imbracciato tendendolo accanto al naso, presi accuratamente la mira, e rilasciai la corda tesa: “Sssssshhh !” fece la freccia sottile come il solito, e poi un attimo dopo udii: “Stàk !” come sempre. La freccia era andata a impiantarsi esattamente sulla pancia del Leone Marciano che sorvegliava ignaro dall’alto tutta la Biblioteca.
“Colpito !” dissi a me stesso soddisfatto dell’abilità che avevo acquisito. Era divertentissimo ! … (follie incomprensibili di gioventù!)

Ma quel che è peggio, nacque in me in quel momento la voglia d’inscenare uno scherzo coi fiocchi a discapito dei miei due compari di sempre: Paolo e Walter.

Una sera qualsiasi dopo cena non mi feci più trovare da loro per il solito appuntamento serale della ricognizione e chiusura della Biblioteca Granda. Walter e Paolo mi aspettarono per un po’, poi visto che non arrivavo, pensarono bene di raggiungere per conto loro la Biblioteca dove di certo sarei dovuto passare a breve. Salirono perciò lo scalone solenne del Longhena, e attraversarono tutto il Corridoio Rosso silenzioso e avvolto nella penombra notturna, e raggiunta dietro l’angolo l’entrata della Biblioteca Granda, notarono che la porta era già aperta e socchiusa, anche se all’interno c’era buio pesto e totale.
Nei giorni e mesi precedenti avevo messo al corrente i miei amici dei piccoli segreti che conteneva la Biblioteca, perciò sapevano anche loro dove si nascondevano le chiavi, dove si accendevano le luci, come si poteva salire sui ballatoi superiori per la porticina segreta, come si poteva accedere di nascosto all’Indice Superiore della Biblioteca, e altre cose ancora molto interessanti. Perciò spinsero la porta della Biblioteca ed entrarono ignari di quanto li attendeva, e raggiunto al buio il quadro elettrico delle luci le accesero come facevo io ogni sera.

“Il Rosso deve ancora arrivare(sarei stato io, che a quei tempi ero “pel di carota” coi capelli rossissimi)… Guarda là Paolo ! Ci sono ancora tutte le finestre spalancate … Vedrai che arriverà fra poco.” sentii dire Walter, mentre Paolo armeggiava ancora sul quadro elettrico completando di sollevare i singoli pulsanti delle luci.
“Strano.” aggiunse Paolo, “Di solito a quest’ora è già qui.”
In effetti ero già lì ad aspettarli … e me ne stavo appostato sopra al ballatoio superiore della Biblioteca con a tracolla la faretra di pelle odorosissima che sapeva da animale selvatico, piena di frecce comprese quelle avvelenate al curaro, e il mio bel arco pronto in mano.

“Sssssshhh !” fece la prima freccia partendo dal mio arco, e poi subito dopo: “Stàk !” fece infilandosi vibrando sulla vecchia sedia che avevo collocato di sotto accanto a un tavolo.
“Ssssshhh ! … e poi Stàk !” fecero anche la seconda e la terza freccia.
“Ecco dov’era il Rosso!” gridò Paolo.
“Ha in mano le frecce avvelenate al curaro !” gridò Walter. “E ce le sta tirando addosso !”
“Ma sei matto Rosso ? … Fermati ! … Che fai ? ” urlò Paolo.
“Sono pericolose !” aggiunse Walter.
“Stàk ! … Stàk !” fecero altre due frecce finendo a qualche metro di distanza da Paolo e Walter.
“Scappiamo !” disse uno dei due. “Mettiamoci al riparo !”
“Ma dove ?” gridò l’altro.
“Lì ! … Sotto ai tavoli ! … Presto !” gridò Walter … e in pochi secondi scomparvero entrambi del tutto alla mia vista infilandosi sotto a un robustissimo quanto ampio tavolo vecchissimo. Lì erano al sicuro, non avrei mai potuto colpirli.
“Rosso ! Attento ! Le frecce hanno il curaro … Se ci prendi ci ammazzi avvelenati !”
“Stàk ! Staàk ! Stàk !” fecero altre frecce vibrando e infilandosi di precisione sopra al tavolaccio. 
“Se esco fuori vivo da qua … Te còpo !” fece Walter … Paolo, invece, rideva, ma anche no.
“Ma guarda in che situazione inverosimile ci siamo cacciati !” commentò incredulo … “El Rosso ci sta tirando dietro le frecce … Sembra un incubo !”
“E’ realtà, invece !” sospirò Walter, “Purtroppo quelle sono frecce vere !”
“Smettila Rosso ! … Fai il bravo ! Che non finiamo col farci male …”

Ogni scherzo è bello se dura poco … Infatti, ho smesso subito dopo, e sono sceso visibilmente divertito per quella che consideravo una goliardata scherzosa quanto originale. Paolo e Walter erano un po’ meno divertiti ovviamente, erano intimoriti, per non dire impauriti … ma sorridenti come sempre. Ci voleva ben altro per alterare e incrinare la nostra intesa e salda amicizia.

“Ma sei matto ? Ci hai fatto prendere uno spavento … Ti sembrano scherzi da fare ?” si limitò a borbottare Paolo, mentre Walter si lasciò andare in una risata continuativa e liberatoria continuando a ripetere:
“Non ci posso credere … Non ci posso credere … Le frecce col curaro … Ci piovevano addosso le frecce mortali col curaro ... In Seminario ! … Vedo già l’articolo sui giornali: “Seminaristi infilzati come tordi da frecce avvelenate !”
In verità, non gliel’ho mai detto: non ho usato affatto le frecce col curaro … ma solo le frecce normali, non avvelenate … Però erano frecce vere.

Finimmo col ridere insieme anche quella sera, come moltissime altre volte immemorabili accadute non a causa di frecce e similari.
Abbiamo vissuto grandi esperienze indimenticabili !

E trascorsero ancora altri giorni che non erano per noi quasi mai qualsiasi, finchè una sera capitò a me di non vedere più dopo cena Paolo e Walter.
Era quasi l’ora consueta di salire di sopra nella Biblioteca Granda per chiudere tutto … Nell’attesa gironzolai un poco intorno al grande chiostro in cui si sovrapponeva lo schiamazzare allegro dei più giovani che rientravano dalla partita a Calcio, e poi non vedendo arrivare Paolo e Walter, salii da solo al piano di sopra dirigendomi verso la Biblioteca.

“Tanto sanno bene dove vado a quest’ora … Se ne avranno voglia mi raggiungeranno là.” dissi a me stesso.

Non era rara quella passeggiata serale insieme, e anche Paolo e Walter avevano preso a benvolere come me quella “nostra” Biblioteca. Più di una volta ci soffermavamo qualche minuto a sbirciare i libri antichi, a sfogliare delicatamente qualche pagina, o a frugare dentro fra i cartellini pignolissimi dei cassettini dell’Indice. Altre volte osservavamo curiosi i dipinti incorniciati vistosamente sul soffitto, oppure gli oggetti custoditi dentro alla Biblioteca: i grossi mappamondi, i cimeli antichi … e le tante carabattole di turno che venivano depositate lì “provvisoriamente”.

Si viveva insieme anche così …

Passai quindi davanti al nascondiglio segreto della chiave della Biblioteca, e mi accorsi che lì la chiave non c’era. Giunto davanti alla porta della Biblioteca la trovai con la chiave infilata nella toppa della serratura, ma con la porta chiusa e l’interno totalmente buio. Capitava spesso che il Bibliotecario entrasse per le sue ricerche e le sue visite e poi se ne andasse per ritornare ancora una volta.
Feci ruotare la chiave nella serratura cigolante, e poi spinsi come sempre il portone per entrare. Dovevo aggirarlo e dirigermi al quadro elettrico per illuminare tutta la sala.

Non l’avessi mai fatto !

Percorsi pochi passi, mi ritrovai di fronte a due ombre nere perfettamente mimetizzate nel buio della sala che inaspettatamente mi grugnirono contro qualcosa d’incomprensibile. Credo sia stato lo spavento più grande della mia intera esistenza.
Non ho mai temuto di camminare in giro al buio … ma quella volta lo spavento fu tantissimo, un vero e proprio colpo di terrore, tanto che feci un balzo all’indietro capitombolando per terra sul pavimento ritrovandomi ansimante e tremante per l’abbondante paura che avevo addosso.
Qualche istante dopo si accesero miracolosamente tutte le luci della Biblioteca, e c’erano sia Paolo che Walter che se la ridevano divertiti con le lacrime agli occhi.

“Chi la fa l’aspetti ! … si dice del solito ... Ecco pareggiato il conto !” esclamò Walter.
“Come ti senti adesso ?” aggiunse Paolo, “Piaciuto lo scherzetto ? … Non sarà come le frecce … Ma mi sembra buono anche questo.”
“Lo è … Lo è !” borbottai risollevandomi da terra e spolverando la mia tonacona talare nera dai mille bottoni impolverata.

Era giusto così … e mi aggiunsi a Paolo e Walter a ridere di me stesso, e di quella sorta di rivincita ben orchestrata. Credo che anche gli spiriti dei vecchi Padri Somaschi presenti nella loro Biblioteca Granda intenti a frugare quel poco che era rimasto delle loro antiche carte, se la siano risa di grosso e a crepapelle, divertiti di fronte a quell’ennesima nostra scenata.
Anche il Leone Marciano in legno collocato in alto, mi sembrò per un istante ghignasse sorridente, in qualche modo partecipe di quella rivalsa accaduta nei miei riguardi.

E il Rettore, il Bibliotecario e gli altri ?

Queste cose non le vennero mai a sapere, erano solo patrimonio mio … anzi nostro: di me, Paolo e Walter, che oggi sono entrambi illustri Prelati della Diocesi e Patriarcato di Venezia: uno è insigne Piovano e successore del mitico Monsignore che ha portato dall’Africa quelle frecce al curaro, l’altro, invece, è “mezzo Patriarca di Venezia” e altrettanto illustre Sacerdote …
Accade spesso quando c’incontriamo fra noi di ricordare con nostalgia e affetto quei bei momenti lontani condivisi, e quelle presenze assidue in quell’antica Biblioteca dei Padri Somaschi: … attimi curiosi, storie davvero speciali, che ci fanno ancora ridere, e che ricordo sempre volentieri con una certa nostalgia e tenerezza.



SAN BORTOLOMIO DI MAZZORBO … CHI ?

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 104.

SAN BORTOLOMIO DI MAZZORBO … CHI ?

“Nei tempi felici la parte orientale del piccolo arcipelago dell’isola di Mazzorbo era divisa in due singole Parrocchie e Contrade: quella di San Pietro e quella di San Bartolomio unite e divise dal resto di Mazzorbo che stava oltre l’omonimo Canale da un paio di traballanti quanto esili ponticelli …” fin qui le cronachelle storiche più che recenti.

Si sa bene che delle Contrade di San Bartolomio o “San Bortolo e San Piero de Mazorbo” facevano parte anche i Monasteri di Sant’Eufemia(il cui vero titolo sarebbe stato: Sant’Eufemia Vergine e Martire e Santa Dorotea, San Tecla e Sant’Erasma … un po’ lunghino in verità) e San Maffio e Margherita, mentre nella parte più nobile delle isolette, popolate, vive e attivissime, sorgevano le chiese e Monasteri dell’Anzolo Michel, Santa Maria e Leonardodetta di Valverde, San Cosmo e Damiano, San Steno ossia Stefano che era anche Parrocchiale, Santa Maria delle Graziee Santa Caterina poi anche Pietro con tutte le loro ricche pertinenze.
Si trattava sicuramente di posti e Monasteri relegati in fondo alla Laguna di Venezia, ma non erano di certo Conventucoli di morti di fame e senza nome perché ospitavano e custodivano le figlie delle ricche e potenti famiglie Nobili di Venezia.
Solo a puro titolo d’esempio: nel Santa Caterina c’erano le figlie dei Dolfin, dei Polo, dei Michiele dei Da Lezze, nel Sant’Eufemia c’erano quelle dei Tasca, Pisanie Zeno, mentre presso le Cistercensi e poi Benedettine di San Maffio c’erano le figlie dei Morosini, Minio, Corner, Gabrielie Selvatico, e alla “Valverde” c’erano quelle dei Donà, Zane eBaffo e così via …
Non c’è moltissimo d’eclatante da sapere sulle antiche Contrade delle isole di “Mazzorbo o Maedium Urbis o Maiurbo” perché oggi tutto è sepolto, cancellato e dimenticato … Forse tanta Storia non è mai stata scritta perché fatta da cose ed eventi troppo piccoli, considerati forse banali e solamente quotidiani vissuti da gente qualsiasi senza nome e con un volto che si poteva dimenticare … anche se Nobile.

Mazzorbo era “luogo de barene, et terrae acquee et piscatorie …” dove venne concesso ai Nobili Malipiero d’ancorare alcuni loro molendini ad acqua su certi rami lagunari in cui scorreva “acqua viva”… Lungo gli stessi canali bassi e incerti di Mazzorbo e di Torcello passavano già nel 1292 le barche clandestine dei Lanieri di Treviso che portavano i prodotti dalle loro “folladure”fino al neonato Emporio di Rialto spacciandole per pezzature Veneziane autentiche. Evitavano così l’esosità dei dazi della Serenissima, contrabbandando attraverso quei luoghi impervi e isolati, e sfidando gli occhi attenti e l’orecchio lungo dei Gabellieri di Venezia: “… a cui uno sfuggiva ma trenta ne prendevano ...”… Infatti ancora nel 1480 gli integerrimi Governatori alle Entrate della Serenissima a cui non sfuggiva nulla, concessero agli abitanti di Murano, Torcello, Mazzorbo e Burano di trasportare nelle loro terre maiali per uso personale esenti da dazio.

Proprio in quei luoghi paludosi e remoti un primo documento incerto colloca nel 1244 l’esistenza della chiesa di San Bartolomeo di Mazzorbo, mentre si sa che venne certamente soppressa ufficialmente nel 1633. A dire il vero “San Bortolo de Mazorbo” non era neanche una vera e propria chiesa, ma sembra sia stato solamente un semplice Oratorio di campagna ... anche se lo Zanetti annota che dentro c’era una tavola con un “San Bernardo” dipinto da Antonio Zanchi.

In quello stesso documento del settembre 1244 si racconta che una certa Alda da Ponte del Confinio di San Pietro di Mazzorbo davanti al Notaio Jacovus Corrado Arciprete di Torcello vendette per lire 9 di denari Veneti a Pietro Navager della Contrada Veneziana di San Giacomo dell’Orio una terra sita nell’isola di Mazzorbo in zona San Pietro. Erano testimoni all’atto notarile: Pietro Bonci Piovano di San Pietro di Mazzorbo e Coradinus Presbiter di San Bartolomeo di Mazzorbo. Ecco qua citato il nostro San Bartolomeo !
Otto anni dopo, invece, nel maggio 1252, siora AurifilaTomba andata ad abitare a Candia, figlia del defunto Pietro di Tomba abitante nel Confinio di San Bartolomeo di Mazzorbo, fece procura davanti al Notaio Nicholaus Iusto Prete di San Nicolò, a Giacomo Trevisan del vicino Confinio di Santo Stefano di Mazzorbo per riscuotere alcuni suoi crediti e vendere una sua casa sita nel Confinio di San Pietro sempre di Mazzorbo confinante col canale, il lago e le proprietà dei coniugi Domenico e Matiliana Orso.

Si viveva insomma, anche in quelle remotissime Contrade sperse in fondo alle Lagune di Torcello, Burano e Mazzorbo ancor più isolate di oggi. Infatti, nel 1564 i Mazzorbesi di San Bartolomio spesero ben 2 ducati per organizzare nella loro Contrada la Festa e la sagra di San Bartolomio … e qualche anno dopo, quando il Vescovo di Torcello Grimani andò in visita alla Parrocchiale contò che in Contrada di San Bortolo de Mazorbo vivevano perfino: … 30 Anime in tutto !

Nicolo’ De Curto pescatore della Contrada di San Nicolò dei Mendicoli di Venezia riferiva nel novembre 1578 al Magistrato alle Acque su Mazzorbo “… già anno 10 o 12 era una vigna et al presente vi è acqua, e già anni 25 la casa era abitata, ma da poi disfatti gl’arzeri l’acqua è andata da per tutto … e la barena a San Civràn era longo per lo spazio d’un miglio e larga un trar de schiopo, et hoggi  siamo passati con la barca dove a quel tempo era barena dura … dove haver giocato alla balla et alla mazuola …”

Franco Aquarol riferì circa le stesse isole e barene: “… possono essere diminuite per longhezza uno quarto di miglio e per larghezza un trar di frezza …”

Marco Biondo aggiunse: “… le barene delle Vignole che confinano con il canal del porto di San Rasmo che già anni 4 in 5  che fo fatta una cavana per li dacieri di quel tempo sopra la barena, io l’andai a desfar … et al presente essa barena dove era la cavana al presente è acqua …”

Non poteva perciò andare diversamente: alla fine del secolo la Contrada di San Bortolomio de Mazòrbo si spopolò del tutto, la chiesa cadente venne smantellata e venduta pezzo dopo pezzo, e la zona venne unificata con quella di San Pietro Apostolo di Mazzorbo. Al suo posto venne costruito da un certo Marco Antonio Maimenti un Oratorietto Pubblico a ricordo al confine con le terre della parrocchiale di San Pietro, che il Vescovo di Torcello Paolo Da Ponte descrisse ancora nel 1775 come: “Oratorio con Cappellano.

Nel maggio 1633, infatti, viveva ancora lì un Monaco Benedettino espulso dai Monaci Cassinesi: tale Benedetto Zogia, che s’era rifugiato in Laguna e prestava un qualche vago servizio alla diocesi di Torcello occupando l’Oratorietto di San Bartolomio di Mazzorbo come Rettore. Venne accusato da Benedetta di Francesco Da Antivari e da Gaspare Gonda oriundo di Padova residenti a Mazzorbo, di recarsi troppo spesso nel Monastero di Santa Caterina delle Monache Benedettine col pretesto di celebrare Messa, intrattenendosi troppo familiarmente a parlare alle finestre delle Monache non si sapeva bene di che cosa. Venne incolpato anche di aver aperto una bottega dove vendeva farina, formaggio, vino ed altre “cose mangiative” poco buone e a prezzi vigorosi dando anche da mangiare pubblicamente a chiunque si recasse da lui e gestendo anche un luogo dove era possibile giocare a carte. Il Frate-Monaco in un impeto d’ira aveva anche minacciato di uccidere chiunque lo avesse accusato di fare visita alle Monache claustrali … ed era un uomo misero che sembrava essere tutore anche di alcuni nipotini abbandonati in età minore (mai visti da nessuno) che non poteva mantenere con le scarse elemosine dell’Oratorio di San Bartolomeo.
Ecco perchè andava spesso dalle ricche Monache del Santa Caterina ! … Perché andava a chiedere soldi ed elemosine.

E’ del 1642-44 l’ultima immagine riguardante San Bartolomio di Mazzorbo. In quegli anni a Venezia nel Sestiere di Castello si andavano ultimando i lavori della Cappella del Santissimo nella chiesa della Contrada di Sant’Antonin. S’era restaurato il soffitto dell’intera navata, e si avviavano i lavori della Cappella della Madonna della Schola del Rosario, come scriveva il Piovano Brunelli: “in tempo del principio dela Guerra col Turco”. Era Procuratore della Fabbrica della chiesa insieme a molti altri, e dirigeva e progettava i lavori Baldassare Longhena il costruttore del grande tempio della Madonna della Salute sorto in Punta alla Dogana da Mar a causa del voto della peste del 1620. Il 26 aprile 1642 venne pagato dal Piovano di Sant’Antonin per il trasporto di colonne in marmo provenienti dalla chiesa di San Bartolomio di Mazzorbo da impiegarsi in chiesa. Immaginatevi perciò la pigra e pesante peata con l’architetto Longhena in persona che attraversava tristemente la laguna da Torcello e Mazzorbo portandosi via i resti di quel che era stata la chiesola di San Bartolomio di Mazzorbo.
Ancora nel dicembre del 1659, ossia più di una decina d’anni dopo, il Piovano Domenico David di Sant’Antonin sempre di Venezia continuava ad acquistare una partita di sette marmi greci a Mazzorbo rivendendoli alla Cassa della Fabbrica per costruire l’altare di San Michele in Sacrestia utilizzandole come sottobasi delle colonne.
Di San Bartolomeo rimase solo qualche rudere e il nome della Contrada Marrorbese, tanto che il Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo affermava ancora nel 1768 d’essere proprietario di uno Squero in Contrada di San Bartolomio che confinava con una vigna appartenente al vicino Monastero di Sant’Eufemia sempre di Mazzorbo.

Nel giugno 1811: Prè Luigi Pisani era Parroco di San Michele Arcangelo di Mazzorbo ancora appartenente alla giurisdizione della Diocesi Torcellana. La popolazione della sua Parrocchia assommava a 150 Anime, e lui viveva usufruendo di lire 323,24 provenienti da “livelli”provenienti da lasciti testamentari, e dai magri “redditi di stola” ossia le elemosine dei suoi “miserrimi fedeli”. Secondo il Signor Ministro per il Culto della neonata gestione Francese dello Stato Veneto, lui era anche ufficialmente Piovano e godeva le rendite di San Bartolomeo di Mazzorbo che in realtà non esisteva più da moltissimo tempo, e i cui proventi erano pari a zero.

“In Mazzorbo esiste solo una cappelletta col titolo di San Bartolomio di proprietà regia, la qual è cadente ed inofficiata ... Lì non c’è niente e nessuno !” precisò il Prete difendendo e confermando le sue scarse economie.

Ciò nonostante, ancora nel 1818 nell’Oratorio di San Bartolomeo venne sepolto il Nobile Antonio Grimani Patrizio Veneto, la cui lastra tombale è conservata oggi nel pavimento dell’atrio di Santa Caterina di Mazzorbo … Significa che in quel posto l’Oratorietto di San Bartolomeo c’era ancora … almeno come piccola area cimiteriale … Poi di certo si sa che prima del 1830 l’Oratorietto venne demolito del tutto ricavando la somma di lire 203 dalla vendita dei materiali di risulta della demolizione come è attestato nell’Archivio conservato a Santa Caterina di Mazzorbo.

Infine giungiamo ai giorni nostri d’oggi … quando di fronte alla citazione di San Bartolomio di Mazzorbo, diciamo tutti più o meno: “Chi ? … e che è, dov’è ? … C’è forse mai stato ?”

LA FESTA DELLA SENSA E LO SPOSALIZIO DEL MARE A VENEZIA.

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 105.

LA FESTA DELLA SENSA E LO SPOSALIZIO DEL MARE A VENEZIA.

Oggi si ricelebra a Venezia ancora una volta la Festa della Sensa o dell’Ascensione di Cristo. La festa è nata con I’intento degli antichi Veneziani di commemorare insieme due eventi che ritenevano importanti per la Serenissima. Il primo fu che il 9 maggio dell’anno 1000 sotto il Doge Pietro Orseolo II° i Veneziani salvarono i popoli della Dalmazia dalle minacce dei Croati e degli Slavi Narentani ... e perciò per proteggere meglio quelle indifese genti oltremare ne incamerarono terre e risorse. Infatti da quel momento il Doge di Venezia divenne anche: Duca di Dalmazia.
Il Doge era partito da Venezia per quell’operazione militare proprio il giorno dell’Ascensione, e giunto in Dalmazia mise a ferro e a fuoco le isole di Lissa, Curzolae Lagostaavamposti tradizionali dei Pirati, poi risalì il fiume Narenta e fece il resto facendoli capitolare e arrendere del tutto ... per forza: li aveva trucidati tutti.  Quel gesto guerresco fu l’inizio ufficiale dell’epopea economico-politica dei Veneziani sul Mediterraneo, operazione militare di successo sostenuta e condivisa anche dai Patriarchi di Aquileia e Grado, e addirittura dal Papa Silvestro II°, che sembra in quell’occasione abbiano benedetto e inaugurato insieme per la prima volta il Gonfalone di San Marco col Leone alatoissato dalla Flotta da Mar della Serenissima Repubblica Veneziana.

Lo Sposalizio del Mare da parte della Serenissima associato alla stessa festa risale, invece, al 1177. Nel 1177 sotto il Doge Sebastiano Ziani,che era d’accordo con i Re di Francia, Spagna e Inghilterra, Papa Alessandro III amico dei Normanni che lo portarono in nave fino a Zara per poi trasferirlo su navi Veneziane, e l’Imperatore Federico Barbarossa che scelse Venezia perché: “…città più sicura e abbondante di ogni cosa e di una popolazione quieta ed amante della pace.”, s’incontrarono nella zona neutrale della Laguna per definire finalmente la pace fra Papato e Impero.
Già che c’era, l’Imperatore Barbarossa prima di passare per Venezia si fermò un attimo a Chioggia dove i Vescovi di Ostia, Porto e Pellestrinaa nome del Papa sistemarono una volta per tutte certe sue pendenze col Papa che l’aveva più volte scomunicato per via di eresie e abiure varie, e lo assolsero da ogni censura e condanna.
Per l’occasione convennero a Venezia più di 3.000 fra dignitari, diplomatici, invitati, Cavalieri e soldati di scorta, e sotto gli Arconi e il Portico della Basilica di San Marco i due potenti “capi di Stato” stipularono un trattato di pace di almeno sei anni ponendo fine a lotte e a disaccordi che duravano ormai da secoli.  

La leggenda sorta su quell’incontro racconta cose curiosissime: si dice che il Barbarossasi sia buttato a baciare i piedi del Papa, e che lui l’abbia contraccambiato scambiando il simbolico e beneagurante “bacio di Pace” sulla bocca. 
Lo storico Obone da Ravenna aggiunge che mentre l'Imperatore baciava il piede al Papa, costui gli abbia messo il piede sopra il collo dicendogli beneaugurante: "Camminerai sull'aspide e sul basilico !"(che non è l’Erba medica ma una ferocissima Bestia mitologica). Il Barbarossa sembra gli abbia risposto: "Non tihi, sed Petrus" ossia: "Guarda che non mi inchino davanti a te, ma a Pietro, ossia il rappresentante di Dio". Allora si dice che il Papa gli abbia risposto: "Et mihi et Petrus" ossia: "Ti stai inchinando sia davanti a me che a San Pietro", come a dire: “Ti inchini due volte, ossia: “Ti umili proprio del tutto … che di più non si può”.

Vero o non vero che sia stato tutto questo … poco cambia, si tratta solo d’infiorettamenti della Leggenda. Mi pare improbabile che il Barbarossa si sia tanto umiliato col Papa ... Comunque a ricordo di quell’incontro esiste ancora oggi nel Nartece della Basilica di San Marco una losanga bianca che indica il punto preciso dove avvenne quell’incontro.

La cosa che contò di più in quel frangente fu che Venezia ebbe riconosciuta ufficialmente la sua valenza politica da parte di tutte le potenze Europee dell’epoca … La Serenissima era entrata a far parte ufficialmente delle“Grandi Nazioni”.

Sembra ancora, che il Papa, già che si trovava a Venezia, al di là delle vertenze politico-economico-commerciali che di certo gli interessavano di più, non abbia perso l’occasione per fare anche un po’ il Papa vero e proprio. Perciò si mise a consacrare nuove chiese come San salvador, Ognissanti e Santa Maria della Carità, e a concedere indulgenze a destra e a manca soprattutto alla chiesa di San Marco. Mise fine anche agli eterni contrasti e lotte fra il Patriarcato di Aquileia e quello di Grado, (che nel frattempo eradiventato amico della Repubblica Serenissima tanto da essere andato ad abitare in suo palazzo a San Silvestro), assegnando ai Patriarchi la giurisdizione sulle Diocesi di Capodistria, Parenzo e Pola, oltre che l’intera Dalmazia e Istria… Perché al Doge sì il Dominio sulla “Dalmazia et Istria” e ai Patriarchi no ?
Era meglio equiparare, pareggiare le cose fra Civico ed Ecclesiastico … cancellando certe scomode differenze gestionali.

In vena di donazioni e contributi, il Papa donò anche al Doge una "Rosa d'oro", il privilegio dell'"Ombrella", e il privilegio dello "Stocco et Pileo" che lo definiva: "Defensor Ecclesiae". A completamento del gesto, gli donò anche un anello benedetto che da quel momento il Doge usò per lo sposalizio del mare il giorno della "Sensa".
Qualche malizioso dell’epoca aggiunse subito ironicamente che il Doge cercò di sbarazzarsi appena possibile ed elegantemente di quel scomodo anello Papale buttandolo in acqua a caccia di vera e redditizia Fortuna piuttosto di tante benemerenze fumose e vuote.
In quella stessa occasione sembra che il Doge si sia dimostrato “Gran Signore”, perchè donò in cambio al Papa otto vessilli con il Leone di San Marco, i famosi “Vexilla triunphalae dogali” che precedevano le sue processioni ufficiali: rossi, verdi, celesti e gialli (come i colori delle bandiere delle Regate). Si dice che quelle bandiere avessero un particolare significato durante le processioni Dogali: se aprivano il corteo i vessilli rossi significava che la Repubblica era in guerra; se bianchi: in pace; se verdi: in guerra col Turco; se celesti: la Serenissima stava vivendo un periodo di neutralità.

E’ una storia simile a quella del Leone di San Marco, che se mostrava di tenere il libro aperto fra le zampe significava che Venezia era intenta a dispensare Pace come gli aveva insegnato il suo Evangelista: “PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS”; mentre se il Libro era tenuto chiuso fra gli artigli, significava che Venezia si trovava in guerra. Infatti il Leone Marciano veniva raffigurato con una spada sguainata, e ruggiva feroce mostrando denti e artigli sotto a una criniera scompigliata e arruffata da far paura, con le zampe anteriori sulla Terra e quella posteriori sul Mare a simboleggiare i due Domini della Serenissima.

Come sapete meglio di me, il Doge guidava sul suo Bucintoro la solenne processione acquea di barche che usciva dal Molo di San Marco e si recava (e si reca ancora oggi) fino alla Bocca di Porto del Lido davanti alla chiesadi San Nicolò Patrono dei Marinai e dei Naviganti. Lì il Doge pregava a nome di tutti i Veneziani dicendo fra l’altro: “…per noi e per tutti i navigatori il mare possa essere calmo e tranquillo …”, poi aggiungeva recitando la Formula Rituale: “Desponsamus te, Mare ... In signum veri perpetuique dominii...”(Ti sposiamo, mare. In segno di vero e perpetuo dominio). Poi come da cerimoniale il Doge “Sposava il Mare” gettando in acqua quel famoso anello da sposo donatogli dal Papa. (si dice che c’era immediatamente una squadra di Veneziani tuffatori che s’immergevano subito per recuperare l’anello e restituirlo al Doge in cambio di congruo premio-gratifica).

Di certo quel gesto scenico non ricalcava solo un Rito leggendario di “Mistica unione sponsale”, ma rispolveravaanche un significato propiziatorio e di buona sorte forse di antichissima origine pagana già presente fra le Genti della Laguna chissà da quanto tempo.
In ogni caso: tutto bello ! … sia leggenda che gestualità … Anche questo è Venezia con la sua Storia e le sue superbe Tradizioni.

Un unico neo però … Credo sia legittimo interrogarsi da buoni Veneziani d’oggi su che cosa intendano “sposare di Venezia” i nostri ultimi Sindaci come Cacciari, Orsoni e Brugnaro … Qualche dubbio e perplessità resta confrontandoli con l’antica Storia … Speriamo bene, come hanno sempre fatto nonostante tutto i Veneziani di ogni tempo.

Buona Festa della Sensa a tutti i Veneziani !



L'ISOLA DI SANT’ANGELO DEL PECCATO.

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 106.

L'ISOLA DI SANT’ANGELO DEL PECCATO.

In realtà oggi il nome giusto, lo dico subito, sarebbe Sant’Angelo della polvere... ma si potrebbe anche definirlo per diversi motivi: Sant’Angelo pirotecnico o piroclastico, anche se all’inizio i Veneziani finirono per chiamare quell’isoletta semplicemente: San Michele Arcangelo in isola per distinguerlo dall’altro Sant’Arcangelo che c’era a Venezia ossia quello della Contrada e del Campo di Sant’Angelo o Sant’Arcangelo situata vicino a Santo Stefano, San Beneto e l’attuale Campo Manin ossia l’ex Contrada di San Paterniàn. Inoltre in Laguna c’era anche un altro San Michele: quello dei Frati Camaldolesi di fronte a Murano (oggi Cimitero) dove abitò anche il famoso Fra Mauro…il celebre cartografo della Serenissima, quello dei mappamondi … e molto altro.

A dirla tutta e bene, i Veneziani tanto tempo fa chiamavano la stessa isola anche Sant’Angelo di Contortaprobabilmente per via del vicino Canale lagunare di Contorta… e alla fine della storia la nominarono infine: Sant’Angelo della polvere.

E fin qua c’è solo un nome.

Detto questo, c’è da aggiungere che oggi Sant’Angelo della Polvereè una di quelle isolette quasi dimenticate da tutti, Veneziani compresi, ed esiste relegata nelle sue amene solitudini quasi magiche ridotta a un cumulo di rovine, spazzature e macerie varie. Negli ultimi decenni è divenuta un sito utile da utilizzare come magazzino per rari pescatori, e se ne sta in fondo alla Laguna Sud di Venezia in attesa di tempi migliori sorvolata da rauchi Gabbiani incazzosi e da qualche Volpoca, specie d’anatra che sembra prediligere deporre le proprie uova dentro a tane di Volpi … che però non ci sono.
Un recente quanto vaghissimo accenno all’esistenza di quest’isola ci è stato dettato dalla cronaca veneziana recente in quanto si è ricordato che Sant’Angelo di Contorta o Caotorta si trova sul Canale che se scavato a fondo potrebbe essere utilizzabile per il passaggio delle Grandi Navi giunte a Venezia dalla Bocca di Porto di Malamocco, e dirottabili sulle banchine del Porto di Santa Marta deviandole appunto attraverso questo canale senza passare attraverso il mitico Bacino di San Marco e il Canale della Giudeccasconquassandone rive e fondali. Accadrà mai ?

Un secondo piccolo recente accenno all’isola di Sant’Angelo di Contorta o delle Polveriè stato fatto a causa della sua comparsa nella lista dei beni che lo Stato vorrebbe provare a vendere a privati per convertirli in piccoli Paradisi monumentali destinati a pochi fortunati vacanzieri e ospiti. Alcune isole come Santo Spirito e Sant’Angelo delle Polveri, come è già accaduto a San Servolo, San Clemente e Sacca Sessola potrebbero diventare nuovi mega super alberghi di lusso forniti di ogni comodità e benessere da proporre a pochi fortunati per vivere giorni da sogno in luoghi da fiaba … zanzare comprese.

Ma al di là delle battute, è interessante ricordare che questo sparso arcipelago secondario della Venezia Serenissima ora “dal futuro interrogativo e sospeso”ha vissuto tempi migliori …

“Diverrà un altro albergo extralusso che finirà poi in fallimento come gli altri.”
“Sempre meglio che lasciare le isole lì ferme, abbandonate a marcire e basta !” commenta qualche Veneziano.
“Sarebbe meglio aprire l’isola e darla in gestione ai Veneziani … destinarla ad opere sociali utili.” aggiunge qualcun altro.

Forse sì … o forse anche no. Vedremo quel che succederà.

E’ accaduto più di qualche volta che dopo l’iniziale entusiasmo per la riscoperta di un’isola associato a eclatanti iniziative, manifestazioni, petizioni, e comparsa di variopinte associazioni preposte a fantomatici recuperi e riutilizzi si sia ritornati, invece, al solito oblio e abbandono da parte di tutti. Il disinteresse per l’Isolario Veneziano credo sia una “malattia di Venezia”, un atteggiamento destinato a perdurare ancora a lungo ... e come si dice di solito: “Occhio non vede … cuore non duole”, essendo certe isole davvero lontane, fuorimano rispetto al solito vivere che conta, si finisce sempre e inevitabilmente per dimenticarle ancora una volta.
Probabilmente il tempo delle isole è finito ancora una volta ... anche se questo pensiero genera una certa mestizia nel considerarlo.

Ma torniamo al nostro Sant’Angelo di Contorta… che forse è meglio, ed è la cosa più interessante.

Facciamo un bel balzo indietro nel tempo di qualche secolo, quando i nostri antenati Veneziani astuti come volpi possedevano anche sensibilità interiori raffinate che forse noi di oggi abbiamo un po’ perduto. I Veneziani non erano solo abilissimi Marinai, Artieri e Mercanti, ma credevano anche che in certi luoghi ameni e di grande solitudine si potesse esprimere meglio l’Animo umano tanto da poter quasi arrivare a toccare con un dito il Cielo di Dio … Uomini e donne andavano a isolarsi ed eremitarsi anche a nome degli altri Veneziani che rimanevano ad occuparsi d’interessi economici e di cose terrestri più concrete. I Veneziani di un tempo hanno sempre visto di buon occhio e favorito grandemente la costituzione di nuovi Monasteri nelle isole più remote della loro splendida Laguna … se non altro per spedirvi lì le loro Nobili figlie e figli “scomodi e in esubero”.

Ha funzionato l’idea ? A volte sì, altre volte no perché qualche volta i Veneziani si sono ritrovati con qualche isola occupata da sole due tre Monache o Frati rimasti, vecchi e spelacchiati, e a volte un po’ cenciosi e malconcia. Altre volte, invece, alcune isole sono state occupate per secoli da Comunità Religiose fiorenti e di successo che hanno riempito le cronache della Laguna con le loro curiose vicende storico-artistiche.

La storia dell’isoletta di Sant’Angelo era partita più che bene all’inizio, piena di buoni propositi. Infatti venne collocata lì dal Doge Domenico Contarini fin dal 1060 una dependance dei Monaci Benedettini di San Nicolò del Lidofinanziandone la costruzione di chiesa e convento. Poco tempo dopo, i Monaci vennero sostituiti da un buon numero di Monache Veneziane dello stesso genere ossia Benedettine,che si dice all’inizio “tenessero vita Santa e Devota”. In quei tempi l’isola si trovava in una posizione strategica della Laguna di Venezia, poco distante dallo sbocco delle acque del fiume Brenta, che uscivano attraversando le “roste dei molini” del canale di Volpadego, ultimo tratto del fiume che sfociava nelle secche omonime sulla gronda lagunare. Non lontano da Sant’Angelo di Caotorta sorgevano altre isole gemelle abitate e vivissime come San Marco e Santa Maria in Boccalama, e poco distante sorgeva anche l’insediamento monastico di San Leonardo di Fossamala collocato nel primo entroterra dei Moranzani di Fusina dove sorgeva soprattutto il potentissimo e ricchissimo Monastero Benedettino di Sant’Ilariole cui proprietà giungevano fino a Oriago e oltre arrivando fino a Padova.

Altri tempi … oggi la stessa zona è attraversata dal Canale dei Petroli, è occupata da qualche barena e palude, da qualche stagno delle Casse di Colmata, e dal Terminal di Fusina sulla punta estrema della Terraferma … Nello stesso posto della Laguna Sud di Venezia sorge anche l’isola celebre e altrettanto abbandonata di San Giorgio in Alga, poco più in là ci sono Sacca Sessola e Santo Spirito… e più avanti ancora i ruderi delle Batterie di Podo, Poveglia e Campana andando verso la bocca di Porto di Malamocco.

In quest’area della sua Laguna la Serenissima alla fine del 1300 ordinò di modificare e costruire l’Argine di San Marco e la Resta de Aio costringendo i barcaroli del commercio a lunghi percorsi supplementari.  Bisognava aprire bocche d’acqua diverse, e creare correnti pulite e scorrevoli che dessero vita e flusso a quella parte della Laguna mezza impaludata e intasata da mille lagni, deflussi lenti e innaturali, stagnazioni, paludi e canneti che procuravano la “mala-aria”oltre che le zanzare e tutto il resto. Nello stesso tempo sembra che nell’isola di Sant’Angelo fosse attiva una fornace, mentre di certo c’erano in zona diversi molini con prese d’acqua potabile, e diversi lavatoi per la lana … Quello era anche posto di contrabbandi, agguati, e qualche bandito da quattro soldi … ma qualche volta anche di vere e proprie bande organizzate che davano filo da torcere ai Fanti e ai Dazieri della Serenissima.

Nell’ottobre 1331 Angelo Zuccato depositò il proprio testamento presso il Notaio Nicolò Bettini dicendo di voler beneficare proprio il Monastero di Sant’Angelo di Contortadove vivevano santamente come Monache quattro sue nipoti. L’isola quindi sembrava posta dentro a un quadretto idilliaco quasi perfetto … Invece, poco dopo si è rotto qualcosa, come è accaduto anche in altri siti dell’epoca non solo Veneziani.
L’immagine dell’isola e Monastero di Sant’Angelo di Caotortafinì in un certo senso capovolta del tutto, perché fra 1401 e 1487 il Monastero subì ben 52 processi per attività sessuali illecite con nascita anche di 4 bambini … le Monache che vivevano lì erano davvero donne scatenate.

Già nell’aprile 1401: Giorgio barcarolo del Convento venne prima giudicato dalla Quarantia Criminal e poi condannato a un anno di carcere per essere entrato più volte di notte nel Convento avendo rapporti carnali con una Conversa Maria. Fu solo l’inizio, perché l’anno seguente lo stesso uomo venne condannato a morte perché recidivo e per aver rubato gli arredi dalla chiesa del convento.
Nel luglio di sei anni dopo, un altro barcarolo dello stesso Convento: Nicolò de Alemagna subì la sentenza di due anni di carcere per l’accusa di molestie e rapporti con la Novizia Zaneta… ma non fu tutto, perché accadde di peggio: si trascinarono a processo davanti alla Quarantia “per eccesso di sessualità molesta” le Nobili Monache Filippa e Clara Sanudoresidenti nello stesso Convento. A Venezia ne derivò un putiferio e un gran casotto perché risultò essere coinvolto anche Marco BonoNotaio di Palazzo Ducale che era diventato amante della stessa Filippatrovata però in intima compagnia con un altro Nobile: Andrea Valier. Venne fuori che i fratelli Paolo e Andrea Valier erano andati più volte a “visitare a fondo” le Monache intrallazzando anche con Suor Magda Lucia de Cha di Veglia, perciò la Serenissima affibbiò loro una condanna di due anni di carcere ... Dalle stesse indagini risultò anche che Andrea Amizio se la vedeva anche lui con la Monaca Clara Sanudo, e per questo la Serenissima condannò anche lui a due anni di prigione.
Benedetto Malipiero, invece, andò più volte a prendere in barca al Monastero le solite Monache Filippa e Clara Sanudo e le portò in gita e a spasso per la Laguna fino all’isola di Ammiana dietro Torcello combinandone strada facendone “tante, di cotte e di crude” che non si possono raccontare ma solo intuire. Si beccò anche lui due anni di carcere ... mentre il Nobile Rafeleto Moro che finì con l’avere una figlia dalla Monaca Costanza Balistario venne condannato in contumacia dalla Serenissima a due anni di prigione se solo avesse osato rimettere piede dalle parti di Venezia e dintorni.
Nell’aprile 1431 Luca Raffono già Gastaldo dello stesso Convento di Sant’Angelo in isola, e il Nobile Giovanni Minio vennero accusati e condannati ai soliti due anni di carcere inferiore per aver “conosciuto carnaliter” la solita Monaca Clara Sanudo … Caspita ancora lei ! … Trent’anni dopo ! … ed era intanto diventata anche Badessa del Convento.
Nel maggio dell’anno seguente la solita Quarantia Criminal conferì un anno di carcere a Jacobo Lanarius per gli ormai soliti “traffici carnali” con Donata Secolare addetta al Monastero, e un anno fu dato anche a Francesco Bonvesin per lo stesso motivo insieme a Eufemia servente di un’altra Monaca sempre di Sant’Angelo in isola.

Questi sono solo alcuni esempi di tutto ciò che accadde nel Monastero di Sant’Angelo che venne considerato il Convento forse il più libertino, inquieto e perverso della Laguna di Venezia … Infatti poco dopo, fu la volta di Antonio “famulus del Convento”e di Jacobo di Macario che si beccarono i due soliti anni di carcere per essersela vista entrambi con Suor Valeria Valier, e qualche giorno dopo fu il turno di Giovanni Strazzaròl che prese anche 200 lire di multa per “trafficato” con la stessa Monaca avendo anche un figlio.

La lista sarebbe lunghissima, e non finisce di certo qui: Marco de Buora venne portato a giudizio insieme a una sua parente Liseta Monaca a Sant’Angelo, all’ormai immancabile Suor Valeria Valier,e a una fanciulla Margherita da Murano posta dalla famiglia in Convento per imparare un lavoro. La giovane era rimasta nell’isola solo 15 giorni, ma era finita presto a letto con la Monaca Liseta e violentata da Marco de Buora abituè ad entrare di notte nel convento. Venne condannato a un anno di carcere e 200 lire di multa da destinare in dote a Margherita per trovarle un marito, mentre la Monaca Liseta de Buora venne espulsa dal Convento rea anche di “traffici carnali” anche con Nicolò Strazzaruol condannato a sua volta a due anni e 100 lire di multa, e per essere finita a Venezia in casa di una certa Tadhea Cortigiana o Compagnessa. Si condannò ad un anno di carcere e 100 lire di multa anche Simone il barcarolo che aveva condotto tutti al Convento ingiuriando anche la Badessa e minacciando di bruciare l’intero Convento.
Dall’inchiesta venne fuori che anche Zanino dal Sale e i Nobili Giovanni Valier e Marco Marcello avevano “baciato e toccato inoneste”la stessa Monaca Liseta meritandosi multa e carcere, mentre Giorgio della Scala meritò il doppio della pena per aver eseguito “l’opera completa” sempre con la stessa donna.
Qualche anno dopo il Nobile Girolamo Tagliapietra, recidivo e già condannato al carcere in catene per incesto, subì una nuova condanna di tre anni da scontare nel Carcere Nuovo per le sue visite disoneste nel chiostro dell’isola di Sant’Angelo. Con lui si condannarono altri Nobili: Luciano Franco, Francesco Turlano, Battista Viadana, e perfino Zazino Barberius che si recavano in barca in isola a “insolentàr e ingiuriràr le Muneghe”e a rubare l’insalata nell’orto del Monastero.

Che ve ne pare ?

“Ma che avevano quelle Monache ? … Il samòro ? … Erano proprio assatanate !”

C’è da aggiungere che le Monache del Monastero di Sant'Angelofurono anche oggetto di una petizione alle autorità della Serenissima presentata dalle mogli dei pescatori Veneziani di Malamocco e Pellestrina. I pescatori di ritorno verso casa dalla pesca o dal mercato-pescheria San Marco e Rialto usavano fermarsi troppo spesso presso quelle “allegre Monachelle” con le quali spendevano i pochi soldi guadagnati, o regalavano parte del pescato scambiandolo col loro turpe mercato”.

“Quella è l’isola di Sant’Angelo del peccato !” dichiararono le mogli nella loro supplica.

Infine … dal momento che anche in Laguna si diceva che: “il troppo stroppia” e che “tutti i nodi vengono alla fine al pettine” il Vescovo Lorenzo Giustinianiinviò a Sant’Angelo di Contorta alcune Monache Osservanti dal Convento di Santa Croce della Giudecca detto de Scopulo per provare a riformarlo.

Niente da fare ! … Si fece un “buco nell’acqua” ... le Monache del Sant’Angelo erano incontenibili oltre che incorreggibili perché cacciarono a sassate i Preti e le Monache inviati dal Vescovo per riformarle.

“Batti e ribatti … si piega anche il ferro.” si disse ancora … Perciò nell’agosto 1440 Papa Eugenio IV in persona emise una sentenza, e lo stesso Lorenzo Giustiniani,ancora Vescovo e non ancora Patriarca di Venezia, ordinò la chiusura definitiva del Monastero incorporandone rendite e beni a quello di Santa Croce della Giudecca. Il Senato della Serenissima inizialmente aveva fatto “orecchie da Mercante” di fronte a quella situazione dilazionato i provvedimenti e pazientando senza fine con le Monache (d’altronde era le figlie di Nobili ricchi e prestigiosi), ma nel giugno 1474 sollecitato dal Patriarca mandò i Fanti della Serenissima a “prelevare di peso” le Monache vincendo la loro fiera resistenza portandole nel Monastero Osservante di Santa Croce della Giudecca.

Finito tutto ? Macchè ! … perché continuarono a fioccare ancora processi e condanne: nel dicembre 1477 si condannarono tutti a due anni di carcere Vettor Ciocha Monachinusper aver conosciuto ancora una delle Suore del Sant’Angelo, e altri 4 “monachini”: Nicolò Fligerio, Alvise dal Monte, Feleto Feleti e tale Magister Matteus Murarius et Marangonustutti imputati di aver dormito in Convento ed aver avuto rapporti con le Monache e le loro domestiche. Fu poi la volta di condannare i Nobili Paolo Soranzo, Gerolamo Barbarigo, Alvise Barbo e Domenico Trevisanoper lo stesso motivo, e infine s’appiopparono 4 mesi di carcere e 100 lire di multa a un altro Nobile: Pietro Lando per essere entrato nella cella di Suor Visa Bianco “con mala intentioni”. Costei era sorella di Suor Orsa Bianco per la quale nel luglio 1487 i Quaranta furono costretti a condannare il Vicentino Angelo Buso per averla conosciuta “carnaliter”.

Ma come mai ? direte ... Le Monache non erano state trascinate via dall’isola e s’era chiuso il Convento?

Vero … solo che quelle donne Nobili erano così potenti e baldanzose da riuscire a far dichiarare nulli i provvedimenti nei loro riguardi dal nuovo Papa Innocenzo VIII che annullò la bolla della sentenza precedente permettendo alle Monache di ritornare tranquillamente a vivere nella loro isola.

Solamente Papa Sisto IV, più tardi, tramite il Patriarca Maffeo Girardi rese definitiva la soppressione del Convento di Sant’Angelo in isola nonostante le suppliche delle Monache estromesse, che perseverarono comunque nel loro “modus viventi” e nelle loro “pratiche”fino al 1508 quando morirono le ultime Monache di quel tipo che lasciarono finalmente libero il Monastero.

La quiete dopo la tempesta ... L’isola dopo tanti traffici e casini divenne abbandonata, deserta e silenziosa, e venne data in concessione a tale Prete Antonio … che ne fece: niente. 
E passò il tempo …

Nell’aprile 1518 alcuni Carmelitani della Sacra Congregazione di Mantova e di Brescia ottennero di stabilirsi nell’isola con obbligo di accudirla e conservarla e dare ogni anno alle Monache di Santa Croce della Giudecca: “due candelotti di cera da due libbre nei giorni tre di maggio e quattordici di settembre”.
Otto anni dopo gli stessi Carmelitani furono costretti a far ricorso alla Signoria Serenissima contro le Monache della Croce che godevano ancora del Giuspatronato sull’isola perché aveva inviato dei loro messi per cacciarli dall’isola … Non c’era pace per Sant’Angelo in isola.

Chi vinse alla fine ? Apparentemente le Monache perché nel 1555 i Frati Carmelitani dovettero abbandonare l’isola e trasferirsi alla Giudecca in un piccolo Convento e chiesa abbandonati dai Frati Cappuccini. In realtà persero anche le Monache perché il Senato della Serenissima decise di sfollare l’isola con la scusa dell'insalubrità dell'aria, per: “…installarvi una sua polveriera per fabbricar, soleggiar, asciugar e conservar la polvere da sparo dall’umidità della Laguna.”

C’era una cosa, una serie di vicende interne circa il suo celebre Arsenale, di cui la Serenissima amava poco parlare …  anzi non ne parlava affatto. Intere parti dell’Arsenale erano saltate per aria non una ma diverse volte … e non da sole, perché erano esplose in aria anche le mura di cinta, qualche torre, e perfino gran parte del vicino Convento delle Monache della Celestia e alcune case della Contrade vicine.
Nel 1440 era esplosa causando danni gravissimi la “Caxa de le polveri” dove c’era una grande macina azionata da cavalli per preparare la polvere da sparo. Fu necessario restaurare le officine nell'area est dell’Arsenale, costruire nuovi Squeri lignei per le Galee, e intervenire sulla trecentesca Teza longa de la Tana divenuta traballante. Erano poi trascorsi solo nove anni, e nonostante tutte le precauzioni adottate, era avvenuta una seconda esplosione altrettanto disastrosa: “Di nuovo il 14 marzo del 1509, nonostante gli sforzi generosi delle maestranze, un violento incendio propagatosi nei pressi del deposito arrivò infine ad intaccare le polveri e a lambire il Tezon del salnitro; la terribile deflagrazione che ne seguì causò la distruzione degli edifici adiacenti, nonché il crollo di un lungo tratto del muro di cinta prospiciente il Rio de San Daniel …”

Riparato tutto un’altra volta, l’Arsenale riprese la sua solita produzione mentre il Senato andava cercando soluzioni di sicurezza: decretò che la polvere da sparo venisse suddivisa in piccoli lotti da custodire ai piani alti di alcune delle numerose torri che scandivano il perimetro dell’Arsenale, e poi pensò bene di spostare il deposito del Salnitro al di fuori dell'Arsenale, suddividendolo in appositi Caselli da polvere” costruiti nelle isole della Certosa, San Secondo, Santo Spirito, Poveglia, Lazzaretto Vecio e Lazzaretto Novo concentrando la maggior quantità della polvere nella remota isoletta disabitata di Sant'Angelo di Contorta che da allora si chiamò Sant’Angelo de la polvere.

Ma mentre si tergiversava con questi provvedimenti, nella notte tra il 14 e il 15 settembre 1569 una nuova esplosione dovuta a un violento incendio sviluppatosi dentro al Recinto de le polveri interessò l’Arsenale stavolta però senza gravi danni. Un manifesto affisso per le strade di Venezia, interpretò l’incendio dell’Arsenale come: “… punizione divina per le ingiustizie et tirannie del Doge e dei Senatori Veneziani …”

“Fu un gran bel botto ! … ma andarono distrutte solo le Teze ed edifici de le macine nonchè un tratto delle mura perimetrali appena completate nel 1535 per isolare dalla Laguna la nuova vasca de le galeazze”. Poco tempo, infatti, partirono i lavori per la costruzione di sei nuovi tezoni atti ad ospitare la costruzione di una innovativa galeazza armata da guerra.

Qualcuno parlò del classico mozzicone dimenticato da un Arsenalotto sbadato o forse ubriaco ... un incidente da sbadatezza insomma … Altri parlarono della solita lanterna buttata a terra dal vento … Altri ancora si spinsero a parlare di complotto e attentato organizzato dai Turchi o da parte di qualche rivoluzionario che voleva ribaltare lo Stato Serenissimo … In ogni caso s’era evitato di un soffio l’ennesimo disastro e la tragedia, perciò Doge e Senato dissero: “Mai più saltàr par aria!”… perciò tutte le polveri vennero distribuite ad equa distanza all’esterno dell’Arsenale, lasciandovi dentro la sola preparazione del Salnitro.
Trasformata allora l’isola di Sant’Angelo in polveriera, risale, invece, al 29 agosto 1689 la notizia del terribile incendio causato da un fulmine che provocò la distruzione quasi totale dell'isola di Sant’Angelo della polvere facendo esplodere 800 barili di polvere lì accumulati ecausando la subitanea distruzione del muro di cinta dell’isola, delle quattro torri angolari del portale d'entrata del Forte e di tutto quanto rimaneva dell’antica chiesa e del Monastero delle Monache.
L’isola per un bel pezzo rimase una distesa bruciacchiata e brulla, e come tale venne anche rappresentata in alcune stampe e incisioni della stessa epoca. Da allora fino alla seconda Guerra Mondiale l’isola continuò ad essere utilizzata per scopi militari come dimostra la cartografia settecentesca.

Nella “Biblioteca Universale Sacro Profana Antico Moderna appartenente a qualunque materia”, al tomo 3scritto daFra Vincenzo Coronelli Ministro Generale dell’Ordine de Minori Conventuali, Cosmografo della Serenissima Repubblica stampato in Venezia nel 1703 a spese di Antonio Tivani con licenza de Superiori e Privilegio dell’Eccellentissimo Senato, si legge alla voce SANT’ANGELO DELLE POLVERI, ISOLA:

“… poco lungo da essa trovasi l’isola detta un tempo sant’Angelo di Contorta, e poscia Sant'Angelo della polvere. Ebbe quel primo titolo da un Monastero di Monache dedicato a San Michele Arcangelo, che nel 1474 si rese celebre per la scioltezza delle sue abitatrici e per la caparbietà ed ostinazione loro nel far fronte a quanti le volevano riformare. Fu forza levarle di là e concentrarle nel Convento della Croce della Giudecca. Per la qual cosa rimase bensì solitario il Monastero, ma bramosi i Padri Carmelitani della Congregazione appellata di Mantova di piantar sede in Venezia, lo chiesero alle Monache della Croce, e mediante piccoli censi presero ad abitarlo nel 1518. E lo abitarono pel‘ 55 anni finchè, avendo il Senato destinata quest‘ isola tanto discosta dalla città alla fabbrica della polvere, i Carmelitani passarono a Sant’Angelo della Giudecca e l’isola assunse il nome di Sant’Angelo della polvere. Nondimeno un fulmine caduto in que’ magazzini incendiò tutta l’isola, che circondata dapprima da grossa muraglia, con quattro torri ai quattro angoli e con un solo portone magnifico non divenne più che un mucchio di sassi. Rimessa però nel miglior modo possibile fu destinata ad altri usi, ma sempre con vari lavori conviene difenderlo dalla corrosione delle correnti marine.”

Con Napoleone all’inizio del 1800 l’isola di San Angelo della Polvere divenne un “Redoute” ossia un presidio, un’installazione militare con intorno a un edificio centrale alcune costruzioni definite: "caserma", "polveriera"e "corpo di guardia". L’isola continuò ad essere circondata da una serie di bastioni con quattro torrette d’avvistamento poste sugli angoli già ricostruite e presenti alla fine dell’epoca della Serenissima.
Gli Austriaci e il Regno d’Italia, invece, non apportarono all’isola grandi modifiche sostanziali, ma costruirono qualche terrapieno e una nuova struttura militare proteggendo i magazzini delle polveri tramite un'armatura a prova di fulmine. Sant’Angelo delle Polveri venne considerato a tutti gli effetti un anello della collana-cintura delle Fortificazioni Lagunari, e nell'aspetto era molto simile a quanto è parzialmente visibile ancora oggi ... Nel marzo 1849 venne ritrovato nell’isola un’iscrizione Romana funeraria sprofondata sotto ad un terrazzo alla veneziana spesso 20 cm.

Nel 1° Volume del “Fiore di Venezia ossia i quadri, i Monumenti, le Vedute ed i costumi dei Veneziani”... una specie di guida storico-artistica di Venezia e la sua Laguna scritto in cinque volumi da Ermolao Paoletti estampato a Venezia nel 1872 si legge:“Sant’Angelo della Polvere, Isoletta della Laguna di Venezia di figura quadrata, e di circuito di pass ... mezzo miglia distante da San Giorgio in Alga , ed uno e mezzo da San Marco in Lama . Fu prima abitata da Regolari sino al 1050 ... Come riferisce il Sansovino, poi assegnata per soggiorno di Monache, dalle quali essendo stata abbandonata a causa dellinsalubrità dell’aria, il Pubblico la destìnò per la fabbrica della polvere dell’Arsenale, donde riportò la denominazione, e tuttavia tra le rovine si scoprono gran pietre di macine, ed altri stromenti di edifici erettìvi. Fu poi susseguentemente l’Isola convertita in Magazzini per solizzare e governare la stessa polvere e poi distribuirla ne depositi secondo le pubbliche indigenze; ma nel giorno fatale de 29 Agosto 1689 a ore 4 un fulmine avendo scoccato ne’ Magazzini predetti ne’ quali si trovavano 800 Barili di polvere, incendiò tutta l’Isola, e le Fabbriche restarono in un momento del tutto atterrate; di modo che al presente non si veggono che cumuli di sassi, e sulle di lei spiagge quantità di zolfo dal medesimo suolo liquefatto. Un vile Tugurio serve d’abitazione ad un Custode, mantenutovi dal Pubblico, che ha il comodo d'una Cisterna, come esprime il disegno da noi esposto nel nostro Isolario. Era prima tutta circondata di grossa, ed alta muraglia, con 4 Torri, che occupavano i 4 angoli dell’Isola, guardata in quel tempo con gran gelosia. Da un solo Portone ornato di marmi quadrati per mezzo d’un Pontile si aveva quivi l’ingresso, e vi era ancora una comoda Cavana con altro consimile Portone in parte rovinato. E’ circondata l'isola suddetta da Canali nuovamente fatti, ed ingranditi dalla Natura, che hanno di molto migliorato la Laguna, e le Paludi fino a San Biagio e sono di quegli, che ultimamente furono saviamente ricordati da zelanti Senatori de‘ quali abbiamo parlato in altro incontro.”


Ancora nel dopoguerra del 1950 sull’isola ridotta a poco più di 5.000 mq c’erano ancora i Militari che usufruivano di strutture in cemento, mura di cinta, torre piezometrica e approdo … Poi l’abbandono dell’isola fu totale fino al 1994, quando fu posta in vendita all’asta o proposta in affitto come diverse altre isole della stessa Laguna.
A seguito di questo ci fu un ultimo squillo storico di Sant’Angelo delle Polveri quando nel gennaio dell’anno seguente un Veronese originario della Giudeccaha ottenuto l'isola in affitto per un canone di poco inferiore ai 10 milioni annui …  Poi più niente … solo silenzio, Laguna aperta … e tanta Storia ormai trascorsa e quasi dimenticata.





 









I NOBILI GIRARDI, UN PATRIARCA AVVELENATO (?), LA NAVE GIRARDA E SAN SABA DEGLI STIORERI ... A VENEZIA, OVVIAMENTE !

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"Una curiosità veneziana per volta." - n° 107.

I NOBILI GIRARDI, UN PATRIARCA AVVELENATO (?), LA NAVE GIRARDA E SAN SABA DEGLI STIORERI ... A VENEZIA, OVVIAMENTE !

Cominciamo con la Nave Girarda ... Anzi, da una cosa stranissima che accadde prima che la nave fosse acquistata dai Nobili Veneziani Girardi.  

Accadde a Venezia che una sera di vigilia festiva, fra venerdì e sabato 28 maggio 1594, successe a Rialto un gran clamore in una locanda tanto da mandare a chiamare i Birri della Serenissima perché dopo un’intera notte di confusione, grida, minacce e botte, un uomo forestiero era caduto giù … o forse buttato da una finestra ed era rimasto morto sulla pubblica strada.
Questi furono i fatti che dovettero costatare senza grandi indizi e testimoni il Capitano della Ronda Girolamo Venier, Andrea Breani Coadiutore dei Signori di Notte, e il barbiere di Piazza San Marco di nome Lorenzo precettato dai militari perché autorevolmente costatasse il decesso dello sconosciuto. La Locanda interessata dai fatti fu l’Osteria all’Insegna dell’Aquila Nera in Contrada di San Bartolomeo proprio quasi ai piedi del Ponte di Rialto e a due passi dal Fondaco dei Tedeschi. Dal resoconto dell’Oste, il gruppo dei quattro Marinai foresti aveva mangiato fino a tarda sera e s’era ubriacato alla grande prima di salire di sopra in una stanza a due letti per dormire, quando in realtà chiusa la porta scatenarono un finimondo di discussioni, parole oscene, maledizioni e offese che sfociarono in rissa, pugni e botte con lo sfasciamento completo di tutto l’arredo della stanza.

Tutti gli ospiti s’erano ampiamente lamentati di quella gran confusione, e le voci erano giunte fino in Piazza San Marco dove la gente gridava: “ I se mazza a San Bortolo ! … e ghe xe uno sa morto.” … e quando il Capitano giunse sul posto la gente in strada gli gridò: “Andè su Capitano ! che i se mazza …Tutta questa notte i se dà !”

Ovviamente i Birri salirono di sopra nella Locanda, e dopo un ulteriore parapiglia con molteplici tentativi di fuga da parte dei Marinai che sfondarono porte, fracassarono sedie, letti, brocche e boccali da notte provando a scappare dappertutto, i gendarmi riuscirono finalmente a portarli tutti in Prigione dove rimasero fino al lunedì seguente quando dovettero presentarsi davanti all’Avogador da Comun Corner per ricostruire i fatti e pagarne le conseguenze.

Il fatto della rissa vicino a Rialto in se non era granchè di speciale, perché in quello stesso sabato si registrarono a Venezia altri dodici morti, fra cui più di uno ammazzato. Nell’intero mese di maggio di quello stesso anno i morti conteggiati furono oltre 300, ed era normalità che non meravigliava più di tanto.

Facendovela breve, i Marinai vennero a più riprese “Interrogati alla maniera Veneziana”, e indotti a confessare i dettagli dell’accaduto. Ma non ne venne fuori niente, se non il fatto sciocco che il Marinaio morto era solito tuffarsi dalla nave in acqua quand’era ubriaco, mentre quella volta prese viceversa la via della finestra aperta tuffandosi di sotto in calle. Rimase il mistero.

Quello che interessa per il nostro racconto, è che il Marinaio rimasto accoppato o ucciso era il Nocchiero della nave San Nicolò, ossia la nostra Nave Girarda.
“Una nave maledetta !” si diceva, perché era stata in precedenza anche attaccata dai Pirati. Così come non si escludeva che il movente di quell’omicidio fosse legato a “movimenti e sotterfugi loschi” legati ai traffici condotti da quella strana nave.
Poco dopo i fatti in questione, accadde, infatti, che fosse venduta e comprata dalla Compagnia commerciale di cui faceva parte il Nobile Veneziano Giovan Matteo Girardi che si preoccupò di riequipaggiarla nominando un nuovo Patròn che la conducesse, e di assumere una nuova squadra di Marinai.

La Girarda, soprannominata anche “Nave San Nicolò”, non era un elegante Galea Veneziana, ma una nave tozza, una cocca dall’alto bordo, ossia una nave tonda commerciale capace di trasportare 600 botti. Era di proprietà del Nobile Veneziano Giovan Matteo Girardi e del Mercante Fiammingo Giacomo Van Lemens residente in Contrada di San Giacomo dell’Orio, proprietario anche della Spezieria “All’insegna della Nave” a Rialto.

Il Nobile Giovan Matteo Girardi abitava in Contrada di Santa Sofia a Cannaregio, ed era armatore di navi, assicuratore, teneva un collegamento marittimo fra Venezia e Candia, gestiva affari, e commerciava in pellami, tessuti, sete, cotoni e generi alimentari insieme ad alcuniFiamminghi residenti a Venezia, e con i Nobili Veneziani Zen, Corner e Morosini. Gestì, infatti, in tempi diversi anche altre navi, fra cui una marciliana e una galea, e nel 1594 fu anche proprietario insieme ai Correr della nave“Girarda et Correra” catturata dai Pirati a Cretanell’estate 1595.

La Girarda si trovava in partenza da Malamocco, e partì effettivamente dalla Laguna di Venezia il primo settembre del 1594, anno del suo stesso acquisto, con destinazione: Cagliari ! … Una rotta insolita, lontana, secondaria, diversa dai famosi e redditizi viaggi per Aleppo diSoria(la Siria),Alessandria d’Egitto, Londra, o le Fiandre. Niente aggregazione quindi alla nutritissima flotta della Muda composta dalle sontuose e ricchissime Galee di Stato della Serenissima. Niente scorta armata, o carico preziosissimo di sete, spezie, denaro, Mercadanti e soldati … La Girardanon trasportava neanche Pellegrini a buon prezzo, disposti a sistemarsi alla bellemeglio sopra ai sacchi, le casse, o le balle delle merci … ma trasportava solo legname proveniente dall’entroterra Veneto, mentre al ritorno dopo la pausa invernale portò a Venezia il 30 marzo 1595 solo un grosso carico di 2.600 quartini di sale, equivalente di 550 botti, e un po’ di generi alimentari venduti in Dalmazia.

Lo Scrivano imbarcato a bordo era Francesco Bonazzo che doveva descrivere nei suoi Libridi bordo: il carico, le entrate e uscite di cassa, le spese per il vitto, quelle di carico e scarico delle merci, dei gondolieri, dei dazi, dei facchini-bastazi, e come altri Marinai era persona ambigua e “trafeghìna”perché si ritrovò debitore di 784 ducati dopo un viaggio fatto con la Girarda fino a Lisbona, e fu condannato a pagarli dai Consoli dei Mercanti Nicolò Marcello e Pietro Benedetto … cosa che però probabilmente non fece mai.
Anche il Patròn Gianuli Cosadino da Milos, comandante della nave e dell’equipaggio di 40 uomini in prevalenza Italiani e Greci, non era persona molto diversa, perché si ritrovò anche lui a dover rendere conto di un’eccessiva spesa di 625 ducati di “panaticho” contestatagli durante lo stesso viaggio della Girarda fino a Lisbona in Portogallo.

La nave del nostro viaggio arrivò a Cagliari il 3 novembre dopo aver sostato per un mese intero a Siracusa, mentre al ritorno fece sosta e scalo a Lissa, in Dalmazia, a Cittanova e in Istria. In seguito compì di certo un altro viaggio raggiungendo Lisbona, mentre nel febbraio 1598 una nave diretta a Corfù di nome San Nicolò comandata dallo stesso Gianuli da Milo naufragò a Curzola. In quell’anno però la nave non apparteneva già più ai Girardi ma era stata comperata da un armatore Greco Spilioti Tapinò.

I Nobili Girardi o Girardini o Gherardinifurono una famiglia annoverata fra le Casate Novissime dei Patrizi di Venezia. Probabilmente originari della Romagna,o forse da Fano nelle Marche, altri dicono, invece, di Arezzo; si dice abbiano vissuto e commerciato con poco successo prima a Firenze e Verona, e poi abbiamo raggiunto Venezia e la Laguna già nel 970 facendo grande fortuna con attività commerciali e finanziarie. I Girardi risultavano già ascritti fin dal 1297 al Patriziato di Veneziaed erano membri del Maggior Consiglio della Serenissima prima della famosa Serrata, ma ne furono successivamente esclusi e poi riammessi nel settembre del 1381 con Francesco e Lorenzo Girardi insieme alle altre 30 famiglie meritevoli di Nobiltà dopo il contributo economico offerto allo Stato e per essersi distinti in battaglia durante la guerra di Chioggia.  I Girardi avevano servito l’esercito Veneziano con due famigli e 40 balestrieri imbarcati sulle navi impegnate a respingere l'assedio dei Genovesi.
In città i Girardi risiedevano in Contrada di San Barnaba, ed erano molto apprezzati dai Veneziani per il loro modo “nobile e arguto” di proporsi. Possedevano botteghe, terreni e proprietà date in affitto a Venezia, Mestre, Carpenedo, nell’entroterra Veneziano e a Monselice, oltre che alcune Baronie a Corfù dove i Girardi occuparono la carica di Bailo fra il 1598 e il 1599.

Nell’estate del 1527, il celebre Diarista Marin Sanudo descriveva così il Patriziato Veneziano: “… almeno 150 Patrizi occupano cariche di governo nella Terraferma ed altrettanti nei Domini da Mar … Alle riunioni solite del Senato partecipano di solito 180 su 300 membri ed il quorum è di 70 individui. Su un totale di 2700 membri Patrizi eleggibili con quorum di 600 persone, in Maggior Consiglio sono presenti in media 1.000-1.500 Consiglieri che salgono di qualche centinaio in occasioni particolari ... Numerosi Patrizi si trovavano e vivono fuori città per motivi ed affari pubblici o privati … Alcuni Nobili pur essendo residenti in città non hanno mai messo piede in Palazzo Ducale, altri, almeno 46: non vi si recano da almeno 20 anni.
I patrizi appartengono a 134 clan diversi, e solo 9 gruppi familiari non hanno maschi in età da entrare nel Maggior Consiglio. Alcune Famiglie di piccole o medie dimensioni godono di posizione di prestigio perché uno dei membri glielo conferiva col successo personale commerciale o acquisendo benefici importanti … 30 clan ossia il 59% dell’intera Nobiltà sono costituiti ciascuno da oltre 30 membri ... Le Case Grandi sono 19 con più di 40 individui ciascuna formando il 45% del Patriziato. La Signoria ed i 50 Consiglieri Ducali sono rappresentati delle Casate Grandi mentre i Capi dei Quaranta provengono salvo eccezioni dalle Famiglie più piccole come: Lippomano, Bon, Calbo e Grioni.
Alcuni clan comprendono fino a 17 membri ciascuno, e raramente presentano le proprie candidature per incarichi importanti. Sono i Baffo, Cocco, Civran, Da Mezzo, Manolesso, Pizzamano, Semitecolo e i Viario. Altri Nobili, invece, vengono eletti solo a cariche di Sovraintendenti al Fondaco dei Tedeschi o ad uno dei Tribunali Minori di Palazzo Ducale comparendo raramente nelle liste dei Dieci o del Collegio, sono i Briani, GIRARDI, Zancani, Nadal e Belegno ... mentre altri 19 clan sono prossimi ad estinguersi avendo solo uno o due rappresentanti in età matura. Fra questi ci sono: Avonal, Balastro, Battaglia, Calergi, Celsi, Caotorta, D’Avanzago, Guoro, Lolin, Onorati, Ruzzini e Vizzamano ...”

Stupenda quest’analisi della Nobiltà Veneziana dell’epoca … e nella lista come potete leggere appaiono anche i Girardi.
Non sono stati quindi dei Nobili fra i più potenti e importanti … lo erano forse di “serie B”, ma contribuirono di certo in maniera significativa con le loro attività e l’ingente patrimonio a rendere grande e pingue la ricca e gloriosa Serenissima.

Il “pezzo più pregiato” dei Girardi, l’uomo più famoso, è stato di certo Maffeo Girardi che alla fine è diventato anche Patriarca di Venezia. Nato probabilmente a Venezia nel 1406, secondo dei figli maschi di Giovanni Girardi di Francesco e di Franceschina figlia di Maffeo Barbarigo.
I Girardi allacciarono tramite matrimoni rapporti stretti con diverse famiglie ricche e influenti del Patriziato Veneziano: Foscari, Barbo, Donà e Mocenigo, e incamerarono molte risorse di quelle grosse famiglie i cui rami andarono progressivamente estinguendosi tra 1500 e 1600. Altre figlie dei Girardi, invece, si monacarono: Laura nel Monastero di San Lorenzo di Castello, Prudenza e Fiorenza nel Monastero di San Jseppo di Castello, ed Elena e Cristina in quello di Santa Lucia di Cannaregio.
Il patrimonio dei Girardi accumulato col commercio era ingente, e a quello associarono numerose proprietà immobiliari in Venezia, ma anche nel Padovano, Trevigiano e Bellunese, e nel Dominio Oltre Mare soprattutto a Corfù.
Maffeo Girardi cercò di entrare in Maggior Consiglio prima dei 25 anni previsti dalla legge, si laureò a Padova in Filosofia e Teologia, e scelse la carriera ecclesiastica entrando a trentadue anni nel 1438, come Professo e Insegnante nel Monastero Camaldolese di San Michele di Murano(l’attuale isola del Cimitero di Venezia).
In quel periodo il Monastero stava vivendo una stagione fiorentissima sotto la guida dell’Abate Paolo Venier che lo guidò dal 1392 al 1448 riformando i costumi dei Monaci, ampliando gli edifici del Convento, e integrandone ampiamente il patrimonio fondiario e le rendite. Da San Michele in isola partì la Riforma che interessò e ispirò per decenni l’intero Ordine Monastico dei Camaldolesiche ne mantenne i dettami per secoli.
Dal 1448, Maffeo Girardi fu il successore per ben vent’anni dell’Abate Venier di San Michele in isola, continuò la sua opera riformistica, completò l'edificazione del chiostro, avviò la costruzione del nuovo campanile terminato nel 1456, e per testamento nominò il Monastero fra gli eredi della famiglia Girardi donando diversi legati in denaro per acquistare paramenti, libri sacri, e pietre con "chalzìna" per i bisogni della chiesa e del Convento. Pietro Dolfin fu uno dei suoi Monaci, e divenne in seguito protagonista della riforma dell'Ordine Camaldolese e Priore Generale.
Papa Niccolò V e la Curia Romana non furono affatto contenti di quella nomina ad Abate del Girardi, perché avevano in mente di nominare a San Michele un loro pupillo straniero. Perciò il Senato della Serenissima non perse tempo e il 26 maggio 1449 fece consacrare Abate il Girardi dal Delegato Apostolico Martino de Bernardinis… aggirando così le aspettative e i progetti del Papa.
“Una volta fatto l’Abate … l’Abate è fatto. Indietro non si torna …” si disse a Venezia non senza una certa soddisfazione di certo furbetta.
Nell'aprile del 1466, alla morte del Patriarca di VeneziaGiovanni Barozzi, il Senato della Serenissima designò all'unanimità il Girardi come candidato alla successione e alla cura delle 69 Contrade-Parrocchie di Veneziacon tutte le loro chiese, Monasteri e Isole.
Nell'agosto 1464 era diventato Papa Paolo II, ossia il Veneziano Pietro Barbo, già in conflitto con Senato della Serenissima che si era opposto alla sua elezione a Vescovo di Padova quando era già Cardinale e Vescovo di Vicenza. Divenuto Papa, il Barbo “che se l’era legata al dito” nominò suo nipote Giovanni Barozzi già Vescovo di Bergamo come Patriarca di Venezia dopo la morte del Patriarca Bondumier e del successore Gregorio Correr. La Repubblica di Venezia si oppose perché voleva nominare a Patriarca un suo candidato gradito … Tira e molla, e molla e tira fra Roma e Venezia e fra Venezia e Roma … Alla fine la vinse il Papa che nominò Patriarca di Venezia suo nipote Giovanni Barozzi nel 1451, sanissimo di salute … ma già morto nel 1468 dopo essere stato assente per due anni dal suo incarico lagunare. 
“Avvelenato dal Senato della Serenissima!” dissero subito a Roma … ma intanto il Senato designò immediatamente Maffeo Girardi come nuovo Patriarcaa lui graditissimo. Alla fine Papa Paolo II si rassegnò all’idea … sperando di non far la fine del Barozzi, e confermò il Girardi ma solo dopo incessanti pressioni degli Ambasciatori Veneziani.
Poco dopo le relazioni fra Papa e Repubblica di Venezia divennero burrascose perché il Papa voleva espandere il proprio territorio a spese della Serenissima, non gli piaceva affatto le scelte e il modo di pensare del Senato, così come non mandava giù l’idea che Venezia imponesse a piacimento tasse e decime sugli Ecclesiastici e che scegliesse negli incarichi candidati non graditi alla Curia di Roma.
Maffeo Girardi venne consacrato Vescovo nella Cattedrale di San Pietro di Castelloil 9 aprile del 1469, e per 25 anni non si allontanò mai da Venezia se non per una brevissima visita in Dalmazia alla fine della sua vita. Men che mai si recò a far visita al Papa di Roma … chissà perché ?
Col costante appoggio del Governo della Serenissima supervisionò l’elezione di tutti i Piovani di Venezia effettuate dalle Collegiate e dai Veneziani e senza lo zampino di Roma. Contrastò con forza tutti coloro che approfittavano dello Status Ecclesiastico cercando forme d'immunità, così come ostacolò tutti i Preti, Chierici, Monaci e Monache Veneziani e Foresti che cercavano tramite esenzioni, favori, privilegi e bolle papali, di sottrarsi al suo controllo e a quello della Serenissima della quale però non si mostrò mai asservito del tutto. Trattò reati e cause giudiziarie in cui erano coinvolti Preti e Religiosi o in lotta con Capitani di navi, Mercanti, Artigiani e Stampatori, riformò diversi Monasteri di Venezia, e insieme all’Arcivescovo di Spalato e al Generale dei Francescani Zanetto da Udine introdusse l'Osservanza nel Convento di Santa Maria dei Servi inducendo i Frati riluttanti ad abbandonarlo.
Quando Sisto IV durante la guerra di Ferrara del 1481-82 decretò contro la Repubblica di Venezia censure spirituali e l’Interdetto, il Patriarca Girardi rifiutò di riceverne nel Patriarcato il Breve Papale di notifica, perciò il Senato, forte di questo, proibì la pubblicazione della comunicazione dell’Interdetto Papale sia a Venezia che in tutto il suo Dominio da Terra e da Mar, e giunse perfino a redigere un testo di protesta contro l’Interdettosi andò ad affiggere tramite un corriere (!!!) sulle porte della Basilica di San Pietro in Roma appellandosi all’istituzione di un Concilio Generale della Chiesa.
L'interdetto su Venezia venne tolto ufficialmente solo nel febbraio 1485 … il Papa ci mise un poco “a digerire” quella faccenda.
Maffeo Girardi ormai ultraottantenne e malfermo in salute venne promosso a Cardinale dei Santi Nereo ed Achilleo nel marzo 1489 da Innocenzo VIII insieme con altri sette esponenti di grandi famiglie Italiane, Spagnole e Francesi ma solo in pectore”ossia senza pubblica proclamazione ufficiale della Chiesa, perciòil Senato di Venezia dovette inviare in tutta fretta a Roma le lettere e le credenziali del Girardi perché potesse essere ammesso a votare nel Conclave dei Cardinali per eleggere un nuovo Papa.
Il Patriarca Girardi si recò a Roma quando il Papa era ancora morente, e il 4 agosto venne accolto dal Collegio dei Cardinali guidati dal Cardinale Giovanni Battista Orsini che riconobbe come validi i suoi titoli. Poté così partecipare al Conclave scegliendo un Pontefice che fosse gradito anche alla Serenissima, e si elesse come Papa il 12 agosto: Rodrigo Borgia… ossia l’esatto contrario di quantovoleva Venezia che preferiva, invece, Giuliano Della Rovere.

Ritornando a Venezia il nostro Maffeo Girardi si ammalò di dissenteria e il 13 o 14 settembre 1492 morì a Terni … Anche qui si vociferò non poco insinuando che la morte improvvisa del Girardi durante il viaggio fosse stata causata da veleno propinatogli da due Cancellieri messigli accanto dal Senato della Serenissima poco soddisfatto e arrabbiato per il suo operato.

Povero Girardi! … ma chissà se è vera questa diceria ?
Di certo si sa che il Senato fece trasportare a Venezia il corpo del suo Cardinale-Patriarca che venne accolto con tutti gli onori dal Doge in persona e tumulato nella Cattedrale di San Pietro di Castello.
Ma i Nobili Girardi di Venezia non furono soltanto questo: nel dicembre 1542, infatti, a proclamare in piazza a Cison una sentenza nella Contea sperduta di Valmareno, c’erano i Sindici Inquisitori: Giacomo Ghisi, Mattio Girardi e Agostino Barbarigo ... Nel 1579 e 1584, Fra Stefano Girardinio Gerardino o Girardi fu Guardian Grando della Ca’Granda dei Frari e Ministro Provinciale dei Francescani nel 1584 … Essere Guardiano della Ca’Granda di Venezia non era cosa tanto da poco … così come da poco non erano le investiture a Provveditori di feudi nel Veronese concesse ai Girardi.

Negli stessi anni, un altro Ramo dei Nobili Girardi abitava alla Madonna dell’Orto con i Mercanti Lorenzo e Antonio Girardi attivi da decenni sulla piazza Veneziana e Veneta. I fratelli Girardi stipularono ben 7 livelli da 550 ducati ciascuno con gente di Chiampo e Arzignano che erano loro debitori di forniture di lana greggia … e Johannes Paulus Veltronius, Chierico di 45 anni da Arezzo, che insegnava Grammatica a 21 alunni abitava proprio a casa loro insegnando ai loro figli ed a altri cittadini di Venezia: “…Alli mazzori Virgilio, hora leggo Oratio et Cicerone, Terentio. Alli più piccoli leggo l’Exercitation della Lingua Latina et le Epistole de Ovidio. I più grandi chi fano epistole, chi fano latini, i più piccoli concordantie …”

Esiste anche un altro dettaglio curioso da ricordare circa i Nobili Girardi, e per spiegarlo devo partire un po’ da lontano.
Dovete sapere che una delle Reliquie più famose per la quale i Veneziani andavano fieri tanto da mostrarla a tutti i Pellegrini diretti in Terrasanta di passaggio o di ritorno a Venezia, era di certo il Corpo prestigiosissimo di San Saba conservato nella chiesa di Sant’Antonin nel Sestiere di Castello.  

San Saba era stato Abate, Archimandrita capo di tutti gli Anacoreti di Palestina, Monaco di Flavianae in Cappadocia. Era quindi un “Santo grosso” in quanto era stato Eremita vivendo in grotte e capanne della Giordania e a Gerusalemme nella Valle del Cedrondove fondò una Laura, ossia un’aggregazione, un villaggio Monastico di grandissimo prestigio che contava più di 150 Monaci ed era famosissima ovunque nel Bacino del Mediterraneo, e l’eco delle sue gesta percorreva l’intera Europa.  Anzi, alla fine San Saba di “Laure”ne fondò ben sette … La sua guida spirituale era stata il Monaco Eutimio detto “il grande”,altro pezzo da novanta della spiritualità e della cultura Monastica Orientale col quale condivise la vita eremitica.
Il Monaco Saba morì vecchissimo, ultranovantenne nel 532, e fu fatto presto Santo “per meriti sul campo”e per la grande difesa che fece dei Dogmi della Fede stabiliti dal Concilio di Calcedonia.

E che dovevano fare i Veneziani di fronte a tale immane “monumento della Fede”… se non portarselo a casa ? Infatti si “presero a prestito” il Corpo di San Saba e se lo portarono a Venezia che ritenevano il posto migliore al mondo dove poter onorare quel Santo egregiamente e come meritava.

“Altolà !” aveva detto subito secondo la Leggenda il Santo-Angelo che vigilava sul Corpo di San Saba giunto navigando fino alla Laguna di Venezia sulle Galee che avevano saccheggiato e depredato Costantinopoli durante la Crociata.
“Voglio che il mio Corpo venga seppellito e conservato proprio qui ! … in Contrada di Sant’Antonin!” sembra abbia precisato lo stesso Angelo rappresentante di San Saba in persona. E così accadde ... Perciò a Venezia si pensò bene di soprassedere tacendo del tutto sulla faccenda della Crociata (gli affari erano affari), e di considerare venialissima la predazione di quelle Sante Reliquie, sottolineandone invece la presenza benefica e salutare per tutte le genti della Laguna.

Fu un’esplosione di fervore e interesse !

La devozione dei Veneziani verso quella Reliquia si avviò in fretta e non si è più fermata, anzi s’è allargata sempre più consigliandola e proponendola solennemente a tutti i Pellegrini che convergevano a Venezia … La Serenissima era ovviamente consenziente e favorevole: gli affari continuavano ad essere affari, e non erano di certo poca cosa.

“Viva San Saba e i Veneziani !” esclamavano i Pellegrini.

Fatalità … i Pellegrini entusiasti potevano scovare quella “Speciale Presenza Miracolosa e Santa” proprio accanto al Molo di San Marco da dove si sarebbero dovuti imbarcare diretti ai Luoghi Santi della Palestina. Quel “Posto Santo di San Saba” era considerato “una manna”, una fortuna, una comodità perché non era da tutti poter vedere e ossequiare quella Preziosa Reliquia del Corpo di San Saba… Venerarla poi era anche facile e comodo perchè … sempre per pura casualità … si potevano trovare proprio in quella Contrada un gran numero di accoglienti Ospizi, Hospedaletti, taverne e locande disposti ad accogliere favorevolmente e cordialmente molti Pellegrini anche per i tempi piuttosto lunghi necessari ad attendere l’imbarco … Inoltre, sempre a pochi passi da Sant’Antonin con la sua preziosa Reliquia, abitavano anche i Cavalieri Templari, altra garanzia in fatto di TerraSanta.

A Venezia un tempo, si sa, si finiva sempre col mescolare un po’ tutto: Sacro e Profano, Crociate, Viaggi, Mercandia, Economie e Affari … che anche se venivano sempre citati per ultimi, in realtà contavano più di tutto. Perciò la Contrada di Sant’Antonin era luogo di Marineri, Artieri, Pellegrini, Osti, Mercanti, Armatori, Soldati, Foresti della Nazione Greca, Albanese, Schiavoni e di tanti altri Veneziani industriosissimi ... oltre che Contrada d’intensa Religiosità e Devozione.
Venezia era così: un cosmo fatto di tanti microcosmi fascinosi capaci di calamitarti, sorprenderti, prenderti e portarti via.

Oggi Sant’Antoninè un po’ una chiesa e una Contrada tabù, nel senso che è una zona quasi dimenticata del tutto. Molti Veneziani odierni non sanno neanche dove si trova. Un tempo, invece, come abbiamo ricordato, Sant’Antonin era un luogo di grandissimo interesse soprattutto per via di quel San Saba che non era mica un Santorello da poco … Anzi ! Pensate che in chiesa a Sant’Antonin c’era perfino una Crocetta appartenuta al Santo riposta in un pilastro attiguo al suo altare con la quale si segnavano gli infermi. Si diceva, infatti, che quella Crocetta era miracolosa e capace di guarirli tutti.

Figuratevi quindi i Pellegrini, i Devoti e i Veneziani ! … era tutto un accorrere avanti e indietro senza fine.

San Saba divenne perciò anche Patrono fin dal 1399 dell’Arte degli Stioreri: fabbricanti di stuoie, cannicci, corde di paglia, sporte e paglia per sedie che avevano in Sant’Antonin la loro Schola. Erano tutta gente popolare e miserrima, l’opposto di tutto quello che erano i Nobili Girardi… però confluivano e occupavano sgalosciando e odorando nello stesso luogo per celebrare Messa ogni giovedì per i propri Morti, e proprio dentro alla stessa Nobile Cappella di Famiglia che i Girardi riuscirono dopo un lungo tira e molla ad ottenere dal Capitolo di Sant’Antonin dove farsi seppellire poco distanti dal miracoloso e potentissimo San Saba di cui erano grandi devoti.
Ottenere quel privilegio non fu cosa affatto facile, perché Francesco Girardi dovette contribuire in maniera importante alle spese per la costruzione del nuovo Altare Maggiore in marmo della chiesa di Sant’Antonin, e finanziare una propria Mansioneria perpetua di Messe da celebrare quotidianamente.

Pensate quindi a quale grande contrasto e giustapposizione si poteva osservare lì dentro: i Nobili Girardi ricchissimi Mercanti giramondo stavano accanto e insieme ai miseri Stioreri che sopravvivevano lavorando le canne e la paglia senza probabilmente essere mai usciti dalla Laguna di Venezia.

Chissà se s’incrociavano in chiesa o se evitavano accuratamente d’incrociarsi ?

In ogni caso, prestigio era prestigio, ed essere sepolti “in faccia a San Saba” era per i Girardi un biglietto da visita di grandissimo valore. Chiunque dei Pellegrini e Mercanti che entrava in Sant’Antonin per venerare San Saba doveva necessariamente volgere il pensiero e considerare anche a loro. E non era tutto … perché un altro Ramo degli stessi Nobili Girardi ottenne di farsi seppellire anche nella Cappella del Schola del Rosarionella chiesa dei Domenicani Predicatori e Inquisitori… i famosi Mastini di Dio residenti in San Zanipolo ossia San Giovanni e Paolo. Alla Confraternita e ai Domenicani Ser Alvise Girardi quondam Antonio nipote del padrone della Nave Girarda lasciò nel 1685 tutte le ingenti ricchezze di famiglia, e in cambio i Domenicani evidenziarono meglio che poterono la sua tomba con delle geometrie marmoree proprio al centro del pavimento della loro ricca e ambitissima Cappella del Rosario.

E i Veneziani fioccavano avanti e indietro … a bocca aperta ed occhi spalancati, perché anche le pietre sapevano raccontare e spiegare.

Gli Stioreri, invece, trasferitisi di sede in Contrada di San Silvestro vicino all’Emporio di Rialto, nel 1773 erano ancora 55 con 52 Capimastri e 3 garzoni governati da 1 Gastaldo, 1 Vicario, 1 Scrivano e 10 decani. Gestivano 43 botteghe sparse in giro per le Contrade di Venezia, e pagavano 1 ducato di Benintrada per essere ammessi all’Arte, e 16 soldi annui più 8 soldi ulteriori di tassa Luminaria … ossia per le spese di Candele e Luminarie per la Festa Patronale, i Funerali e le Messe … e l’Arte degli Stioreri era orgogliosissima di contribuire a mantenere a proprie spese la Flotta Veneziana pagando 700 ducati annui per 10 anni, prolungati per altrettanti.

Tornando ancora una volta ai Nobili Girardi… Nel maggio 1614 Antonio Girardi era Podestà di Feltre,carica di discreto prestigio, e scriveva sapientemente al Senato di Venezia: “… s’io volessi rappresentare alla Serenità vostra quanto mi sono affaticato per ritener questi miserabilissimi popoli che tumultuosamente volevano ad esempio delli venuti in questa città a migliaia callare riuscirei non men longo che tedioso; li ho fermati et con il dare a molti di loro le farine di questo fontico in credenza et con promessa di non lascirli perire di fame si sono contentati godere nelle proprie case il frutto delle concessioni fattomi da cotesto eccellentissimo Senato …”

Qualche anno dopo, invece, Giulio Trona da Milano di anni 22 e Egidio Gerardi Ferrarese di anni 19, furono impiccati a Venezia per ordine del Consiglio dei Dieci … Fortune alterne quindi dei Nobili Girardi, perché di nuovo nel 1656 fu tumulata in Santa Maria delle Grazie di Mestre: Regina Girardi che era moglie del Segretario della Repubblica Serenissima.

Fra 1666 e 1698 però, i Girardi risultarono già assenti dallo scenario della Nobiltà Veneziana che contava: Iseppo Girardi risultava essere solo un comune soldato di anni 22 che stava al Lazzaretto, e venne anche “moschettato”per ordine dei Provveditori alla Sanità … Infine nel 1759 il NobilHomo Claudio Girardini si trovava sia nella liste dei Provveditori da Comun di coloro che dovevano concorrere al “pagamento del grosso per ducato”per la spesa dei lavori della selciatura della Fondamenta di San Barnaba in cui risiedeva … così come appariva nelle Anagrafi Sanitarie nel 1761, come Patrizio domiciliato ancora là: in Contrada e Parrocchia di San Barnaba … La storia dei tempi della “Nave Girarda”, del Patriarca Maffeo Girardi, e dei Girardi sepolti a Sant’Antonin era ormai “acqua passata”, trascorsa da tanto tempo … quasi dimenticata del tutto ... Eccetto che da noi.

E’ stato edito: “UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA” 1 e 2.

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Eccolo … anzi: eccoli i due nuovi volumi delle mie: “UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA.”

Questa notte in America sono stati definitivamente aggiornati, corretti, approvati e completati ed ora sono stati editi online in tutti i siti Amazon del mondo. I volumi per ora solo cartacei sono disponibili su www.amazon.com e lo saranno fra qualche giorno negli altri siti Amazon europei compreso quello italiano:
https://www.amazon.it/s/ref=nb_sb_noss?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&url=search-alias%3Daps&field-keywords=una+curiosit%C3%A0+veneziana+per+volta

Sempre fra qualche giorno arriverà anche la versione digitale ebook … sempre in due volumi … sempre scaricabile (più economicamente) su pc, tablet e smartphone … e sempre dal sito di Amazon.

Che aggiungere ? … Che sono contento, ovviamente.

Venezia per me e per molti altri oltre che una patria, un luogo affascinante e magico, e un posto in cui vivere … è anche come una compagna, un amico, uno di famiglia. Per quanto ti sforzi di dirlo e pensarlo non ti riuscirà mai di scriverlo ed esprimerlo abbastanza. Senti che parole come: bello, caro, buono non sono del tutto sufficienti, sono troppo poco, manca sempre qualcosa, perché una passione non si riesce mai a dimostrarla e scriverla del tutto.

E’ questo perciò il senso della mia nuova pubblicazione:un tentativo pallido, una specie di borbottio e bisbiglio per provare a dire ancora una volta e almeno in parte: Venezia, i Veneziani e la nostra Laguna. Si riuscirà mai a dirli del tutto o almeno abbastanza ? Non credo !
Perché sono come la vita … che non si è mai esperimentata del tutto, continua sempre a sorprenderti ed essere curiosa.
Ecco perché in seguito continuerò ancora a dire e scrivere di tutte queste Curiosità Veneziane senza fine … Venezia Serenissima non sarà mai detta, scritta, e conosciuta del tutto.

Dedico quanto ho scritto a tutti i Veneziani come me … e a tutti quelli che in qualche maniera amano questa nostra magica e vetusta città mai doma d’apparire come un miraggio sui nostri orizzonti personali.

Grazie che mi leggete !

Stefano Dei Rossi

P.S: se siete interessati a vedere e consultare gli indici dei contenuti dei due volumi, cliccate sui due link qui sotto … e sarete accontentati:

·      “UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA” – volume 01.
http://www.webalice.it/stedrs/UNA_CURIOSITA'_VENEZIANA_PER_VOLTA-INDICE_1.html

·      “UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA” – volume 02.

http://www.webalice.it/stedrs/UNA_CURIOSITA'_VENEZIANA_PER_VOLTA-INDICE_2.html

“SUORE, MONACHE … DONNE RADICATE E IMPRIGIONATE IN LAGUNA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 108.

“SUORE, MONACHE … DONNE RADICATE E IMPRIGIONATE IN LAGUNA.”

Un tramonto nella Laguna di Venezia per quanto struggente e magico non vale nulla se non c’è qualcuno in grado di gustarlo e vederlo. In Laguna ne accadono a milioni … ma non sempre sanno suscitare quell’armonia e quella poesia che sono capaci d’indurre … Possono esserci occhi “spenti” che non li vedono … persone “rivoltate in se stesse” che vivono dentro a uno spesso velo di tristezza e angustia che impedisce loro di gustarsi gli altri e il resto del vivere.

Insomma: se un bel tramonto non ha qualcuno che lo guarda, lo gode e apprezza è come se non esistesse.

Che sia chiaro fin da subito: io alle Suore devo molto, anzi: moltissimo, perché ho trascorso in maniera assidua gran parte della mia prima infanzia in loro compagnia, e da loro ho imparato tantissimo.
Potrei dire perfino che da loro prima che dalla mia famiglia ho imparato certi valori, e che è meglio essere buoni, pazienti, obbedienti e gentili … oltre che industriosi, anche se per riuscire in questa impresa serve attraversare il famoso mare che c’è di mezzo fra “il dire e il fare”.

Sembrerà paradossale per quanto andrò dicendo, ma sempre dalle Suore ho imparato che nella vita serve possedere un po’ di passione … Sì proprio quella di cui forse le Suore erano carenti, o a cui avevano spesso rinunciato … ma certe ce l’avevano dentro accesa, come un fuoco incoercibile mai spento … e si vedeva, si sentiva … ci si scaldava e illuminava con quel fuoco interiore un po’ nascosto e quasi ufficialmente congelato. In alcune di loro il fuoco della Carità e dell’amore fraterno mi è capitato d’incontrarlo e riconoscerlo per davvero … e questo glielo devo a merito e stima che rimarrà per sempre.

L’indimenticabile Albino Luciani tragicamente scomparso e forse eliminato “frettolosamente”dal nostro contesto umano e storico ci ripeteva spesso: “Le Suore sono industriose come le Api, sono bravissime, mai dome … ma guai a contraddirle ! …  perché ti pungono e avvelenano !”
Aveva perfettamente ragione.

“Le Suore sono donne due volte.” diceva ancora: “Uno perché sono effettivamente donne come tutte le altre, secondo perché incarnano una tenacia e una determinazione supplementare tipica delle Suore che le rende ancor più ricche di vitalità e ne esalta ulteriormente le doti femminili e umane.”

Vero anche questo … Era un vero intenditore Albino Luciani, la sapeva lunga su tante cose … Chissà che cosa avrebbe combinato se non lo avessero “tolto di mezzo” troppo presto e con eccessiva disinvoltura.

Tuttavia la Storia di Venezia e della Laguna ci racconta e rivela molte altre cose su questa categoria di donne davvero un po’ speciale e spesso troppo taciuta e data per scontata.

“Le Suore sono Suore … Che c’è da dire di tanto curioso su di loro ?” mi diceva un amico.
“Ce n’è ! … Ce n’è ! … e anche parecchio.” gli ho risposto, “Innanzitutto il fatto che quelle donne hanno per certi versi pesantemente sacrificato la loro femminilità … forse in parte perdendola, alienandola in uno schema di vita troppo stretto e rinunciatario per non dire poco naturale.”
“Mmm … Forse hai ragione … Di queste cose non se ne parla … Le Suore di solito ci sono … anzi: c’erano e basta.”
“A chi lo dici ! … Con le Suore durante la mia infanzia facevamo la colla utilizzando le foglie delle Edere che penzolavano giù dai muri del loro cortile … Ci facevano ripulire all’infinito dalle erbacce infestanti ogni angolo più nascosto e minimo di qualche cortiletto recondito … Raschiavamo il muschio dai pavimenti in pietra e dai muri umidi per preservarlo per fare il Presepio a Natale … abbeveravamo ogni giorno le Piante del loro giardino ben tenuto, le Rose bellissime, e gli infiniti vasi di Fiori collocati ovunque … Durante l’inverno rigido, nebbioso e piovoso ritagliavamo un mare di quadretti e triangolini colorati di cartoncino soffiandoci sulle dita intirizzite imbacuccati nelle aule fredde e deserte della loro Scuola Materna anche dopo l’ora di chiusura … temperavamo un’infinità di mozziconi di matite coloratissime … e c’erano sempre rondini di cartone da appendere al soffitto, foglie rinsecchite da appiccicare alle finestre o sulle pareti delle aule, fiori gentili di Primavere, Coccinelle e Nani e Funghi del bosco da disegnare e appuntare ovunque … Maschere di Carnevale con stelle filanti e coriandoli creati con la macchinetta foratrice, San Martini a cavallo infreddoliti quanto noi … e infiniti addobbi di Natale, alberi e Presepi … e Feste della Mamma con superbe Recite da preparare, ballare e cantare … sempre accompagnati da quello stesso pianoforte scordato e dall’eco strampalato da cui Suor Vincenza sapeva far uscire delle melodie melanconiche che sembravano quelle della Russia del Dopoguerra … e poi c’era il Canto del Cucù …”

“Il Canto del Cucù ? … che è ?”
“Quando vivevo con le Suore più che a casa mia … “Cucù Cucù fa il Cuculo quando il freddo non c’è più.” mi ripeteva sempre la stessa Suor Vincenza indicando col dito e l’occhio vispo il canto proveniente dalla finestra aperta che guardava il giardino delle Suore.
“Lo senti ? … Cucù … Cucù … L’inverno non c’è più !” mi ripeteva sorridendo anche Suor Assuntina dondolando sulle gambe quello che era già diventato il ritornello di una canzone con cui sapevano ammaliarmi.
“Cucù Cucù !” diceva a sua volta Suor Teodorica rotonda e grandissima, alta per me come una montagna … Con gli occhiali scuri e spessi sotto a delle sopracciglia foltissime, e un cuore e una pazienza grandi così … “Cucù Cucù !” mi ripeteva quel donnone austero e scuro, ma buono come il pane.
“Cucù Cucù !” mi canticchiava come per un passaparola fra loro anche Suor Jole che era cuciniera e aveva due braccia grosse come due mortadelle. Era rubiconda e tonda come una Luna rossa … Sembrava sempre arrabbiata, e non diceva mai neanche una parola … Però ogni tanto le scappava un largo sorriso mezzo sdentato: “Cucù Cucù l’inverno non c’è più ! … Sei un birba !” mi diceva toccandomi leggermente la punta del naso con un dito della sua grossa mano sudaticcia. Poi si ricomponeva subito, tornava seriosa come si fosse concessa un eccesso, e andava di fretta a pompare energicamente il gasolio per la cucina dai grossi fusti … e la vedevo dondolare tutta a destra e a sinistra come una bandiera squassata dal vento.”
“Che storie strane che hai vissuto…”
“Vero ! … Cucù Cucù … ripeteva Suor Mariettina … uno scricciolo di Suora, l’opposto di Suor Jole che pareva contenere due o tre Suor Mariettina. Lei era sempre bassa, zitta, umilissima … Sempre con gli zoccoloni consunti ai piedi, col grembiulone azzurro a fiori e con i manicotti da lavoro alle braccia … oppure intenta nella umidissima lavanderia a inzuppare e stendere la biancheria delle Suore dentro e fuori dai grandi mastelli di legno che odoravano di sapone e pulito.
“Piss ! … la buba !” mi faceva, invece, ogni mattina Suor Giuseppina la cuoca. Altra Suora alta un metro e niente galosce comprese … “Piss ! … la buba!” esclamava accendendo la grande cucina del Convento delle Suore e dell’Asilo per i bimbi e le bimbe della mia isola di Burano. Attizzava di fuoco un piccolo stoppaccio e lo infilava in un pertugio sotto alla grande “macchina” scura ricolma e sovrastata da enormi pentoloni che mi parevano quelli di una maga delle favole.
“Svamp !” faceva il gasolio prendendo fuoco dentro al cuore delle “macchina” … “Svamp ! … la buba !” faceva Suor Giuseppina spalancando gli occhi tondi e acquosi … e io sussultavo ogni volta di transitorio spavento sulla mia microscopica sedia impagliata.
“Piss ! … la buba!” faceva ancora Suor Giuseppina senza più spaventarmi … e mi piazzava in mano da sfogliare un pacco di santini e immaginette di ogni foggia tenute insieme da un grosso elastico ingiallito. Poi si dava un gran da fare intorno ai fornelli, e tornava immancabilmente dopo un poco portandomi di volta in volta una tazza di candido latte bollente, o una ciottola di “bagigi” appena tostati, delle fette di pane biscottato ancora caldo, due savoiardi, o una saporita fetta di pane imburrata o coperta di gustosa marmellata.
Guardavo allora fuori dalle finestre della cucina delle Suore levandomi in punta di piedi sporgendomi dal davanzale: il cielo era scuro e denso di buio … Solo più tardi sarebbero svolazzate in giro le rondini … C’era solo un pallido chiarore da una parte del giardino illuminato dalla tenue lanterna notturna delle Suore … e c’era il melanconico canto del Cucù.
“Cucù Cucù” ripeteva più tardi nella nostra classe traboccante di bimbi e di amici: “l’inverno non c’è più !” ribadiva Suor Giuliana che sapeva metterci tutti in fila con un solo sguardo severo.
“Cucù Cucù” s’aggiungeva al nostro canto sorridente la minuta e autorevole Suora Superiore che socchiudeva sempre gli occhi dietro ai suoi eleganti occhialetti dorati. E Suor Vincenza ci dava dentro nel suo pianoforte sgangherato … e le mamme se ne stavano ferme in fondo alla sala dei bimbi perché loro non potevano entrare … S’accontentavano solo di sorridere soddisfatte salutando i loro figli con la mano.”
A noi che scalpitavamo sul posto incontenibili e sempre con la ciocca, il fiocco rosso sfatto al collo e il grembiule bianco sdrucito, non rimaneva che ripetere per l’ennesima volta: “Cucù Cucù … l’inverno non c’è più … La finiremo prima o poi con questo cucù cucù ?”  … e anelavamo l’ora del cortile e la corsa pazza per andarci a conquistare il posto sopra la rugginosa “giostra rotante dei cavalletti” da far girare all’impazzita pedalando come matti.
“Cucù Cucù !” gridavamo come ossessi sfrecciando in tondo nel vento … felici d’essere lì e basta … e “Cucù Cucù !” continuavamo a ripetere quando tornavamo a casa alla mamma e alla nonna incapaci di capire il senso di tanto “Cucù”. Il Cucolo vero, intanto, se ne stava nascosto fra i rami degli alberi del giardino delle Suore della mia infanzia, e se la cantava beato ... mai stanco di ripetere ancora oggi: “Cucù Cucù !”

Ultimamente negli ultimi decenni in ambito veneziano lagunare stiamo assistendo al progressivo, inesorabile e definitivo declino e scomparsa di questa categoria di donne ufficialmente dedita alla vita spirituale e caritatevole.
Le Suore dietro al loro modo schivo e riservato sono state un notevole epifenomeno del territorio Veneziano e lagunare ... Sono state una cittadella dentro alla città, le Suore fino a qualche decennio fa in Laguna erano presenti a migliaia ! … Avete capito giusto … a migliaia, è un dato storico, non una mia battuta spiritosa. Le donne Suore presenti a Venezia erano un piccolo esercito, una sorta di popolazione nella popolazione, un paese sparso immerso nella città e nelle isole Veneziane.

Sono trascorsi molti anni da quando ho “rovesciato e ricominciato” la mia vita … eppure non riesco e non posso dimenticare le Monache di Clausura di San Bonaventura di Venezia. Incontrandole anche se per poco tempo, ho visto donne che mi hanno spiazzato seppure “recluse” nella loro cornice stretta della Clausura Monastica. Le ho percepite più libere e dentro al mondo di noi che ci vivevamo dentro. Incredibile ! Non erano affatto donne in gabbia, ma aperte e lungimiranti … con quei loro occhi grandi e abituati ad essere spalancati “sull’Oltre” dell’esistenza … Invidiabili perché in possesso di un spessore umano e interiore di cui spesso la nostra vita euforica e frettolosa ci deruba.
Non ho riconosciuto affatto vecchie zitelle bigotte e represse rinchiuse … Incontrandole si percepiva nell’aria un profumo di donne libere, sveglie, acculturate e immerse nell’attualità dell’oggi … Laureate, giovani d’età, eppure “imprigionate e chiuse” lì dentro ... Non comunicano affatto la sensazione di vivere asfissiate e frustrate. Sembrano senza Tempo, pimpanti, capaci di passare attraverso ogni “stagione della vita”.

“Che donne ! Nel bene e nel male … Eppure sembrano anacronistiche con quel loro vestire velato, essenziale e lungo, fuori moda e d’altri tempi. A volte pare portino in testa un coperchio di scatola da scarpe … oltre a quei veli, cuffie, mantelle, soprabiti, grembiuli e velette stravaganti tutti adatti a smussare, nascondere ogni tipo di forma femminile …”
“Ricordo ancora quella che da bambino prima di uscire dall Convento di Burano tenendomi per mano, si specchiava sul riflesso lucido del pianoforte … Nel Convento non c’erano specchi … Si guardava avanti e dietro sistemandosi e lisciandosi l’abito, ravviva le pieghe, sistemava la mantelletta perché cadesse dalle spalle nel modo giusto … E ricordo anche un’altra che teneva una treccia lunghissima infilala e abbovolata dentro alla cuffia e alla tonaca …”
“Femminilità negata ... Mi hanno raccontato di loro sempre con la valigia in mano in attesa in una stazione dove qualche altra comunicherà il loro nuovo destino, il nuovo posto in cui andare a vivere e operare … Spersonalizzate ? … Private di decidere il proprio destino.”
“Forse … Un tempo cambiavano perfino il nome per indicare quel loro ripartire da capo … Si consideravano altro da quel che era il resto del mondo di fuori e tutti gli altri …”
“Perciò niente festa di compleanno se non a bassissimo profilo, come rimasuglio di una vita precedente … Contava l’anno della rinascita: della Professione dei Voti … Passava un pulmino e le prendeva su portandole a nuova destinazione e incarico … e si ricominciava: altro giro, altra avventura, altra esperienza, altre persone e altre sensazioni. Spesso altre mansioni da assumere e imparare ex novo fino a diventarne pressappoco competenti e in ogni caso responsabili. Una vita fatta di continue ripartenze esistenziali o di eterne soste negli stessi luoghi … a volte dimenticati da Dio, dagli uomini … e dimentiche anche di se stesse. Ho sentita di una che è vissuta nella stessa isola-ospedale-manicomio della nostra Laguna per cinquant’anni senza più uscirne … Una vita intera !”
“Per loro era normale così … Facevano un po’ di tutto, ogni servizio: Maestre, Infermiere, cuciniere, guardarobiere, giardiniere e sarte, merlettaie e ricamatrici, fabbricanti di ostie per le Messe con macchinette manuali obsolete che producevano trenta “particole” per volta … Ne sfornavano ogni giorno a migliaia … tutte a mano. Una trentina per volta.”
“Santa pazienza ! … Che brave ! … Tutta una vita trascorsa così … Sembra impossibile !”
“E poi c’erano Suore accudienti di vecchi, bambini, recluse, prostitute, poveri, vagabondi, emigrati, abbandonati, malati, ritardati e disabili, sbandati, matti … di altre Suore anziane, Preti e Seminaristi …”
“A volte mi sembravano donne sradicate, trapiantate … strappate anche da se stesse, da una vita normale ... Anche se loro faticavano sempre ad ammetterlo.”

“Non lo ammettevano affatto se non in Confessionale ... Volevano mostrarsi, fingersi sempre realizzate e felici ugualmente … Ma io lo so, perché mi è capitato di confessarle nella mia precedente esperienza di vita … Non era affatto così … Ne ricordo una che mi ha raccontato di come viveva nelle campagne del Bergamasco da bambina in una numerosa famiglia di contadini poveri … Lei era gracilina, fragile, poco adatta alla vita dura dei campi che venivano accuditi dai suoi numerosi fratelli … Fu così che un giorno in cui passò un Frate Cercatore e Questuante col carretto suo padre l’affidò a lui per portarla in città per imparare qualcosa … in cambio di un sacco di buone sementi da seminare.
La fame e la miseria erano tante in campagna … e mio padre ha pensato bene di disfarsi di quella bocca in più da sfamare per darle la possibilità di un futuro alternativo in cui lui non credeva affatto … Non si era parlato affatto di farmi Suora … Io ho continuato sempre a volere bene a mio padre, perché mi avvertiva come morta in quell’ambiente difficile, incapace d’affrontarlo e sopravvivergli. Non mi vedeva neanche capace di fare figli in futuro … Troppo gracile, malaticcia … Non sarei servita a nulla.
Mi sono così ritrovata in città e nel Convento delle Suore in compagnia di tante altre ragazze simile a me … Tutte lì a scovare un futuro diverso … a imparare … E infatti imparammo tante cose belle: a leggere e scrivere, a cucire, a cantare, pregare, accudire i malati e i bambini … E fu quasi naturale, conseguente, logico, che a suon di dai e dai seguissimo quella progressione interna al Convento … Infatti, ci ritrovammo ad essere Suore anche noi. Prima Novizie e tutto il resto … e poi Suore con la Promessa solenne vera e propria.
Quando sono tornata al paese … mi hanno fatto una grande festa … e la mia famiglia era molto onorata di quella scelta … anche se mio padre morendo mi ha chiesto scusa per quello che mi aveva fatto. Vivere da Suora non era affatto la mia vocazione … Io avrei voluto avere figli e sposarmi come mia sorella e le mie cugine … Ma è andata così … e ho anche seppellito tutti i miei fratelli grandi, grossi e robusti che hanno ceduto alla vita faticosa dei campi.”

“Una vita di ripensamenti e rimpianti ? … e spesso di rivalsa verso coloro che hanno avuto la fortuna di vivere ciò che a loro è stato più o meno negato.”
“Spesso è andata proprio così … Sono passati tanti carretti per le campagne del dopoguerra italiano … e non solo italiano.”
“Infatti a molte di loro non è bastato rifarsi il look e accorciarsi la gonna fin quasi al ginocchio per affrontare i tempi moderni … è stato troppo poco. Ci sarebbe stato ben altro da accorciare, rivitalizzare, aprire, liberare e cambiare ... Le Suore avevano sempre la fissa della Purezza e della Castità … la paura del sesso e del vivere da donne fino in fondo … Non lo vedevano come un plusvalore, ma come qualcosa di sporco e peccaminoso da evitare.”
“Ne ricordo una che diceva: “Giovinastri ! … Stanno sempre a sbaciucchiarsi a ridere e ballare …”
“Che c’era che non andava in questo ?”
“Niente ! … Però lei ripeteva: “E’ uno scandalo ! … Perché non s’interessano delle vere cose che contano nella vita … Dovrebbero ascoltare Dio che ha detto: “Venite e vedete … Inaffiatevi più che potete !” … Non perdersi dietro alle sconcezze ispirate dal Demonio … “Il di più viene dal Demonio ! … dice la Scrittura !”
“Veramente erano citazioni sbagliate … Non esistono nella Scrittura dette così e con questo senso ... Interpretavano, distorcevano …”
“Infatti glielo dicevo, glielo facevo notare … “Va beh …” rispondeva, “Il senso non sarà proprio quello … Ma non sarai mica miscredente anche tu ? Non farai per caso parte di tutto quel mondo di senza Dio, pagano, Ateo, Comunista e assatanato, libertino e senza valori e dedito solo al magiare e bere, divertirsi e far sporco sesso ?”
“Ecco perché avevano sempre la mania della pulizia sul lavoro ! … Avevano sempre la fissa che tutto fosse pulito … Ci facevano lavare i muri, e i soffitti oltre che i pavimenti … Una vita intera vissuta di fronte e in faccia a un mondo di fuori considerato tutto da compatire se non completamente dannato, violento e perverso, da esorcizzare e redimere … convertire, rifare ... Un mondo sfacciato per cui pregare come per i Morti ... Un mondo “zozzo, crudo e maschio” tutto da trasformare rendendolo il più possibile simile a quello “puro e casto di dentro” che vivevano dentro al loro Convento …”
“Effettivamente speravano che il mondo potesse assomigliare a quello alternativo del Convento e del chiostro …”
“Vedevano sempre una società sempre da purificare, redimere, risanare, igienizzare, rammendare e ripulire come dalle “sporcizie deleterie del vivere sociale”. Ogni studente, educanda, ospite, malata, dipendente … poteva essere e diventare un’ipotetica affiliata, una persona da redimere “tirandola dentro” … una possibile vocazione da favorire, coltivare, integrare liberandola dalle assurde quanto assidue scadenze della quotidianità concreta e obbligata della vita laicale considerata un po’ dannata.
Ho incontrato donne tanto severissime, austere, quasi al confine con l’arrabbiato con se stesse, con le consorelle … oltre che con gli altri, soprattutto con i sottoposti … quanto ossequiose, accondiscendenti, asservite, sottomesse con chiunque rappresenti l’autorità costituita del Convento o della società in genere.”

“Le Suore sono sempre state un enorme bacino di voti e consenso elettorale di cui politici furbi hanno saputo usufruire per decenni facilmente e con poca spesa: “Croce su croce Madre ! … E’ questo il voto da fare.” Tuonavano i Confessori e i Predicatori dai pulpiti e dagli altari e le Badesse e le Superiore nei Refettori e nei Capitoli dei Conventi suggestionati dai politici di stampo Democristiano.”
“E quelle votavano “giusto e secondo coscienza”, ossia per coloro che finanziavano il Convento di qualche obolo o venivano indicati dai Superiori come persone meritevoli. Non servivano comizi, pubblicità, discorsi, discussioni, dibattiti e convention … Si andava via dritti: erano migliaia di voti sicuri ... in cambio si riparava il tetto del Convento, si mandava un panettone a Natale e una Colomba a Pasqua, un paio di salami buoni, o si ridipingevano le aule della Scuola Materna ...”
“Se poi non accadeva niente di quanto promesso da quelli che erano stati votati, o se cambiavano bandiere, o se di dimostravano essere l’opposto rispetto a quei valori di cui si erano dichiarati sostenitori incalliti … Beh … Non importa … C’è sempre e comunque la Provvidenza che penserà a tutto e tutti.”
“Ricordo che m’insegnavano: “Bisogna sempre ascoltare, obbedire e rispettare quelli che comandano … Non serve domandarsi perché … Deve essere così. Ognuno al mondo ha un proprio posto da occupare … e questo è il nostro: quello d’essere piccoli, docili e allineati dandoci sempre da fare.”

Comunque al di là di tutto questo, quello delle Suore è stato sì un mondo “separato in casa”, ma pur sempre un mondo con cui i Veneziani e soprattutto le Veneziane si sono pur sempre confrontate e incontrate. Le Suore hanno sempre accudito i figli, ospitato nei loro cortili, insegnato a cucire e cantare, leggere e scrivere e far di conto, dato da mangiare, indotto a giocare, pregare e aiutare … Spesso le Suore sono state le prime confidenti di tante giovani donne ignare di tante cose. Così come sono state depositarie di tutta una serie di contenuti di sapere, saggezza, gentilezza, generosità e bontà irrinunciabili difficilmente reperibili altrove … anche negli uomini.

“Spesso nell’umiltà nascosta e non corrisposta delle Suore le donne hanno riconosciuto se stesse, la loro condizione, quella parte migliore, sopraffina, quella che conta e non sempre viene riconosciuta e apprezzata per quanto vale veramente. Con le Suore forse le donne spartivano le delusioni e le contrarietà … a volte i maltrattamenti, oppure i sogni, le speranze e qualche successo.”
“Io ricordo anche donne dolci, allegre, semplici e tenerissime, vogliose di vivere la normalità dell’esistenza … di recuperare anche in qualche maniera la loro voglia di maternità e d’affetto, di famiglia e socialità … Ricordo quasi con affetto e tenerezza quella che un giorno ci siamo portati dietro con i ragazzini e le ragazzine in una gita in Montagna sopra a un nevaio. “Suora … Le procuriamo un paio di scarponi adatti, una giacca a vento e un maglione ?” le abbiamo detto.”
“No … Grazie … Proprio non serve. Mi procurerà tutto la Madre Superiore che mi ha dato anche il permesso di seguirvi ... e forse mi darà anche quello di uscire a mangiare la pizza con voi.”
Peccato che il giorno della partenza era sprovvista di tutto … “La Madre si è dimenticata ... Ha sempre tante cose a cui pensare…” E ce le siamo portata dietro ugualmente in scarpettine leggerissime e lisce sopra al ghiacciaio, e col gonnellone bianco e la giacchettina leggera … Ogni tanto partiva in scivolata giù lungo la neve, “a cùl per aria” e mezza infradiciata e tremante per il freddo, condividendo però con noi superbe risate indimenticabili e momenti speciali davvero amabili e indimenticabili. Una donna fra le donne … anche se ...”

“E Suor Angelica ? … La ricordi ?”
“Come dimenticarla ? … A Venezia la conoscevano tutti … Era unica per il suo modo e le sue gesta … Ho mangiato per mesi le cose che lei inviava nel Seminario: arrivava un carico di zucche ? … e allora per settimane: Zucca per tutti ! … a colazione, pranzo, merenda e cena … in tutti i modi, in tutte le salse: risotto di zucca, dolce di zucca, fiori di zucca … e così via. Poi era il turno del rifornimento delle patate … e allora di nuovo: patate in tutti i modi … Di nuovo patate a colazione, pranzo, merenda e cena … Nel Seminario si viveva così, un po’ in ristrettezze … Ma eravamo felici lo stesso. C’era un mio amico-compagno ora Monsignorone, che saliva sopra la sedia con un mestolo in mano e cantava dirigendo una fantomatica orchestra: “Patate …Patate ! … Kartofen … Kartofen!” … Che tempi !
Suor Angelica era unica, una donna eccezionale a cui stava troppo stretta la vita di Monaca di Clausura, perciò era uscita nella zona limitrofa del Porto di Santa Marta e si dedicava a recuperare il recuperabile dal mondo del Porto, del Tronchetto, degli Scaricatori, dei Marinai e dei Pescatori per aiutare gratuitamente tutti coloro che avevano bisogno: poveri, vagabondi, orfani, anziani, bambini, carcerati, prostitute, seminaristi, monache povere. Recuperava tutto ciò che veniva considerato inutile e da buttare e lo reindirizzava verso coloro per i quali sarebbe stato ancora prezioso … se non vitale.
Ricordo mio zio che faceva il pescatore e ogni tanto vendeva pesce. Suor Angelica un giorno gli ha detto: “Ecco qua ! Ti do un bavaglino fatto a mano dalle carcerate per i tuoi bambini … e tu in cambio mi regali quella cassetta di pesce per i poveri.”
“Ma Suora !” replicava mio zio inutilmente. “Quella vale una mezza giornata di lavoro … E poi non ho più bambini piccoli …”
“Non importa.” diceva lei, “Magari il bavaglino ti tornerà utile quando diventerai nonno … Mentre i poveri che hanno fame ci sono adesso …”
Alla fine se ne andava via con la cassetta di pesce fresco … e in cambio aveva ripensato sulla bontà dello scambio di un bavaglino con una cassetta di pesce. Mio zio si ritrovò fra le mani solo un pacchetto di caffè macinato… e per di più già iniziato.
“Grande donna !” mi ha sempre ripetuto mio zio. “Ci lasciava tutti col fiato sospeso … Ed eravamo, te lo garantisco, omenacci vaccinati e disincantati … Il giorno che è finita in retromarcia nel canale uscendo con la sua vecchia carretta dal suo Convento salvata da uno spazzino di passaggio … Siamo corsi tutti a salutarla. In un certo senso era una disgrazia capitata ad uno di noi.”

“Le Suore erano uniche …"mi ha raccontato un anziano collega Infermiere, "Quando hanno chiuso gli ospedali delle isole, è venuto fuori che le Suore erano formichine: “Quello era il loro modo e metodo, la loro forma mentale … il loro sistema … I guardaroba traboccavano di roba nuova tenuta strenuamente nascosta e chiusa sotto chiave, mentre tutti i malati e il personale andavano in giro cenciosi.”
“Le Suore vivevano in un mondo tutto loro … Guai a pensare a fidanzarsi, maritarsi e far figli ! … Per loro era uno scandalo, l’antipode del lavoro … “O lavori o ti sposi!” mi diceva una …e quando sono rimasta a casa per partorire e allattare la mia Caposala non ha più rivolto la parola e guardata in facci. Secondo lei avevo fatto il peggiore dei peccati, l’avevo tradita e ingannata … anche se avevo lavorato col pancione fino agli ultimi mesi d’attesa del parto.”
“Un giorno gelido d’inverno ho osato presentarmi in servizio con addosso un paio di pantaloni lunghi. Non l’avessi mai fatto: “Spudorata ! Vestita da uomo ! Scandalosa !” … Oh ! … Mi ha mandato via. Non mi ha più voluta a lavorare nel suo reparto.”

Potremmo andare avanti fino a domani a raccontare.

Solo per farcene un’idea, e osservando i dati storici Veneziani, si potrà notare che Monaci e Monache Benedettini e Benedettine furono i primi ad entrare a vivere stabilmente nelle isole Realtine di Venezia e della sua Laguna.
Infatti, quasi impensabilmente, fin dal 727 d.C. esistono documenti che attestano presenti le Monache Benedettine nella Contrada di San Cassiano a Rialto ... Nel 827 le stesse Monache Benedettine erano già presenti anche a San Zaccaria, trent’anni dopo a San Lorenzo di Castello, e nei primi decenni del 900 si sono insediate ulteriormente anche ai Santi Sergio e Bacco o San Tommaso Apostolo, a Santa Cristina o Santa Maria Materdomini e in Santa Maria Nova contando alla chiusura del primo millennio ben 5 “famiglie-comunità” femminili Benedettine in Laguna.
Qualche decennio dopo, nel 1034, le Monache s’insediarono anche a San Secondo in isola, poi nel 1060 a San Michele o Sant’Angelo di Contorta in isola, e in quella di San Servolo o Servilio nel 1109 concessa dai Benedettini alle consorelle di San Leone e San Basso di Malamocco Vecchio ormai mangiata dalle acque montanti del Mare Adriatico.

E’ del 1110 l’iniziale presenza delle Monache a Santa Croce della Giudecca … nel 1222 si aggiunse sempre alla Giudecca anche il Monastero femminile dei Santi Biagio e Cataldo dove oggi sorge il Molino Stuchy… A fine secolo, nel 1199, si piazzarono a Santa Maria Celeste o della Celestia a Castello le Monache Cistercensi provenienti da Piacenza dette della Colomba che saranno ancora presenti nel 1810 anche nel Monastero di San Mattio e Santa Margherita di Mazzorbo.
Nel terzo decennio del 1200 giunsero a Venezia le Suore Francescane o dell’Ordine Santa Chiara soprannominate Clarisse. In Laguna presero posto a Santa Chiara della Zirada diventando le Monache Urbaniste, poco distante, quasi di fronte: a Santa Croce Grande(Piazzale Roma e attuali Giardini Papadopoli) diventando le Damianiste, e poi a Santa Maria dei Miracoli, Santa Maria Maggiore(nel luogo delle Carceri Maschili di oggi), e al Santo Sepolcro in Riva degli Schiavoni presso il Molo di San Marco … con dependance lagunare a Santa Chiara di Murano che apparteneva alla giurisdizione dell’antica Diocesi di Torcello.

Giunti al 1304, arrivarono le Monache anche a Sant’Anna di Castello, nel 1318 a Santa Marta nella parte opposta di Venezia … e nel 1375 al Corpus Domini di Cannaregio dove oggi sorge la Stazione Ferroviaria.
Come ben sapete, a Venezia accadde in seguito una grande fioritura medioevale di Enti Ecclesiastici e Religiosi sostenuti e incrementati di continuo da cospicue donazioni e lasciti testamentari … come quello famoso, ad esempio di Maria vedova di Giacomo Gradenigo che dispose perché venissero dati ricchi legati e denari a tutti i monasteri ed ospedali del Dogado: “da Grado usque Caput Aggeris”. Dalle risultanze documentali storiche si evince che vennero effettivamente corrisposti dai Procuratori di San Marco a ciascuno dei 90 Monasteri Maschili e Femminili presenti in Laguna: due rate di 8 e 12 soldi.

Anche la Serenissima fece la sua parte per incrementare e sostentare quel grande fenomeno sparso delle Monache utile per la Carità e la Beneficenza verso tutti i Veneziani. Nell’ottobre 1288, la Serenissima destinò a tutti i Monasteri Veneziani parte della “gratia vini et lignaminis extrahendi de Veneciis” ossia una specie di permesso di esportazione dietro versamento di una quota di denaro. Gli introiti non erano modesti in quanto Venezia era punto di raccolta e smistamento di materiali provenienti da diverse aree dell’Italia e dell’Europa. La Quarantiae il Minor Consiglio distribuivano a tutti i Monasteri di Venezia una quota annuale di 3.000 lire divisa in due quote semestrali ricavate dal commercio del vino e della legna, oltre ad altri aiuti in vesti, contribuzioni per lo svolgimento di Capitoli degli Ordini, ed elemosine supplementari per festività religiose importanti ... Nonostante queste iniziative venissero costantemente ostacolate e contestate da alcuni del Senato e dei Nobili, di fatto vennero sempre confermate e concretizzate dalla Serenissima ... per secoli.
Fra 1299 e1305 nel Novus Liber Veneziano che riassume tutte le “grazie” concesse dalla Serenissima: su 262 casi citati, ben 49 risultano a favore dei Monasteri, ossia il 9%.

A metà del 1400 nella sola Venezia escluse le isole si contavano 19 Ordini Femminili ciascuno con la propria chiesa e Convento-Monastero, e qualche volta anche con giurisdizione su chiese Parrocchiali e di Contrada come Santa Giustina, San Severo, San Provoloe diversi altri.
Nel luglio 1514 un decreto del Consiglio dei Dieci in supporto all’azione riformatrice dei Monasteri Veneziani avviata dal Patriarca Contarini, ordinò di mettere le grate di ferro ai Parlatori delle Monacheminacciando contravvenzioni, chiusure e punizioni varie … nel 1581 a Venezia si contavano 2.508 Monache su una popolazione totale di 135.000 residenti.

Verso il 1627, anni di grandi pestilenze a Venezia, (si pensi alla Peste della Madonna della Salute) venne proibito alle Monache di Venezia di rivolgersi direttamente al Papa di Roma per chiedere d’abbandonare la vita nei Conventi di Venezia ... Nel 1630 si contavano a Venezia eccetto le isole: 28 Monasteri femminili prevalentemente di Benedettine (08), Agostiniane (08), e Clarisse (04). Le Monache a Venezia erano in tutto: 2.905 divise in 1.991 Monache da Coro, 599 Monache Converse e 315 Novizie e Putte Educandeo a spese ... ma già allora il numero degli ingressi di nuove vocazioni femminili non pareggiava il numero delle Monache morte.

Infatti nel 1766 a Venezia, stavolta comprese tutte le isole della Laguna, c’erano 32 Conventi con 1.576 Monache … e nel settembre dell’anno seguente una legge della Repubblica Veneta vietò le libere donazioni alle Case Religiose: “Si proibì il passaggio … in Opere e Cause Pie, Chiese, Benefizi, Comunità, Case Religiose,  Commende o Titoli di Ordini Militari, Collegi Ecclesiastici, Frati, Monaci, Monache, Chierici e Preti Regolari, Seminari, Scuole, Conservatori, Congregazioni o altri Luoghi Pii e Compagnie Devote … di alcun bene stabile senza autorizzazione del Senato, bensì si permise ancora per i beni mobili, seppure in maniera più contenuta fino alla decima parte della facoltà de’ mobili predetti, purchè tutta la sua disposizione non oltrepassi li ducati 500 … e una volta tanto …”

In ogni caso le rendite degli ecclesiastici in genere corrispondevano per le sole “manimorte”quasi al reddito dell’intero Stato della Serenissima, mentre il valore complessivo dei loro beni era stimato di 129 milioni di ducati ossia oltre 1/3 di quello dell’intera Repubblica che era stimato essere di 349 milioni di ducati.

Suore e Monache, dopo la fine della fine della Serenissimaerano suddivise in 14 Ordini e Congregazioni e distribuite in 44 Monasteri. Erano le donne Religiose rimaste e diventate coerenti e “mute” dopo le vicende scabrose storiche dei Monachini, delle Monache ribelli ossia delle ricche figlie dei Nobili rinchiuse nei Monasteri a far “strapazzi” e inventarne “di cotte e di crude”. All’inizio del 1800, quelle Suore-Monache rimastevennero epurate, private di tutto, e buttate malamente in strada da Napoleone lasciandole qualche volta perfino senza la tonaca che portavano addosso e senza di che vivere: “… a motivo del nuovo decreto Napoleonico del 25 aprile 1810 … tutte le Religiose devono deporre l’abito ed abbandonare i locali del loro istituto entro 2 mesi uscendo e vestendo alla foggia comune ... Il Prefetto di Venezia presenterà un piano di ricovero per 230 Monache “malridotte” accolte in case di riposo per infermi o vecchi decrepiti ... Le Religiose non potranno più riunirsi ad abitare insieme in più di 4, non dovrà più esserci Clausura né reale, né convenzionale, né simulata …”

A Venezia vennero secolarizzate 1.092 Religiose fra cui alcune che tornarono a presentarsi al loro Vescovo di nascita: 8 a Verona, 10 a Vicenza e 7 a Udine.

Tristissimo è il resoconto dell’alba del 04 aprile 1806:
“… entrarono in quasi tutti li Monasteri ad inventariare gli effetti preziosi … prendendo in requisizione li quadri, le carte, gli istrumenti e quanto altro s’attrovava negli archivi sigillandoli e così pure le librarie, non lasciando di far nota delle cibarie di prima necessità, cioè farine, vini ed oli come pure i vestiari in comune.”

La nuova Municipalità Provvisoria di Veneziasubentrata alla Repubblica Veneta incamerò ogni rendita dei Monasteri depositata in Zecca sottraendole del tutto ai Conventi e Monasteri riducendoli alla totale miseria, soprattutto quelli femminili che non avevano entrate da predicazioni, Messe e attività pastorali. Già per le vecchie leggi della Serenissima le monache non potevano più ricevere donazioni e legati, perciò: “… alcune monache mancavano di pane, altre chiedevano soccorsi, altre di un Monastero Chioggiotto reclamavano le rendite della Zecca minacciando di uscire per strada a mendicare …”

“In quegli anni ormai Frati-Preti-Monaci e Monache erano decadenti e malmessi, e intorno a loro circolava tutta una folla di ragazzi, studenti ed educande non professe e convittori che portavano l’abito dell’Ordine per “far numero” e dare tono alla Congregazione e facilitarne le vocazioni ormai rare ... Si proibì l’istituzione di nuove realtà Monasteriali, e si ridusse il numero dei Conventi in città a uno per tipo … non dovevano avere meno di 12 unità e possedere i fondi necessari per mantenersi.”

Triste e deprimente è l’immagine dei Monasteri rimasti a Venezia riferita dal Memoriale del 1802 del Patriarca Flangini: “… Nei Conventi di Venezia si vive a volte in modo grottesco e difficile, al confine con la più grande miseria, nell’indisciplina e nel disordine morale …la mendicità  estrema nella quale i conventi per la gran parte sono ora ridotti ha in tal modo avviliti li pochi individui che vi sono restati, che non hanno né voglia, ne forza di abbadare agli studi, né di servire alla chiesa, onde marciscono nell’ozio, abbandonati perciò alle indecenti sue conseguenze. A questo si aggiunga la nessuna religiosa disciplina e la assoluta trascuratezza delle regole del proprio istituto; frutto questo dell’averli interamente distaccati dai loro capi e di aver perciò rotto quell’unità che ne conservava lo spirito, la dottrina e lo zelo difficile, è veramente lo confesso, il rimediare alla mendicità attesa la alienazione dei fondi, né si può che minorarne per ora gli effetti collo scemar il numero dei miserabili unendo possibilmente alcuni conventi e sopprimendone altri osservate però le canoniche forme...”

Trascorso e “girato” ancora il Tempo, le Monache di Venezia salutavano “alla fascista”… ma durante la Guerra hanno protetto e nascosto Ebrei e Partigiani, e soccorso e dato da mangiare a molti altri … Nonostante l’espressa proibizione della Curia e dei vertici Ecclesiastici al riguardo, (l’ho visto e sentito direttamente raccontare da alcune anzianissime protagoniste) le Suore hanno nascosto e salvato diverse persone nascondendole in uno stanzucolo celato dietro a un grosso armadio-guardaroba colmo delle tonache e dei mutandoni delle Monache.

“Lì c’era un finestrello praticamente invisibile che si apriva dietro al piedistallo di una Madonna in marmo esposta in facciata … Da lì si poteva continuare a respirare e a sperare… e funzionò per alcuni “fortunati” ... che risultarono salvati.”

E brave le Monache !

Nel 1940, invece, quando a Venezia c’erano 208 Preti distribuiti in 63 Parrocchie, e i Frati-Monaci erano 264 coadiuvati da 57 fratelli laici distribuiti in 42 case, le Suore-Monache erano, invece: 1.826 residenti in 110 case, e s’interessavano di gestire: 37 scuole tra Elementari, Medie e Superiori, 43 Scuole di Lavoro, 65 Asili, 11 Collegi, 14 Pensionati ed erano presenti in maniera assidua in 12 Ospedali, 2 Case di Cura, 5 Ricoveri per Anziani, e 1 Casa di Pena femminile.

Secondo una curiosissima analisi statistica del 1974 quando ormai le Suore stavano declinando vistosamente mostrando il loro ultimo “colpo di coda”, a Venezia sussisteva ancora un manipolo di 20 Ancelle della Carità di Santa Maria Crocefissa di Santa Rosa provenienti da Brescia, 6 Ancelle del Santuario di Roma… 37 Ancelle di Gesù Bambino e 21 Ancelle Missionarie del Santissimo Sacramento… Ancora 6 erano rimaste le Suore Assunzioniste… mentre le Campostrine o Sorelle Minime della Carità di Maria Addolorata erano 14.
Le Canossiane o Istituto Figlie della Carità nel 1974 erano ancora una consistente brigata di 123 Suore … Erano 20 le Carmelitane Scalze di Clausura nel Monastero di San Bonaventura in fondo a Cannaregio accanto all’Ospedale Pediatrico, 19 le  Clarisse Sacramentineresidenti al Nome di Gesù nel Canale della Scomenzera di Sant’Andrea della Zirada accanto a dove oggi sorge il People Mover … quando erano stipatissime alla Giudecca le 32 Monache Clarisse nel Convento della Santissima Trinità ancora presente oggi a ridosso della chiesa del Redentore … le Cappuccine di Clausura di Santa Chiara erano 20 nel loro Monastero sulla strada Castellana di Mestre, e 16 erano le Serve di Maria o Eremite Scalze nel loro Monastero di Carpenedo.
Sempre nel 1974: c’erano 8 Cottolenghine o Suore della Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino residenti sulla Fondamenta della Madonna dell’Orto di Cannaregio ... 10 erano le Suore Domenicane Infermiere di Santa Caterina da Siena in Contrada di Santi Apostoli … 29 Imeldine o Domenicane figlie della Beata Imelda … 68 le Elisabettine o Terziarie Francescane di Padova e 3 le Suore Elisabettine Bige Francescane di Napoli tutte dedite all’assistenza ospedaliera.
Si contavano ben 58 Suore Dorotee dell’Istituto Suore Maestre, mentre le Dorotee di Vicenza o Congregazione delle Suore Maestre di Santa Dorotea Figlie dei Sacri Cuorierano 142 ... 10 erano le Suore Dimesse di Padova di cui ancora 4 a Santa Maria di Murano … 8 le varie Figlie della Carità di San Vincenzo de Paoli, 8 le Figlie della Chiesa, 5 le Figlie della Sacra Famiglia di Verona, 7 le Figlie del Santo Nome, mentre 44 erano le più attive Figlie di Maria Ausiliatrice dette Salesianetutte dedite all’infanzia e all’accoglienza della gioventù Veneziana.
Sempre dallo stesso riassunto del 1974: 39 erano ancora le Francescane di Cristo Re di Venezia(ancora presenti in quella che è l’ultima chiesa costruita a Venezia)… 6 erano le Suore Francescane di Gesù Bambino di Assisi… 5 le Francescane Missionarie del Cuore Immacolato di Maria… e 10 le Francescane Missionarie di Gemona.

Passando alle Suore Giuseppine: 94 erano le Giuseppine del Caburlotto … 21 le Giuseppine di Torino o Figlie di San Giuseppe … 11 le Giuseppine di Verona o Piccole Figlie di San Giuseppe… e ancora: 57 erano le Mantellate o Serve di Maria di Pistoia … 10 le Missionarie Zelatrici del Sacro Cuore di Milano… 10 le Orionite o Piccole Suore Missionarie della Carità di don Orione… 14 le Orsoline di Verona o Figlie di Maria Immacolata … 35 le Sacramentine di Bergamo … 18 le Salesie o Suore di San Francesco di Sales di Padova … 6 le Suore Austriache o Suore Missionarie Regina Apostolorum provenienti da Vienna… 25 le Suore Canal Marovich o Suore della Riparazione ai Sacri Cuori della Casa di Nazareth di Milano.

Quasi come declamando la formazione dei giocatori di una squadra di calcio: 3 erano le Suore del Divino Amore di Roma… 41 le Suore della Misericordia di Verona… 8 le Suore della Nigrizia o Pie Madri della Nigrizia o Comboniane di Verona… 9 le Suore della Provvidenza di Gorizia… 5 le Suore della Provvidenza e dell’Immacolata Concezione provenienti dal Belgio… 21 le Suore della Sacra Famiglia o Piccole Suore della Sacra Famiglia di Castelletto del Garda-Verona … 10 le Suore di Nevers o Suore della Carità e dell’Istruzione Cristiana di Nevers… altrettante le Suore di Santa Giuliana o Serve di Maria di Galeazza Pepoli… e 9 le Suore o Figlie di San Paolo da Alba di Cuneo che si occupavano di vendere e promuovere libri e stampa Cattolica … e non le ho elencate assolutamente tutte.

Questo solo per dirvi di una presenza assidua, costante ormai bimillennaria, capillare, ubiquitaria, quasi insistente. Numeri alla mano, le Suore erano un vero e proprio esercito piazzato ovunque a Venezia e radicato in tutta la Laguna stabilmente … Immancabili, onnipresenti e riconfermate in Laguna come ad ondate di una benevola e benefica invasione senza fine.
Le “squadre” delle Suore si sono succedute a Venezia a seconda dell’ispirazione e secondo i modi, le forme e i metodi dei loro Padri o Madri Fondatori che le hanno di volta in volta inventate e costituite.

Riflettendo, a noi “comuni mortali” non è dato di capire del tutto, e forse non ci rendiamo conto di come a volte migliaia di donne hanno vissuto intere esistenze “all’ombra”dei principi e delle discipline ideate e consegnate loro in eredità delle varie: Beata Imelda, Santa Giuliana, Caburlotto, Marovich, Sacri Cuori, i vari Santi Francesco, Domenico e Chiara e tutti gli altri.  A volte, anzi: molto spesso, si è trattato di un’intera esistenza vissuta a servizio della società e spartita dentro alle ristrettezze obbedienti e sottomesse, spesso spartane, della vita comunitaria … impastando il tutto con grandissimo riserbo e silenzio.

Correndo a conclusione … Mi piace ricordare che sopra a tutte le Suore, “vincevano” di gran lunga come presenza e consistenza sulle altre, le Suore di Maria Bambina o Suore della Carità delle Sante Capitanio & Gerosa.
Ancora nel 1974 contavano presenti a Venezia e nella Laguna: 315 Suore ! Ed eravamo ormai verso la fine della loro massiccia presenza in Laguna. Si può dire che questo genere di Suore in un certo senso presidiava la città esercitando il loro Ministero ovunque, dappertutto.

Nel 1962, le Suore di Maria Bambina, come venivano chiamate da tutti, erano ancora 427 con 6 Novizie, mentre nel 2000 sono diventate 72 distribuite in 19 Conventi, e 68 nel 2006 attive in sole 4 case-Convento … si era all’epilogo.
Nel 1962 gran parte delle Suore di Maria Bambina si occupava d’Assistenza e Scuola Materna ed Elementare: 93 erano ospitate nella loro Casa Madre-Quartiere Generale di San Gioacchino di fronte alla Stazione Ferroviaria accudendo come Infermiere le Suore malate e anziane e poi insegnando nell’attigua “Scuola Capitanio”.
In 4 presidiavano la Domus Civica per ospitare Studenti Universitari venuti a studiare a Venezia, in 33 sorvegliavano la Casa di Pena Femminile della Giudecca come severe e improprie Guardie Carcerarie più puntigliose dei secondini, altre 16 Suore gestivano l’Istituto di Santa Maria della Pietà dove si continuava ad accogliere esposti e bimbi abbondonati o in difficoltà, 18 Suore accudivano l’Istituto Buon Pastore di Castello con Asilo Infantile e ospitalità per donne fragili e famiglie in difficoltà, 15 stavano all’Istituto Ciliota di Santo Stefano educando e insegnando in una delle scuole private più rinomate della città, 13 vivevano nell’Istituto di Santa Maria del Soccorso ai Carmini che aveva ormai perduto la sua identità originaria e fungeva da Scuola Materna e Ostello per Universitarie, 57 Suore lavoravano da Infermiere e Caposala in ogni reparto dell’Ospedale Civile dei Santi Giovanni e Paolo, 8 con gli stessi compiti presenziavano nell’Ospedale Pediatrico Umberto I° a Sant’Alvise, 9 all’Ospedale infettivologico e per disabili dell’isola delle Grazie, 29 nell’isola-Ospedale Psichiatrico di San Clemente, 13 nell’altra isola-Ospedale Psichiatrico di San Servolo, 8 nell’Ospedale dell’isola di Poveglia, 22 nell’Ospedale Sanatorio di San Marco nell’isola di Saccasessola, 9 nella Scuola Materna di San Martino di Castello in stretta collaborazione con le 11 vicine attive nella Mensa dei Poveri della Comunità di San Giuseppe alla Tana di Castello. Altre 7 Suore vivevano a supporto dei Seminario e dei futuri Preti in Punta della Salute (ne so qualcosa per esperienza diretta personalissima), 5 nel Centro Pastorale Casa Cardinal Urbani a Zelarino di Mestre, 9 alla Scuola Materna di Santa Maria Assunta di Malamocco, e 17 nella Scuola Materna e nella Scuola Merletti dell’isola di Burano“luogo di delizie”, posto dove a lungo ho vissuto durante la mia infanzia a stretto contatto proprio con quelle Suore … (un’esperienza stupenda che mi ha segnato per sempre).

Ancora nel 2006 rimanevano in città a Venezia Suore e Monache per tutti i gusti: esistevano nella città lagunare 43 Ordini e Congregazioni con 68 Comunità Religiose … l’ultima “cittadella delle Monache” rimasta a Venezia che assommava in tutto: 621 Religiose.

Esistevano ancora 2-3 Clausure strette con una sessantina di Monache di cui nel 1974: 20 erano le Suore Bianche o Figlie del Cuore di Gesù della clausura del Lido
Negli stessi anni: solo 9 erano ancora le Scuole-Asilo per l’infanzia gestite in città dalle Suore, 1 soltanto era la Novizia rimasta, 2 le Postulanti e le ultime 6 Suore si occupavano ancora di Arredo e Abbigliamento Liturgico, mentre le altre erano destinate ancora una volta all’Assistenza e si aprivano sempre più nell’esperienza dell’Ospitalità e dei Pensionati Universitari.

Infine è stata cascata irrefrenabile: uno dopo l’altro, i Conventi si sono trasformati in Ostelli, Pensionati Universitari, Case di Riposo o per l’ospitalità dei turisti. La vocazione alberghieradelle Suoreè stata forse l’ultimo canto del cigno, un pallido tentativo infruttuoso per salvare il salvabile. Poi hanno chiuso del tutto: gran parte dei Conventi sono stati ristrutturati e rivisti come moderni alberghi o lasciati abbandonati in attesa di novità e di eventi finora non ancora accaduti.

Ogni mattina passo davanti a un grosso e tozzo Hotel a poche stelle spesso frequentato e affollato da cacciarose quanto odorose e risparmine comitive di turisti dell’Est europeo. E’ impossibile non notare in cima al tetto e in un angolo quel campaniletto rimasto che un tempo scandiva notte e giorno la vita del pugno di donne-Monache di Clausura che abitavano quel luogo. La campanella scandiva le giornate e chiamava le Monache ai turni di veglia notturna davanti al Santissimo costantemente esposto 24 ore su 24. Le Suore trascorrevano ore su ore in contemplazione e veglia silenziosa orante, ferme lì a nome e in rappresentanza di tutti, assidue di giorno nell’osservare le cadenze della Regola di Chiara d’Assisi che le induceva ad estrema e rigida povertà. Dal chiuso del loro Monastero non riuscivano di certo a considerare quanto accadeva nel resto della Venezia cangiante e sempre più evoluta e diversa, ne sentivano solo il brusio lontano che le preoccupava e disturbava.

Né potevano vedere certi tramonti estenuanti, certe notti stellate, certe albe infuocate e certi luminosi giorni che accadevano sopra la Laguna e l’industriosa Venezia che sta pulsando ancora oggi.
Se ne sono partite rifugiandosi sui colli Bolognesi … e si è così chiusa un’epoca.

In conclusione: quello delle Suore è stato un mondo tutto femminile … a parte, ma anche no. Un mondo un po’ soffocato ? Questo probabilmente: sì. Le Suore sono state comunque donne che hanno saputo lasciare bei esempi d’onesta, santità spicciola, e operosità impastata di vissuto quotidiano esemplare, coerenza e rettitudine … virtù che non guastano mai, anche se sembrerebbero a volte un po’ datate e messe da parte da più di qualcuno.
Basti pensare al Sindaco Veneto arrestato ieri …
Oggi, piaccia o no ammetterlo, quello delle Suore è un mondo ormai scomparso … quasi in estinzione, privo di sbocchi e novità, liofilizzato e quasi spento. Non esistono più le Suore delle isole … mentre gli spettacoli lagunari continuano ad accadere ugualmente … più di qualche volta senza che qualcuno si estasi ad ammirarli ... o ne scruti apatico, distante, impassibile la tanta immane e arcana bellezza pensando ad altro sempiterno e obbligato quanto il Cielo.


“NON S'ABBRUSARA’ PERSONA IN PIAZZA SAN MARCO !”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 109.

“NON S'ABBRUSARA’ PERSONA IN PIAZZA SAN MARCO !”

Quella volta sembrava tutto pronto, tutto risaputo e quasi fatto, e, invece durante il 1500, non andò affatto così a Venezia. Gli spioni efficentissimi della Serenissima avevano scoperto tutto: nomi, posti, persone coinvolte … Ogni tassello del mosaico era stato messo argutamente al suo posto. Gli Osti delle Locande della Contrada di Santi Apostoli avevano meticolosamente elencato tutto e tutti: avevano perfino descritto gli abiti, detto delle barbe degli uomini, dei libri che avevano, degli incontri che avevano fatto. Pareva proprio che quella volta non dovesse sfuggire proprio nessuno … che la retata fosse imminente, e che in seguito sarebbe calata inesorabile la mannaia implacabile della Giustizia Divina dell’Inquisizione che sarebbe proceduta di pari passo, quasi andata a braccetto insieme a quella Civile della Repubblica di Venezia.

Si diceva, infatti, che il Nunzio Apostolico ossia l’Ambasciatore del Papa residente a Venezia gongolasse già parecchio, e con lui anche il potente capo dell’Inquisizione Veneziana.

Ecco i nomi, i fatti e i personaggi della lunga lista pronti per essere arrestati:
  • Giovanni Paolo Alciati della Motta: eretico Piemontese da Savigliano, costretto a fuggire a Ginevra. 
  • Giorgio Biandrata: Medico eretico da Saluzzo. 
  • Francesco Negri da Bassano: ex Monaco Benedettino che aveva vissuto nei Monasteri di Santa Giustina di Padova e di San Benedetto Po nel Mantovano convertitosi di fatto al Luteranesimo, scrittore, esiliato in Svizzera, plurimaritato.
  • Matteo Gribaldi Mofa da Chieri: giurista e antitrinitario filoprotestante, proprietario del castello di Farges, amico del famoso eretico Pier Paolo Vergerio, fatto bandire da Calvino a Ginevra, accoltellato a Berna in Svizzera.
  • Nicolò Paruta: Patrizio Veneto, Medico ed eretico.
  • Valentino Gentile: Cosentino arrestato e pluricondannato.
  • Girolamo Busale: leader del gruppo ed eretico radicale antitrinitario, ex commendatario dell'Abbazia di Sant'Onofrio di Monteleone, seguace di Valdès.
  • Bernardino Tommasino detto Ochino: figlio di un barbiere, Medico, Teologo e Predicatore, ex Vicario Generale dell'Ordine dei Frati Cappuccini, perseguitato dall'Inquisizione Romana paragonato a Lucifero perchè passato alla Riforma, fuggito dall’Italia a Zurigo, Ginevra, Basilea e Augusta.
  • Lelio Sozzini: Teologo antitrinitario passato per Siena e Bologna, poi viaggiatore in Inghilterra, Francia e Svizzera.
  • Francesco Della Sega da Rovigo: gaudente e libertino (in seguito condannato a morte a Venezia nel febbraio 1565 per annegamento nelle acque della Laguna, secondo il rito veneziano nel caso di esecuzioni capitali di eretici).
  • Giulio Gherlandi:di professione lanternaio, figlio illegittimo del Curato del suo paese.
  • Infine un certo misterioso Tiziano da Serravalle o Ceneda: espulso dai Grigioni per propaganda anabattista, convertitore nel Trevigiano, Padova e ad Asolo.               

Quel gruppo di“nuovi fanatici”aveva partecipato fin dal 1546 a dei “Collegia segreti e sospetti”, assemblee eterodosse tenute in alcuni palazzi della Nobiltà di Vicenza. Avevano inoltre discusso di questioni dottrinali, teologiche e intellettuali delicate e pericolosissime per non dire sfacciatamente ereticali. Costoro negavano apertamente la divinità di Cristo e affermavano la mortalità dell'Anima …

Figurarsi l’Inquisizione ! … Aveva di certo i fumetti accesi in testa ... era di certo preoccupatissima, e fremeva per la voglia d’intervenire rimettendo “ogni cosa e ciascuno” al suo giusto posto.

Ad aiutare lo smascheramento di quel gruppo eretico così pericoloso c’era stata anche la delazione di un certo Prete Cattolico don Pietro Manelfi Marchigiano di Senigallia in contatto ad Ancona con Bernardino Ochino, ribatezzato dall’Anabattista Tiziano, perseguitato dal Cardinale Rodolfo Pio di Carpi Legato Papale ad Ancona, e fuggito in territorio Veneziano. Al seguito di quelle notizie l’Inquisizione di Roma aveva inviato a Venezia il Frate Domenicano Inquisitore Girolamo Muzzarelliuomo fidato di Papa Giulio III° che si presentò davanti al Consiglio dei Dieci chiedendo di procedere e attivarsi duramente contro tutte le persone denunciate.

In effetti “erano piovute” e pervenute puntuali a Palazzo Ducale certe recenti notizie segrete da Rovigo e dalle terre di Padova e Ferrara, e in Senato si sapeva anche che il Vescovo di Rovigoultimamente s’era vantato parecchio d’essere riuscito finalmente a far bruciare alcuni eretici nella sua giurisdizione diocesana in attesa che la stessa cosa capitasse presto anche a Venezia.

La Serenissima era sempre informatissima, sapeva tutto dei Processi, degli Interrogatori, dei Libri bruciati, delle prolungate carcerazioni … come sapeva bene dei malefizi, delle stregonerie, delle eresie, delle torture e dei roghi promossi dal Santo Uffizio dell’Inquisizione. Si sapeva … La Serenissima possedeva “occhi e orecchie lunghe” per davvero, ed erano anzi: lunghissime e attente. Venezia tramite una rete amplissima, sofisticatissima ed efficentissima d’informatori e delatori sapeva quasi tutto di tutti, erano rari i segreti e i “giochi politici dello scacchiere Italiano ed Europeo” di cui non fosse almeno un poco a conoscenza.

Tuttavia quella volta Venezia Serenissima rimase come bloccata … deliberatamente immobile. Non accadde nulla … proprio un bel niente, perché la Repubblica decise di schiararsi a favore della libera tolleranza … e basta.

Esiste un dispaccio privato fra un Nobile Veneziano e il Nunzio Ambasciatore Papale a Venezia che riassume bene quella partiolare circostanza che andò a crearsi:
“Eminenza Reverendissima Signor Nunzio Apostolico di Santa Romana Ecclesia Luigi Beccatelli… Reverendissmo e Illustrissimo Signor Inquisitore Grando Frate Nicola dei Francescani Minori Conventuali della Ca’ Granda dei Frari ed Eminente Inquisitore Girolamo Muzzarelli dei Padri Domenicani inviato da Roma …” hascritto confidenzialmente un Nobile Molin alle più alte autorità Religiose di Venezia.La Repubblica Serenissima per opportunità aveva già deciso di non pronunciarsi ufficialmente in maniera feroce. Avrebbe concluso sì le indagini, allestito i processi e tutto il resto, ma non avrebbe infierito.
“Non sarà prudente accatastare pile di legna per accendere roghi in Piazza San Marco a Venezia ... non s’abbrucerà persona alcuna a Venezia o altrove nelle Lagune della nostra Repubblica … tantomeno in nome della Religione e della Giustizia … Come ben ognuno sa a Venezia, la nostra città Serenissima è fragile e facilmente infiammabile … Basterebbe una favilla imprudente portata dal vento perchè tutto possa andare rovinosamente in fumo … E’ più salutare e proficuo quindi per i Veneziani di sempre odorare il profumo di salsedine, spezie, vino e pesce piuttosto che il macabro e quanto mai tristo puzzo di carne umana abbruciata ... A Venezia prossimamente non s’innalzerà la catasta di legna per ardere il condannato … né s’addurrà al pubblico carcere quel giovine pittore di bottega che ha osato dipingere alcune rane nel loro stagno … Illustrissime Signorie Reverendissime: loro dovranno intendere che nella Repubblica di Venezia è tutto diverso … La Serenissima Illustrissima col suo Doge e la Signoria hanno sempre saputo e vorranno sempre distinguere e discernere fra Verità, Menzogna e giusta tolleranza … così come si desidererà sempre preservare ogni persona da ingiusta calunnia …”

Strano quell’appunto curioso sul giovane pittore di Rospi e di Rane !

Come poteva essere considerato pericoloso un giovane dipintore di Rane e Rospi ?

Per noi di oggi sembrerà cosa inverosimile, futile … Un pittorello Naturalista, un semplice vagheggiatore di paesaggi e vedute può essere pericoloso ?

E, invece, per la consapevolezza soprattutto Religiosa ed Ecclesiastica di quel tempo, ma anche sociale e popolare lo era … e anche tanto … Troppo ! Anche a Venezia erano ancora vivissime certe tradizioni, e c’era una specie di vera e propria nostalgia per certi simboli e contenuti risalenti a culti e convinzioni antiche dei secoli passati, mai assopite del tutto e ancora presenti nel’Evo considerato del tutto Cristianizzato. Non era stato sufficiente cancellare le tracce delle antiche Religioni sovrapponendovi sopra la Religione Cristiana, né era bastato affermare che erano stati culti pagani, diabolici e dannati per sradicarli del tutto dalla memoria e dal patrimonio tradizionale della gente qualsiasi e dei Nobili e Letterati delle Lagune.

Nonostante le Cattoliche proibizioni, si continuava a Venezia a parlare ancora del “viaggio esotico dei Morti e della loro cavalcata furiosa nell’Aldilà in Mondi diversi”. Si continuava a pensare che i Morti ritornanassero ancora in maniera speciale fra i vivi, e che avessero un ruolo nella prosperità di chi è rimasto di qua. Si diceva anche: “… quell’esercito d’Anime assetato di vita e senso è cappeggiato da donne-madri, figlie della Grande Madre: Percha, Holda, Abolde …”

“Tutte donne strassinàe dal Diavolo” ribadiva la Religione Cristiana con la sua Inquisizione … e l’antica “Donna di Bel Zogo” venne progressivamente sostituita dalla Madonna: “… la Nuova Donna per eccellenza, la Pura e tuttaSanta che calpestava sotto ai piedi i simboli del Male pagano e antico”.

Gli antichi culti e le tradizioni popolari Venete raccontavano anche di lotte epiche stagionali per l’abbondanza fatte da Spiriti e Stregoni buoni e cattivi che s’affrontavano annualmente fra loro lottando con fruste di Finocchio o di Sargo. Da quelle lotte magiche che si tenevano nella Notte delle Quattro Tempora di Natale o di altri momenti dell’anno dipendeva il successo dei raccolti dei campi ... Quelle dei culti pagani erano inoltre una serie di tradizioni e sensazioni trasmesse oralmente, e di natura spesso personale, estatica, evasiva, oracolistica, miracolistica e di libero accesso a tutti. Erano il giusto contrario del pragmatismo solido, dogmatico, ordinato, codificato e gerarchico della nuova proposta Ecclesiale del Cristianesimo che proponeva atteggiamenti etico-morali ben precisi secondo schemi ben preordinati e obbligati come: i Principi Dogmatici della Fede, i Sacramenti, i Decaloghi, i Vizi e le Virtù, le Penitenze, le Indulgenze, le Elemosine e tutto il resto.

Il 13 febbraio 1278 vennero bruciati nell'arena di Verona circa duecento Catari eretici… mentre il 10 agosto 1553, ossia diversi secoli dopo, moriva ancora sul rogo a Ginevra il Medico umanista antitrinitario Michele Serveto … e il 22 giugno 1633 venne condannato all'abiura e al carcere perpetuo perché "veementemente sospetto d’eresia": Galileo Galilei, per il semplice fatto di sostenere la teoria eliocentrica … S’era perciò innescata in Europa e anche oltre una lunga catena di convinzioni, certezze dogmatiche inopugnabili, fatti, inquisizioni, sopprusi e morti che tempestò la Storia per lungo tempo.

Tuttavia le vecchie convinzioni e attitudini erano rimaste comunque, a poco era valso continuare a definirle: “superstizionidel Diavolo da cancellare e sopprimere”. La Serenissima era a conoscenza dei fatti accaduti a Milano circa gli antichi culti della “Madre” le cui “Apostole e Adepte” erano state bruciate ... Così come anche a Venezia c’erano stati Santuari della Laguna, Templi pagani inglobati, assimilati e incapsulati, coperti da una miriade di nuove Chiese e Monasteri. Nei territori della Serenissima erano rimaste vistose tracce degli antichi culti pagani estatici, bacchici, visionari, esoterici, sciamanici oltre che legati ai ritmi arcaici delle stagioni, della Natura e del Tempo. Venezia sapeva bene che non era stato sufficiente cancellare tutto perché terminassero per davvero d’esistere certe convinzioni radicate nel cuore e nella mente della gente. Non bastava tacere di certe cose perché non fossero accadute … 

Quel che era stato era stato, e la Storia trascorsa non si può mai cambiare e rinnegare del tutto … il Cristianesimo non sarebbe mai potuto essere l’unica realtà esistente al Mondo.

Ecco perché Rane e Rospi dipinti avevano un loro senso e significato … che faceva imbufalire, e  di molto, gli uomini dell’Inquisizione.

Rane e Rospi non erano solo i protagonisti dell’amena storiellina antica della Batracoiomachia… In certi ambienti Veneziani si conoscevano bene gli effetti della bufotenina contenuta in quelle bestie. Si sapeva di quel potente allucinogeno sgradevole, "il latte di rospo" che traspirava dalla pelle, del sudore degli anfibi capace anche di uccidere l’uomo ... come “la sua orina, la traspirazione, il fiato mefitico, la saliva, e lo stesso sguardo che rappresentavano pericoli mortali per gli umani ... Possono accecare, sputare negli occhi di coloro che lo infastidiscono, strisciare su una persona addormentata, berne il respiro e provocarne la morte…”

Il Rospoanimale notturno come il Gufo e la Civetta era un essere considerato presente nei sogni, compagno di viaggi onirici sepolto nell’inconscio di tutti … Rospo e Rana nei tempi antichi erano sinonimo e possedevano valenze positive. Significavano: Saggezza Primordiale e potere di guarigione fisica degli stati più inconsci, profondi e nascosti della persona. Quegli animali legati all’acqua in cui trascorrevano l’intera esistenza, erano esseri viventi molto presenti e visibili nelle campagne, nei boschi, negli stagni e nelle paludi Venete.  Animali che comparivano quasi dal nulla con l’arrivo della pioggia, si ritenevano segno di novità, fecondità e trasformazione, immagine della capacità di rinascita della Natura e della Terra. Come la Tartaruga e la Salamandra s’intendevano come concentrato del segreto della Vita e della Morte ... Rane e Rospi quindi erano utili a vincere ogni forma di sterilità.

Si favoleggiava intorno alle doti magico-mistiche-simboliche delle Rane e dei Rospi: la loro capacità emetica velenosa veniva interpretata anche come capacità di rimettere una situazione e superarla, di liberarsi da momenti di crisi e difficoltà. Il loro rimanere immobili sulla difensiva di fronte agli esseri umani era ritenuto indicazione di capacità d’affrontare le novità con pacatezza, lucidità, immobilità e freddezza senza farsi sopraffare dall’emozione … “Il modo” di comportarsi di Rane e Rospi era indicazione di un “modo buono” valido per uscire dal passato e per affrontare il futuro.

Secondo le conoscenze antiche: Rane e Rospi erano animali sacri caduti dalle nuvole e dal Cielo, protettori della sessualità e delle nuove vite: assistevano le donne durante la gestione del parto la cui posizione "a gambe di Rana"richiamava la postura dell’animale … Le secrezioni del Rospo si usavano per far aumentare le contrazioni uterine ... Si regalavano alle donne "Rospi votivi di donna-Rospo",anelli e gioielli a forma di Rana e Rospo per augurare d’avere figli, un parto facile, o di guarire da malattie ginecologiche ...  Si pensavano le Rane e i Rospi presenti alla germinazione iniziale del grano … creatori delle Arti Magiche e Pratiche, dell’Agricoltura …  aiutanti ogni giorno del Sole nel suo sorgere, difensori dell’unità familiare, custodi della casa, induttori di prosperità, salute, longevità e ricchezza … amuleti capaci di tenere lontano ogni Male e Negatività.

Si era convinti che gli occhi di Rospo guarissero l'oftalmia … SecondoDioscoride la cenere di tre Rospi bruciati vivi mescolata a miele o a pece liquida curava l'alopecia … Nel Rinascimento e nell’epoca Barocca: le zampe di un grosso Rospo recise mentre era ancora vivo e applicate al collo di una persona affetta da scrofo­la la guarivano … il fegato di Rospo essiccato all'ombra, applicato sulle cisti sebacee della testa o sui tumori benigni li eliminavano a poco a poco … la cenere o polvere di Rospo sospesa al collo di una donna dai flussi mestruali irregolari ne ristabi­liva la regolarità ... La stessa polvere guariva l'incontinenza urinaria, assunta per uso interno curava l'idropisia, posta sui reni aumentava l’urina, smuoveva l'anuresi … Cosparsa sopra a un morso velenoso attraeva a sé il veleno, applicata sulle piante dei piedi era rimedio efficace contro febbri e disturbi cardiaci.

Le ossa delle cosce del Rospo accostate ai denti guarivano dal dolore, sfregando sulla fronte un Rospo vi­vo si otteneva sollievo dall’emicrania … I “succhi”del Rospo venivano adoperati anche come farmaco contro la peste. Giovanni Battista Van der Helmont fabbricò delle pillole chiamate: Xenèchtum, Xenechdòn o Zenetòn ossia amuleto. Erano impastate di cera e gomma arabica mettendo insieme Ro­spi morti appesi per tre giorni a testa in giù accanto a un gran fuo­co. Si aggiungeva poi la loro materia mucosa dell’animale e anche i vermiciattoli trovati negli occhi, e si consigliava di porre quelle pillole sopra alla mammella sinistra dell'appestato e sopra le parti infette. Si sarebbe ottenuto così di allontanare il contagio estraendone e assorbendone il veleno.

E c’era ancora dell’altro da sapere circa Rane e Rospi … Siccome il Rospo e la Rana si trasformano da Girini e sono capaci di mutare la pelle mangiandosela periodicamente ... si consideravano sinonimo di cambiamento, trasformismo e novità …  Si pensava che nel Rospo fosse di solito nascosto un Mago o una Strega che detenevano segreti potentissimi ... Si diceva anche che sulla Luna viveva un grande Rospo a tre zampe i cui movimenti coincidevano con “le tre facce della Luna: crescente, calante e assente o nera.”

Un’antica leggenda raccontava che la Rana insieme al dio Serpente-Uccelloe al dio Mago-Giaguaro erano presenti nel mare oscuro e primordiale delle origini e della Creazione dell’Universo… da loro derivarono perciò Cielo e Terra ... Si usavano perciò a scopo propiziatorio Rane e Rospi in pranzi rituali, e si portavano sulle cime delle colline per chiedere alla Madre Terra di far scendere il dono della pioggia ... Nell’immaginifico popolare la polvere di Rospo bruciato e tritato era capace di suscitare temporali e tempeste ... ma anche di guarire dall’ubriachezza … Quando Rospi e Rane si tuffavano spesso in acqua aumentando i loro gracidii: avvertivano che sarebbe piovuto presto… Chi avesse sputato su un Rospo sarebbe morto perché lui sapeva dare Morte e Vita ... Se qualcuno lo avesse non rispettato e irritato, l'animale si sarebbe gonfiato e sarebbe esploso schiz­zando intorno un veleno mortale … Dopo la Morte un uomo che non avesse adempiuto a un voto poteva farlo assumendo le sembianze di un Rospo e dirigersi finalmente verso il Cielo strisciando sull'altare di una chiesa dedicata alla Pietà. Bisognava perciò ri­spettava un Rospo se lo s’incontrava di not­te mentre camminava goffamente … conteneva un’Anima pigra e pentita !

Con l'avvento del Cristianesimo di derivazione Ebraica si volle far scomparire tutti quei contenuti considerati ormai obsoleti. Si provò a rovesciare tutto quel modo di pensare: nella Bibbia e nella conseguente Tradizione Cristiana Rane e Rospi vennero considerati come animali impuri, manifestazioni del male, malvagi, sede di una potenza ne­fasta, messaggeri infernali di Satana … L'invasione dei Rospi descritta dal Libro dell’Esodo della Bibbia era una delle "piaghe e dei flagelli punitivi di Dio” ... I vari San Giovanni, San Martino e la Madonna cristianizzarono ogni cosa, abitudine e necessità, e presero il posto e le doti di tutti i “Patrocinatori Antichi Naturali”… come lo erano stati anche le Rane e i Rospi.

E non è ancora tutto … Nelle Alpi Bavaresi si considerava terapeutico uccidere i Rospi nei giorni delle Feste della Madonna, soprattutto il 15 agosto e l'8 settembre. Tuttavia si continuava a pensare che catturati negli stessi giorni festivi i Rospi dovessero venire essicati e in­chiodati sulle porte o sul soffitto delle case e delle stalle per poter proteggere umani e animali da paura, angoscie, malattie e Morte ... In Provenza si chiudevano i Rospi in una trottola di terracotta con del­l'olio di oliva e poi si cuocevano nel forno usando il risultato per curare le febbri maligne ... In Germania settentrionale si essiccava la pelle di Rane e Rospi per applicarla sulle parti malate per aspirarne il male ... Un po’ovunque in Europa(Italia, Francia e Germania) si favoleggiava sul fatto che il Rospo possedesse al suo interno una pietra portentosa: la “Lapis bufonius” ossia la “Pietra Rospina”, la “Batrakités”dei Greci, la “Bora” dei Latini. Grande come una nocciola, si sarebbe trovata dentro alla testa del Rospo, dietro alla fronte, nel cervello dei Rospi grossi e vecchi. Si pensava fosse un talismano potente, un amuleto raro di grande valore capace di neutralizzare veleni, sedare infiammazioni, diverse malattie e ostilità ... Chi solo toccava una coppa dove fosse stata versata una goccia di tale potente veleno si co­priva immediatamente di sudore in tutto il corpo … Orafi provetti creavano anelli d'oro e d'argento con la Pietra Rospina … e il Duca e Re di Na­poli ne possedeva una incastonata in una coppa di cristallo tempestata di smalti.

“Si può indurre l'animale mefitico a sputare e vomitare la Pietra Rospina spingendolo con un panno rosso dentro a una buca ... Lì lo si terrà esposto al sole finché tormentato dalla calura e dall'arsura sarà indotto a vomitare la Pietra ... Oppure s’imprigionerà il Rospo in un vaso di terracotta forato da deporre in un formicaio. Le Formi­che spolpato il Rospo lascieranno la sola Pietra Rospina insieme alle ossa.”

Insomma, certe usanze erano dure a morire ed essere cancellate e dimenticate dalla gente e dagli ambienti medico-alchemici anche di Venezia. L’Inquisizione poi, esasperando una certa fantasia contorta comune e popolare, ci mise del suo: “… Rane e Rospi sono da sempre servi e famili, spiriti alleati, compagni di Streghe e Stregoni come i Corvi, i Pipistrelli, i Serpenti, i Gatti, il Lupo e le Rane … li avvertono di eventuali pericoli, appagano i loro desideri sessuali, procacciano loro cibo e denaro … Di sabato i Rospi svolgono compiti casalinghi nelle case del Diavolo ... Infatti, in Inghilterra vengono impiccati e bruciati insieme a maghe e stregoni ... Sono animali negativi appartenenti ai culti antichi dove primeggiavano: Elementi, Acqua, Terra, Pioggia e Cielo … sembianze della Grande Madre rappresentata nuda con due Rospi at­taccati ai seni ... indispensabili amuleti, oggetti utili per la preparazione di pozioni, esseri capaci di trasmettere sensazioni e proprietà mentali ... I Rospi vengono allevati negli stagni e nelle paludi dai Novizi del Diavolo … il Rospo è l’assistente, “l’Angelo Custode rovescio delle Streghe” ... Le Streghe recitando formule incantatorie aspergono i neofiti con l'urina del Demonio raccolta da buchi osceni, e fanno segni di Croce alla rovescia con la mano sinistra ... mentre Rane e Rospi stanno assiepati insieme ad altri Spiriti Diabolici al di fuori del cerchio tracciato dal Mago per proteggersi durante l’evocazione Diabolica ...Un unguento prodotto con la saliva del Rospo rende invisibili le Streghe ... un altro a base di varie Piante e animali associati a parti organiche del Rospo è utile per volare ... Le cerimonie dei Sabba si tengono di solito in vicinanza di corsi d´acqua o di stagni dove le Streghe, pronunciando bestemmie contro Dio e alzan­do gli occhi al cielo, decapitano e mutilano Rane e Rospi vestiti di seta scarlatta, con piccoli berretti di velluto verde e minuscoli campanelli intorno al collo. Vengono quindi scuoiati e sminuzzati, gettati dentro al gran calderone, uniti ad altri strani ingredienti come viveri, resti umani, lombrichi, ragni e lumache, poi vengono deposti su un piatto ... Allora le Streghe battendo un piede inviano altri Rospi come messaggeri negli Inferi, e danzano con loro tenendoli sul palmo delle mani, partecipano insieme schiena contro schiena all’immondo girotondo “controsole” ... Vari Rospi stanno appollaiati sulle spalle del Demonio in persona … i Demoni imbandiscono Rospi come pietanza per i dannati colpevoli del peccato di gola … Le Streghe trasformate in Rospi avvelenano i nemici con un veleno denso e bianco secreto dalle ghiandole dei Rospi a cui loro sono immuni, procurano danni, guai e disgrazie, infettano, rendono storpi, procurano “fatture a morte”, e trasformano in vapori portati dal vento procurando sterilità del terreno e di tutto ciò che vanno a toccare ... Per questo tanti Nobili e Signori pagano perché vengano schiacciati tutti i Rospi e le Rane che si trovano nei dintorni dei loro palazzi e castelli ...”

Agnes Sampson consigliata da Satana disse che per provocare la morte di Re Giacomo VI era necessario: “…appendere un rospo, arrostirlo e farlo gocciolare, mettendo tali gocce dove Sua Maestà suole entrare o uscire o dove queste potrebbero cadere in testa o sul corpo di Sua Maestà e ucciderlo così che altri comandassero al suo posto e il governo fosse assunto dal Diavolo in persona”.

Nei vecchi manuali in uso dell’Inquisizione si può continuare ancora a leggere: “… Il ricettario dei filtri, degli incantesimi e dei veleni delle Streghe prevede l’estratto di Rospo: “una spugna avvelenata e tossica” ripiena di potentissimo veleno, o un Rospo imbottito di Amanita, Digitale Purpurea e Cicuta.
“Recatevi in un prato prima che il sole si levi e con un panno bianchissimo e acchiappate una Rana. La metterete in una scatoletta, nella quale avrete fatto nove buchi: poi andrete ai piedi di un albero dove vi siano grosse formiche, scaverete una fossa, vi poserete la scatola e la ricoprirete con il piede sinistro, dicendo: “Che tu cada in confusione secondo i miei desideri”. Al termine di nove giorni, alla stessa ora, tornerete a cercare la scatola: vi troverete dentro due ossi, l’uno somigliante ad una forca, l’altro ad una piccola gamba. L’osso a foggia di gamba servirà per farvi amare se toccherete con esso la persona, la forca invece a respingerla, raffreddare i bollori e litigare”.

Fra molte altre osservazioni, Plinio il Vecchio raccomandava: “… Anche soltanto la vista di un Rospo produce guai. Ed ecco come: se uno gli si pone davanti e lo guarda fissamente, esso, obbedendo al suo istinto, ricambia arditamente lo sguardo ed emette un soffio che per lui è naturale e innocuo, ma per l'uomo è dannoso alla pelle; gliela tinge infatti di un giallo così intenso che chi ne è colpito, se incontra qualcuno che non lo ha visto prima, può sembrare affetto da qualche malattia. Questo colore, dopo non molti giorni, sparisce.”

Dei terribili effetti del veleno dei Rospi era convinto nel 1500 l’abile chirurgo progressista Ambroise Paré: “Benché i rospi non abbiamo denti, tuttavia non mancano di avvelenare la parte che mordono con le loro labbra cascanti e le gengive, che sono aspre e ruvide al tatto, facendo passare il veleno attraverso i condotti della parte rosicata … Inoltre gettano veleno mediante l'urina, la bava, e vomitano sulle erbe, e specialmente sulle fragole, di cui sono molto golosi. Non ci si deve meravigliare perciò se le persone, dopo avere assorbito questo veleno, muoiono di morte istantanea.”

Athanasius Kircher aggiungeva: “Il rospo è centro d’attrazione di tutte le sostanze velenose … compie funzione disinfestante e, pur appartenendo alla zona della diabolicità, rientra nel piano provvidenziale di Dio. Perciò veniva posto sotto al letto dei malati dove si gonfia fino a scoppiare impregnato dell'aria mefitica che circonda i febbricitanti. Il Rospo aspira il veleno a distanza, in particolare quello della febbre tifoide … ma fino a un certo limite, perché poi torna a diffondere ad altri esseri il miasma accumulato; sicché occorre ucciderlo al momento giusto.”

Si favoleg­giava su Rettili striscianti che divoravano Rospi per incrementare la loro capacità d’avvelenare ... di accoppiamenti mostruosi fra Batrace e Serpi da cui nascevano Rospi con code serpentine. Ulisse Aldrovandi riferì nel 1555 che in un paese della Turingia un Rospo dalla lunga coda di Serpente era nato ad­dirittura da una donna.

“Alcuni Rospi si appostano presso l’ovulo malefico e mangiano le mosche uccise dal suo veleno. In tale maniera si accumula nella pelle del batrace il potente alcaloide della bufotenina che procura aumento dell’energia muscolare, dell’aggressività e dell’eccitazione sessuale; aumento delle capacità psichiche e sensazione di chiaroveggenza; e perdita del senso delle coordinate spazio-temporali con conseguente sensazione di volare.”

Sempre negli stessi manuali dell’Inquizione si può leggere: “Il Rospo è simbolo dei peggiori Vizi Capitali: della Lussuria con i suoi amplessi li­bidinosi e schifosamente aggressivi … dell'Accidia dal passo lento, incerto e indolente … dell'Avarizia che scava nel terreno per nascondervi i tesori … della Gola che mangia perfino la ter­ra con disgustosa avidità … dell’Ira che s’adira secernendo liquido velenoso … della Superbia che si gonfia con alterigia mostrando la sua superiorità … dell'Invidia e della Maldicenza di cui esprimono il verso rauco, sordo e inafferrabile ... Il Rospo è anche simbolo dell'Ingiustizia che è donna biancovestita piena di macchie, che tiene nella ma­no destra una spada e nella sinistra un Rospo, mentre per terra schiaccia con i piedi Tavole e Libri della Legge spezzati e la bilancia abbandonata dell’Equità ... I Rospi vanno a mordere i seni gonfi e lussuriosi delle don­ne peccatrici, s’arrampicano sulle loro cosce e penetrano nelle loro vagine, e dall’interno le divorano tutte … Vanno a portare la Tentazione e mordono la lingua libertina dei Monaci … Il Grande Tentatore ha sembianze di Bel Tenebroso, ma sulla sua schiena e fra le pieghe dei suoi abiti si nascondono e arrampicano Rospi e Serpenti insidiosi ... Nel­l'Inferno dei Dannati vengono infilati Rospi nelle bocche fameliche dei crapuloni ... Sulla cappa di Papa Clemente V il Salvatore comunica Giuda traditore nella Cena Estrema non offrendogli un boccone di pa­ne Eucaristico ma un Rospo perché dopo quel boccone: “Satana entrò in Giuda … dannandolo.”

Gli uomini del Santo Uffizio perquisivano le case degli inquisiti cercando diligentemente in ciascuna stanza se per caso vi fossero Rospi nudi o ve­stiti in livrea.
“Sputa il Rospo ! Libera la tua coscienza ! …Confessa la tua colpa mettendo fine alle tue sofferenze !” gridavano di solito i torturatori dell’Inquisizione che andavano a cercare sul volto delle presunte Streghe il marchio del Demonio che segnava “una zampa di Rospo” in un angolo bianco dell'occhio.

Venezia Serenissima e i Veneziani conoscevano bene tutte queste cose, pur essendo passati attraversi la “grande rivolta storica ed epurativa” del Cristianesimo. Venezia di certo conservava nelle sue viscere il ricordo di quei tempi e di quelle credenze che erano state, così come era consapevole dei “pericoli” provenienti dalle grandi “novità eretiche” del Nord. Non a caso s’era premurata di inventarsi la Magistratura dei Tre Savi all’Eresia ... e questo anche perché la Serenissima non desiderava affatto adeguarsi ed essere completamente succube dei dettami e delle disposizioni della Chiesa con la sua Inquisizione.
“Il cuore umano non si governa …” continuò saggiamente e in maniera lungimirante a scrivere il Nobile Molin nel suo dispaccio indirizzato al Nunzio Apostolico e agli Inquisitori, “La mente umana è sempre capace d’inventarsi percorsi nuovi e diversi che portano all’unico Cielo di sempre ... Sta alla capacità di Buon Governo di ogni Stato sapiente permettere l’espressione sana di tali sentimenti religiosi in maniera che non abbiano a nuocere al bene comune e non possano intralciare i fini politici ed economici della propria sovranità e il benessere quotidiano delle proprie genti…”

Perché Venezia ci teneva così tanto a sottolineare l’aspetto del “buon esercizio della Giustizia” ?

C’era più di un motivo … Primo di certo che la Repubblica Serenissima s’era da sempre votata ad accogliere e metabolizzare al suo interno: persone, civiltà, culture, espressioni e culti di ogni genere con le quali voleva sempre imparare a convivere in maniera rispettosa ed equidistante. 

A Venezia è sempre interessato vivere e prosperare tranquillamente insieme ad Ebrei, Persiani, Arabi, Greci, Turchi, Africani, Alemanni, Egiziani… Non aveva alcuna importanza se venivano definiti: “pagani, senza Dio, innimici della vera Fede, reprobi e Infedeli”. Ognuno poteva conservare in Laguna la propria precipuità e le proprie “certezze”… a patto che non si disturbasse gli interessi soprattutto economici della Repubblica Serenissima e le “sue convinzioni comuni”.

Esisteva poi un secondo motivo per il quale Venezia Serenissima fin da subito s’era dimostrata dubbiosa e un po’ ostica nei riguardi dell’Inquisizione e dei suoi processi. Storicamente il Doge ottenne dal Papa fin dal 1200 l’opportunità di processare in proprio e liberamente anche i casi di eresia più estrema … con l’aiuto ma non delegando e riservando quei contenuti esclusivamente all’Inquisizione di Roma di cui era estremamente sospettosa.
Venezia ha sempre voluto essere libera di decidere … Non c’erano Papa e Inquisizione che potessero provare ad impedirglielo … e i fatti le diedero ampiamente ragione.

La Serenissima del 1500, ad esempio, era venuta di recente a conoscenza di un fatto accaduto a una sorta di “Benandante” come quelli della Terra del Friuli, residente però nel Canevese Trentino. Si trattò di una storia losca e contorta che diede molto da pensare e riflettere alla Repubblica con le sue Magistrature e i sui pronunciamenti. Era emerso su in Val di Fiemme, che della Religione e della Stregoneria s’era fatta tutta una questione, un imbroglio di potere e di tasse, di guadagni e sopprusi e vendette più che di vera e propria passione per l’Ortodossia della Religione, e di vera lotta contro “il Diavolo e le sue Strigarie”.

In quel posto montano c’era stato un intero gruppo di persone coinvolte e ricapitolate sotto al nome di Giovanni delle Piatte, che indussero l’Inquisizione a celebrare ben 28 processi con 4 persone decedute durante la conseguente prigionia il cui corpo di una venne bruciato, uno sepolto fuori del cimitero, e due messi in una cassa e abbandonate alle acque vorticose del torrente Avisio. 18 donne vennero bruciate sul rogo, e altri 6 colpevoli riuscirono a sfuggire all’arresto. A Cavalese risiedevano 400 dei 2.500 abitanti che popolavano la Val di Fiemme all’inizio del 1504. Il Principe Vescovo Uldarico IV di Liechtenstein era coadiuvato dal suo Vicario o Gastaldione Vigilio Firmin che riscuoteva i tributi fiscali per lui tramite un Capitano Vescovile e gestendo anche il Tribunale dell’Inquisizione. 

Era accaduto che l’Assemblea della Comunità di Fiemme s’era appellata direttamente all’Imperatore Massimiliano d’Austria chiedendo la sospensione dell’applicazione di nuovi dazi sul commercio introdotti dal Firmin che avrebbero vessato e flesso l’economia dell’intera Valle.
Inizialmente era giunta la sentenza favorevole alla Comunità che invitava il Firmin a non importunare i valligiani sudditi, ma in seguito un Avvocato Pietro Alessandrini riuscì a ricorrere in appello al Consiglio Aulico della Comunità presieduto dallo stesso Vescovo Liechtenstein chiedendo alla Comunità un risarcimento di 3.000 Fiorini per l’offesa recata al Vicario e ribaltando così la sentenza iniziale emessa dall’Imperatore.

Della somma dei Fiorini non se ne seppe più niente, ma quel che fu certo è che a partire dall’arresto del circa quarantenne vagabondo “benandante”, guaritore e indovino Giovanni delle Piattefiglio di Mastro Leonardo d’Anterivone derivò sotto tortura una lunga lista di colpevoli che finirono processati, torturati e trucidati… Fatalità i nomi di costoro coincidevano in qualche modo (ben 23 su 28 !) o erano parenti di coloro che avevano denunciato inizialmente il Firmin all’Imperatore. A tutti vennero confiscati i beni raccogliendo la somma di 1135 Fiorini, e vennero accusati tutti di Stregoneria.

S’era detto che l’inondazione dell’Avisio dovuta alle grandi piogge con rovina di tutto il raccolto era stata provocata dal Delle Piattein combutta col Demonio. Testimoni giuravano d’averlo sentito predire lo straripamento associandolo ad altre future catastrofi imminenti. Nella casa dove aveva temporanea dimora s’erano trovate cose e oggetti compromettenti: un cristallo, delle radici strane, varie Erbe di Satana, e vari libri in Tedesco contenenti scongiuri proibiti e obbrobriose invocazioni al Demonio … tutti testi che lui dichiarò utili per la sua professione abituale di guaritore. 

Venne condannato una prima volta espellendolo dalla Valle, ma tre anni dopo venne sorpreso nella chiesa di Sant’Eliseo di Tesero durante una funzione, e per di più in possesso del solito cristallo e di un libro contenente delle ostie per la Messa. Venne subito arrestato, incarcerato e interrogato e torturato più volte e per più giorni “con ripetuti squassi di corda” nel palazzo Vescovile di Cavalese:
“Le ostie mi servivano per una ricetta contro la febbre quartina … Si dovevano scrivere sulle ostie i nomi dei Tre Re Magi, poi il malato le doveva mangiare e sarebbe guarito ... Però non si trattava di ostie consacrate, perciò non era un sacrilegio, una profanazione.” provò a dichiarare inizialmente secondo quanto riportato a verbale nel processo a suo carico. In seguito, invece, crollò del tutto e ammise davanti al Banco della Rasòn qualsiasi accusa gli presentassero:“… circa Magia, viaggi fantastici intrapresi insieme a streghe e al Diavolo sul Monte delle Sibille o di Venere, e rinnegamenti della Fede Cristiana”… Confessò di tutto e di più, compresa una lunga lista di nomi di donne attempate “colpevoli di appartenere alla sua Compagnia Dannatae di avere agito insieme a lui nelle notti delle Quattro Tempora partecipando al Sabba e al Zogo col Demonio, uccidendo animali, cannibalizzando bambini, e producendo abominevoli malefici e perfidi sortilegi.”

Da tortura venne tortura, e dalle confessioni delle donne distrutte vennero fuori nuove malefatte, nuovi rapporti anche carnali col Diavolo, e soprattutto altri nomi di persone che vennero a loro volta arrestate, torturate, e uccise bruciate con confisca dei beni … sempre secondo e applicando le vigenti Leggi Imperiali e di Santa Romana Chiesa.

Ci si chiedeva in quei giorni d’attesa di nuovi eventi a Venezia: “Erano per davvero Streghe autentiche quelle del Canavese ?”… e si venne anche a sapere di un atro caso in cui un Medico aveva minacciato un’altra donna “Herbarola e Strìa” rea d’avergli portato via i clienti con i suoi medicamenti ancestrali e naturali e la sua perizia e bravura.
Il Medico le aveva urlato in piazza: “Ti farò bruciare come Strega !”… E infatti così era per davvero accaduto. La donna era stata per davvero inquisita, arrestata, carcerata, accusata, torturata e bruciata esemplarmente sul rogo.

“Che avesse qualche significato il fatto che il Medico era da sempre amico fraterno e socio in affari con l’Inquisitore che pronunciò la sentenza di morte di quella povera donna probabilmente innocente ?”

Si disquisiva al riguardo a Venezia e in Laguna dove aleggiava un nuovo comune sentire diverso, e una sensibilità più raffinata presente soprattutto negli uomini più colti e potenti della Serenissima. Era tempo di Rinascimento delle Arti, della Cultura e del Pensiero. Si voleva perciò voltare pagina, uscire da quei miserrimi serragli mentali e da quei stereotipi superstiziosi e oscuri:
“Quindi basta con queste storie di processi, roghi e condanne a morte e al rogo per causa di qualche fola spesso inventata ! … Certe pensate su cui si ostina l’Ecclesia e l’Inquisizione sono retaggi ormai superati … Servirebbe oculatezza e prudenza, non infondata avventatezza …” discuteva un Nobile Barbaro in “bocca di Piazza” prima di entrare nel grande consesso del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale.

“Basta con questa misura giusta buona solo per accendere la fiamma purificatrice !” gli fece eco perplesso un altro Nobile Soranzo. “Per troppe volte dietro a questi fatti e ingiuste accuse di Magia, Sortilegio e Strigaria si nascondono storie di ruberie, malocchi, vendette, guasti economici, prevaricazioni e miserie.”
“Servirebbe uscirne in maniera illuminata” aggiunse un terzo Nobile ugualmente convocato a Palazzo Ducale:“… Johann Wier Medico del Brabante autore del “De lamiis” ritiene che le Streghe siano per lo più povere donne anziane e semplici di campagna … Non sono vittime e strumenti diretti dal Demonio, ma solo donne ignoranti, disturbate, male alimentate, deliranti e affette da Melancolia ... Non è Satana Principe dell’inganno e delle burle in persona a illuderle facendo loro credere di volare e di partecipare ai Sabba … Il medico suggerisce di non bruciarle ma di curarle con l’Elleboro ossia il rimedio utilizzato per i pazzi. ”

“Vedi ! Serve grande prudenza … Il Santo Uffizio è aguerrito e potente … Ma Venezia saprà esserlo molto di più …”
In conclusione: quella volta Venezia Serenissima non si pronunciò affatto alla maniera in cui molti si sarebbero attesi. Niente roghi in Piazza San Marco … Sarebbe bastato un cenno silenzioso del capo o della mano, un assenso convinto, un niente … e si sarebbe completata, celebrata e messa in scena l’ennesima solenne tragedia. La potentissima e feroce macchina dell’Inquisizione Veneziana si sarebbe messa in moto esternando tutta la sua spettacolare spietatezza.
Invece per fortuna non accadde ... Quelli uomini elencati avevano sì: abiurato, s’erano ribatezzati, predicato pericolose eresie, venduto, nascosto e bruciato libri. E’ vero ! … Gli spioni della Serenissima avevano riferito bene della posizione equivoca “di quello che cuciva scarpe a Ferrara”, “di quanti erano stati ospitati e nascosti a Ferrara, Padova e Rovigo”, dell’ “enigmatico personaggio Tiziano: reprobo, apostata ed oscuro evangelizzatore perverso” ... e “circa le riunioni in Contrada dei Santi Apostoli a Venezia.”… C’erano a disposizione prove più che sufficienti per avviare l’iter processuale e giungere a sentenza e condanna.

La Santa Inquisizione aveva infatti tuonato fortemente al riguardo in Senato e nel Maggior Consiglio: “E’ tempo che a Venezia si agisca !” aveva concluso con veemenza il suo discorso l’inviato del Papa e dell’Inquisizione Romana.

In quella situazione Venezia si dimostrò: “illuminata e lucida”…  e decise di “lasciare larghe le proprie maglie di Giustizia”: richiamò, rimproverò, mise in giro voci di minaccia e condanne esemplari … ma non fece nulla di concreto. Niente retate che finivano inevitabilmente in processi, torture e roghi ... Permise a tutti gli accusati di scappareliberamente altrove: “… come formiche impazzite in fuga da un Formicaio calpestato”… Infatti tutti andarono a rifugiarsi soprattutto all’estero, in Moravia, Austria, Polonia o perfino in Egitto, dove ottennero quasi tutti salva la vita oltre che la libertà.

“Non si accenderanno roghi a Venezia ! … Venezia sa anche esercitare Giustizia.” ribadì ancora una volta se ce ne fosse stato bisogno il Nobile Barbaro seduto“in boca di Piazza ... nel brolo di San Marco”.


"UN ALCHIMISTA STRAMPALATO A VENEZIA NEL 1590."

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n°110

UN ALCHIMISTA STRAMPALATO A VENEZIA NEL 1590.

Il nome del personaggio probabilmente vi dirà ben poco come è successo anche a me, ma è stato protagonista di vicende curiose nella Venezia Serenissima di fine 1500. Si chiamava precisamente: Mamugna ossia Marco Bragadin.
A Venezia per coincidenza storica, come altrove, in quel tempo c’era una grande fame di cercare e scoprire ogni tipo di “Verità”, perciò il Mamugna ebbe buon gioco e riuscì con estrema facilità a infilarsi fra le file della Nobiltà Veneziana che contava realizzando i suoi disegni.

Marco Bragadin era nato probabilmente a Cipro circa nel 1545 da Antonio Mamugna o Mamugnà, ma nel 1570 fuggì con la famiglia come molti altri Cristiani dall’isola conquistata dagli Ottomani rifugiandosi a Venezia. Qui in Laguna ebbe la bella pensata di fingersi e impersonare il fatto d’essere figlio illegittimo del famoso Nobile e Funzionario militare Marco Antonio Bragadin ucciso dai Turchi durante l'assedio di Famagosta.
A Venezia dove raccontò d’aver incontrato Hieronymus Scoto (famoso prestigiatore e chiromante di quegli anni), e di aver appreso da lui i segreti dell’Alchimia e i trucchi per produrre l'oro, si definiva: Veneziano e Alchimista
Nel 1574 secondo le Cronache scappò “dall’inclita città di Vinegia” con del denaro preso a prestito che non restituì mai, e riapparve a Firenze abusando dell’ospitalità dei Malespini, dove divenne amico di Bianca Capello futura moglie del Granduca Francesco. Si dice che in quegli anni il Mamugna arrivò a spendere a Firenze l'elevata cifra di 40.000 Scudi. 
A Bianca Cappello promise di guarirla dalla sterilità tramite la “Pietra Filosofale” che si riteneva capace di risanare ogni tipo di corruzione della Materia.
Secondo la tradizione Alchemica, infatti, la Pietra Filosofale Rossa possedeva il potere di trasformare i vili metalli in Oro solo toccandoli, mentre la Pietra Filosofale  Bianca riusciva a trasformare i vili metalli in autentico Argento. Alcuni spiegavano che il nuovo elemento prodotto non doveva per forza essere solido, ma poteva anche essere polvere rossa molto densa o materiale giallastro simile all'Ambra. Oltre a questo, si era anche certi che la Pietra Filosofale possedeva diverse proprietà straordinarie: era “Elisir di Lunga Vita” che donava immortalità; era efficace rimedio universale per qualsiasi malattia; rendeva “Onniscienti”ossia capaci di conoscere con precisione il passato, il futuro, e perfino di discernere il Bene e il Male.
Bianca Capello lo raccomandò al Cardinal Giulio Antonio Santori, che a sua volta parlò di lui al Papa Gregorio XIII che lo volle conoscere. Lo pseudo Bragadin-Mamugna quindi non perse l’occasione e si trasferì subito a Roma soprattutto per evitare i creditori Fiorentini.

A Roma Mamugna divenne per opportunità Frate Cappuccino ricevendo gli Ordini Minori e anche uno degli Ordini Superiori ossia il Suddiaconato, e visse nella Città Eterna per diversi anni ottenendo molti finanziamenti da diversi potenti Ecclesiastici creduloni (Papa Sisto V compresoorgogliosissimo del suo tesoro accumulato a Castel Sant’Angelo)

Nel 1588 però, abbandonò la vita da Frate senza permesso e iniziò a vagabondare per l’Europa: viaggiò fino a Ginevra, in Inghilterra, nelle Fiandre e in Francia dove si spacciò per fratello della Sultana Cecilia Baffo riuscendo ad imbrogliare molta gente. Qualche anno dopo provò a rientrare in Italia, ma qui incappò nelle maglie strette delle investigazioni della Santa Inquisizione che lo stava braccando con l’imputazione di “Monaco rinnegato”. 

S’era stabilito anonimamente a Lovere sul Lago d'Iseo, ma in una notte del luglio 1589 la sua casa venne circondata e assaltata dai soldati del Bargello di Bergamo inviati dall’ Inquisizione per arrestarlo. Mamunia era furbo, non affatto sprovveduto, nè privo d’iniziativa, perciò saltò giù da una finestra e riuscì a fuggire dal paese andandosi a rifugiare prima a Torbiatoe poi a Brescia dove spese moltissimo per vivere in sicurezza protetto da diverse persone.

Anche a Brescia Mamunia seguì un tenore di vita splendido spendendo e scialacquando alla grande, e attirando l’attenzione di molti per il fatto che diceva di possedere il segreto "per cavare l'Anima dell'oro" dal Mercurio … e di saperlo moltiplicare traendone una fine polvere d’Oro potabile perfetto che era anche medica”.

Definiva la sua “Arte” come: “Grazia particolare piovutagli dal Cielo”,e ogni tanto dava dimostrazioni delle sue capacità offrendo a piccole cerchie fidate la possibilità di controllarla. Si diceva in giro che cuoceva in un tegame e in un apposito fornello del Mercurio aggiungendovi una sua polvere priva di valore simile alla cera, e che alla fine presentava un impasto che lasciava analizzare dai presenti.

Nel frattempo Mamunia cercava di sfuggire all’Inquisizione affidandosi a conoscenze e amicizie influenti come il condottiero Alfonso Piccolomini e il Duca di Mantova Vincenzo I° Gonzaga che gli offrì 25.000 Scudi e andò a trovarlo affidandogli una grande quantità d’Oro per moltiplicarla.

Fra i suoi estimatori c’era anche Giacomo Alvise Cornaro da Padova, nipote di Alvise Cornaro, e il Generale Veneziano Marcantonio MartinengoConte di Villachiara che informarono la Serenissima circa le doti di quel personaggio: “Alchimista un po’ speciale”.
Incuriositi e attratti da quelle doti particolari nonché utili, alcuni Nobili di Venezia come Nicolò Dolfin e Giacomo Contarini appoggiarono subito Mamunia inducendo la Serenissima a invitarlo in Laguna. Il 30 ottobre, infatti, il Consiglio dei Dieci mise a disposizione dell’Alchimista uno speciale salvacondotto, e il 20 novembre seguente Mamunia partì da Brescia sotto scorta militare entrando a Venezia il 26 dello stesso mese.

A Venezia Mamunia poteva considerarsi finalmente al sicuro dalle mire dell’Inquisizione.

Nella città lagunare il Governo della Repubblica gli mise a disposizione il palazzo Dandolo affacciato sul Canale della Giudecca, e gli permise di vivere lussuosamente circondato da numerosi estimatori e da una folla di servitori. Gli amici raccontavano che a casa di Mamunia: “… si potevano notare molti oggetti d'Argento e Oro, sacchetti di monete pregiate, e alquante lastre d'oro alte un grosso ditto et assai longhe".
Un successone insomma ! … tanto cheGiovanni Bonifacio raccontava e scriveva ai suoi familiari: "Molti Homini Honorati lo seguivano corteggiandolo et quasi adorandolo con la speranza che pagasse i loro debiti, e chiamandolo: Illustrissimo".

La fama di Mamunia crebbe a Venezia e si diffuse anche oltre, tanto che perfino a Costantinopoli seguivano le sue vicende con attenzione.
Giungendo a Venezia Mamunia aveva promesso di lavorare: “… per il bene del Doge suo Principe Naturale, e della sua Serenissima Repubblica volendo tentare d’arricchirla in misura mai vista”,e per provare la sua veridicità depositò in Zecca la sua polvere misteriosa e un documento con la ricetta segreta per ottenere l’Oro.
Piccolo e tarchiato, di pelle scura, occhi neri e capelli corvini, Mamunia portava baffi e pizzetto e sapeva suggestionare ampiamente coloro che lo avvicinavano.

Venezia era ricca, ma c’era sempre un ingente debito pubblico gravato da 700.000 ducati d’interesse annui da sanare dovuto alle continue campagne e necessità di guerra … Inoltre i Veneziani erano persone di solito pratiche e concrete, perciò non andarono molto per le lunghe con la faccenda di Mamunia: fecero analizzare per ben due volte il suo operato dagli Ufficiali della Zecca di Venezia che dovettero riconoscere la prima volta che il metallo prodotto da Mamunia era una lega di un quarto d’Argento e tre quarti d’Oro, e la seconda volta che si trattava, invece, di composto di un terzo d’Argento e Rame con due terzi di autentico Oro.

Raccontano le Cronache Veneziane del tempo: “… (Mamunia) presentò in Consiglio di Dieci una scrittura et un’ampolla di certa polve con la quale diceva poter far cinque migliona d’oro alla Signoria et che però fusse posta in deposito in Cecca; subito fu essaudito, et fatta l’esperienza d’un granello di essa polve si vide riuscir in una verga d’oro di 25 o 30 scudi, onde fu posto in uno scrigno ferrato, con molte cirimonie, concedendogli anco a lui una chiave, onde pochi furono che non gli prestassero compita  credenza…”

Il Senato della Serenissima allora decise di non perdere ulteriore tempo, e in dicembre dello stesso anno sollecitò Mamunia a iniziare la sua produzione trasformativa in grande stile. Mamunia cercò di guadagnare tempo, e confermò le sue doti anche durante una dimostrazione a Palazzo Ducale eseguita la sera del 6 gennaio 1590 alla presenza di molti Nobili e dello stesso Doge Pasquale Cicogna. Il Governo della Repubblica allora lo spinse ad iniziare immediatamente il suo lavoro miracoloso … ma l’Oro Nuovo non arrivò mai, anzi i Veneziani si accorsero che l'Alchimista intascava l'Oro senza dare nulla in cambio.

Nicolò Contarini scrisse circa il Mamugna: “Privo di reputazione e danari, convenne pensar alla partita, non avendo pur un soldo cavato dagl’abitanti di Venezia, non così facili, nel dar il loro, come gl’altri; ma, per lasciar qualche openione di lui, mandò al Senato un vaso di vetro con polve granita, chiamata “di proiezzione” o “de’ filosofi”, nella qual affermava contenersi l’Anima vivificativa dell’oro, con la qual se ne poteva produrre immensa quantità. Il dono molti volevano che, come indegno d’esser accettato dalla gravità del Senato, fusse gettato in mare; ma pur, restando certe reliquie de’creduli … li quali ancora constantemente asserivano quella polve esser quel vero mercurio nel quale tanto lungamente s’erano affaticati li professori di simil studio, non si puoté far di meno, poiché niente ciò montava, di non riponerlo, ma come cosa negletta, in una cassa in Zecca. Dove, doppo dieci anni, rimaneva in assoluta oblivione, quando comparve in Collegio il segretario di Francia et, in nome del suo re, ricercò che di questa gli fusse data certa porzione per farne esperienza: il che fugli subitamente concesso, non essendo né la parte né il tutto in minimo conto stimato; né, doppo, quello che se ne facesse quel re mai ne fu detto, né meno procurato sapere …”

In giro per Venezia s’iniziò a canzonarlo ironicamente: a Carnevale i giovani Nobili lo schernivano con alambicchi, soffietti e arnesi da Gabinetto Alchemico gridandogli di trasformare un soldo per tre lire, e poi come accadeva di solito si passò dalle parole alle minacce da parte dei suoi creditori.

Il popolino invidioso e irriverente di Venezia lo detestava. Francesco Molin o Molinoo Dal Molin nel suo “Compendio” scriveva: “… D’una cosa che osservai stupì, ch’il popolo minuto l’andava maledicendo, et li fanciulli gridavano che meritava mille forche et che sarebbe stato impicato con mille schernevoli canzoni, non lo vedendo volentieri con tutta la fama del suo oro.” 
Il popolare e stimato Frate Paolo Sarpi col suo entourage erano scetticissimi nei riguardi di Mamunia-Bragadin: Micanzio, infatti, scrisse nel suo: “Vita del Padre Paolo” pubblicato a Leida nel 1646: “…Per tre anni s'immerse tutto nelle speculazioni delle cose naturali. E per perfezzionare la cognizione appresa, anco passò ad operare di sua mano nelle trasmutazioni de' metalli, nelle distillazioni di tutte le sorti ... Stette più mesi in Venezia, dopo peregrinata l'Italia e delusi tanti Prelati e Principi, quell'insigne impostore sopranominato Mamugna, creduto far oro, che fece benissimo intendere il senso di Diogene, quando disse che non segregava dal volgo n'anco i re. Perché nella credenza o comedia non solo entrò il volgo con tal eccesso, che chiamava miscredenti quelli che negavano che colui facesse oro, ma cardinali, prencipi, il papa stesso Sisto V, sí gran prencipe e di tanto sapere et esperienza, che se l'impostura non si scopriva, aveva dati indizii di muover controversia a Venezia, ove era costui, per punto d'immunità o giurisdizzione ecclesiastica … Il Padre (Paolo Sarpi) sempre si burlò, et ad amici grandi, che volevano condurlo a fargli veder la prova, sempre rispose che l'avrebbono poi stimato pazzo, non che leggiero…”

Alla fine, siccome si dimostrò che Mamunia non era in grado di "creare" le quantità di moneta che gli chiedeva la Repubblica, s’iniziò a formulare l’ipotesi di riconoscerlo come truffatore.
Mamunia alias Marco Bragadin fuggì allora in gran segreto da Venezia, e alla fine di marzo 1590 andò a nascondersi prima nella Villa dei Nobili Cornaro a Codevigo, e poi in un loro palazzo a Padova.
La Serenissima riconoscendosi gabbata e aggirata, stranamente non fece nulla per impedire la fuga del Mamunia ... forse si vergognava della figuraccia che stava facendo sul palcoscenico politico mondiale di quegli anni.

In agosto Mamunia accompagnato solo da due servi lasciò anche Padova fingendo di uscire per una normale cavalcata, e passando per Bassano e poi per Innsbruckraggiunse Landshut in Baviera dove si presentò a palazzo del suo nuovo estimatore: il Duca Guglielmo V di Wittelsbach detto il Pio, Duca di Baviera dal 1579 al 1597 che da tempo seguiva le sue gesta informato dal suo agente veneziano Alessandro Crispo.

Dovete sapere che il Duca Guglielmo V era figlio del Duca Alberto V e di Anna d'Austria, abitava come Principe Ereditario nell'antico Castello di Trausnitz a Landshut, ed era sposato fin dal 1568 con Renata di Lorena, figlia di Francesco I di Lorena da cui ebbe ben 7 figli e 3 figlie.
Guglielmo V fu abile nella politica di governo, e amava circondarsi di personaggi esperti e competenti: come, ad esempio, il giurista italiano Andrea Fachinei da Forlì. Assicurò fin dal 1583 l'Arcivescovado di Colonia al fratello Ernesto, dignità che rimase di famiglia per i successivi due secoli, mentre i figli Filippo Guglielmo e Ferdinando divennero rispettivamente Vescovo di Ratisbona e Cardinale, e Arcivescovo di Colonia.

Avendo ricevuto un’educazione presso i Gesuiti della Compagnia di Gesù ai quali era legatissimo, Duca Guglielmo venne soprannome “il Pio” proprio perché ritenuto fervente Cattolico: partecipava anche più volte al giorno alla Messa, pregava di continuo, si dedicava alla contemplazione, alla lettura devozionale, e partecipava sovente a pubbliche funzioni religiose, processioni e pellegrinaggi. Assiduo sostenitore della Controriforma, si schierò apertamente a favore del Clero Bavarese, fondò scuole e collegi Cattolici, nuovi Monasteri e Conventi per gli Ordini Religiosi privilegiando soprattutto: Gesuiti e Cappuccini, e le Orsoline.
Un bel bigottone insomma, tanto che durante il suo regno chi non si professava Cattolico fu costretto ad abbandonare la Baviera, e per sostenere l’opera della Chiesa finì per indebitarsi fin sull'orlo della bancarotta.

Ecco perché il Duca aveva riposto la sua fiducia in Bragadin-Mamunia !

La figura dell'Alchimista nella mentalità comune come in quella del Duca era sinonimo di persona con elevato livello di moralità, non avido né esoso, condizioni che avrebbero impedito l’efficacia e la riuscita della “Nobile Opera della Trasformazione”.

“La Quintessenza del Lapis Philosophorum risulterà dalla sintesi delle polarità contrapposte del Mercurio associato all'aspetto passivo e lunare dell'Etere, e dello Zolfo associato al lato attivo e solare dello Spirito … La Natura vitalizzata dalle Idee è intimamente popolata da energie e forze arcane celate nell'oscurità della Materia che va sollecitata e risvegliata ...”

Inizialmente tutto sembrò filare a meraviglia, tanto che Mamunia si guadagnò la fiducia completa del Duca riuscendo a curargli con speciali decotti di erbe “Made in Mamunia” il suo ricorrente mal di testa incoercibile.
Da vari luoghi si fece procurare costosi macchinari, alambicchi, sostanze chimiche e minerali di ogni sorta "per una grande et bona Filosofia"che intendeva introdurre in Baviera. Il Duca foraggiò ampiamente Mamunia di contributi e gli procurò anche un seguito di circa quaranta persone fatte venire appositamente da Padova assieme all’amante di Mamunia Laura Canova vedova Vilmerca.
A tal proposito Mamugna cercò in ogni maniera di approfittare dell’influenza del Duca e del suo emissario presso il Papa di Roma: Monsignor Minuccio dei Minucci per cercare di ottenere la dispensa dal Sacerdozio e dai vincoli dei voti Religiosi per potersi poi sposare con la sua donna. Ma non riuscì nell’intento.

L'agente del Duca a Roma di ritorno in Germania … fatalità ... passò per Venezia, Padova e Firenze raccogliendo preziose informazioni sul favorito del Duca di Baviera che giunsero puntualmente agli amici e consiglieri Gesuiti del Duca.
Mamunia aveva promesso subito al Duca di produrgli grandi quantità d’oro in modo da poter cancellare i suoi ingenti debiti.
“Solve et coagula” era il motto degli Alchimisti e quindi anche di Mamunia che si adoperò non poco utilizzando lo speciale forno della digestione alchemica chiamato Athanor dove si stemperava l'Azoth etereo del Mercurio, sinonimo della Vita e dell'Umido, che poi doveva essere permeato degli Influssi Ignei delle Stelle producendo infine la Pietra Filosofale. Si provava a disciogliere e scomporre i diversi Elementi Materiali nella loro Sostanza Originaria ossia l’Acqua Remota considerata: “Linfa vitale dell'Anima del mondo”, per poi ricomporli nuovamente in una sintesi superiore.

La pazienza del Duca nei riguardi di Mamunia terminò dopo molta esitazione e attese con l’arresto e la condanna a morte per decapitazione che riuscì al terzo tentativo del boia il 26 Aprile 1591 a Monaco di Baviera. 
Nell’occasione si provvide ad arrestare anche tutto il seguito di Mamunia, e fu questa la mossa che indusse Mamunia a confessare la sua colpa nell’estremo tentativo di salvare quei servitori di certo innocenti seppure interessati e conniventi.

Diversi Confessori della Compagnia di Gesù cappeggiati dal celebre Gregorio di Valenza fatto giungere appositamente a Monaco, interrogarono e ascoltarono Mamunia-Bragadin che si mostrò molto pentito, collaborante e desideroso della Misericordia, della Grazia e del Perdono Celeste.
Mamunia confessò ampiamente ogni cosa assumendosi ogni responsabilità di tutti i suoi raggiri: Si scrisse fra l’altro a verbale: "… che non ha mai saputo fare niente in exanimar l'oro, né fare proietione in oro né simil cosa del mondo, e che tutto erano inganni e destrezza di mano".
Ottenuto questo a Mamunia venne risparmiata la tortura, e il suo numeroso seguito venne liberato e spedito di nuovo a Padova cacciandolo da Monaco di Baviera.

Alla fine Mamunia-Bragadin venne condannato alla Forca prevista di solito per crimini come i suoi, ma la benevolenza finale del Duca fece commutare la pena in una più onorevole decapitazione.

Il 25 aprile 1591 Mamunia venne ufficialmente privato e sciolto dai Vincoli e dai Voti dell’Ordine Religioso a cui apparteneva ancora, e il giorno dopo venne decapitato al terzo tentativo di spada nella Piazza del Mercato del Vinodavanti a un'immensa folla di curiosi accorsi da ogni parte.
Sul luogo dell'esecuzione venne eretta una Forca dipinta di Rosso dalla quale pendevano corde di falso Oro per simboleggiare la colpa per la quale Mamunia era stato condannato.

Mamunia amava la buona compagnia, i banchetti e le feste, il gioco, ed era estimatore di cavalli e cani di razza. Possedeva due cani Alani neri con i quali si mostrava in pubblico, che secondo tradizione vennero giustiziati con lui perchè ritenuti emissari e figura del Diavolo e collaboratori del Mamunia nei suoi inganni e magie.

Il suo corpo andò perduto o disperso … mentre nel 1597 Guglielmo V abdicò in favore del figlio Massimiliano I e si ritirò in un Monastero morendo nel 1626 facendosi seppellire in San Michele di Monaco.

Qualcuno dice che Mamunia sapeva per davvero trasformare i metalli in Oro … e che il Duca lo fece uccidere dopo essersi appropriato dei suoi segreti … ma di cose in giro se ne dicono tante.

“DO SANTE MARIE ... UNA DE FASA ALL’ALTRA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 111.

“DO SANTE MARIE ... UNA DE FASA ALL’ALTRA.”

A Venezia ovviamente … nel Sestiere di Cannaregio per la precisione. In quella che è stata ed è ancora in parte la popolosa Contrada di San Canciàn e dei Birri Grande e Piccolo verso le Fondamente Nove: zona un tempo di cortigiane, prostitute, Filatoi, casupole di Tessitori Lucchesi, straccivendoli Buranelli, e di mulini e pestrini attraversata forse in antico da un canale detto Biria, come racconta la cronaca del Trevisan: “…S'ingolfava una sacca con una velma et un canale detto Biria, che forma quella parte che oggidì Birri si chiama”.

Lì secondo le vecchie Cronache abitava: Anzola Spadera che si faceva pagare 6 scudi “a bòtta”, e Catarinella Furlana a 8 scudi come Casandra, mentre Catarina Petenera si prestava per soli 2 scudi come Orsetta e Marietta Grecaper 4, e Moresina per 1 scudo solo “perché se disèa esser vecia e sfatta come una strìa”.

Le due Sante Marie di cui vi vado dicendo erano due chiese tipicamente Veneziane: Santa Maria dei Miracoli che esiste ancora oggi in tutta la sua suggestiva e marmorea bellezza … e Santa Maria Nuova: più spoglia, essenziale, modesta … e spazzata via, cancellata per sempre, sbriciolata dal solito Napoleone devastatore.
In mezzo a dividerle c’era solo un canale, uno dei tanti della labirintica quanto bagnata nostra Venezia … Si trovavano perciò proprio: “una de fàsa all’altra”: una di fronte all’altra, faccia a faccia, come si dice alla veneziana, tanto che bastava superare un ponte per passare dall’una all’altra.

Servivano a Venezia due chiese così vicine ?

Credo che questo sia stato l’ultimo dei problemi dei Veneziani di quei tempi, anzi, pensò non abbiamo mai considerato questa eventualità: per i Veneziani ogni chiesa era indispensabile, unica e insostituibile. Esprimevano sensazioni, modi, devozioni, bisogni diversi che obbligavano ogni volta a costruire, fare e disfare, abbellire, decorare, arricchire senza mai stancarsi ... e senza smettere di spendere. Tutti ! Dal più ricco e Nobile, al più Povero e sfatto e privo di risorse.
Venezia è stata per secoli così … Noi a confronto con i Veneziani di ieri siamo degli zotici dalla vista e dalla sensibilità corta, e dal portafoglio rigorosamente chiuso per un certo genere di cose.

Sono cambiati i tempi e i modi … c’è di certo da dire.

Tornando alle due chiese … Nella zona opposta ai Birri di San Canzian, verso la “zona dei Miracoli”, abitavano diversi Nobili come i Boldù-Bembosulla cui facciata di palazzo Gianmatteo Bembo pose in nicchia l’enigmatica statua in pietra d'Istria dal probabile significato esoterico-alchemico rappresentante l’ “Uomo barbogio e peloso” da qualcuno considerata la raffigurazione del Tempo che sostiene il disco del Sole o il dio Saturno. Poco distante abitavano anche i Nobili Cappello Mercanti di Seta, i meno nobili Grifalconi, alcuni rami secondari dei Pisani, e soprattutto i Van Axelricchi mercanti di Malines divenuti in seguito Patrizi Veneti, i Soranzo, i Sanudoe più di tutti gli Amadi: veri e propri protagonisti Nobili delle vicende di quella Contrada piena di Sante Marie, e proprietari di molte ricchezze oltre che di case e palazzi che arrivavano fino alla Contrada di Santa Marina. 

Gli Amadi non erano Nobili qualsiasi, lo erano per davvero ed lo erano di classe superiore. Giunti a Venezia e in Laguna a più riprese provenendo dalla Baviera, da Cremona e da Lucca, avevano perfino ospitato l’Imperatore Federico III con tutto il suo numeroso seguito nella loro Casa-Corte-Palazzo in Contrada di San Giovanni Crisostomo.

Senza tirarla tanto per le lunghe perdendomi in un immenso pistolotto circa questo argomento storico e quest’angolo di Venezia ricchissimo e vivissimo, vi racconto solo tre flash, tre lampi curiosi intercorsi e accaduti in secoli diversi riguardanti queste due Sante Marie così diverse ma vicine.

Primo atto: si era nel 1408 quando Francesco Amadi commissionò a Mastro Nicolò di Pietro per la spesa di lire 14,35, ossia meno di 2 ducati, il dipinto di una “Madonna con Bambino” per il proprio palazzo di famiglia. Qualcuno afferma che originariamente forse si trattava di un trittico dipinto con ai lati San Giacomo Apostolo e Sant’Antonio Abate andati in seguito perduti. L’Amadi neanche vagamente immaginava quale fenomeno avrebbe in seguito scatenato quel semplice dipinto. Qualche decennio dopo, infatti, Angelo Amadi pensò di collocare l’icona come Capitello illuminato di notte nella pubblica Corte Nuova, proprio all’esterno e di fronte alla residenza della famiglia Amadi.

Fu in quel momento che nel 1480 iniziò un’eclatante lista di favolosi fenomeni che catalizzarono gran parte dei Veneziani gridando al Miracolo, anzi: ai numerosissimi Miracoli che accadevano in serie.

Si legge ancora oggi nell’antica Cronaca dei Nobili Amadi:
“… item per inanzi Ser Lazaro da Biolco da Milano, ne dè per la fabrica in due fiate ducati mille, et questo perché stando a Milano infermo di flusso epatico et abbandonato da medici, essendogli scritto da un suo fattor de qui dei segni et miracoli che faceva questa gloriosa immagine, fece voto et risanossi perfettamente, et doppo lui in persona venne all’altare a contribuire i ditti danari …”

E’ questo uno dei tanti casi-episodi accaduti nella Contrada chiamata dei Miracoli, perché ne avvennero a raffica molti altri: “… un Chierico chiamato Pre’Giovanni da Napoli, Maistro dei putti di Messer Giacomo Bembo da San Moisè, lavandosi alla Giudeca né sapendo notar, andò nel fondo del canale et vi stette per spacio di mezz’hora … et raccomandandosi alla Madonna dei Miracoli venne miracolosamente di sopra et fu fatto salvo …” era luglio 1480.

“Marco da Ragusi, qual sta a San Provolo, fu ferito nella testa di un’arguola di barca da Chiozza con una gran piaga et fu tagliato cinque fiate et per tre medici fu dato per morto. Ma lui s’avvotò alla Madonna dei Miracoli et fatto voto gli uscì dalle orecchie et dal naso molto sangue et fu fatto sano …” era agosto 1480.

“Una vergine di nobilissima casa, che per suo honor si tace, cadeva di mal caduco et fatto voto alla Madonna dei Miracoli è rissanata et ha portato due veste di broccato d’oro alessandrine a l’altare di agosto 1480 …”

“Una fanciulla di anni 4, figliuola di Maistro Marco dipintore da Parma, in Cassellaria a Santa Maria Formosa, adì 30 agosto ingiottì un ago longo da Milano. Vedendo questo il padre e la madre molto mesti et aflitti la raccomandarono alla Madonna dei Miracoli et subito la fanciulla fece l’ago per disotto et hanno portato la tavola con l’ago e col miracolo …”

“… una barca di saponi et altre mercantie qual andava alle gallie di Barutti(Beirut),Capitano Messer Francesco Zorzi, trovandosi in colfo di Trieste con grandissima fortuna (burrasca)et havendo gittato in mare molti sacchi di saponi et altre robbe, seccando l’acqua a brazzia né potendo supplire alla furia di quella, s’avvotorno alla Madonna dei Miracoli et subito bonazzò et hanno portato la tavola col miracolo et divotamente sono venuti all’altare con torze grande, adì 5 ottobre 1480 …”

Cosa analoga accadde ad Andrea da Sebenico et Marco da Zara presso Umago alla Vigilia di Natale … e a Patron Zan di Luna da Parenzo in una peota nel golfo di Trieste … come avvenne alla Gallia di Barbaria, Capettanio Messer Michiel Salomon… e a Zuanne d’Antonio:“… qual sta alla Giudecca patron di navilio venendo d’Istria.”

La lista snocciolata episodio dopo episodio dalla Cronaca Amadi è lunghissima: un fanciullo della Contrada di San Zuanne Novo col “mal cadùco” che gli capitava 5 volte al giorno … il Priore Bernardino dei Frati Crocecchieri “abbandonato ormai a morte” portato guarito a “satisfàr el voto” con tutti i Frati suoi Confratelli intorno esultanti … Donna Antonia moglie di Ser Alvise Spiera “liberata da mal di petto mortale” … come Donna Margarita vedova della Contrà di Santi Apostoli con ormai tre piaghe sul seno sinistro … e anche Buona, fantesca di Madonna Daria Longo a San Domenico “col mal di cancro nel petto arrivata quasi in ultimo” … oppure: “… la figliolina di 6 anni di Donna Franceschina, qual sta a San Vido in Corte Forno, era stata orba anni due, fu votata … e gli restituì la luce et vede perfettamente, appresentò a l’altare due occhi d’argento in dono, adì 22 ottobre 1480 …”

Fatto simile accadde anche a Zuan di Zorzi Filacanevo da Venezia “… che rimase sano degli occhi”… e anche a Ruosa di Alegretto Fabbro in San Zane Novo: “che cadde in fuoco et haveva un occhio serrato qual non poteva aprire …” e “Francesco Berettèr, essendo a Figaruolo, gli fu fatto un veretton et passogli l’occhio sinistro da una banda all’altra … e fece voto … et è guarito et sano, a 25 giugno 1482.”

Un “miracolo” di guarigione accadde anche a “Gasparo Cober Thedesco, qual sta con Mastro Zorzi Pistor a San Salvador …” caduto giù da un tetto dove sistemava e “conzava i coppi et si ruppe tutte due le gambe, et steva molto male … et fu liberato … et ha portato due gambe di cera all’altare, adì ottobre 1480.”… e guarito fu anche: “Pietro Ongaro Mercante, ebbe tre peste a Buda in Ongaria, si raccomandò a questa gloriosa Madonna dei Miracoli et subito fu liberato adì agosto et ha portato la sua statua dal naturale.”… cosa che accadde anche a “un bossoler a San Bartolomio, gli venne la peste alla coscia con grandissimo dolore, qual fece voto … et fu sanato dalla peste. 1485.” “et anco un altro che non ha scritto nome, ritrovatosi in gran fatica et angustia, fece voto alla Madonna dei Miracoli, et ebbe la gratia che dimandava, qual ha portato un cirio di cera bianca che pesa libbre 55, 1481.”… e pure a “Cosmo, famiglio all’Osteria del Saracino, fu assaltato et ferito nella golla et intaccata la gargata … et è sano e salvo.”… e anche: “Antonio Negro da Venezia, essendo a Ferrara, fu ferito da tre verrettoni … uno in fronte, il secondo nel petto, il terzo gli passò la terga e il braccio … fece voto … et fu liberato adì 3 genaro 1483.”

Potrei andare avanti a citare a lungo … I Nobili Amadi esaltati da tutta quella straordinarietà cercarono in un certo senso di mantenerne la paternità e la guida gestendo anche gli effetti economici di quel portento “dovùo alla Madonna dei nostri avoli messa in cantòn …”.

A conclusione e coronamento di quel grande epifenomeno Veneziano confluirono presso gli Amadi ben più di 30.000 ducati di donazioni con i quali si comperò un terreno e si avviò la costruzione di una monumentale chiesa e convento commissionandola aPietro Lombardo con figli e bottega. Ne venne fuori quel capolavoro a marmi policromi, navata con volta a botte compartita in cinquanta cassettoni decorati con volti di Profeti e Patriarchi, scala che sale l'altare maggiore completamente decorato da statue di Tullio Lombardo, Alessandro Vittoria e Nicolò di Pietro che possiamo vedere e ammirare ancora oggi nel Campo di Santa Maria dei Miracoli.

Procura quasi tenerezza rileggere la descrizione storica con cui la Cronaca degli Amadi racconta di : “Angelo Amadi che fu figliol di Messer Giovanni …”  mentre cala entusiasta nelle fondazioni della nuova chiesa il 2 maggio 1481 alcune medaglie di bronzo di famiglia con stemmi e blasoni del Casato: “…dentro i pilastri e il cantòn di pietra viva sul rielo della nuova gesia …” per consegnare ai secoli il ricordo del prestigio e della capacità benefica e devota di “Angelus de Amatis” e della sua Madonna Miracolosa di famiglia.

Subito dopo giunsero come sempre le preziose Indulgenze dal Papa di Roma, e vennero anche le 12 Monache Nobili: “… Muniàl Osservanti da Santa Ciara de Muran coperte con veli negri grossi fin in tera, così dinanzi come dietro, con mantelli, berettini grossi, col le man sotto et discalze…” che iniziarono a vivere accanto alla chiesa sotto la guida della prima Badessa Margherita. Nel 1489 se ne aggiunsero altre cinque: adolescenti, tutte vergini Veneziane, figlie di Nobili prestigiosi come Gerolamo Dandolo, Ser Zuanne Speranza, Ser Pasqualin Negro e altri.

Il Nobile Domenico Malipiero nei suoi “Annali Veneti” racconta la vicenda: “… Quest'anno ha comenzà la devotione della Madonna di Miracoli, la qual era alla porta de Corte Nuova, all'opposto delle case di Amai, in la calle stretta, e per el concorso della zente è sta necessario levar la imagine, e portarla in corte de cha Amai, et è sta fatto di grandissime offerte de cere, statue, denari, et arzenti, tantoché se ha trovà intorno 400 ducati al mese, e quei della contrà ha creà sie Procuratori, e tra i altri Lunardo Loredan Procurator. Et in processo di tempo è sta assunà 3000 ducati d'elemosine, e con essi è sta comprà la Corte Nova da cha Bembo, da cha Querini, e da cha Baroci, e là è sta fabbricà un bellissimo Tempio con un Monastero, e dentro è sta messo donne Muneghe de Santa Chiara de Muran”.

Viceversa al di là dello stesso ponte c’era inizialmente, da molto prima, fin dall’anno 1000, l’altra chiesa, ossia quella di Santa Maria Nova.
Era l’ennesima chiesa-Monastero di Monache Benedettine sorto in città. Venne più volte riattata e ricostruita provando a distinguerla fra le tante Sante Marie presenti in città e sparse in giro per la Laguna. In seguito la chiesa abbandonata dalle Monache divenne Parrocchia di Contrada e Collegiata di Preti Secolari, come Pre’ Luca che fungeva da Notaio nel vicino Emporio di Rialto, o come Prete Zanòto che fece un prestito di denaro di 40 soldi di grossi a Francesco Bonin.

Intorno a Santa Maria Nova vivevano artigiani come Benvenuta detta “a lapidibus de anulo” che esercitava l’Arte “de piere contrafacte da lavori, de vitro blacho tam tintos in vermilio quam non”… A Santa Maria Nova abitava anche Nicola SturionSpicierMercante di spezie e droghe che offrì alla Repubblica lire 16.000 al tempo del Doge Andrea Contarini e della Guerra di Chioggia contro Genova.

E siamo già al secondo atto storico, al secondo flash sulle “dò Sante Marie una de fàsa all’altra”. Gli anni erano quelli di fine 1500 e primo 1600. Nella stessa zona della Madonna dei Miracoli avvennero cronache e fatti tutt’altro che miracolosi.
Marin Sanudo nei suoi “Diari” scriveva: In questa mattina ussita fuora di la chiesia di Santa Maria di Miracoli una bellissima maridata, nomata Samaritana Zon, moglie di Zuan Francesco Benedeto popular, et hessendo su la riva per montar in barca, et andar a caxa, era una maschera sentata sopra la riva, la qual vista, li dete di uno fuseto, e li tajò el viso da l'ocio fino alla bocha, sì che dita dona sarà guasta. Di questo fo gran mormoration in la terra, adeo, inteso il principe e la signoria, terminono dar taja nel Consejo di Dieci”.
Inizialmente si accusò del delitto mettendolo in prigione: Cardin Capodivacca Padovano, ma poi si scoprì che il colpevole di quel gesto era, invece, il Nobile Pietro Tiepolo figlio di Paolo che venne bandito, ma che si era già reso irreperibile ormai da tempo.

I Veneziani continuavano ad accorrere numerosi “ai Miracoli” per lucrare le tante Indulgenze disponibili: “...soprattutto quella dei 40 giorni concessa ogni sabato, o le plenarie delle feste della Madonna, e quelle di Privilegio utili per liberare le Anime dal Purgatorio ottenibili quasi tutti i giorni dell’anno alle solite condizioni di Oratiòn, Sacramenti et generosa Limosina ...”

Nella “Chiesa dei Miracoli” si celebrano ogni giorno più di 40 Messe comprese quelle avventizie dei devoti per un totale annuo di circa 13.000 Messe. Le Monache percepivano le rendite e gli interessi di 28 Mansionarie di Messe depositate nelle banche e nella Zecca della Repubblica … e la Badessa invitava spesso il Clero “bisognoso e smunto” di Santa Maria Nova oltre il ponte per cantare con le Monache le solennità dei Vespri, le Messe Solenni, nonché i Riti della Settimana Santa.

Durante la Visita Ufficiale al Monastero dei Miracoli, il Patriarca Priuli trovò diversi altaroli abusivi e non consacrati, e si trovò costretto a denunciare le Monache: “…perchè cantavano canzoni profane e suonavano la cetra et il liuto … et si vestivano da homeni per far dimostrazioni … et allevavano galline che scorazzano liberamente nei dormitori ... et che le giovani non vogliono conversar con le vecchie, ma stanno insieme unite nei loro oratori …”

Qualcosa era cambiato rispetto allo stile e l’entusiasmo inziale del “Tempo dei Miracoli” Nel maggio 1662 i Provveditori condannarono a 20 anni di bando dallo Stato Veneto il Prete Cesare Zazzeraaccusato di aver condotto una delle Monache del Convento dei Miracoli a casa di un barbiere nella vicina Contrada di Santa Sofia e di averla lì deflorata ... Le Cronache Processuali Veneziane raccontano perfino di una Monaca Margherita Strega, Herbarola e Guaridora presente e attiva nel Monastero di Santa Maria dei Miracoli dove era stata considerata inizialmente come Santa e Stigmatizzata.
Venne denunciata nel 1622 all’Inquisizione e al Vescovo di Castello dal Nobile Girolamo Colonna figlio di Girolamo da lei risanato, perché aveva visitato, insidiato, stregato, schiaffeggiato, baciato e spaventato sua sorella Monaca nel Monastero dei Miracoli, entrando e uscendo misteriosamente di notte dal Monastero con le porte chiuse, e rendendola oggetto di regali, attenzioni insane, malefiche e libidinose, e di sguardi che le facevano stringere dolorosamente il cuore.
Insieme a queste vicende, a metà del 1600 il Monastero dei Miracoli che aveva 24 Monache Professe riceveva anche una donazione di 23 staia di grano dal Senato della Serenissima perché era considerato fra i più poveri, anzi il più povero di tutta Venezia.

Quale sarà stata dunque la vera identità di quel posto ?

Viceversa al di là del ponte, in Santa Maria Nova non accadeva praticamente nulla di speciale. Lì si ripeteva soltanto la pura quotidianità vissuta dalla gente qualsiasi di una microscopica Contrada Veneziana qualunque.

Quella di Santa Maria Assunta detta Nova era una Contrada e una Parrocchia di Venezia considerata: “da fame”, tanto che i Preti evitavano accuratamente di farsi nominare e di ricevere l’incarico di accudirla e governarla. La chiesa era quasi sguarnita di opere di pregio a differenza di molte altre di Venezia, e la Parrocchia possedeva di rendita solo una casa in Calle del Forno da cui ricavava poche misere lire d’affitto.

A causa di un incendio che aveva colpito grossa parte di Venezia la chiesa a fine 1400 era pericolante: nel 1488 crollò il campanile riedificato subito però a spese del Nobile Nicolò Morosini:“homo ricchissimo che ha fatto trentasei case in contrà de Santa Ternita, e le dà de bando a nobili poveri”. Infatti nel luglio 1535 crollò in parte la chiesa che venne riedificata a spese di Nicolò Dal Negro Suddiacono titolare della stessa Santa Maria Nova e Canonico Sacrista di San Marco ... Per questo motivo il Dal Negro venne nominato, promosso ed eletto al titolo di Prete-Diacono della Collegiata di Santa Maria Nova … anche perché il Prete-Diacono che l’aveva preceduto era stato cacciato via con l’accusa di simonia.

Nella Cronaca del Barbo si legge: Adì 26 Aosto 1540, a hore 15, de Zuno: se impizzò fuogo in la contrà de Sancta Maria Nuova in le caxe della gesia, nella qual iera Piovan Missier Pre' Bernardin Gusmazi, et era una isola posta a mezo campo, et stava dentro due fratelli barbieri, li quali uno haveva nome Anzoleto, et l'altro haveva nome Maximo. El fuogo entrò per via de algune stelle, et fu tanto presto che non possono scapolar cosa alguna. El qual fogo fu posto per man d'una massera zovene, schiava, la qual, per esser dal patron battuda, fece questo, et fuggì, et fu un gran danno del Piovan”.

Dai resoconti della Visita Apostolica del giugno 1581, Santa Maria Nova risultò essere: “Parrocchia collegiata con 5 Preti e 3 Chierici che gestiscono su 7 altari un patrimonio di 8 Mansionerie da Messe che fruttano 134 ducati in tutto ... La Fabbriceria della chiesa frutta 20 ducati annui … all’interno dell’edificio di culto si conservano una cinquina di Reliquie di discreto valore … sull’Altar Grande sta una Madonna vestita con 25 abiti di diversa sorta fra preziosi e ordinari. … In Parrocchia risiedono 985 abitanti di cui 500 da Comunione ... in Contrada ci sono circa 40 e 50 botteghe attive, e ben 4 case di tolleranza ...”

Tuttavia il 02 aprile 1631 ilDoge Nicolò Contarini si fece seppellire proprio in Santa Maria Nova.

Terzo atto storico o flash sulle “do Sancte Marie”:… e siamo ormai agli anni di Napoleone all’inizio del 1800.

Le 70 Reverende Monache della Madonna dei Miracolipagavano lire: 8,soldi: 3 edenari: 3 di tasse alla Serenissima perché possedevano 7 caxette date in affitto. Quello dei Miracoli erafra i Monasteri di Venezia e delle Isole il più sprovvisto di rendite: “… le indigenze delle Monache di Santa Maria dei Miracoli di questa città … le quali versano nelle più miserabili ristrettezze, determinano con cadenza annue apposite elargizioni di farina e legna decretate dal Senato per tutto il decennio a seguire …”

Gli ex-voto segni dei “miracoli”che erano continuati nei secoli coprivano ormai per intero le pareti della chiesa dove si continuava a celebrare ogni giorno più di 40 messe continuando a concedere “un fiume” d’Indulgenze.

Con l’arrivo dei Francesi a Venezia un giorno accadde che alle cinque del mattino soldati e burocrati s’erano presentati a bussare prepotenti alla porta del Convento dei Miracoli provocando parapiglia, scompiglio e grande angustia fra tutte le Monache. In fretta e furia la Badessa, la Vicaria, le Madri tutte e il Confessore dovettero presentarsi davanti agli Ufficiali del nuovo governo e subire una vera perquisizione con l’esproprio immediato di tutto quanto possedevano.
Sono impressionanti i documenti al riguardo, quasi sfacciati nella loro estrema e quasi maniacale chiarezza descrittiva:

Ogni cosa e oggetto presente nel Monastero venne accuratamente confiscato, inventariato e stimato in moneta di Milano in previsione di poterlo in seguito vendere ingrossando le casse del nuovo Governo Napoleonico. Alcune cose d’uso domestico quotidiano, o utilizzate ogni giorno nella normale gestione dei Riti delle Monache vennero concesse in uso e gestione controllata, altre più preziose vennero, invece, depositate in armadi, cassoni e stanze e meticolosamente sigillate e chiuse a chiave.
Le Monache furono costrette a vedere ogni loro singola cosa frugata, soppesata, controllata e asportata. Su pagine e pagine dei verbali e delle rendicontazioni degli oggetti confiscati dagli Ufficiali si può leggere:
“…  Nelli parlatori di dentro: un Cristo di legno – vale 0.10 lire di Milano; Un quadretto vecchio – vale 2 lire di Milano; Sei armadi d’albeo -  valgono 8 lire di Milano; Cinque parapetti di drappo in sorte -  valgono 90 lire di Milano; Sei cassette d’albeo - valgono 5 lire di Milano; Undici scagni d’albeo – valgono 1 lira di Milano.
… Nel luogo della panateria: Una burata -  vale 12 lire di Milano; Quattro casse d’albeo -  vale 4 lire di Milano; Tre albuoli d’albeo -  vale 2 lire di Milano; Quindici tavole e concoli -  vale 3 lire di Milano; Quattro cavaletti d’albeo -  vale 0.10 lire di Milano; Una gramola -  vale 4 lire di Milano; Due caldiere di rame -  vale 12 lire di Milano; Un secchio di rame -  vale 3 lire di Milano; Una cassa per l’acqua di rame -  vale 1,10 lire di Milano …”

Tutto, pezzo per pezzo venne passato con precisione in rassegna: Cristi, Madonne, argenti, inginocchiatoi, letti, tavoli, panche, biancheria, abiti e mutande delle Monache, tendaggi, attrezzi, candelieri, piatti, saliere e bicchieri … perfino una sedia impagliata sfondata e una vecchia lanterna … le botti e i barili della cantina, i mortai e i coperchi della cucina, tovaglioli e canevazze, le campanelle appese sulle volte del chiostrino ... i cuscini consumati posti sui sedili del Coro.

La Badessa di Santa Maria dei Miracoli Maria Rosa Brighenti scriveva il 16 gennaio 1806: “… si promette Orazioni a Iddio Signore per la gloria del Suo Sovrano per aiutare il Monastero dei Miracoli angustiato anch’esso soprattutto dalla mancanza di farina e legna ...”
La stessa Badessa aggiungeva che i locali angusti del Monastero potevano ospitare al massimo altre 36 o 40 persone, ma non avevano spazio sufficiente per le 35 Francescane del Convento del Santo Sepolcro che il decreto Napoleonico imponeva di concentrare presso di loro.

Nel maggio di quattro anni dopo, all’atto della soppressione definitiva del Monastero dei Miracoli erano rimaste presenti solo 33 Monache Clarisse che dichiarano attraverso la Badessa Celeste Cicogna l’impossibilità di deporre l’abito religioso non tanto per ragioni di principio, ma perché trovandosi in assoluta povertà erano mancanti di mezzi per provvedersi abiti civili comuni.

Nello stesso tempo al di là del ponte, nell’altra Santa Maria, quella Nova continuava a non capitare nulla d’importante, se non accadimenti banali: il 13 giugno 1759 il Nobilhomo Loredan de Ser Antonio da San Vio d'anni 26, spogliatosi della velada e della camisiola di seda sulla riva di Santa Maria Nuova, s’era gettato in canale e si era lasciato annegare.
La Contrada continuava ad essere abitata in gran parte da popolani … c’era un Ospissio formato in tutto da sedici caxette in cui vivevano certe Pizzoccare Terziarie di Santa Maria. L'assegnazione delle caxetteveniva curata dai Procuratori de San Marco de Citra che gestivano il fondo di una Commissaria di Antonio Dal Deserto che aveva istituito l’Ospizio … La zona era anche posto di Locande e Osterie, di Schole e Scolette molto popolari … fra cui c’era anche la Scuola di Sant’Elena dei Tessitori di Panni di Lino aperta ad uomini e donne … e l’immancabile Compagnia dei Morti di Sant’Adriano… e la pettegola Congrega delle donne del Rosario che per darsi un tono si facevano chiamare: Compagnia Devotadel Santissimo Rosario. Per un certo tempo era stata presente in zona anche la famosa Schola di San Vincenzo Ferreri detto dai popolani Veneziani “el Santo destrigaletti” perché si diceva in giro che bastava fare una debita Novena di orazioni con adeguata elemosina a quel Santo per essere certi che si sarebbe liberato definitivamente un letto occupato in casa da troppo tempo da un familiare infermo.

Quando qualcuno in Contrada era preso troppo male si costumava dire per pietà: “Per risanarlo serve solo una Novena al Destrigaletti”.

Nella chiesa fatiscente e spoglia, governata da una “Banca di 21 Procuratori” che ne gestivano le scarne economie e le nomine, c’era di valore solo un bel altarino di San Vettore in mosaico, antico titolare della chiesa, lavorato dai virtuosi fratelli Francesco e Valerio Zuccato i famosi mosaicisti attivi nella Basilica di San Marco (in seguito con la soppressione verrà portato nel Tesoro di San Marco).

Nella relazione conclusiva della Visita Pastorale del Patriarca Flangini alla chiesa di Santa Maria Nova nel settembre 1803, si può leggere: “… nella Contrada di Santa Maria Nova abitano 1.200 persone con qualche protestante che non da alcun scandalo … Non ci sono levatrici … Il Piovan Costantin Scarman percepisce le rendite dall’affitto di 7 case e 1 bottega … Intorno alla chiesa prestano servizio oltre ai Titolari del Capitolo anche altri 12 Sacerdoti e 2 giovani Chierici di cui 1 frequenta la scuola dei Gesuiti ed è studiosissimo, mentre l’altro frequenta una scuola privata presso don Drizzi; entrambi recitano sempre devotamente l’Ufficio della Madonna … In chiesa si celebrano 327 Messe Perpetue, 19 fra Esequie e Anniversari, e forse 630 Messe Avventizie …e ci sono 3 casselle per raccogliere le elemosine: la Cassella della Madonna del Carmine, la Cassella per il Suffragio, e la Cassella per i bisogni della Fabbrica della Chiesa ...”

Il 10 marzo 1808 i militari Francesi se la cavarono presto e alla svelta nella chiesa di Santa Maria Nova decretandone la chiusura e la soppressione immediata con la confisca di tutto ciò che conteneva ... ossia quasi niente.
La chiesa venne subito affittata ad uso magazzino di cenci da carta … le spoglie dei defunti inumate nelle tombe di chiesa, fra cui quella del Filosofo Fortunio Spira, quella della famiglia di letterati e uomini di cultura Wocowich- Lazzari, e quella del Doge Nicolò Contarini vennero vuotate, buttate in burchiella, e ammassate alla rinfusa nel mucchio anonimo dell’Ossario dell’isola di Sant’Arian dietro a Torcello … l’organo di Gaetano Callido opera 167 andò disperso ... morì il Piovano dell’ex chiesa di Santa Maria Nova … forse di dispiacere e crepacuore … le 496 “Anime rimaste” della chiesa passarono a far parte della Parrocchia di San Canzian.

Infine, nel 1839 si provvide a demolire il campanile per venderne le pietre … e nel 1852 si atterrò l’intera chiesa con lo stesso scopo. Il 6 dicembre di quell'anno, sul mezzogiorno, cadde gran parte della muraglia della ex chiesa sopra i manovali intenti a lavorare, così che rimasero quasi soffocati sotto alle macerie tre persone, un’altra si salvò gettandosi in canale, e altre finirono ferite all'ospedale.
In conclusione: si spianò del tutto la zona allargando il Campo fino alla riva di fronte a Santa Maria dei Miracoli lasciata in piedi … per miracolo.

Oggi nello stesso luogo delle “do Sante Marie una de fàsa a st’altra”si tiene saltuariamente un pittoresco quanto vispissimo mercatino d’antiquariato, del vintage e delle carabattole in genere … mentre nei giorni più feriali e normali, le panchine del campetto ombroso ricavato dal posto dove un tempo sorgeva Santa Maria Nova sono sede del relax di una folla estemporanea ed eterogenea di turisti, vagabondi, anziani, badanti dell’Est, nullafacenti, annoiati, e Veneziani accaldati di passaggio.

Santa Maria dei Miracoli, invece, è rimasta meta turistica per coloro che osano spingere il naso un attimo oltre il solo Ponte dei Sospiri, Palazzo Ducale e il Ponte di Rialto … E’ un’altra di quelle chiese coccole tipicamente Veneziane, un gioiellino policromo e suggestivo odoroso di Storia, Arte, tradizioni e atmosfere che ben si presta a qualche bel matrimonio pomposo di qualche romantico o nostalgico.

Il tempo delle “do Sante Marie una de fàsa a st’altra”… è passato purtroppo per sempre.



“DO TRE STRIGARIE … A VENEZIA NEL 1641.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 112.

“DO TRE STRIGARIE … A  VENEZIA NEL 1641.”

Immagino sappiate già che l’Inquisizione di Venezia istituì e celebrò fra il 1542 e 1599 circa 1600 procedimenti e processi di cui ben 182 riguardanti: “Strigarie di donne”. Molti sono andati insabbiati e lasciati incompleti e irrisolti concludendosi in un “nulla di fatto”.
E’ curioso e interessante notare in parallelo a uno di questi la testimonianza del 1641 di una servetta di Casa Zani o Ziani che racconta di aver portato a compimento insieme alla sua Nobile Signora Cattenella Zani diverse “strigarie amorose”.

La prima: su diretto mandato della stessa “padrona Cattanella” che l’aspettava in gondola a debita distanza, la servettaPaulina andò a rubare un “osso da Morto” di un giustiziato bruciato in Piazza San Marco: “… ne presi uno grosso sarà come un grano di fava … una putta fu che mi vide, venne per pigliarmi e guardarmi addosso, ma avendoli giurato d’averlo buttato via, che non era vero, mi lasciò star et molti che mi videro cominciarono a gridar: “Piglia ! Piglia ! Al Santo Officio !” ... li correvano dietro e strepitavano: “Piglia ! Piglia ! che deve voler far delle strigarie, onde io tutta confusa partii.”
L’osso interessato fu in un secondo momento posto sotto al cuscino della stessa servetta Paolina convinte le due donne che “lo spirito del giustiziato” sarebbe comparso a rivelarle ciò che la padrona voleva sapere perpoter “guadagnàr al gioco della piria”.Per favorire meglio quella misteriosa “rivelazione notturna” la Siora Zani fece allo stesso tempo celebrare una Messa da Morto, tenne accesa una candela, e recitò “tanti Pater et Ave Maria”. la servetta Paulina ovviamente obbedì come raccontò lei stessa:“… posi l’osso suddetto sotto la mia testa ma non vidi né sentii cosa alcuna ... Perciò dopo due tre giorni facendomi coscienza andai a gettarlo in un Sacrato dentro a uno scatoletto...”

In una seconda occasione: sempre la stessa Illustrissima Sjora Cattanella Zani diede disposizioni per conquistare l’amore di un tale, di: “… far bollire un cuore di castrato in una pignatta di terra nuova legandolo con seta di più colori, fissando dentro degli aghi, con dell’acqua salata, fino a ridurlo quasi a niente ... E mentre bolliva bisognava dire: “Sì come si consuma quel cuore che bugìva, così si consumasse l’amor di Antonia che è la Signora di detto Polo, e che l’amor di Polo si ritornasse alla Siora Cattanella …” Poi il cuore ridotto in polvere venne portato dalla Strìa Laura de San Martin de Castello che lo ridusse in polvere e ordinò alle due donne di gettarlo addosso al moroso“per dar martello” ossia innescare un vero e proprio assillo e tormento a scopo amoroso: “per non far dormir, né magnar, né riposar l’innamorato …”

In una terza situazione: ancora la medesima Sjora Cattenella Zana si era inizialmente recata presso la stessa Strìa Laura de San Martin de Castelloquasi casualmente: “per comprare veli e altre cose ordinarie delle donne che non hanno a caro che i loro mariti lo sappiano …”
Ma poi da cosa era nata cosa, e le donne avevano iniziato a parlare fra loro d’innamorati e di uomini, “… cosiché principiarono come per gioco a buttare due tre volte le cordelle per vedere se tale o tall’altro le voleva bene”… Inoltre la Strega buttò nel fuoco due tre grandi di allume di rocca, che se si univano significava che i due si volevano bene.

La “cordella” era di solito una di quelle che tenevano su le calze sulle cosce delle donne (un primitivo reggicalze), e “l’arte scellerata di buttare la cordella o le fave” consisteva nel misurare, annodare la cordella per simboleggiare il legame che si voleva creare o disfare con un uomo o con una donna. Di seguito si recitavano delle formule particolari, e poi si buttava la cordella sopra a un tavolo o per terra “studiandone il risultato” per poterlo applicare al futuro dell’interessato/a: “Se i due capi della cordella si uniscono insieme è segno che si vogliono bene l’uomo e la donna per cui si fa quel gioco.”
L’illustrissima Donna Cattanella si sentiva innamorata non corrisposta, perciò chiese aiuto a Strìa Laura sul da farsi. Costei, come testimoniò in seguito la solita servetta Paulina, le suggerì prontamente a pagamento la ricetta giusta: “… devi pigliar tre ovi freschi, farli bugìr e venir duri, dividerli in quattro parti, una parte darla al gatto a mangiar, la seconda al cane, la terza gettarla in canale, la quarta non so dove andasse buttada … e questi ovi prima de cucinarli metterli in una sepoltura e farveli star una notte intera.”
La servetta Paulina andò quindi a comprare delle uova in Ghetto per ordine della padrona: “… per essere gli Ebrei senz’Anima … così giudico, e non che l’abbia ditto l’Illustrissima.”, e tutte insieme le donne andarono poi in gondola nel cimitero Ebraico del Lido dove seppellirono le uova dicendo: “… si come l’ovo non sa del morto, così el moroso di F. non possa saper dell’amor della sua Signora...”
Il giorno seguente la stessa compagnia di donne ritornò di nuovo nel cimitero, e questa volta lasciarono:“… tre ova sepolte facendovi sopra un laccetto, mentre ne prendemmo due per farle mangiare al moroso…”
Infine per compiere un altro maleficio amatorio utile, presero:“… del fango di Ghetto, altri ovi, e acqua spuzolente …” che la Strìa Laura mise in una pignatta con sale e altri ingredienti speciali.

Avrà funzionato alla fine tutto questo concitato ingarbuglio ?



“STRIGHE HERBAROLE … A VENEZIA NEL 1500.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 113.

“STRIGHE HERBAROLE … A VENEZIA NEL 1500.”

Se da una parte è vero che Venezia Serenissima è stata molto tollerante e ha impedito attentamente che l’Inquisizione del Papa di Roma accendesse facilmente roghi in Piazza San Marco, e scambiasse “fischi per fiaschi” mandando a processo, tortura e morte persone innocenti, o perlomeno ree di cose irrisorie, raggiri, vendette trasversali, ripicche, fanatismo religioso e cose simili; dall’altra parte è altrettanto vero che il fenomeno della “Caccia alle Streghe e a Maghi, Magòghe e Magoni” è accaduto anche in Laguna e a Venezia con una significativa consistenza.

Dati alla mano: l’Inquisizione di Venezia istituì e celebrò solo fra il 1542 e il 1599 circa 1600 procedimenti e processi di cui ben 182 riguardanti: “Strigarie di donne” mentre negli stessi secoli vennero celebrati migliaia di procedimenti simili nelle 160 Parrocchie del Catone Svizzero del Vaud, in Francia, nel Delfinato, nei villaggi e paesi delle Alpi Occidentali Italiane, e in Germaniamolti dei quali si conclusero con una amara quanto tetra e gratuita sentenza di morte. Nella sola Diocesi di Como, ad esempio, e nel solo anno 1485 vennero consegnati al braccio secolare e giustiziate: 41 sospette Streghe e povere donne.

Un grosso fenomeno quindi, una tendenza epocale ben nota, conosciuta e studiatissima, che non ha risparmiato lo Stato Veneto. Se siete curiosi vi basterà recarvi nell’Archivio di Stato di Venezia e potrete vedere e consultare facilmente la lunga lista dei processi e tutti i carteggi riguardanti queste vicende anche nostrane.

“Voi della Santa Inquisizione intendete drizzare il becco alle Civette …” gridò un giorno in piazza una donna contro gli uomini dell’Inquisizione provando a difendersi dall’arresto e dalla cattura. Intendeva indicare così l’inverosimile e assurdo accanimento che era in atto soprattutto contro le donne … Niente da fare ! Le parole non serviva a nulla, e non si riuscì a fermare quel fanatismo religioso, quella ottusità di mente e spirito molto simile a quello che riscontriamo in giro ancora oggi. Fu il traboccare macabro di una cultura diffusa in tutta Europa che rese popolarissimi e fin troppo condivisi e radicati certi contenuti cabalistici e superstiziosi capaci a volte di trascinare fino a morte.

Anche in giro per Venezia nel 1500 si diceva: “Esiste per davvero il Diavolo dal naso storto che spezza la nave e spezza il porto.”… Si respirava ovunque un vago timore ancestrale del Demoniaco, del malefico e dell’ignoto molto simile a quello che si aveva per la peste, perciò anche a Venezia si provava a porvi rimedio in qualche maniera, così come si poteva: si usava assurdamente “lo scongiuro del Tarocco”, si accendevano candele, si buttavano sale e allume di rocca nel fuoco del camino, e ci si rivolgeva per consulti e rimedi a uomini e donne di dubbia quanto ambigua valenza ed efficacia: “… se si vuol dare martello alli suoi morosi, si deba pigliar la caena sotto al fuoco cominzando da basso e andare in su, dicendo:“Questa è la vita del tale … et questo è il Gran Diavolo che lo governa, Lucibel, Luifer, Belzebub, Solfarel … Vi sconzuro cinque apicai, cinque squartai, cinque danai, cinque morti in ferri, cinque morti a botta de cortello … per il pecà che fece il padre con la fìa, il fradel con la sorella, el cusìn con la cusina, el compare con la comare … sconzuro tutte queste anime … e questi diavoli che si leva de li incontinenti, et che vada al cuore del tale che per me el non possa nè camminare, né  scrivere, né ragionare …Cinque ditta a questo muro, cinque diavoli scongiuro dal minor fino al maggior, Lucibelle …”

Questo scongiuro si doveva ripetere per almeno tre volte consecutive … ed era uno dei tanti, anzi: dei tantissimi che riempivano l’abitudine e la normalità di tanta gente qualsiasi di diversa estrazione sociale ... Si viveva un po’ di queste cose e di questi rimedi posticci … anche a Venezia.

Non fu un caso, quindi, che in quegli stessi anni incombessero su tutto e tutti le indicazioni feroci, precise e restrittive della bolla Papale: “Summis desiderantes affectibus” di Innocenzo VIII°. Si era nel 1484, e poi vennero quelle di Papa Sisto V ossia Felice Peretti, già reggente dei Circoli Letterari Veneziani, Inquisitore della città lagunare dal 1557 al 1560, consulente del Santo Uffizio Romano, Giudice condannatore di Arcivescovi Spagnoli, e propugnatore come Papa nel gennaio 1586 della nuova bolla “Coeli et terrae”  che criminalizzò ogni forma di ricerca cosmica e Astrologica nonchè ogni forma di Magia e Alchimia comprese quelle di elevata cultura e ricerca. Si salvarono solo le pratiche illusionistiche su cui però vigilavano attentamente e con competenza gli Inquisitori.

Per i meticolosi manuali del Santo Uffizio come il famoso “Malleus Maleficarum” del 1486-87, tutto era opera del Demonio ed assumeva “habitus Satanicus” se appena si discostava dall’alveo delle certezze dottrinali proposte, anzi: imposte dall’Ecclesia onnipotente … Perfino il gioco del Lotto veniva inteso come “Ludus Demoniacus” in quanto si confondeva e contrapponeva la Fortuna con la Volontà di Dio: “Interpretare e conoscere il Passato, il Presente e il Futuro appartiene solo a Dio … e alla Chiesa ovviamente.”
Perciò anche a Venezia si stava ben attenti a quando, come e perchè si andava a giocare … Bisognava sempre stare attenti che non scappasse la parola, il numero o l’interpretazione dei sogni sbagliata … C’erano sempre orecchie lunghe e attente in giro … e finire inquisito era un attimo.

Per un motivo o per l’altro alla fine ne facevano le spese soprattutto le donne, che finivano con l’essere considerate “Strighe”e strapazzate alla grande se non annientate meticolosamente. Secondo il “Malleus”le Streghe erano: “…donne del Diavolo … esseri di debole intelligenza, ciarliere, vendicative, invidiose, colleriche, volubili, smemorate, mentitrici, dai desideri insaziabili … Le donne già per il loro corpo sono preferite per la prostituzione diabolica … il corpo degli uomini ne è invece preservato: perché altrimenti Dio lo avrebbe scelto per incarnarsi ? … Il Diavolo in ogni caso non commette atti contro Natura: ne ha orrore e li ritiene vergognosi …”

Incredibile ma vero !

L’Inquisizione Veneta e Veneziana, nei cui territori si favoleggiava spesso di figure misteriose e paurose come il Mazariòl: “… folletto dei boschi per metà animale e metà persona che assalta e molesta i viandanti sui sentieri coperti di muschio e ciclamini ...”, definiva a sua volta le Streghe Lagunari: “…vechie femine inique et perverse, strige diaboliche, malediche et disperate, inimiche fidei nostre et humane nature.”

“Ma quali Strie ? … Sono gli effetti e le visioni della fame, delle erbe, della miseria e dell’ignoranza !” osò commentare inutilmente qualcuno a Venezia ... Ma erano solo voci isolate “fuori dal coro”, parole pericolose che rischiavano grosso, tanto, fin quasi la morte. Era meglio tacere …

Le Streghe erano: “Adoratrici del Male”, e di loro si raccontava di cavalcate mirabolanti su bestie aeree, di danze infernali dalle movenze lascive, e di banchetti cannibalici di bambini: “… e la dicta untura, avanti che sia perfecta e che faccia il debito, se da al Diavolo che la acconci. E così se la porta per aliquanti di e con lo sputo ce la benedice e rende così bisogno che la benedica con lo sputo la nostra patrona tre volte … e così poi col dicto unguento ce ungemo dicendo: “Unguento portami alla noce di Benevento”, come che ho dicto. E illi solazzammo e jocamo con li Diavoli in cose grandi, con tante gran feste, soni, canti e balli che non poteva raccontare … e li Diavoli sempre stanno con noi ad jocare, e belli e bianchi come un lacte…” testimoniò Bellezza Orsini dopo la prova della corda durante il suo processo a Roma nel 1528.

E ti credo ! … Torturandola ancora un poco avrebbe di certo confermato e detto e scritto e firmato d’aver visto e incontrato anche gli Alieni … ma in quei tempi tutto funzionava e andava così.

Uno dei detti clericali più famosi era esplicito, lampante: “Extra Eclesia nulla Salus !_Al di fuori della Chiesa non esiste alcun tipo di Salvezza !”. Perciò qualsiasi scoperta, elucubrazione, esperienza, esperimento, convinzione che si fosse discostata almeno un poco dai dettami certi delle conoscenze di Roma era “fuori”: ossia perseguibile, condannabile, e meritevole di ogni pena … fino alla morte. E come ben sapete, il Santo Uffizio onnipresente non ci pensava su due volte non solo a intervenire, ma anche a sentenziare in maniera esemplare. Perché alla fine era quello che contava: ribadire quale doveva essere “la vera Verità … la via mastra” e indurre tutti “a sposarla e abbracciarla saldamente” rinunciando ad ogni possibile alternativa che potesse essere diversa dai solidi dettami della Fede e della Dottrina della Chiesa.
E la scienza ? … e l’intelligenza ?

Ma quale scienza ! … Ciò che non era Ecclesiastico: era Diabolicus ! … Punto e basta … Facile no ?

Per questo ovunque in Italia, nonché in tutta Europa, s’era creato un clima sociale in cui bastava che nell’ultima casa del paese, proprio quella più in là di tutte, quella ombrosa in fondo sulla riva del fiume, la casa spesso del Mugnaio con molino e rosta, con la ruota che girava travolta dall’acqua del fiume ... e bastava che costui fosse magari usuraio o facesse pagare caro il macinato ... Ecco, era facile … così per vendetta e rivalsa, che macinasse con le farine: cose strambe, intrugli malefici, cose del Diavolo ... e che perciò anche lui fosse “uno spiantato senza Dio, uomo reprobo, essere spregevole a cui fargliela pagare”. Eccolo perché personaggi così venivano facilmente accusati, denunciati, inquisiti e condannati.

Gente come i mugnai poi, non eccellevano spesso per cultura e grande capacità letteraria. Si trattava molte volte di persone semplici, molto spesso analfabete, a volte persone che sapevano appena contare i sacchi della farina e i soldi utili per pagarli. Al riguardo è interessantissima, ad esempio, la vicenda di un oscuro mugnaio del 1532 di Montereale piccolo villaggio della Terra del Friuli sulle colline del Pordenonese: Domenico Scandella detto Menocchio.

Andate a vedere la sua storia !

Il poveretto, che poi in questo caso non era poi così ignorante, osò spiegare a quelli che frequentavano il suo molendino sul fiume che il Cielo, la Terra e il Cosmo erano come un formaggio, una gruviera piena di buchi intaccata dai vermi: “Io ho detto che, quanto è al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè Terra, Aere, Acqua et Foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furono li Angeli; et la Santissima Maestà volse che quel fosse Dio et li Angeli; et tra quel numero de Angeli ve era ancho Dio creato ancora lui da quella massa in quel medesmo tempo, et fu fatto Signor con quattro Capitani, Lucivello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello vuolse farsi Signor alla comparation del Re, che era la Maestà del Dio, et per la sua superbia Iddio comandò che fosse scaciato dal Cielo con tutto il suo ordine et la sua compagnia; et questo Dio fece poi Adamo et Eva, et il populo in gran moltitudine per impir quelle sedie delli Angeli scaciati. La qual moltitudine, non facendo li comandamenti de Dio, mandò il suo Figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crocefisso … Io non ho detto che si facesse picàr come una bestia … Ho ben detto che si lassò crucificàr, et questo che fu crucifisso era uno delli figlioli de Dio, perché tutti semo figli de Dio, et di quella istessa natura che fu quel che fu crucifisso; et era homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il Papa, il quale è homo come nui, ma di più dignità de nui perché può far; et questo che fu crucifisso nacque da San Iseppo ed de Maria Vergine…” dichiarò a processo.

Figuratevi l’Inquisizione !

Appena udì cose del genere fibrillò immediatamente, impazzì per la voglia di sistemare subito quell’eretico imprudente … Infatti andò a catturalo, e gira e volta, molla e para, alla fine lo “Fece ramo seccomandandolo a giustiziar sul rogo” … cancellando così tutte le sue “orribili illazioni” e quelle “Mendaci insolenze provenienti e suggeriteli di certo da Satana in persona.”

Lasciamo però perdere i discorsi generici, e veniamo, invece, ai nomi e ai fatti di “casa nostra”, di Venezia e della Laguna … Sono tanti, non si possono citare in dettaglio tutti, ma qualcosa si può accennare, dire e riassumere … Ci provo.

A Venezia c’erano: Giulia nel 1584, diciannovenne che abitava a San Pietro di Castello presso la Casa di Ospitalità del Soccorso dopo essere stata abbandonata da un facoltoso mercante greco. Costei venne accusata di sortilegi, di “aver buttato le fave con del calcinazzo, un bagatìn, del carbon e della cera benedetta dicendo lo Scongiuro di Santa Lena.” e di aver ricevuto di nascosto e a pagamento dell’Olio Sacro Benedetto da Cresima da un giovane Zaghetto figlio di un barcarolo che abitava nella Spizieria della Borsa a San Moisè ed esercitava nella chiesa di Santa Maria Zobenigo da dove aveva sottratto l’Olio Santo. Una Madonna Lucia da San Maurizio e una Massera Corona di casada le avevano insegnato che ungendosi con quell’olio le labbra e sotto agli occhi sarebbe riuscita a farsi voler bene da qualcuno come era già accaduto a Minia cortesana e ricamadora che usava anche loScongiuro delle Stelle sciogliendosi i capelli, e dicendo: “Dio ti dia la buona sera, stella papale ... Te scongiuro per il pane, per l’olio, per il sale, per le Messe che si dice il di e la notte di Natale, in terra le si dice et in cielo le si scrive… Così questo è vero e non è busia, così il sonno del tal homo ghe sia …” significando il nome della persona a cui s’intendeva voler bene.

Inoltre era stato detto alla giovane che per trovare una cosa rubata bisognava guardare sul fondo di una caraffa d’acqua dove si doveva mettere una fede nuziale … e con una candela accesa in mano si doveva ripetere tre volte: “Angelo biancho, Angelo Santo, per la tua santità e la mia verginità fammi vedere il vero e la verità, chi ha avuto quelle robe trovate …”

Giulia interrogata spiegò ancora all’Inquisitore attentissimo:“Di più ho ancho fatto una volta uno esperimento d’una pignatella nova, una luserta(lucertola), olio comune, et una fassina comprata a nome del Gran Diavolo che rege et governa … E ligava quella luserta con dell’azza, e diceva: “Io non lego questa luserta, ma lego il core del tale a nome del Gran Diavolo che regge e il governa il mondo …”, et così feci bollire queste cose al foco di detta fassina piano piano …”

Come avrà reagito l’Inquisitore davanti a quell’accurata descrizione ? … Me lo posso immaginare.

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Alla Zuecca abitava, invece, Corneliadenunciata da Zuanne Dissegnador a Fra Angelo il 21 luglio 1587, e chiamato un anno dopo a confermare la deposizione presso la Cancelleria dell’Inquisizione di Venezia a San Domenico di Castello.

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Giovanna l’Astrologadetta la Medica di circa 57 anni venne, invece, inquisita dal 1554 al 1568. La donna proveniva da Piacenza, Brescia e Milano da dove era stata bandita “perché aveva dentro uno Spirito di divinazione”, vestiva di grigio e portava “un galèro in testa”, e abitava fin dal 1550 prima in Contrada di San Zan Degolà, poi a Santo Stefano in Calle del Pestrìn, e infine in Contrada di San Salvador in Calle de le Balote dove da dopo la morte del marito iniziò a praticare la professione d’indovina e guaritrice. Era considerata: “Herbera, Fattucchiera, procuratrice di Rimedi, sedutrice de persone, gioveni et gioevene … et Stròlega da cui va purassai persone, Preti, et Frati et Zantilhomeni per farse vardàr la ventura sulla man e sul fronte … et la vadagna in un zorno quanto vadagnasse in una settimana in una bottega …” La Juhanna pretendeva di saper risolvere le infermità, e si diceva praticasse la “divinazione del gòto”versando della cera fusa sopra a dei fili bianchi e neri immersi in un bicchiere. Dalla conformazione di cera e fili galleggianti sull’acqua si poteva interpretare lo scenario futuro esistenziale dell’interessato.

Denunciata dal Medico Messer Antonio Minioreperibile presso la farmacia “all’insegna del Moro o Moriòn a San Francesco della Vigna”, l’Inquisizione la convocò più volte per interrogarla, ma lei non si presentò adducendo: “Infermità di gamba guasta, impiagata et marza et puzzolente … Sono povera donna vechia, zota et mal conditionata.”
Poi Pre’ Alvise Benedetti e il Medico Zuan Andrea Benvolio inviati a controllare dall’Inquisizione non riscontrarono né febbre né alcuna infermità … perciò la donna venne carcerate e processata … ma venne salvata da una fideiussione pagata dai Nobili Girolamo e Paulo Badoer… chissà perché ? … e tutto andò assopito e dimenticato.

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Ruggero miniatore abitante in Salizada San Moisè fu denunciato e processato dall’Inquisizione nel 1582 perché insidiava la sua ex donna Anzolafia de Andrea Tagiapiera andata a vivere presso la madre Pasqualina in Corte dal Basegò: “guastandola con herbe et malefiziandola et affaturandola … facendole un cerchio in mezo alla camara e facendole paura granda ... recitando formule da un libro et con un legno in man …”

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Diana Passarina venne processata nel1586 perché: “ispiritata … La è terribile et fa di mali”. Si considerava guaritrice e capace di leggere il futuro e di liberare da incantesimi e malefici con l’aiuto di un Diavolo Arcan che ospitava in un anello custodito dentro a un bicchiere di cristallo posto in casa sua. Convivente con un Frate Francescano dei Frari che lei manteneva, venne denunciata per l’ennesima volta da Margherita De Rossi da Bassano detta la Sguerzasua vicina di casa, forse sua probabile cliente, nonché denunciatrice abituale presso il Santo Offizio anche di altre persone secondo lei sempre sospette. La Passarinaera stata in precedenza denunziata altre volte insieme alla sua coinquilina Barbara Polverara da Gradisca: “… perché vista danzare nuda, e far strigarie, herbarie et cose finte, buttar fave et altre poltronarie”.

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Maddalena Bradamontedetta la Nasina era una cortigiana di circa 23 anni che abitava in Contrada di San Paternian poco distante da Piazza San Marco insieme a Fiorina e Borthola. Imparata “l’Arte” da una sua comare Bellina Loredana e da un’Agnesina da San Trovaso, si faceva mantenere dai suoi amanti che erano soprattutto Nobili e Artigiani benestanti che bramava prima o poi di riuscire a sposare.

“… la più iniqua et scelerata donna c’hoggi dì viva, la quale ritrovatasi sempre immersa nelle male operationi, con familiarità diabolica usa et adopra continuamente le più horrende stregarie et fatture a pregiudicio et danno di questo et di quello, che s’habbino fin mo sentite …”

“Donna inspiritata da exorcizare”, venne denunciata al Santo Uffizio per: “Herbaria, strigaria, far circolo sconzurando Demoni, far immagine con incantesimi, butar fave et simili altre cose”… In realtà, invece, venne denunciata all’Inquisizione per ripicca dal Medico Pietro Paolo Malvezzi querelato in precedenza alla Sanità dalla stessa donna perchè le aveva usurpato 22 campi di terra nel Padovano meritandosi 22 giorni di prigione. Nel 1584 la Bradamonte venne condannata pubblicamente fra le due colonne in Piazza San Marco insieme a Giovanna Semolina, Lucia da Este e Perina Merighi chiamata “La Fiamminga”, e messe tutte al bando da Venezia per cinque anni con un premio di 50 ducati per chi le avesse riconosciute come inadempienti e presenti in città o nel Dominio.

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Emilia Catena era una cortigiana Veneziana, allieva di una “vecchia Striga Anastasia che stava a San Thomà”. Venne denunciata da un gioielliere per prevenire a sua volta la propria denuncia accusandola d’aver “bruciato insieme a doi crocifixi un fantolino nato morto … poi portato a sepellìr …”. 
Processata nel 1586 e di nuovo nel 1589 come recidiva, venne condannata una prima volta a pubblica berlina con fustigazione da San Marco fino a Rialto,e poi al solito bando di cinque anni fino all’abiura del Demonio che lei professò ufficialmente il 16 luglio 1586.

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Giovanna Semolina figlia di Mastro Domenico Tintore abitava in Rio Terrà della Maddalena nel Sestiere di Cannaregio, ed era considerata guaritrice tanto efficace nella sua “Arte”da essere considerata in contrapposizione e concorrenza con la famosa vecchia Elena Draga Guaridora.

“… L’è 16 anni che fazo quest’arte …chi ha tegna sula testa, de piaghe, de srovole, de drezzar le membra et osse che fossero scavezade o uscì de fora de locho, et alle done le ho medicate dele panochie, de caruoli e mal franzoso, chi ha piaghe nelle gambe, qualche fantolin cha male in bocha, che ha i vermi … E ho guarito quei che càzeno de quel male et per schotadura, brusati, e ho medicato anche quei che son stà mati del cervello, che sono in escir … et de questi che son ligati, che non possono usar con done, li ho insignato che vagano a pissar in un pesce go et che poi lo butano in te l’agua et che dovessero dire: “Si come te buto in te l’aqua, me posso desligàr …”

Nel 1584 per allontanare Messer Lunardo dall’amore per un’altra donna consegnò a sua moglie una pignatta con dentro un “lazaro che spuzava”, ossia una mistura con la quale doveva imbrattare la porta e i cantoni della casa della rivale dicendo al nome del Diavolo: “così come questa cosa spuzza, così possa spuzzar a Messer Lunardo la donna, la casa, i coppi e tutto.” Fu lo stesso Lunardo a denunciarla all’Inquisizione che la carcerò portandola a processo: “Impenitente, e non desiderosa di cercar perdonanza …” venne condannata anche lei all’esilio di cinque anni da Venezia lasciandole tre giorni di tempo per abbandonare la città lagunare.

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Giovanna Cargnela di Cesare o Carnera o dalla Carnia denunciata il 23 novembre 1587. “Era stria malefica !” secondo una deposizione spontanea rilasciata davanti al sostituto Inquisitore del Santo Uffizio Fra Giulio da Quintiano nel Convento di San Domenico di Castello da Giacoma moglie di Maestro Jacopo da Bergamoabitante in Contrada di Santa Croce in Corte dei Lavadori in una casa di Torniello Mastro delle cere.

Giacoma riferì: “… una certa Orsetta moglie di un Tessitore di Panni e residente nella stessa Corte in una casa dei Nobili Loredan fu impedita qualche giorno prima d’entrare in casa della Cargnela che la respinse mettendole le mani sul petto. Costei le riferì sulla porta di casa, o in casa sua in un’altra occasione, che osservando in casa la Cargnela l’Orsetta vide alcune pentole bollire sul fuoco, e riferì che la Cargnela era autrice di molte superstizioni, e che volle insegnargliele anche se lei ora non aveva memoria per riportarle. Fra le altre cose le aveva riferito che lei metteva le cinque dita della mano sul muro invocando e scongiurando cinque Diavoli, e che quelli vanno a colpire al cuore di chi lei desidera, e che perciò quelle persone non avranno più bene finchè vivranno ...”

La Giovanna Carniela abitava da un anno nella stessa Corte con fama di “far strigarie”.
Inoltre costei aveva delle compagne che la praticavano, ossia Isabellache abitava vicino al Traghetto per andare a San Barnaba, e il cui marito era condannato in galera; e sua sorella Livia che si diceva in giro essere una cortigiana.

Giacoma riferì inoltre che costoro praticando casa sua avevano “guastato”suo marito, che di solito non era uomo che praticava donne ... Era accaduto, invece, che lui l’abbandonasse giorno e notte per praticare quelle donne portando loro anche da mangiare ... e che lei aveva trovato anche: “… un velo di quattro-cinque brazza in una quarta di vino con un legaccio di panno annodato artificiosamente con due nodi di dubbio significato che ho mostrato a diverse persone, soprattutto a due giovani donne nubili di Ca’ Tagiapiera che mi hanno consigliato di gettarlo via ... E l’ho buttato in canale … Altro non so, e dico questo per scaricare la mia Coscienza e lo confermo sotto giuramento”.

Un anno dopo, Ursia moglie di Ser Angelo Tessitore di Panni abitante nella stessa Corte dei Lavadori nel Confinio di Santa Croce di Venezia comparve giurando di dire la verità davanti ai Giudici e di fronte all’Illustrissimo e Reverendo Padre Maestro Inquisitore Stefano Guaraldo da Cento. Interrogata se conosceva l’identità e le attività della Carniera, rispose che la conosceva ed era entrata alcuni mesi fa a casa sua come si fa di solito con le vicine … che in realtà si chiamava Giovanna … che lei non sapeva nulla degli scongiuri con le cinque dita eccetto che voleva insegnarglieli. Ma che lei non aveva voluto impararli … e altro non sapeva.

Comparsa a sua volta la Carniera in persona moglie di Ser Cesare Giovanni da Venezia “menator arganei” e residente in Contrada di Santa Croce, e davanti a Ser Giovanni Battista Querini Assistente dell’Inquisitore rispose di non essere a conoscenza del motivo per cui era stata convocata. Disse che alcune donne le erano nemiche, che le volevano male perché volevano che lei facesse a modo loro … Fra costoro c’era soprattutto Cathe moglie di Stefano Ceraiolo, anche se sarebbero state molte, e non sapeva nominarle tutte ... e di non odiare nessuno … anche se non sapeva se le altre provassero la stessa cosa per lei.

Interrogata poi se avesse fatto bollire pignatelle, fatto scongiuri con la mano al muro o cose simili, rispose sorridendo che quelle non erano cose vere, così come rispose che non corrispondeva a verità il fatto che lei scongiurava cinque diavoli con le cinque dita. Interrogata ancora se avesse mai insegnato quelle cose a qualcuno, rispose di non averlo mai potuto fare perché quelle cose non le conosceva.

Chiestole ancora se conosceva donna Giacoma moglie di Mastro Jacopo Bergamasco, rispose di conoscerla e di salutarla appena “bon dì … bon anno”, ma di aver litigato con lei molte volte in quanto lei sosteneva che suo marito le avesse dato del pane e altre cose … e che la questione degli scongiuri diabolici non era vera, ed era stata messa in giro “per malevolentia”.

Perciò venne licenziata e lasciata andare ammonendola di non lasciare la città e il Dominio di Venezia senza il permesso del Santo Tribunale.

   ***
Elisabetta era della Contrada di San Domenico di Castelloe nel 1587 disfava piombo in una padelletta: “…quel piombo viene in forma di un Diavolo, c’haveva li corni et pareva che strangolasse uno …”

   ***
Giustinavedova piena di figli di Nadalin Barcarol assassinato a tradimento da quattro marinai sulla porta di casa di proprietà della Schola Grande della Misericordia, venne denunciata dalle famiglie dei sospetti omicidi, quindi scagionata nel 1584 perché non rea di: “… strigarie, martelli con Naranzi, pan, sal, savina, invocazione dei Demoni e perché faceva pignatelli”.

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Lucia Furlanadella Contrada di Santa Maria Formosa nel 1582 venne processata per ben tre volte dall’Inquisizione “par Strigarie, Herbarie et sconzurar Diavoli et simile cose …” mansioni tutte esercitate per soldi.

“… donna di pessima e cattiva vita, sfregiata, bestemmiatrice … vessata dallo spirito maligno di nome Buranello che le faceva predire il futuro, scoprire i ladri, e operare guarigioni.”e c’erano anche Lorenza o Lucrezia Furlana nel 1584 di cui si diceva che: “Buttò la cordella per terra per una certa Paula che voleva sapere se fosse tornato da lei il suo amante Piero che amava.” … e sempre costei diceva interpretando e prevedendo il futuro:“Adesso è con una donna … Adesso el è per strada … Adesso el vegnerà”… Ma non venne nessuno, e Piero non si fece più vedere.

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Chiara della Contrada di San Martin de Castello era un’altra presunta Strega:“… aveva tirato diverse volte la cordella … perché mio marito era innamorato di un’altra donna e da molti mesi in qua non tornava più a casa et era in casa de’ figli et lo mandai a chiamar per uno de’ miei putti” ... e aveva sciolto piombo sopra un figlio malato e stregato di “brutto male”, segnando sia lui che una sua camicetta con acqua santa e olivo benedetto, e gli aveva messo al collo una lingua di gallo che il Piovano di San Simeon le aveva fatto togliere segnandolo, invece, con buone e Sante Reliquie … e aveva fatto la minestra al marito con acqua benedetta presa nella chiesa di San Polo, aveva comprato ostie da Messa su consiglio di alcune donne della chiesa dei Carmini e polveri per purgare la famiglia su suggerimento della sua massera … e una pezza di seta lunga quanto il figlio che poi andò a seppellire al posto del figlio.”

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Dalla Gobba dei Due Ponti andava almeno un centinaio di persone al giorno e si diceva guadagnasse almeno 20 ducati al mese esercitando “l’arte scellerata di buttare la cordella o le fave”.

La “cordella” era quella che di solito teneva su le calze sulle cosce delle donne, mentre le fave erano il legume povero normalmente presente nelle cucine veneziane. La cordella veniva misurata, annodata per simboleggiare il legame che si voleva, poi si recitavano formule particolari e la si buttava su tavolo o per terra come le fave: “studiandone il risultato” per poterlo applicare al futuro.

“Se i due capi della cordella si uniscono insieme era segno che si volevano bene l’uomo e la donna per cui si faceva quel gioco.”

Gettare le “fave benedette”, invece,era tra i sortilegi per trarre auspici elencati e contemplati nella “Pratica”di Desiderio, manuale dell’Inquisizione Romana del 1600.

   ***
L’Inquisizione Veneziana non ebbe alcun dubbio nel definire Laura Malipiero a più riprese: Strìa ! (ossia Strega)… Fatucchiera ! Herbarola ! Fassinarola ! Amaliadora !

“… Laura affidava i vestiti maleficiati di Martina Emo all’effetto purificatore dell’acqua marina del mare e della Laguna, preparando con 40 onde le sue magiche pozioni … buttava piombo discolato a forma di ago sulla veste dell’uomo dicendo parole greche … metteva ostie, acqua, polveri misteriose nella minestra che inducevano il marito ad andar per strada facendo matarie, buttar la schiuma dalla bocca , e infuriato voler dare a tutti … legava in giro cordelle rosse con strani nodi …conservava amuleti, una lingua di gatto secca avvolta in oro e argento e in nastri di seta gialli che le era costata 4 lire … S’innamorò anche di un Prete al quale infondeva robba di casa … portava addosso una “carta neretta” e le “carte del ben volèr” ricevute da altre donne per 3 lire, per cui le armi “non le possono dare impazzo” ... insegnava a tagliare la strada con un coltello nero al rivale in amore …a riempire con l’acqua di mare a Sant’Antonio un boccaletto comprato a nome dell’amato per farlo innamorare dicendo: “si come l’acqua in quei coccoli, così possa battere il cuore di tal de mi.”… saltava la fata ossia l’ombra recitando formule magiche…”

Il suo vero nome era: Tàrsia figlia di Teodorìn da Rodi e di Isabella Malipiero (forse figlia illecita avuta dalla madre a servizio di un Nobile Malipiero di Venezia). Abbandonata fin da bambina piccolissima nel Monastero dei Greci nel Sestiere di Castello; data in sposa a soli 12 anni con una dote di 20 ducati a un marinaio che subito scomparve e finì prigioniero dei Turchi; ridata in sposa a 20 a Francesco Bonomìn vedovo con 4 figli conosciuto a un ballo di Carnevale ai Santi Apostoli, costui la fece partorire un maschio e una femmina, la tradì con altre, la minacciò con armi, la picchiò per bene come un tamburo … e poi la denunciò per la prima volta all’Inquisizione di Venezia nel 1630 insieme alla madre Isabella “infioratrice poverissima di margherite … mendica, che infilava e cercava con un bastòn”.

L’accusa fu di poligamia, licenziosità, sortilegi e molto altro ancora cercando di far annullare il matrimonio.

Al processo il Bonomìn provò a spiegare: “… fui ammaliato, legato da malefici amatori … ho continuato così sin tanto che sono andato alla Casa di Loreto venendomi fuori dallo stomaco una cosa negra, qual cosa credo fosse il letto delle stregarie …”

Risparmiata e lasciata libera nella prima occasione, Tàrsia alias Laura Malipiero si risposò con Andrea Salaròn mercante da Bologna e ripetè purtroppo la stessa trafila precedente: di nuovo botte, vessazioni e abbandono con nuova denuncia nel 1640 all’Inquisizione di Venezia … che a conti fatti s’interessò di quella stessa persona per ben trent’anni consecutivi.

Niente male ! … Che sfiga, che vitaccia però !

Considerati i fatti si trattava in realtà solo di una donna sfortunata e mai doma, sempre vogliosa di continuare a vivere ingegnandosi e industriandosi come poteva per se e per i suoi figli. Perdendo ogni volta i suoi averi che venivano confiscati dall’Inquisizione o rubati dai mariti, provò a fare l’affittacamere, gestire magazeni, vendere calze, prestare piccole somme di denaro … e vendere rimedi e strigarie. La sua massera di casa diceva: “… Laura cavava mezzo Scudo o un quarto di Scudo, et poi nel finire quattro Scudi alla volta, o nel caso di Battista hanno mangiato 14-16 Ducati … da Laura c’era molta gente … c’erano molti in casa soa … capitava tanta quantità ogni giorno e di Cristiani e di Ebrei, e sino delle Monache, in particolare quelle di Santa Lucia …”

Una servetta che avevano prestato servizio a casa sua testimoniò all’Inquisizione d’essere stata mandata in Piazza San Marco a raccogliere ossa di condannati a morte bruciati dalla Giustizia utili per ricette e far strigarie.

L’accusa davanti al Santo Offizio dell’Inquisizione rimase sempre la stessa: Strigaria !“Laura è la strìa che sta in Castello verso san Martinper certe ontioni, o ogli che ella dispensa.”… e stavolta andò male perché venne inquisita insieme ad altre sei streghe, due Frati, un Sacerdote e la sua stessa madre. Non venne prosciolta perché “inferma e mal sana” come chiedeva, e si beccò una condanna a dieci anni di carcere commutato poi in arresto domiciliare per motivi di salute durante il quale subì una terza denuncia nel 1654 a cui non potè rispondere perché morì nel 1660.

A Venezia era diffusa la nomea e la fama delle donne Greche e Cipriote. Per i Veneziani erano tutte “Strighe, Herbarole guaridore, donne di mal affare …” come Zuana che abitava alla Carità, Santa da Buda, Serena e Marietta, e Rosa e Caterinada Corfù che usavano pezze di seta per assorbire i mali da seppellire, annodavano nastri simbolici e fazzoletti, segnavano con acqua e olio benedetti … e sfruttavano le proprietà narcotiche, allucinogene, lenitive e tossiche di alcune piante utilizzate anche dai popolani e dai contadini, come: l’Atropa Belladonna, il Giusquiamo o Hyoscyamus Niger, la Mandragora Officinarum Linnaeus, la Datura Stramonium, la Cicuta, la Segale Cornuta dei Cereali usata al posto del Grano, l’Amanita Muscaria (il fungo degli sciamani) che potevano procurare allucinazioni e visioni, e altri speciali beveroni a base di Papaverina e Vinoche si somministravano anche ai bambini e agli infanti.

Insomma, molte donne a Venezia vennero accusate di praticare la “Superstitio simplex” o di fare l’Anguistara leggendo il futuro dentro all’acqua di una caraffa … oppure di versare piombo fuso o cera calda a forma di Diavolo convinte d’esercitare “un’arte che era pratica di cose di Dio”,quindi legittima, gesto devoto, nobile ricorso alla Celeste Provvidenza. Per la scarsa cultura era labilissima fra le persone comuni la differenza fra ciò che era retaggio del passato, dei Culti Naturali legati al Mistero delle Stagioni e dello scorrere ripetitivo del Tempo, e i segreti affascianti del funzionamento del Mondo nascosti dentro all’Acqua, all’Ariae alla Terra

Spesso non si sapeva distinguere tutto e bene, perciò si pensava che ci fosse un’impronta e una traccia spirituale del Divino nascosta dentro ad ogni cosa: “Tutto può condurre e rivelare i Misteri Segreti dell’Eterno Divino e Provvidente … ogni cosa cela Sapienza e Bontà segrete capaci di guarire e sanare anche per sempre …” si diceva in giro anche per Venezia. Era come “un sentire diffuso”, una vaga maniera di percepire e interpretare le cose, i fatti, le persone e l’esistenza ben diversa da oggi.

Come avete inteso, a volte bastava un niente, un semplice sussurro, una parola di troppo: serviva essere donne sole, un po’ arrangine, di quelle che pur senza uomini e senza voler offrirsi a nessuno provavano lo stesso a vivere la loro esistenza ingegnandosi per sopravvivere in maniera un po’ alternativa ... Finivano quasi subito per essere etichettate come: Strìe, Bestemmiatrici, Malefiche, Diaboliche ... e perciò degne d’attenzione inquisitoria.

Pareva come che ci fosse sempre una grande molla invisibile sempre tesa e pronta a scattare, un meccanismo in attesa d’essere ancora una volta sciolto, avviato e scatenato mostrando tutto il suo temibile e deleterio effetto ... C’era come una trappola tanto mortale quanto falsa e inutile che aleggiava pericolosissima anche dentro ai tempi della Serenissima …


“UNA LISTA DI PROSTITUTE DEL 1500 … A VENEZIA”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 114.

“UNA LISTA DI PROSTITUTE DEL 1500 … A VENEZIA”

Come si sa, la Prostituzione è il mestiere, l’arte più antica del mondo, e anche la Serenissima lungo tutto il corso della sua plurisecolare Storia ha sempre dimostrato d’interessarsi al fenomeno in maniera più o meno diretta e interessata. In diverse occasioni ha anche cercato di arginare e tenere sotto controllo la “situazione”provando a concentrare le “femmine di malaffare dedite al Meretricio”in particolari zone della città come il “Castelletto” composto da ben 34 volte, magazzini, botteghe e Osterie come quella della “Stella”,“Al Figher”,“Alla Croxe” e “Al Gambaro” dove le donne stavano di giorno fuori appostate in mostra e battuta cercando d’accalappiar clienti; oppure relegandole nella zona poco distante delle “Carampane”(nome che indicherebbe prostitute sfiorite), in ogni caso sempre non lontano dal frequentatissimo quanto vispissimo Emporio internazionale di Rialto dove in gergo le donne del sesso venivano chiamate: “le contesse”, o più gentilmente: “le mamole”.

Ma si sa bene come vanno certe cose:“… quando si vuol chiudere per forza una porta per non far uscire di fuori qualcosa, quel qualcosa spesso finirà col scappare liberamente dalla finestra.” Perciò le prostitute di fatto esercitavano ovunque in ogni Contrada della città di Venezia, seppure sempre sotto il controllo diretto o indiretto delle Magistrature e degli uomini attenti e “dai mille occhi e orecchi” della Serenissima. Il perché era ovvio: quella piccola folla di donne “dedite al mestiere del godimento”erano per la Serenissima una fonte pressochè inesauribile di contatti e informazioni riguardo a tutto quanto accadeva nel largo mondo dei Mercanti, dei Marinai, dei Forestieri, e non da ultimo di tutto ciò che succedeva nelle case, nei palazzi e dentro alle vite di tanta parte dei Veneziani Nobili, Cittadini e popolani qualsiasi ... e anche di altri.

Il Meretricio tanto ufficialmente deprecato e condannato era perciò una situazione accettata nella città Lagunare, anche perché in quel modo una larga porzione di donne e famiglie riuscivano a non gravare economicamente sullo Stato e sulla Chiesa sempre impegnate ad arginare una folla immane di questuanti, miseri, poveri, vagabondi più o meno vergognosi che riempivano la città Serenissima. 
Numeri alla mano, non esagero affatto nel ricordare che in certe epoche il numero dei “bisognosi” che vivevano al margine della società Veneziana ricca e potente comprendeva circa un quarto se non di più dell’intera popolazione di Venezia. I miseri residenti stabilmente a Venezia erano più di qualche decina di migliaia senza contare il flusso ininterrotto e a volte incalzante di quelli che affluivano “a ondate” dalla Terraferma Veneta, dalle Isole e dalle Campagne soprattutto in tempi di calamità, guerre, carestie e pestilenze.

Famosa è la scena descritta dal solito diarista Marin Sanudo nel 1527 verso Natale, quando Venezia era ridotta ad essere cenciosa e alla fame: “… ogni sera in piazza San Marco, sulle vie della città, e su Rialto è pieno di bambini che gridano ai passanti: “Pane ! Pane ! … Muoio di fame e freddo !” E’ terribile ... Al mattino, sotto ai portici dei palazzi vengono trovati cadaveri ...”

E nel febbraio dell’anno seguente in tempo di Carnevale continuava a scrivere: “… La città è in festa, sono stati organizzati molti balli in maschera e al tempo stesso, di giorno e di notte, è immensa la folla dei poveri ... A causa della gran fame che regna nel paese, molti vagabondi si sono decisi di giungere qui, insieme ai bambini, in cerca di cibo … Devo annotare qualcosa che rammenti che in questa città regna continuamente una gran fame ... Oltre ai poveri di Venezia che si lamentano per le strade, ci sono anche i miserabili dell’isola di Burano, con i loro fazzoletti in testa e i bimbi in braccio a chiedere l’elemosina ... Molti arrivano anche dai dintorni di Vicenza e Brescia, il che è sorprendente ... Non si può assistere in pace ad una Messa, senza che una dozzina di mendicanti non ti circondi e chieda aiuto … Non si può aprire la borsa, senza che subito un poveraccio non ti avvicini, chiedendo un denaro ... Girano per le strade persino a tarda sera, bussando alle porte e gridando: “Muoio di fame !”

Dentro a questo scenario tragico la presenza delle numerose Prostitute aveva quindi una sua logica e una sua utilità, e rappresentava una fascia sociale che perlomeno non gravava più di tanto sulle difficili economie del Governo Serenissimo che aveva spesso altro a cui pensare: … a finanziare ininterrottamente le guerre ad esempio. C’era anche chi apprezzava quella categoria di donne, non solo per il servizio fisico e amoroso che prestava, ma anche perché, come raccontano le Cronache di Venezia, alcune di loro erano a loro modo molto generose tanto da prestarsi nell’adottare qualche abbandonato o orfano, oppure dedicandosi ad opere di carità nei riguardi di chi era più sfortunato.

Perfino nelle chiese, dalle quali erano tenute ufficialmente lontane e obbligate a indossare uno speciale segnale di riconoscimento o abito giallo, le Prostitute di Venezia contribuirono in maniera significativa con un intenso “commercio” permettendosi non solo Devozioni come un qualsiasi altro Fedele, ma anche tutto un corollario di Messe, Preci e Suffragi: “… per me et la mia propria Anema, et per quela de mii poveri Morti …” che finanziavano assiduamente coinvolgendo Preti, Frati e Monache molto spesso legati da intense  frequentazioni e amicizie: “… nel settembre 1514 l’honorata et nominata meretrice Anzola Chaga in Calle venne sepolta in chiesa dei Frari … e un mese dopo, Lucia Trevisan eccellente cantante e cortesana venne sepolta in chiesa di Santa Catarina con solenne Messa Cantata dai suoi amici musicisti che a casa sua riducevano tutte le virtù…”

Viceversa, in tempi di guerra o grande calamità e pestilenza la Serenissima “precettò in massa” quel piccolo esercito delle prostitute della città spedendolo ai Lazzaretti e improvvisandolo come assiduo insieme di “crocerossine e badanti”.

Il solito diarista Marin Sanudo nel 1509, forse con una battuta di spirito, o seguendo chissà quale calcolo empirico, riuscì a quantificare in 11.654 il numero delle prostitute Veneziane presenti in città … Numero esagerato di certo … ma non meraviglia che in quello stesso tempo girasse liberamente per la città una strana lista di ben 215 donne che praticavano “Il mestiere”. Era una specie di “bizzarro catalogo delle prostitute”, buttato giù probabilmente in maniera goliardica e ironica, ma che ottenne una notevole fama e divulgazione, tanto da giungere “in copia” fino a noi diversi secoli dopo.

Le Cronache giudiziarie antiche raccontavano già che: “… Sandro Lombardo, già sbirro a Rialto, praticava Angela da Zara che lavorava al Castelletto amministrata dalle matrone Lucia Negra e Anna da Verona. Un bel giorno gliela negarono, e lui ubriaco, dopo un violento litigio appiccò il fuoco a quanti letti gli vennero sottomano ... Gli Avogadori da Comun lo condannarono a un anno di prigione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, e al bando perpetuo dal Castelletto …”

Vivere da prostituta non era uno “status” sociale facile, perché al di là del giro dei soldi si trattava di donne quasi sempre strapazzate, talvolta comprate e vendute, vessate dai Nobili verso i quali erano spesso indebitate e morose, o violentate, picchiate e maltrattate dai vari “ruffiani e bertoni”, mezzani, protettori, locandieri, gestori di “stue e bordelli” e osti che amavano ospitarle per incrementare i loro affari e la vendita del vino ... sui cui la Serenissima incassava abbondante Dazio.

“ … Giacomo Davanzago, ex Capo Sestiere, venne chiamato da due meretrici sue amiche per aiutarle a resistere allo sfratto esecutivo da una casa in Corte Pasina in Contrada di Sant’Aponal presa in affitto dal Nobile Federico Michiel … il Davanzago giunto sul posto si mise a menar fendenti di spada contro il Nobile Michiel e i suoi amici, gli strappò le chiavi della casa dalle mani, e rimise dentro le due donne … Venne processato, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e condannato a 100 lire di multa …” raccontano ancora i registri della Giustizia Veneziana.

Dentro a quella strana lista che girava di certo per Locande, moli del porto, ridotti e case da gioco, mercato e chissà quali altri posti di frequentazione, erano elencate donne per tutti i gusti … e per tutte le tasche.

Già allora esistevano le Prostitute “d’alto bordo”, quelle che costavano di più, e pretendevano cifre considerevoli non solo per le loro prestazioni, ma anche per il loro lignaggio e l’appartenenza a classi sociali superiori. In cima alla lista di tutte stava, ad esempio, la Paolina Filacanevo che pretendeva ben “30 Scudi a bòtta” esercitando nella Contrada di Santa Lucia nella casa della sua stessa “massera”, ossia una delle sue donne di servizio.
Dopo di lei seguiva nella lista delle “donne di classe”:Licia Azzalina che costava 25 Scudi e abitava in Contrada di San Marcilian in Corte di Ca’ Badoer al Ponte dei Sassini in casa delle “colleghe”Visentina e Margherita. Un gradino più sotto di queste due, si offriva a un prezzo abbastanza elevato: Cicilia Caraffa che voleva 20 Scudi ospitando i clienti in Contrada di San Thomà, anch’essa in casa della sua massera; e Cornelia Pesta la Salsa che praticava in Contrada di San Simeon Grando nel Sestiere di Santa Croce a 18 Scudi in casa di una sua amica Anzolache voleva, invece, come eventuale ripiego solo 1 Scudo.

Ancora un altro gradino più in basso sulla scala “della qualità” stavano sia Giulia Festina disponibile in Contrada di Santa Margherita in Corte del Forner, che Lucietta Brunella in una casa in Contrada di San Gregorio, anche se costei abitava in realtà dalla parte opposta della città, ossia a San Marcuola insieme a Lauradetta “La Grassa”. Entrambe le donne si offrivano per non meno di 15 Scudi “a seduta” … come faceva anche Vienna Borella che abitò per otto giorni in Borgo San Trovaso presso un Barcarol che aveva “stazio da barche”proprio  sotto casa (comodo ! … come avere il taxi fuori la porta)… e Cornelia Granda che era disponibile vicino alle Monache di San Lorenzo a Castello dove a soli 4 Scudi si poteva trovare anche Marina Libera che utilizzava la casa di un barcarol.

A tal riguardo bisogna sottolineare che al di là della pubblica prostituzione esisteva a Venezia anche un intenso “movimento” di donne Nobili e meno Nobili che intendevano vivere “esperienze aperte, emancipate e libertine” per le quali andavano famose in tutto il mondo. Lo stesso Carnevale, le numerose Feste, e le Masquerade in genere erano sinonimo di tempo e opportunità per esperienze e concessioni d’ogni genere, e Venezia sapeva offrire già da allora mille maniere per divertirsi aprendo Ridotti e Casini dove poter giocare, ballare e frequentare donne. Da questo intento e proposito non si estraniava affatto l’ampia schiera dei Monasteri Femminili in cui spesso era rinchiuso (per modo di dire) qualche migliaio di donne Patrizie, facoltose e disposte spesso a tutto rendendo la profferta cittadina ancora più singolare e appetitosa … A tal proposito si arrivò a coniare l’apposito termine dei “Muneghini” per indicare una categoria di uomini che andavano espressamente a caccia di Monache accondiscendenti … che non erano poche.

A chiudere la lista delle “donne che contavano per leggiadria, gentilezza e modo”, c’erano a 10 Scudi la Tulia Balina residente dietro alla chiesa di Santa Caterina presso sua zia Lucia, poco distante da dove stava in casa di un barcarolo Isabella Bell’occhio che voleva gli stessi soldi (Anzola Bell’occhio, invece, voleva in alternativa solo 1 Scudo). Poi c’era anche Paula Pisana in casa di sua madre al Ponte dell’Aseo dove come il solito c’erano come “ripiego a minor prezzo” (solo 4 Scudi): Ipolita e Paolina Padoane libere padrone di se stesse in casa propria … e Orsetta dal Sal che abitava al Malcanton con la sua amica Chiara che esercitava, invece, in una casa al Ponte della Calle del Megio nel Sestiere di San Polo … Chiaretta Da Lezze in Corte dei Mutti … Cornelia Niza abitante vicino alla chiesa dei Frari ma esercitante a San Barnaba in casa di Menega Burchiera … Giulia Fornera a Sant’Alvise in casa di Cathe Schiavona nelle case appartenenti ai Nobili Giustinian, poco distante dai luoghi del “Bressaglio”dove si poteva recarsi per esercitarsi con le armi, per cui si poteva mettere insieme “utile e dilettevole” ... nella stessa zona c’era disponibile anche Cornelietta a un solo Scudo.

In fondo alla lista c’era la prostituta più miserrima e a basso prezzo: “quella che dovrebbe pagarti per andare con lei … tanto è vecchia, ridotta male, sciupata e appesantita dagli anni … per non definirla sfatta … Qualche uomo doveva essere fin quasi disperato per ridursi ad andare a bussare alla sua porta … Ma c’è da dire: “che quando l’acqua arriva alla gola spesso s’impara a nuotare pur di non affogare…” si commentava in giro, perciò anche alla porta della Elena Rossa che costava solo ½ Scudo praticando in casa di sua madre accanto al Monastero di Santa Maria dei Servi nel Sestiere di Cannaregio, c’era sempre chi andava a bussare venendo prontamente accolto e ospitato. 

In alternativa c’erano: Laura Grassa de San Lucha(1 Scudo come Laura e Franceschina Tron in Corte delle Campane poco distante) da non confondere con l’altra Laura Grassa, quella vera, che valeva però ben 15 Scudi; oppure c’era Lauretta Cavalcadora a Sant’Aponal, e Marietta Velera in Rio Marin alle quali si poteva dare quel che si voleva … come a Lucrezia Mortesina di Castello (che già il nome era tutto un programma) ... o Cornelia Schiavonetta a Santa Fosca stando però attenti che tutti dicevano: “ch’aveva indosso i cariòli”.

In mezzo a tutte costoro stava una nutrita schiera di donne disponibili per cifre variabili fra 6 e 8 Scudi, residenti in ogni Contrada di Venezia e concentrate soprattutto o in alcune zone periferiche dove era possibile abitare in semplici caxette spendendo relativamente poco. Oppure stavano per esercitare nelle zone delle Locande e delle Osterie soggette alla frequentazione di Marinai, Mercanti, Soldati, Artieri … e perché no ? … Anche di Pellegrini di passaggio per Venezia, diretti o di ritorno dalla TerraSanta: “… la carne chiama la carne … anche gli homeni devoti e de Spirito che amano pellegrinare e viaggiare, sentono oltre il bisogno di un tetto che ripari, di un foco e de un giaciglio, anche il richiamo della bona tavola, del bon vino, del zogo e del tentar la Fortuna, come della compagnia de una allegra femena adatta allo sfogo corporeo … rimedio salutare come quello del Medego in caso de malignità …”

Sempre secondo la lista, a una cifra “bòna, de mezzo e ben spesa”fra 8 e 6 Scudi, si poteva approfittare dei servigi di: Anzola Borella in Borgo San Trovaso, Agnesina e Calidonia a Santa Caterina, Elena Driza a Santa Sofia (dove poco distante c’era anche: Lucieta Trevisana che voleva metà soldi), Felicita Trevisanella ai Santi Apostoli anche lei in casa di Maddalena del Prete, Antonia Spagnola ai Servi, Biancaalla Madonna dell’Orto, Marietta Vespa a San Girolamo nelle case di Ca’ Moro, Chiaretta Barbiera a San Felise, Isabella ai Crociccheri che a volte si concedeva anche per meno, e Lucietta dall’Osso Pagan ditta Bernarda(7 Scudi), Cornelia del Stefani a Sant’Agnese abitante vicino a Bertolina Ruosa che voleva solo 1 Scudo … e Geronima di Alvisa da Piacenzapresso la chiesa di San Barnaba … e Franceschina Zaffetta Padovanaresidente a Cannaregio sempre affamata di soldi perché aveva affitto da 40 Scudi da pagare nelle “caxe del Paradiso”vicino al ponte di legno accanto al Pistòr. Lontane e un po’ fuori mano, ma in Contrade tranquille poco distanti dall’Arsenale come quelle di Santa Giustina e Santa Ternita c’erano ancora: Giulia Rosà in casa propria, Bettina e Paula Traversa Tonda in casa di Angela Murera, mentre nella più centrale San Beneto c’erano Isabella Brunetta nelle case di Ca’Zorzi e Orsetta e Franceschina Ragusea in casa di sua madre Franceschina … o a metà strada, “da non camminar troppo in giro”, c’era: Maddalena Mastelera in Rio Marin.

A soli 4 Scudi: Anzola Trivisana era presente a San Felise sul Rio de Barba Frutariol vicino al Traghetto in casa de Maddalena del Prete; per la stessa cifra erano disponibili poco distante anche Antonia Zotta sulla Fondamenta del Ghetto e Ipolita Zudea alla Misericordia … e Catarinella a Santa Caterina dove stava anche Felice Pottona in casa del suo patrigno Barcarol a Rialto … e Lucrezia Spagnola in Ruga Santa Caterina dove c’era anche un’altra Catarinellache abitava a San Zanipolo vicino al Convento dei Frati dell’Inquisizione … e Cornelia Guantera e Marina Briconi ai Santi Apostoli che però era donna maritata … perciò bisognava stare attenti al marito spesso iracondo e rabbioso. Accanto a queste c’era sempre un’alternativa: poco distante, verso Santa Sofia, c’era Cornelia Morlachetta presso Betta figlia di Maria a Ca’ Michiel … e più avanti ancora, verso le Contrade della Maddalena e di San Marcuola si potevano trovare: Violante Senese e Marietta Grega.

Alla stessa cifra, verso Piazza San Marco c’era Catarina Caleghera: a San Fantin in casa di sua madre accanto alla chiesa … e poco distante Catarina Granda a Santa Maria Zobenigo in casa della madre Elena …e una certa Lucrezia alla fine del Portego del Visentin in casa di una sua servetta.
Candiana di Martini si poteva trovare oltre il Canal Grande: a Sant’Agostin in casa di sua sorella, a poca distanza da Lucietta Caleghera che risiedeva in Rio Marin al Ponte del Latte dove c’era anche la Samaritana presso Jacomo Barcarol che teneva stazio a San Zanipolo … e la Maddalena de Jacomo dei Ormesini presso San Simeon Grando in calle, poco distante dalle Sorelle Baffe che costavano solo 1 Scudo … mentre Diana dei Colombini riceveva in Borgo San Trovaso in casa di Anzolo Pesta la Salsa … poco distante da Ludovica Stella che stava a San Barnaba dietro alla chiesa.

In alcune zone popolari della città Serenissima come lo erano i Birri della Contrada di San Canzian, ma anche le Contrade di San Mattio di Rialto, San Barnaba, Santa Caterina a Cannaregio e San Samuele poco lontano da San Marco c’era sempre stata una significativa concentrazione di “donne del peccato”, per cui nella lista apparivano: Catarina Petenera, Marietta Grega presso Maria Visentin, Moresina a 1 Scudo in casa di Cathe Schiavona, Anzola Spadera che costava un po’ di più (6 Scudi) come Casandra e Catarinella Furlana in Biri che valevano 8 Scudi. mentre Orsetta Mi nol vogio sempre in Birri valeva appena 2 Scudi.

Infine la vecchia lista riportava una lunga sequenza di “femene ordenarieche sanno il fatto loro senzasvodarte la scarsella”Zanetta Buranella in Borgo San Trovaso (2 Scudi); Betta Facchinettae sua sorella;  le due Viena: una a Santa Caterina in cao alla Ruga (2 Scudi) vicino a Marietta Longo (1 Scudo: dare i soldi anticipati … trasferita a San Giacomo dell’Orio) e a Laureta Picola (1 Scudo), Ottavia, Diamante,Elenetta, Cornelia e Anzola Stampadora e Catarina Tagiapiera (1 Scudo) in Ruga dei Do Pozzi … e l’altra a San Felice in un soler delle case nove sora l’abitazione della finestrera (1 Scudo) vicino a Nicolosa e Ottavianella(1 Scudo). A San Lio drio alla chiesa stava Maddalena Muschiera a 1 Scudo: ricordarsi di bussare la porta e di salire di sopra; Marietta Formento e Momola vivevano a San Benetto sotto Ca’ Pesaro (entrambe a 1 Scudo); Marietta Bombardona al Ponte dell’Aseo in Corte de Ca’ Lezze (2 Scudi) dove allo stesso prezzo “ci stavano”anche Cicilia Zotta, Bettina Padovana e Chiaretta Pisanache suonava e cantava compreso nel prezzo (1 Scudo); Marina Borgognona a San Felice (1 Scudo); Marietta Linarola e Cornelia Briana a Santa Maria Mazor (1 Scudo); Orsetta Poca Terra ai Frari  in casa di un facchino Christofolo (2 Scudi), Todra Cuci (1 Scudo) e Vicenza Muranese a San Thomà (2 Scudi) come Lucietta Burche (1 Scudo); Paula e Veronica Franca a Santa Maria Formosa in casa della madre (2 Scudi) e Betta Lavandera in casa de so comare specchiera; Pasqua Misocca ai Do Ponti (2 Scudi); Lucrezia Camera al Ponte della Pana (2 Scudi); Lucrezia Barcarola in Rio de San Polo (2 Scudi); Letizia Parisotta, Betta Linarola, Andriana e Lugretia Barabagola (1 Scudo) a San Barnaba (2 Scudi); Laura Granda a Santa Maria Zobenigo (1 Scudo); Lucrezia Dal Vanto ai Crosecchieri (2 Scudi).

Nella Contrada dei Santi Apostoli c’erano anche la Vassalea(2 Scudi più o meno) e la Franceschina Sara sotto Ca’ Corner presso il Linarol; Lucietta Cul Stretto risiedeva, invece, a Sant’Iseppo (2 Scudi); Lucietta Franchina a San Beneto (2 Scudi); Lugretia Favreta a San Gregorio (1 Scudo) in casa di Oliva Frizzi che vendeva pesce a San Barnaba; Laura Muranese a San Marcuola (1 Scudo); Lugretia de Colti a Santa Sofia vicino al bataòr (2 Scudi); Cecilia e Marietta Gazeta in Contrada di Sant’Anzolo al Ponte dei Sassini in casa di sua madre a 2 Scudi; Mariettain Barbaria delle Tole (1 Scudo); Bettina Sabionera e Libera in Campo Santa Margherita sul cantòn delle case rosse presso el Fravo dal Spadon dove sta anche Camilla che è la femena del nevodo del Piovan de San Pantalon; Chiaretta del Figo a Sant’Antonin; Laura Stradiota in Calle della Testa a San Zanipolo; Diana ditta La Fuina in Rio de la Fornase; Diana di Checca Pugliesea San Martin; Elena da Canal e Attallante alla Maddalena; Franceschina Barcarola e Betta a San Marcilian; Elena Balbi in Frezzaria poco distante dall’altra Elenada San Moisè in Calle de la Ternita; Franceschina e Amabilia Verzotta al Ponte de Noal presso Mistro Zorzi Tessitor de Panni (1 Scudo che in parte va a lui stesso); Bortola e Anzola Beccheraa San Joppo; Catarinella ai Carmini alle case nove; Andriana Zen a Santa Fosca nelle case della Schola Granda della Carità; Chiara Buratella alla Zuecha Lago Oscuro in Fondamenta della Carità presso Laura Grassa; Chiara Buranella a San Trovaso; le sorelle Amabilia e Aquilina Veronesea Santa Marina; Andriana Spadera in Spadaria sora il Spicier al Bucintoro; l’Antonia in Ruga Giuffa; Catarina da Todi a San Vio stando attenti a suo marito perché è maridada … altrimenti rivolgersi poco distante alla Betta Contessa ai Gesuati in Fondamenta presso la barcarola.

Altrettanto lunga da raccontare sarebbe la lista dei fatti accaduti a Venezia in relazione con tutto questo immane “commercio” che a più riprese ha movimentato le già vispe e arzille Contrade popolari e marinaresche di Venezia. Potrà sembrarvi strano, ma forse no, che fra i clienti più affezionati delle “compagnesse” ci fosse anche una larga clientela del Clero e della Frateria di Venezia che a più riprese a pari di tutte le altre categorie di uomini è risultata invischiata e coinvolta in traffici più o meno loschi con le interessate:
“… nel 1587 uno Zago della chiesa di San Barnaba della popolare zona del Sestiere di Dorsoduro venne processato dai Signoria di Notte e dalla Quarantia al Criminal in rapporto a certi furti che avvenivano in chiesa ( i soldi delle cassette delle elemosine, i ceri, i paramenti sacri) senza che la porta mostrasse alcun segno d’effrazione. I Fabbriceri della chiesa si erano accorti che Stefana una compagnessa delle zona sfoggiava una camicetta che pareva proprio ricavata dalla cotta da Messa del Piovano di San Barnaba … Stefana alla fine aveva confessato che a regalarle la camicetta era stato proprio il Zago di San Barnaba “nevodo del Piovan” che aveva perso la testa per lei, e che non avendo altri soldi da darle, aveva iniziato ultimamente a regalarle roba … Arrestato, lo Zago Zuanne ammise il suo trasporto per Stefana nonché i furti in chiesa … perciò venne condannato a cinque anni di remo in galea … in seguito ridotta a qualche anno di carcere.”


Tornando un’ultima volta alla lista anonima della seconda metà del 1500, l’autore conclude la sua lunga lista precisando non senza una buona dose d’ironia e sarcasmo: “ … se uno gha borèsso, grìngole, e fisico per togliersi lo sfisio de provarle tutte … sappia che dovrà sborsàr et spender la bona cifra in tutto de 1.200 Scudi d’oro per goder dell’amicitia di tutte quelle 215 Signore …”

LE ISOLE DEI MATTI … A VENEZIA.

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 115.

LE ISOLE DEI MATTI … A VENEZIA.

C’è poco da minimizzare e nascondere, sotto la dizione di“Matti” si è accorpato per secoli tutta una serie di “indesiderati”di varia natura. Forse per ignoranza scientifica e sociale, si sono considerati:“fuori posto, spostati e quindi Pazzi” sia le vittime di traumi e danni neurologici, che le ex prostitute, gli affetti da malattie veneree, tubercolotici, lebbrosi, pederasti, giocatori d’azzardo che hanno perso tutto e rovinato la famiglia, gay, tossicodipendenti, adolescenti irrequieti che disturbano a casa e a scuola, epilettici, candidati e tentati suicidi, alcolizzatio ubriachi molesti, autistici, down, disabili in genere, affetti da demenza senile o da morbo di Altzheimer, arteriosclerotici, maniaci religiosi o politici, anarchici e apolidi,depressi di ogni tipo e per ogni causa, reduci di guerra, criminali incalliti e perché no ? … anche qualche vagabondo senza dimora o nullatenente,e perfino atei e appartenenti a culti nuovi o diversi ... e turisti in vacanza a Venezia troppo esagitati o alterati.

“Incredibilmente, erano pazzi un po’ tutti per la cultura di qualche tempo fa … Si metteva in manicomio tutto quello che non si voleva o piaceva che esistesse fuori ... Si chiudeva tutto e tutti dentro.” ha commentato un ricercatore analizzando gli archivi storici delle “Isole dei Matti”.

Come ben sapete, quello della pazzia è stato per secoli un mondo sigillato e chiuso a chiave, dietro alle sbarre e alte mura come fosse una prigione. E’ stato, inoltre, un mondo precluso gestito spesso da Religiosi e Suore, che hanno esercitato in quel contesto pressioni e lunghe coercizioni sfogando sugli ospiti e sugli operatori quelle che erano le loro frustrazioni personali che li rodevano dentro.
Portavano con se “intaccabili certezze e certi modi per loroovvi e irrinunciabili” che provavano a imporre e radicare nella società e nella vita di coloro che si ritrovavano davanti, tanto da giungere a pensare che l’intero Mondo potesse essere in una maniera o nell’altra gestito come surrogato ed estensione del Convento e della Chiesa, e con le Regole dei Chiostri.

Altri tempi ! … Altre valenze e congiunture storiche, che però hanno visto Frati, Monaci e Monache in genere come depositari e gestori quasi esclusivi dell’accoglienza e accudimento della Pazzia.
Sarà stato per la loro predisposizione all’accoglienza caritatevole, o per la loro proverbiale pazienza, o per i mezzi e le grandi strutture capienti che possedevano già per conto loro; sta di fatto che molti diseredati psico-fisici finirono o con l’accasarsi spesso presso i Religiosi e le Religiose assumendo identità particolari e ricoprendo ruoli di: Conversi, Inservienti, Famuli e Servitoridei Monasteri, o divenendo veri e propri internati e reclusi dentro ai Conventi o nelle isole qualora dimostrassero di non possedere le doti minime per una convivenza sociale considerata normale.
Molti “Matti o presunti tali” sono finiti “a vita” a cantare e pregare, pescare, coltivare, cucinare, allevare le Api, far le spese e da fattorini, compiere lavori di riordino e umile pulizia, ed accompagnare e trasportare in ogni dove i loro benefattori Monaci e Monache che in cambio li ospitavano.
E’ documentata, e non è caso isolato, la presenza dentro ai Monasteri di vere e proprie celle di contenzione a volte collocate dentro ai campanili utilizzate per i Frati e le Monache, ma anche per questo “popolo di diseredati”.

Ormai molti anni fa, ho conosciuto di persona un Sacrestano di Venezia che inseguiva assiduamente tutti i numerosi spiriti e fantasmi presenti e rintanati, secondo lui, negli angoli bui e nei meandri della sua chiesa sparando loro con un dito. Si considerava “bravetto ed esperto” nel compito di scovarli dietro agli altari, nascosti nei confessionali o dietro alle rotondità delle colonne della chiesa, e ogni volta li sapeva sempre “mettere a postoinducendoli a ordine e ragione”… senza però procurare danni e vittime innocenti intorno. In realtà era un buon uomo un po’ bacato mentalmente, che però non avrebbe fatto del male a una mosca, figuriamoci alle persone … Sapeva inoltre mantenere pulita “a specchio” la sua chiesa e gran parte dell’attiguo Monastero dove abitava senza pretendere nulla in cambio se non un tetto sopra la testa, un pagliericcio dove stendersi, e qualcosa da mettere nello stomaco. Era entusiasta e meticoloso in tutto ciò che faceva, e riteneva di prestare un “servizio buono a favore della società”.

“Piss ! Piss ! … Ne ho beccato un altro !” lo sentivi esclamare ogni tanto in fondo alla chiesa semideserta o nel bel mezzo di una Messa ... Era lui che “andava a scovare e sparare”. Nessuno dimostrava di farci caso a quell’uomo “un po’ singolare” anche perché in fondo c’erano in giro “spiriti dannosi” in meno.
A volte i risvolti negativi di quel tipo di gestionedel lavoro e dell’assistenza in maniera eccessivamente “religioso-ecclesiastica”erano evidenti. All’interno non solo dei Manicomi, ma anche di tante case di cura e ospedali gestiti dai Religiosi era sconsigliato se non proibito: sposarsi, partorire, fare sesso, accudire figli e una famiglia … Venivano considerate come l’altra faccia della medaglia, tabù da contenere ed emendare se non condannare, occupazioni a cui non soggiacere.

“Se ti scoprivano incinta ti licenziavano … “Non ti sposare ! … Rischi di perdere il posto.” mi dicevano le amiche colleghe … e queste espressioni le ho sentite anche in diretta dalle Suore quando ho lavorato nelle Isole dei Matti … Ci sono state donne che hanno tenuto nascosto il pancione il più possibile, fino all’ultimo momento … e a volte anche di più, talvolta troppo…”
E’ questa una piccola eco presente forse ancora per poco di quel mondo e di quel “modus operandi” ormai scomparso quasi del tutto (per fortuna)… ma che è esistito davvero a lungo.

Le Isole dei Matti erano parte integrante dell’Isolario Veneziano che per secoli è stato una realtà molto viva, utile e dinamica che ha cinto la realtà di Venezia Serenissima come una collana.
Sapete bene che un tempo un buon numero di isole formava una specie di “cordone Sanitario Lagunare” costituito da Lazzaretti, isole di contumacia e isolamento, Sanatori, e appunto anche Manicomi. Conoscerete di certo la storia e le vicende del Lazzaretto Nuovo, del Lazzaretto Vecchio, San Lazzaro degli Armeni, Poveglia, Sacca Sessola, La Grazia, San Marco e Santa Maria in Boccalama, e appunto San Servolo e San Clemente: ossia le dueIsole dei Matti.
Oggi non più, perché molte isole sono ridotte davvero male. Solo qualcuna si sta “risvegliando” dall’abbandono totale assumendo ruoli e destinazioni talvolta effimeri come è accaduto di recente a certi Hotel e Resort di lusso dalla vita breve.

Il delicatissimo tema della Pazzia e della Salute Mentale è un argomento ostico che ha coinvolto e interessa ancora oggi una larga fascia di persone che finiscono col vivere stagioni della loro esistenza drammatiche oltre che tristi. Non è che di vite ne possediamo tante, perciò pensare che qualcuno possa macinare ed esaurire la propria in una maniera così difficile e sofferta non induce di certo a pensieri ottimisti e allegri. La pazzia, come la demenza sono uno status esistenziale, una malattia inquietante che spesso rendono la vita davvero tormentata. Un tempo poi … quando non esistevano certi ritrovati farmaceutici e psicologici: diventava proprio un dramma nel dramma.

“Oggi ufficialmente i Manicomi sono stati chiusi e non esistono più, ma per questo non è che non esistano più i matti: vivono insieme a noi, li abbiamo in casa e per strada ... anche se fingiamo spesso che non esistano, e preferiamo calare su di loro un velo d’indifferenza e silenzio oltre che di paura tenendoli il più possibile a distanza.” mi ha raccontato una donnetta quasi consumata che ha lavorato gran parte della sua vita nelle “isole dei Matti”.

E’ vero ! … Anni fa ho conosciuto un uomo che guardava spesso il Sole in Cielo… L’osservava tutti i giorni in continuità, e continuava a guardarlo anche dopo aver trascorso diversi terribili periodi nell’isola Manicomio di San Servolo. Dentro a quel Sole vedeva ruotare un sacco di misteri e suggestioni, e mi ha raccontato più volte che neanche le “scariche elettriche” erano state capaci di spegnere quelle “voci, quelle visioni e quei messaggi”che lui sentiva e avvertiva anche nei corridoi e nelle stanze dalla luce azzurrognola che aveva abitato nell’isola.

Ho conosciuto anche una donna un po’ “particolare”. Costei, invece, amava all’inverosimile i suoi coniglietti… Li disegnava di continuo, ovunque e in tutte le forme e colori, anche quando è stata a lungo internata e ospitata nel Manicomio di San Clementein isola. I suoi coniglietti non erano sogni, erano reali perché erano i suoi figli e le sue figlie a cui voleva un mondo di bene, forse troppo … tanto bene quasi da volerli mangiare e scorticare e cucinare come si faceva con i coniglietti veri … Mi ha raccontato che anche lei era stata in fondo una “coniglietta vera” perché in effetti di figli e figlie ne aveva partoriti e persi davvero tanti: una vita intera trascorsa quasi sempre col pancione dell’attesa.

Sia per l’uomo che per la donna che ho conosciuto, andare nelle “Isole della Pazzia” era stato quasi come andare in gita, un diversivo, perché di fatto non erano mai usciti entrambi dalla loro isoletta natia se non per recarsi a lavorare. Lui in un’altra isola poco distante: quella del vetro, Murano ... e lei neanche in quella perché era rimasta sempre nella sua colorata isoletta di Burano.

“Poi improvvisamente con la legge così detta: Basaglia da un giorno all’altro i Matti sembrarono non esistere più, i Manicomi vennero chiusi in fretta e furia, e li hanno messi tutti per strada.” continua a raccontarmi l’anziana accudiente pensionata delle Isole dei Matti, “ … e così non fu più chiaro se erano stati i Matti ad uscire fuori, o se fossero stati tutti gli altri ad essere compresi dentro.”
Uno degli ultimi Infermieri a lavorare nelle Isole dei Matti ha scritto: “Da quella legge derivò di certo una grande ventata di Libertà e Giustizia nei riguardi di coloro che sono stati costretti molte volte anche ingiustamente a patire e non poco nelle ristrettezze ottuse di quei luoghi … Ma ne è derivata anche una notevole confusione su quello che doveva essere il futuro esistenziale di un certo tipo di malati e di persone ... Ma ormai quel che è stato deciso era fatto, ed entrambe le isole di San Clemente e San Servolo sono state destinate a un inesorabile quanto veloce destino di abbandono, saccheggio e rovina … cosa che è durata fino ai giorni nostri.”

“Saranno state anche le Isole dei Matti, ma per me erano anche due belle isole …” mi dice ancora la pensionata allettata, “Quando erano funzionanti, pulite e tirate a lucido erano paradisiache con certi tramonti stupendi in mezzo alla Laguna … Per me sono state quasi una casa di famiglia, perché ci ho vissuto a lungo e mi sono affezionata a quei posti … e anche a quelle persone sfortunate … Ai miei tempi si lavorava giorno e notte, e si viveva lì in isola … Tornavo a casa mia una volta al mese … se andava bene ... Lavoro era lavoro, si lavorava e basta … e a quei tempi, come oggi, era importante portare a casa un po’ di soldi per mettere su pignatta e far studiare i figli … ”

La Storia purtroppo sta obnubilando e passando sotto silenzio tante vicende vissute. Come rullo compressore gigantesco appiana e offusca tutto e tutti, perciò si stanno ormai assopendo e cancellando gli ultimi racconti e le memorie di chi ha vissuto direttamente nelle Isole dei Matti.

“Siamo riusciti alla fine a far aprire in isola un piccolo bar, uno spaccio interno quasi autogestito con quattro generi in tutto e qualche carabattola … Si poteva fare insieme una partita a carte, e comprare le sigarette … che fumarle era un po’ lo sport nazionale dei Matti di San Servolo … Era spesso una delle poche scuse per riuscire ad agganciarli e attaccare con loro …”

Sembra un fiume in piena la nonnetta, quasi desiderosa di dire e far uscire all’aperto tante cose.

“Le Suore delle Isole dei Matti erano risparmine oltre che ticchignose … come formichine tiravano su tutto …come se tutto fosse sempre questione di vita o di morte … Quando se ne sono andate hanno trovato gli armadi pieni di roba nuova fiammante, mai usata … mentre i malati andavano vestiti da straccioni … Ma andavano puliti lo stesso perché ci pensavamo noi a tenerli mondi ficcandoli in certa vasche con certi disinfettanti e saponi … Qualche volta bisognava mettersi in tre o quattro per costringere a lavarsi quelle che avevano paura dell’acqua … Ma alla fine erano contente anche loro, si sentivano meglio … e ci fumavamo insieme quella benedetta sigaretta …”

Sorride … come se rivedesse oggi di fronte le facce e le scene.

“A San Servolo si accoglievano i Matti da più di 250 anni ... Avevamo anche un forno, la tipografia, l’officina meccanica, la cucina, il guardaroba … e c’era perfino un mulino per favorire il lavoro manuale dei ricoverati … Si provava a lavorare il terreno dell’isola anche a San Clemente … La chiamavano: ergoterapia, per provare a reintegrarli … Ma non serviva a granchè … erano intontiti, e non avevano grande voglia di fare … Alcuni matti mi facevano anche ridere perché tiravano “la macumba” alle Suore e agli altri ... Chiamavamo “Il Vaticano” i luoghi della Direzione e degli Uffici Amministrativi dove abitavano i Medici, le Suore e il Cappellano di San Servolo ... Nel 1978 gli ultimi che non li voleva nessuno o che avevano perso tutti, e che non si potevano liberare lasciandoli soli sono stati trasferiti nella Colonia agricola del Pancrazio di Marocco …”

Ovvio che finisco col chiedere di certe cose, e lei tranquilla continua a raccontare come un libro aperto:
“Certo che è vero ! … A San Servolo soprattutto con la gestione del Fattovich si facevano sempre le Necroscopie: “Bisogna aprirli tutti … Tutti !” mi hanno detto che ripeteva sempre Fattovich che era Anatomopatologo … e c’erano due tre  Infermieri che erano specializzati in questo genere di cose … in cambio non prendevano soldi, ma riposi-premio in più ... Sì … Si faceva anche la terapia elettroconvulsivante preceduta negli ultimi tempi dalla preparazione col curaro … Si usava anche per punizione e per calmarli … e si faceva spesso “a vivo” senza anestesia e preparazione … Ma facevamo anche altre terapie, come la solfoterapia e l’insulinoterapia usate per spegnere e calmare facendo insorgere la febbre o mandando in coma gli sfortunati pazienti …”

Oggi si può visitare l’isola di San Servolo anche con visita guidata, ed è addirittura sorto un Museo della Pazziao del Manicomio, e un Centro Studi che si prefigge di conservare il patrimonio culturale non indifferente che ha caratterizzato la presenza e il trattamento della Pazzia a Venezia e in Laguna negli ultimi secoli.
La tradizione della reclusione dei Matti nelle isole della Laguna, infatti, è parecchio antica perché per secoli la Serenissima ha praticato l’usanza di “relegare in isola” chi era affetto da Pazzia o si considerava tale. A dire il vero, ancora fino a qualche decennio fa non era chiaro quali fossero i termini, i contenuti e i limiti della vera Pazzia, perciò esisteva una grande confusione e fraintendimento e una terribile ignoranza al riguardo ... Una confusione a volte di comodo, perché più di qualche volte si finiva col spedire in isola le “persone scomode” di cui ci si voleva liberare.

Le cronache Veneziane antiche raccontano al riguardo di come alcuni Nobili Veneziani non si sono fatti scrupolo di utilizzare le Isole dei Monaci e delle Monache per realizzare in più di un’occasione i loro tristi disegni. Segregavano nelle isole della Laguna con l’accusa infondata di pazzia le mogli scomode sostituite da amanti giovani e focose. Mi ha molto impressionato, ad esempio, il racconto riguardante una Nobildonna reclusa dal marito potente Senatore della Serenissima in un’isola di Monaci che è finita col suicidarsi gettandosi ad annegare all’alba nelle acque fangose della Laguna. Si racconta di come i Monaci l’avessero vista buttarsi di sotto dalle finestre, e l’abbiano deliberatamente ignorata e lasciata fare coerenti col mandato del loro Nobile e generoso Benefattore. Finchè l’acqua montante dell’alta marea ha ricoperta la donna del tutto lasciando galleggiare a lungo in superficie il suo camicione bianco di stoffa ruvida. Il racconto raccapricciante conclude:“ … e alla fine è tornato a scendere sulla Laguna il silenzio ingoiando quel lamento sempre più flebile che finì col spegnersi del tutto ...”

Che destino tragico ! … Ma questo fu vero fino al secolo scorso, quando avevano ancora la mania e la smania facile di “mettere tutti dentro in isola”indistintamente … Tanto che le due isole erano sempre piene zeppe e abitate da centinaia di persone che non si sapeva e soprattutto non si voleva collocare altrove. Le due “Isole dei Matti” sono state quindi come delle vere e proprie cittadelle autosufficienti e organizzatissime, dove operava anche un piccolo esercito di sorveglianti e accudienti severi e dallo stampo militaresco.

Inizialmente le “Isole dei Matti” prima di diventare tali furono altro e diverse. All’inizio nelle ridotte terre circondate dall’acqua di San Servolo e San Clemente sono accaduti fatti curiosi.
L’isola di San Clemente apparteneva prima ai Canonici Agostiniani trasferitisi in seguito nel più centrale Monastero di Santa Maria della Carità(l’attuale Museo delle Gallerie dell’Accademia nel Sestiere di Dorsoduro). Al loro posto nell’isola dopo un periodo di declino e quasi abbandono sono giunti i Camaldolesi Eremiti(simili a quelli che vivono ancora oggi nel 2016 sul Monte Rua dei Colli Euganei). Per questo l’isola venne chiamata dai Veneziani: “San Clemente dei Padri di Rua o della Madonna di Loreto”.
L’isola di San Clemente ha avuto quasi per destino quello di ospitare “Reclusi di ogni sorta”. Infatti nei fascicoli, nelle buste, nelle carte e nei documenti dell’Archivio storico di San Clemente si definiscono i “Matti” lì ospitati ed accuditi: “Reclusi di San Clemente”.
L’isola sorge nella Laguna Sud di Venezia poco distante da quella da quella denominata “La Grazia o Le Grazie”… e attualmente (2016) sembra si stia cercando un nuovo acquirente per l’attuale San Clemente PalaceHotel(fallito) sorto di recente sull’isola dopo imponenti restauri.

La Storia racconta che l’isola risultava già abitata fin dal 1131 quando Pietro Getalesso o Gatiloso fece erigere una piccola chiesa con annesso Ospedale-Ospizio per ospitare soldati e pellegrini provenienti o diretti in Terrasanta. Era uno dei tanti posti “per allogare persone” che affollavano la Laguna e la città di Venezia: testa di ponte col suo Emporio di Rialto per il Levante economico e spirituale ultra Mediterraneo.
In seguito lo stesso Pietro Gattilesso tramite il Vescovo di Olivolo-Castello Giovanni III° Polano concesse, ossia vendette, l’isola-Ospizio al Patriarca Enrico di Grado, che a sua volta la diede in gestione perpetua ai Canonici Regolari di Sant’Agostino afferenti alla sua giurisdizione. Il motivo della cessione fu dettato dal fatto che l’isola si trovava troppo lontana dal cuore di Venezia, perciò era scomoda da raggiungere, e per questo poco utilizzata dai Pellegrini … Per questo si decise che era meglio trasformarla in tranquillo Monastero.

I Canonici di Sant’Agostino, infatti, costruirono una bella chiesa insieme al loro Monastero, e per dare un certo tono al complesso portarono in isola le Reliquie di Sant’Aniano(cose di cui a quei tempi Pellegrini e Veneziani andavano molto ghiotti e fieri) …e come segno di sudditanza al Patriarca di Grado ogni nuovo Priore eletto regalava allo stesso Patriarca: “un letto nuovo fornito d’ogni bona guarnizione”… cosa che dal 1337, venne tramutata in più pratici ed equivalenti 4 ducati d’oro in contanti da sporgere al Patriarca:“directa manu”.

Nonostante tutto questo, l'isola ben presto perdette la sua importanza incappando in una lunghissima stagione di decadenza economica soprattutto a causa della scarsezza delle donazioni, dei testamenti, dei lasciti e delle elemosine a suo favore. Allora per rivitalizzarla si provò all’inizio del 1400 ad attivarvi un mulino ad acqua ... ma non fu sufficiente neanche quello, perciò i Canonici di Sant’Agostino abbandonarono l’isola sostituiti dopo un trentennio d’assenza totale dai Canonici Lateranensi inviati lì dal Papa veneziano Gabriele Condulmer. I Lateranensi a loro volta iniziarono entusiasti col modificare il Convento, edificarono un chiostro con doppio ordine di colonne, restaurarono del tutto la chiesa riedificandone la facciata ad opera della prestigiosa Bottega dei Lombardo ... ma ebbero anche loro poca fortuna, perciò l’isola se la prese la Serenissima che la utilizzò per offrire ospitalità a regnanti, ambasciatori e visitatori illustri di passaggio a Venezia ... oppure iniziò ad usarla come luogo riservato e recondito di cura e ospitalità coatta per Nobilhomeni o Nobildonne Patrizi colpiti da malattie infettive, sconosciute … o scomode come le alterazioni mentali.

Si racconta che fu probabilmente proprio uno di quegli ospiti illustri di passaggio a Venezia a portare in Laguna la devastante peste del 1630 che distrusse gran parte della popolazione di Venezia portando la Serenissima al tracollo socio-economico.
Le Cronache Veneziane del tempo raccontano di folle di popolani e contadini affamati e macilenti provenienti dalla Terraferma, dal Friuli, dal Trevigiano e dalle isole che raggiungevano ad ondate successive la Laguna aggiungendosi al numero già elevato degli sbandati presenti da tempo in città. Si parlò di più di 5.500-7.000 persone che abbandonarono terreni, campi, bestie e case lasciando tutto incolto per riversarsi in massa a Venezia.

Il Governo della Repubblica tentò prima di sistemare i “Poveri vergognosi e i Nobili decaduti” che non avevano il coraggio di mendicare pubblicamente ... Poi i Provveditori alla Sanità stanziarono 4.000 ducati, vennero allertati i Piovani e i Capicontrada invitandoli ad aiutare a domicilio le categorie più bisognose … Il Patriarca da parte sua esortò Preti, Monache e Religiosi a concorrere a quella Pia opera ... e il Senato stanziò ancora a più riprese: 2.000 ducati, poi altri 5.000, e ancora altri 5.000 per provare a nutrire e sostentare tutta quella massa ingestibile e sfuggente ... Si nominarono anche Tre Nobili Provveditori per governare quell’imponente esodo … Si acquistarono 6.000 staia di miglio e grano per affrontare la carestia, e anche l’Ospizio di San Clemente venne utilizzato al pari di tutti gli altri ricoveri e Lazzaretti lagunari per ospitare quella fiumana di sprovveduti e malati in condizioni igieniche e sanitarie pietose.  (sembra la descrizione dello scenario del Mediterraneo odierno).
Ancora nell’ottobre 1631 nei Lazzaretti Vecchio e Nuovo e nell’isola di San Clemente erano distribuite 585 persone tra malati e convalescenti, e fra costoro c’erano anche 12 Pizzegamorti posti in contumacia preventiva. A metà novembre dello stesso anno si continuava a seppellire morti, e solo a fine mese si dichiarò finalmente conclusa la stagione della pestilenza. Alla fine dell’epidemia, come era ormai costumanza dei Veneziani devoti, si costruì nell’isola di San Clemente per volontà e finanziamento di Francesco Lazzaroni Piovano della Contrada di Sant’Angelo di Venezia una particolare Cappella a imitazione delle forme della Santa Casa del Santuario Mariano di Loreto in Abruzzo.

Dopo tutto questo travaglio l’isola di San Clemente era ridotta a sfacelo e rovina, perciò la Serenissima nel 1644 autorizzò i Canonici Lateranensi della Carità a vendere il poco che rimaneva della chiesa e del Convento. I nuovi acquirenti giunti l’anno seguente furono come dicevamo i Camaldolesi della Congregazione di Monte Corona provenienti dal Monastero di Monte Rua sui Colli Euganei. Costoro si tirarono su le maniche, e piano piano restaurarono di nuovo la chiesa rivestendone la facciata di pietra a vista e marmo rosso di Verona. Inoltre prolungarono le absidi, ingrandirono il transetto costruendo la Cappella del Santissimo ad opera di Baldassarre Longhena(l’architetto del magnifico tempio della Madonna della Salute), e ampliarono l’intera isola circondandola di mura, costruendo 17 caxette per i Monaci secondo l’uso del loro Ordine, e una nuova Biblioteca risanando per intero l’isola e il Convento.
Pagarono i restauri il Senatore e Capitano di Galea Francesco Morosini del Ramo Nobile della Sbarra di Santa Maria Formosa e il figlio Tommaso Capitano di Galeone sepolti entrambi in apposita arca in chiesa facendo inserire in facciata insieme alle statue di San Romualdo e San Benedetto anche diversi epitaffi celebrativi e lo stemma dorato della Nobile famiglia. Il complesso progetto venne commissionato ad Andrea Comminelli Tagiapiera-Architetto residente in Calle dei Cerchieri in Contrada di San Barnaba in Venezia, e affidato poi al Tagjapiera Antonio Moreschi, e al Murer Francesco di Majno Sardi fratello di Antonio padre del celebre Giuseppe Sardi.
I Monaci Camaldolesi spesero più di 840 ducati pagandoli a metà in contanti anticipati di 100 ducati e rate successive mensili di 30 ducati, e l’altra metà in farina e vino buono.
Ancora nel luglio 1716 il Proto Andrea Tirali percepì dai Monaci 169 ducati per rifabbricare alcuni muri perimetrali del Monastero ... nel settembre 1729 ne percepì altri 1.040 per la lavanderia e l’ulteriore sistemazione della Nuova Libraria … Nel febbraio 1743 il Proto Giovanni Scalfurottopercepì 1.000 ducati per restaurare la Casa di Loreto dentro alla chiesa dell’isola ... e nel maggio 1750 il Patriarca Alvise Foscari consacrò la chiesa rinnovata e l'isola divenne anche Penitenziario per Sacerdoti colpiti da gravi sanzioni, oltre che Polveriera della Serenissima che rimase attiva fino a metà 1800.

Nel giugno 1769 un Decreto del Senato della Serenissima applicato da Alessandro Duodo ridusse i 16 Ordini dei Monaci e Frati Regolari del Veneto sopprimendo in pochi anni 127 Conventi. I 5.799 Monaci e Frati Regolari divennero progressivamente 3.380 distribuiti in 295 Conventi di cui 108 fra Veneto e Friuli. I Camaldolesi di Monte Corona presenti a San Clemente in isola come loro sede principale subirono la riduzione dei propri Eremiti da 110 a 76 membri.

E venne la fatidica caduta della Repubblica nel 1797: Convento e Chiesa vennero soppressi e abbandonati dai 10 Camaldolesi rimasti: “... Restarono due Eremiti per prestare soccorso in caso di burrasca ai naviganti e ai bastimenti d’acqua dolce presenti in Laguna”.
A dirla tutta, dei 3.115 libri patrimonio della Biblioteca-Libraria dei Camaldolesi Eremiti di San Clementein isola: solo 4 vennero dati alla Biblioteca Marciana mentre tutti gli altri vennero venduti e dispersi (e poi qualcuno mi viene a dire che in fondo Napoleone non ha fatto niente di male ?). All’atto della soppressione i Religiosi dichiararono d’essere impossibilitati di deporre l’abito Monastico non per ragioni di principio ma in quanto mancavano di mezzi economici per procurarsi normali abiti civili ... Ma fu ininfluente, e dovettero sloggiare alla svelta lo stesso.

L'isola divenne proprietà del Demanio, mentre con gli Austriaci San Clemente divenne Presidio Militare … Nel 1817, “per sovrana imperiale munificenza ed aulico dispaccio apposito” l’Austria provvide ad accordare una somma di lire 600 annue al Rettore della chiesa dell’isola di San Clemente che doveva continuare a celebrare in isola le 144 Messe Perpetue e 6 Anniversari pagati da secoli dai Veneziani Nobili, aggiungendovi un aumento per il fatto che lo stesso doveva assoldare ogni volta un gondoliere-barcarolo per recarsi fino a Venezia. Viceversa il Sacrestano della chiesa dell’isola di San Clemente usufruì dagli Austriaci di una sovvenzione di 400 Franchi annui.

Poco più tardi nel 1834, essendo già l’isola destinata a luogo di “Ritiro per Sacerdoti”, vennero lì reclusi 12 Sacerdoti “sospesi dalla Messaper cause politiche” provenienti da varie Diocesi del Veneto. Infine nel 1855, il Governo Austriaco decise di instaurare nell’isola di San Clemente il Manicomio Centrale Femminile delle Provincie Venete e tre anni più tardi tutti gli edifici dell'isola vennero demoliti ad eccezione della chiesa. A San Clemente vennero ospitate tutte le donne malate di mente che non potevano essere alloggiate nella vicina isola di San Servolo ... e si provvide ad imbonire parte della Laguna circostante l’isola per ottenere ulteriori spazi coltivabili utili per il sostentamento economico del nosocomio con i suoi “ospiti reclusi”.

Alla fine del 1880 sbarcarono sull’isola per gestire il manicomio femminile: 18 Suore di San Vincenzo de’ Paoli ... e fra 1930 e 1936 la Provincia di Venezia restaurò arredi e dipinti della chiesa e le strutture dell’isola nominandola: Ospedale Provinciale Psichiatrico e Cronicario per uomini e donne. Nel non lontanissimo 1962, i posti letto di degenza e ricovero disponibili nell’isola di San Clemente erano: 330 per i maschi e 580 per le femmine!

E passiamo all’altra “Isola dei Matti” ossia San Servolo o San Servilio ... Un tempo i Veneziani dicevano per indicare un pazzo o almeno una persona confusa: "Ti ga in testa do campanili che sòna ore diverse come a San Servolo"

Sembra che inizialmente esistesse già nell’isola una chiesetta dedicata a San Cristoforo o forse a Santa Cristina. All’inizio dell’800 i primi Monaci Benedettini che l’occuparono decisero di costruirne una nuova dedicandola a San ServilioMartire di Trieste del III secolo. Subito dopo a causa delle ristrettezze degli spazi “infra paludes” una parte dei Monaci con l’Abate Giovanni si trasferì a Sant’Ilario di Fusina in una terra donata dai fratelli Agnello e Giustiniano Partecipaziodove c’era già una Cappella dedicata a Sant’Ilario. Sant’Ilario diverrà una delle realtà Monacali più famose, ricche e potenti delle Lagune e dell’Entroterra della Serenissima.
Di certo prima dell’anno mille in isola si rifabbricò tutto di nuovo, e i Monaci guidati da un Priore si susseguirono finchè più di un secolo dopo presero il loro posto alcune Monache Benedettine guidate dalla Badessa Vita Marengo provenienti dal Convento dei Santi Leone e Basso di Malamoccodistrutto da uno spaventoso maremoto ... o più semplicemente dalla normale subsidenza dei territori lagunari e pericostieri inghiottiti dal mare Adriatico.

“Il Doge Sebastiano Ziani e suo figlio Pietro Conte di Arbe aiutarono la neonata comunità di San Servolo con i proventi di alcune case, terreno ed osteria che possedevano a Rialto nella Contrada di San Giovanni Elemosinario … così le Monache poterono costruirsi un nuovo Coro Pensile e “una roda accanto alla finestra per comunicar” per aprire così la clausura verso l’esterno … e le Monache si ritrovarono a gestire a distanza un’osteria frequentatissima da marinai e prostitute, per le cui rendite in cambio  s’impegnarono a celebrare in perpetuo una Messa ogni anniversario della morte di Pietro Ziani, una ogni aprile per suo padre il Doge Sebastiano, un’altra  nel giorno di San Giorgio per la madre Troige, una nel giorno di Santo Stefano per il fratello Giacomo, e infine una a metà di agosto per la sorella Mabiliota Ziani ...”

A metà del 1400 il Monastero di San Servolo si trovava al tredicesimo posto per importanza nella lista dei dichiaranti dei redditi fondiari in quanto possedeva quasi 400 campi nel Padovano ... e nel 1564 nell’isola-Monastero risiedevano 60 ricche Monache Benedettine ... tanto che qualche anno dopo il Patriarca Priuli in Visita decretò di allontanare entro 3 giorni i cani personali di razza tenuti nel Monastero … e richiamò le Monache perché si portavano via gli avanzi dal Refettorio comune per tenerli in stanza propria condividendoli con le amiche … Inoltre il Patriarca le rimproverò per: “…la vana ed indecente abitudine delle Monache di chiamarsi l’un l’altra Signora … e per il molto dannabile abuso delli donativi eccessivi che si sogliono fare alle novizze secolari sotto pretesto che anco esse fanno altri donativi alle Monache …” E circa le educande “ospitate a spese” nello stesso Monastero lo stesso Patriarca comandò: “… le figliole che saranno per tempo a spese fatte che sono Novizze siano mandate a casa loro et non si permetta che stiano in Monasterio vestite da maridate, né li mariti le vengano a visitare con scandalo alle finestre … et se li parenti non mandaranno a tuor quella fiola che sarà maritata, l’Abbadessa la debba metter in gondola et mandarla a casa dei parenti sotto gravi pene ad arbitrio di sua Signoria …”

Le Monache rimasero nell’isola di San Servolo fino al 1615 quando a causa del degrado degli edifici si trasferirono nel Convento di Santa Maria dell'Umiltà di Venezia lasciato a lungo libero fin dal 1606 dai Gesuiticacciati via per rimostranza dalla Serenissima dopo l’Interdetto affibbiato su Venezia dal Papa … Giunte lì le Monache si confermarono nel loro “andazzo”come ricorda fra 1620 e 1628 una delle nove sentenze lanciate dal Patriarca Tiepolo verso le Monache, diretta proprio contro tre monache provenienti dall’isola di San Servolo ree di intensi colloqui notturni con uomini di passaggio: “… bisogneria che ghe fosse fatta la guardia la sera e la mattina: perché ghe se’ delle donette de ogni sorte che ghe vien, et sono la rovina de quel Convento, puttane, ruffiane e strighe.”  Così come nel 1626 si denunciò la prostituta Anzola per le sue troppo frequenti visite al Parlatorio delle Monache provenienti da San Servolo: “… parlava con le Madre bonome Muneghe in ditto Monasterio e fava molti bagordi come rider forte come fano queste putane…”

Nel 1647 circa 200 Suore approdarono a Venezia in fuga da Candia attaccata dai Turchi, perciò vennero sistemate nell’isola di San Servolo con una sovvenzione della Serenissima di 1.500 ducati annui. In isola il loro numero diminuì progressivamente come testimoniò Coronelli nel suo “Isolario” del 1696-1697 descrivendo l’isola come quasi disabitata. Infatti il 4 giugno del 1716 il Senato fece trasferire le ultime due anziane Monache Candiotte rimaste e iniziò ad utilizzare i locali del Convento come sede dell’Ospedale della Militia. Vi ospitò 400 feriti che confluirono a Venezia dai luoghi degli scontri con i Turchi, e poco tempo dopo si aggiunsero anche alcuniMarinai benemeriti, alcuni Mozzimandati dal Magistrato della Sanità, nonché i primi “folli” che di solito venivano ospitati e rinchiusi dentro a una “fusta disalberata ancorata in mezzo alla Laguna …nel luogo dove i galeotti imparavano a remare”.

“… siano provisti 12 capotti, 12 abiti da inverno, 12 para calze e scarpe per esser disposti in vestir mozzi, stiano in deposito appresso i Padri Direttori dell’Ospedale di San Servolo ... Provista suddetta sia risarcita col tratto loro paghe a norma spedizioni sia rinnovato deposito …” decretò il Senato riguardo ai giovani Mozzi da formare e poi imbarcare sulle Galee per il Levante e la guerra.

Dall'Archivio di San Servolo sembra che il primo “vero pazzo maniaco”: ossia Lorenzo Stefani Patrizio Venezianosia stato segregato ufficialmente nell’isola di San Servolo per ordine del Consiglio dei Diecinel 1725 quando l’isola passò sotto la direzione di quattro Religiosi Ospedalieri e Speziali di San Giovanni di Dio detti Fatebenefratelli provenienti da Milano che nel tempo divennero dodici. Sette anni dopo a San Servolo venne ospitato e rinchiuso il secondo“vero matto”, e dopo altri sei anni un terzo, e altri ancora nei decenni seguenti ricoverandoli a spese delle famiglie ... Intanto le Cronache dell’Isola ricordavano di: restauri del tetto del vecchio convento … della costruzione di una nuova Cavana … dello scavo di un canale d'approdo e del completamento del chiostro … della realizzazione della SpezieriaNova fronteggiata da un portico, sopra il quale vennero costruite nuove camerette con scale e corridoi d'accesso affrescati da Giambattista Crosato. La Spezieria di San Servolo provvedeva anche l’isola di San Clemente, e fu “Farmacia Pubblica dei Forti e delle Milizie della Serenissima” che riforniva gli Ospedali e i Dispensari delle roccaforti militari di Chioggia, Zara e Corfù… e in seguito divenne anche “Farmacia Generale” incaricata di preparare i farmaci gratuiti destinati alle Trenta Fraterne dei Poveri di Venezia.

I Notatori del Gradenigo raccontano nel 1759: “… venne abbattuto il vecchio campanile e atterrata l’antica chiesa dell’isola di San Servolo costruendone una nuova alquanto più piccola a pubbliche spese, stante il pattuito accordo di 12.000 ducati su progetto di Tommaso Temanza.”

E poi ancora: si ultimò l'esterno della Chiesa … Iacopo Marieschi affrescò il soffitto del Presbiterio e dipinse una tela ottagonale per il soffitto della navata … si prolungò del doppio fino alla Laguna a est la grande Infermeria aggiungendo locali per convalescenti, pazzi e mozzi, e abitazioni per ortolani e lavanderie ... e si aggiunsero altri altari in chiesa facendo dipingere le loro pale. Si ripararono gli edifici dai danni di un incendio, si ampliò la Libraria, si rinnovò la ghiacciaia, s’istituì annesso alla Spezieria un Gabinetto di Fisica e Storia Naturale… e si rinnovarono officine e lavanderia, applicando in giro pesanti e robusti cancelli e inferriate.

Un documento della Serenissima del 1788 recitava testualmente: “… siano raccolti non minori di anni 12 dal ceto vagabondi, abbandonati dai genitori, che vivano inutili senza educazione e impiego, che girino per le piazze, dormino sulle strade e nelle barche, perduti ne vizzi, siano rettenti in ogni luogo e tempo … dal Capitano retenuti, siano posti nelle prigioni, dopo 3 giorni al più, riconosciuti abili, passino a San Servolo … esclusi tignosi e quelli che avessero brose di cattivo carattere tendenti alla tigna, quelli che avessero ernie, li ciechi da un occhio o mutilati … i rognosi siano curati. Durante la loro stazione a San Servolo abbiano libbre 1 biscotto e soldi 8 al giorno … si distribuiscano a dormire nell’Ospedale, siano ammaestrati nel punto di Religione … a cadauno mozzo volontario siano pagate lire 32, e per il trasporto in Levante lire 12,8…”

L'ultimo doge di Venezia, Lodovico Manin, destinò un lascito di 50.000 ducati per la cura dei pazzi furiosi di Venezia … e nel 1797 presso l'Ospedale di San Servolo vennero ricoverati a carico del pubblico erario tutti i così detti “malati di mente”: ossia tutti i pazzi tolti definitivamente dalle varie fuste ormeggiate in giro per la Laguna, i carcerati nell’isola di Santo Spirito e tutti i pazzi girovaghi catturati per la città e la Terraferma. L'isola divenne anche Ospizio dei Regi Capi di Poliziae degli ex Veneti Invalidi nonchè Luogo d’ospitalitàper i malati delle truppe Francesi.
Con l'occupazione degli Austriaci l'ammissione e la dimissione dei pazzi dalle isole di San Clemente e di San Servolo divenne piuttosto che un fatto clinico, un evento gestito dalla Poliziache classificava “i matti” nei propri registri in tre classi distinte: maniaci, imbecilli e dementi. La struttura sanitaria di San Servolo venne dichiarata dal Regio Governo Imperiale: Manicomio Centrale d'ambo i sessi delle Provincie Venete: Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Udine, Venezia, Verona e Vicenza nonchè della Dalmazia e del Tirolo, e rimase attiva come tale fino al 1874.

Alla fine del 1808 quando la chiesa dell’isola venne arricchita con un organo Nacchini proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Pianto e col pavimento e alcune balaustre recuperati dalla soppressa chiesa dei Santi Marco e Andrea di Murano, l’Ospedale Militare di San Servolo venne chiuso e trasformato l’anno seguente in Ospedale dei Piagati istituito per benefica volontà dalla Nobildonna Anna Vendramin Loredan che offrì notevoli rendite per il “mantenimento di numero sessanta poveri schifosi, vaganti per la città”. I militari infermi vennero trasferiti nell'Ospedale della Veneta Marinaa Sant’Anna e a San Servolo giunsero 32 uomini e 29 donne piagate provenienti dall'Ospedale degli Incurabili sulle Zattere affacciato sul Canale della Giudecca … Più tardi il Medico Frate e Direttore di San Servolo Prosdocimo Salerio scriveva a metà 1800 che non riusciva a dimettere i malati per le miserevoli condizioni delle famiglie di Venezia e del Veneziano ... L'isola in cui c’erano 299 malati tra uomini e donne(di solito circa la metà dei Pazzi usciva “guarita” e l’altra metà: morta) venne più che raddoppiata in superficie prolungandola verso l’isola di San Lazzaro degli Armeni … Si costruì un nuovo alto muro di cinta nella nuova sacca, e si realizzano consistenti lavori di restauro degli edifici ... Negli stessi anni nell’isola giungevano circa 550 “Piagati” all’anno di cui più di 500 uscivano risanati e una trentina finivano: “esitati”.

I Frati Fatebenefratelli rimasero alla direzione del Pio Luogodi San Servolo fino al 1902 quando la cura della chiesa e dei malati venne affidata a un Cappellano. Il 27 novembre dell’anno precedente una Commissione inviata dal Consiglio Provinciale di Venezia guidata dal professor Ernesto Belmondoaveva ispezionato per tre ore lo Stabilimento Manicomiale dell’isola di San Servolo diretta dal Priore Camillo Minoretti Frate dei Fatebenefratelli: “ … si rilevano anomalie, inumanità e disordini … Non solo violate flagrantemente le regole più elementari della igiene e della pulizia, ma fatto abuso di mezzi di contenzione banditi da oltre un secolo, da tutti i Manicomi, veri strumenti di tortura, laceratori delle carni dei poveri infermi, taluni dei quali, orribile a dirsi, da anni e anni giacevano in ceppi … Tutto fu trovato in questo stabilimento condannevole, dalla deficienza della cura medica alla sconveniente assistenza da parte degli Infermieri, dalla scarsezza del nutrimento allo abbandono completo di ogni più elementare norma imposta dalla tecnica manicomiale.”

Dei 608 ricoverati presenti al momento dell’ispezione, 67 “poveri mentecatti” risultarono maltrattati e legati con severi mezzi di contenzione. La relazione dell’ispezione procurò uno scandalo nazionale con promulgazione di nuove leggi sui Manicomi, l’anno seguente il Direttore e Priore Minoretti venne licenziato, e due anni dopo i Frati Fatebenefratelli vennero espulsi definitivamente dall’isola di San Servolo accompagnati fuori dalla forza pubblica. Il Manicomio di San Servolo venne affidato insieme a quello di San Clemente a un’Opera Pia dei Manicomi.

Nel 1917 Wagner Von Jauregg osservò a Vienna che le crisi febbrili facilitavano la ripresa nelle paralisi progressive, perciò propose di iniettare la Malaria Terzana anche ai Pazzi per provocare un ciclo di ripetute febbri secondo lui stimolanti e curative per il cervello. La cura venne applicata anche nell’isola di San Servolo fin dal 1925.
Nel 1935, invece, e sempre a Vienna, ManfredSakelusò l’insulina per produrre negli schizofrenici e in altre psicosi uno stato precomatoso con crisi convulsive ... e anche questa “cura” venne utilizzata immediatamente nell’Isola di San Servolo  … come quella dell’anno dopo, quando il Medico Cortesi iniziò a trattare 38 pazienti di San Servolo con un farmaco ideato da Ladislas Von Meduna a Budapest capace di procurare ad alte dosi crisi convulsivanti considerate una specie di valido “reset cerebrale” per i poveri malati mentali. Infine nel 1938, Bini e Ugo Cerletti Psichiatra di Romavedendo ammazzare i maiali in un macello somministrando loro una scarica elettrica prima di sgozzarli, pensò bene che si potesse produrre “salutari attacchi epilettici” nelle persone con scosse elettriche transcraniche. Perciò s’inventò il trattamento elettroconvulsivante che venne considerato fin da subito un successo ... anche se soltanto dal 1960, quando nell’isola di San Servolo erano presenti ancora 190 maschi e 160 femmine, lo si utilizzo accompagnato da un’anestesia … Non a caso questo trattamento, l’ESH, venne soprannominato: “la terapia dell’agonia”, e fu utilizzato a lungo anche a San Servolo molto spesso come: “panacea automatica di ogni male e metodo sedativo”… e anche come azione punitiva simile alle docce ghiacciate usate in precedenza.

Sto terminando … Una Cronaca Veneziana del 1952 racconta di un curioso viaggio di andata e ritorno da Venezia a Cervignano del Friuli di un burcio (il Marco Polo di Chioggia)carico di 1.600 quintali di grano per il manicomio dell’isola di San Servolo. Fermatosi per strada per 5 giorni per mancanza di vento propulsore, venne scaricato a mano al suo arrivo in isola dagli stessi degenti del Morocomio… Nello stesso anno venne introdotto a San Servolo il primo psicofarmaco barbiturico: il “Largactil”associandolo all’elettroshock e all’insulinoterapia.

Dal 1968 il ricovero “degli uomini disgraziati” in Psichiatria divenne volontario e non più coatto, disposto dalla Magistratura o dal Tribunale Civile e Penale ma ancora iscritto nel Casellario Giudiziale come “delitto-ricovero”. Essere pazzi per l’evoluta società civile e la civiltà moderna era ancora considerato un reato … Per fortuna si era ormai all’epilogo, alla fine della Storia trista delle Isole dei Matti.
Nel 1972, a soli sei anni dalla chiusura definitiva, i due Ospedali Psichiatrici in isola di San Clemente e San Servolo occupavano un’area di 120.000 mq di cui 20.000 coperti da edifici ospedalieri capaci di ospitare ben 1.000 posti letto. I due Ospedali Specializzati davano lavoro a 24 Medici, 2 Farmacisti, 14 Suore di Maria Bambina, 372 Infermieri, 71 addetti ai servizi ed altri 100 Veneziani che provvedevano ai rifornimenti e alla manutenzione.

Poi dal 1978 più niente … finalmente … Sulle due Isole dei Matti: solo abbandono, qualche raro giardiniere … e poi più nessuno eccetto l’esuberanza ricoprente e cancellante della Natura ... e un mare di memorie di cui queste righe sono solo pallida eco e ricordo.


“IL LOGHETTO DELL’ANCONETTA A SAN MARCUOLA … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 116.

“IL LOGHETTO DELL’ANCONETTA A SAN MARCUOLA … A VENEZIA.”

Qualcuno ipotizza che l’ex Cinema-Teatro Italia che sorge nel Campiello dell’Anconetta sia stato costruito con le pietre di risulta dell’antica chiesetta distrutta di cui è rimasto quasi solo il nome.

Mah ? … Mi pare improbabile, ma chissà ?

In uno dei miei “librazzi” ho letto casualmente giorni fa che il “loghetto dell’Anconetta” si trovava nell’omonimo campiello nell’attuale Strada Nova di Cannaregio dove sulla pavimentazione pubblica dovrebbe ancora trovarsi una lapide a ricordo dell’antico Oratorio.
Il nome: “Anconetta”è intuitivo e immediato, e di certo indica e rimanda all’idea di una piccola icona sacra, “un’ancona, un’anconetta” appunto, per cui si vuole intendere un antico dipinto d’uso devozionale o liturgico dedicato ovviamente a qualche Santo o alla Madonna.
Le scarsissime notizie storiche al riguardo dell’Anconetta fanno riferimento, infatti, proprio a un quadro su tavola raffigurante la Vergine che si trovava dentro alla chiesa della popolare Contrada di San Marcuola a Venezia, giusto a metà del vispissimo Sestiere di Cannaregio, poco distante dal Canal Grande.

“Anconetta … Anconetta …” mi sono detto, “Mumble … mumble”, come nei fumetti, “… dov’era, che era ?” mi sono chiesto, e ho sentito il bisogno di andare a sbirciare, curiosare e provare a vedere. E l’ho fatto sul serio, perché proprio ieri pomeriggio uscito dal lavoro a Mestre sono andato dritto dritto nell’attuale Strada Nova per vedere direttamente quanto è rimasto oggi di quella benedetta Anconetta.
Alla fine ho concluso che ne è rimasto ben poco, quasi niente del tutto: forse solo il nome che campeggia come toponimo nel Campiello, Calle e Ponte dell’Anconettafra la Calle dell’Asèo e la Calle del Liopardo dove sorge il vecchio ex teatro-cinema neogotico in abbandono e forse in procinto di trasformarsi in moderno supermercato.

Insomma ieri pomeriggio mi sono recato lì e ho incominciato a curiosare in giro osservando case, calli, campielli, palazzi, posto e pietre. Un tempo quella zona della Strada Nova di Venezia era suddivisa in Contrade bellissime e vivissime, perciò mi sono ritrovato a curiosare in mezzo a tante calli e callette tipicamente Veneziane con i nomi di quelle che sono state le Arti e Mestieri che animavano economicamente l’intera città lagunare.
Alzando gli occhi sui muri ho incrociato e superato: Calle del Caffettièr, e poi la Calle del Bottèr, quella della Màsena, la Calle dei Preti, la Calle del Frutariòl, Rio terrà del Cristo, Calle del Pistòr, Calle de le Pignate, Campiello del Pegolòtto… e cerca, e ricerca, alla fine: “Eccola qua !”… e mi sono trovato davanti al “nizioletto” dipinto sul muro con la dizione: “Campiello dell’Anconetta”.

“Ci siamo !”, mi sono detto, “Vediamo ora di capirne un po’ di più”.

Proprio di fronte a me c’era sulla soglia del suo negozio di pelletterie e souvenir un sorridente e accattivante negoziante Cinese che considerandomi l’ennesimo turista di passaggio mi ha fatto cenno di entrare nella sua bottega.

“Dov’è l’Anconetta ?” gli ho chiesto vista la sua disponibilità. E lui: “Ancoletta ? (ancoretta) … Ecco qua !” mi ha risposto rovistando dentro a un cestino dell’esposizione posta sulla strada.

“Ancoretta … Ancoretta. Ecco ! … Pochi soldi … Bella.” mi ha ribadito mettendomi sotto agli occhi un portachiavi a forma di piccola ancora marinara luccicante con sopra la scritta: “Venice love”.

“No … Non ci siamo.” gli ho risposto,“Non è questa … Non c’entra niente l’ancora … Anconetta non Ancoretta ! ” ho provato a spiegargli. Perché l’ho fatto ? Non era per niente la persona giusta per chiedere un’informazione del genere. Infatti, senza scomporsi il cordiale quanto sorridente Cinesino con i capelli sparati in aria ha continuato imperterrito a propormi altre cose: “Non bene ? … Allora abbiamo tante altre cose belle su Venezia … Ecco qua ! … Scelga qualcosa: … tutte cose buene … Poco prezzo !” e con la mano come un prestigiatore mi ha proposto tutto un campionario di carabattole traendole dal suo negozietto tutto foderato di borse e pelletterie colorate di ogni sorta.

“No … Grazie. Non sono interessato … Arrivederci.” ho concluso alla fine allontanandomi e abbandonandolo un po’ deluso … Un po’ me la sono cercata.

Molto più informato, competente e sintetico, nonché utile è stato, invece, il moderno Speziale della Farmacia all’Anconetta che mi sono trovato davanti poco dopo:
“Che lei sappia … C’è per caso una lapide che ricorda l’Anconetta ?” gli ho chiesto.

“Non mi risulta … Dell’Anconetta non è rimasto nulla … Solo quella pietra bianca piantata in mezzo alla strada, sul posto dove si dice sorgesse un tempo la chiesetta.” mi ha risposto subito gentilmente da dentro il suo camice bianco.

“Ma di lì non passava il canale che è stato interrato e imbonito in tempi abbastanza recenti!” ho aggiunto e precisato perplesso.

“Esatto ! … E’ una pietra messa lì un po’ a casaccio … Non c’è più nulla dell’Anconetta … Se proprio le interessa c’è qui dietro nel Campielletto un Capitello posto lì a ricordo …”

“Ma è recentissimo … oltre che brutto e di nessun valore”.

“Esatto anche questo … Come le ho già detto: non è rimasto niente dell’Anconetta … Neanche tutte quelle pietre poste nel muro del palazzo qui di fronte c’entrano con l’Anconetta … Sono opere recenti prive di valore messe lì da un amatore di cose veneziane antiche, ma non appartenenti a qualche location reale antica ... Come le ripeto ancora: dell’Anconetta è rimasto probabilmente soltanto il nome.”

“Quello del Campiello e della Farmacia … Che peccato !”

“Proprio così …” e il nostro moderno Speziale è tornato subito a interessarsi dei clienti e a trabaccare con farmaci e medicamenti da buon “medegario” del presente.

Me ne sono tornato perciò di fuori di nuovo, immergendomi ancora nella folla variopinta e chiassosa dei venditori, dei turisti e dei Veneziani intenti a vivere intensamente il loro pomeriggio Veneziano.
Ho ripercorso ancora una volta attentamente calli e campielli dei dintorni, e ho scrutato di nuovo tutto:“Niente di niente … è come diceva lo Speziale dell’Anconetta.”ho concluso finalmente.

A cavallo fra Storia e Leggenda alcune note sull’Anconetta raccontano di come un gruppetto di giovani Veneziani di San Marcuola dopo aver istituito e avviato nel 1439 una nuova “Schola della Natività della Madonna” abbiano ben presto preso a litigare col Piovano e col Capitolo della chiesa di San Marcuola … Gli effetti della lite furono tali, che a un certo punto il gruppetto “prese armi e bagagli” e abbandonò la chiesa della Contrada portandosi dietro la famosa e veneratissima “Anconetta della Madonna del Capitello” considerata miracolosa dalla gente delle Contrade Veneziane vicine.
Sapete meglio di me come andava un tempo quel genere di cose a Venezia: una devozione tirava l’altra, e da una Confraternita ne derivavano altre due, e poi altre ancora … e sorgeva tutto un movimento, un associarsi, un contribuire e aiutare qualcuno, un accorrere al suono di qualche campanella, un orare, cantare e suonare e processionare devotamente, un versare elemosine, creare feste … e anche qualche occasione per fare un po’ di bisboccia e baldoria (cosa che non guastava mai). Venezia era Venezia insomma.

Perciò, siccome i Veneziani di allora erano per davvero calamitati e affezionati a quel loro “dipinto speciale dell’Anconetta” bastò un niente perché il gruppetto di giovani riuscisse a mettere in piedi poco distante dalla chiesa che avevano abbandonato: un proprio Oratorietto o come si voglia chiamarlo: “un loghetto, una chiesuola” dove poter collocare l’Anconetta.
Si era circa nel 1575, e l’idea fu subito un gran successo, tanto che la gente iniziò immediatamente ad accorrervi affollando in massa il posto in maniera da costringerlo a rimanere aperto giorno e notte. I numerosi Devoti Veneziani ben presto tappezzarono di ex voto tutte le pareti del “loghetto devoto dell’Anconetta”, che perciò venne posto sotto la diretta giurisdizione e protezione del Primicerio di San Marco ossia la chiesa personale del Doge Serenissimo.

Figuratevi la reazione dei disautorati Preti del Capitolo di San Marcuola ! … Fu un disastro.
Di certo avrete già intuito perché: con la costruzione di quella Cappelletta avevano perso una bella fetta “di clienti e di Messe”… e soprattutto d’elemosine e donazioni.
Erano abbastanza pratici (e non solo) i Preti di un tempo … I giovani dell’Anconetta, invece, incuranti delle proteste e delle rimostranze dei Preti, continuarono per la loro strada, e ben presto dentro all’improvvisata chiesetta superfrequentata istituirono una loro nuova associazione: la “Schola della Madonna dell’Anconetta”, che come potete facilmente immaginare ebbe subito un notevole successo: centinaia d’iscritti … donne comprese (cosa rara in quell’epoca, in quanto l’accesso alle Confraternite di Arti, Mestiere e Devozione era quasi sempre riservato ai soli maschi).

Saputa la novità, ai Preti di San Marcuola stavolta andò il sangue alla testa, perciò si recarono davanti al Patriarca di Venezia, loro amico personale oltre che Superiore, e ottennero il massimo: ossia una pesantissima sanzione nei riguardi del gruppetto dei giovani dell’Anconetta che vennero tutti scomunicati !
Una scomunica !… Come per i peggiori eretici ! … Fu una botta e una sorpresa pesantissima, una pena che avrebbe tagliato fuori e spento chiunque … ma non quelli dell’Anconetta. Infatti, senza perdersi d’animo i giovani si rivolsero direttamente al Papa di Roma e al Doge della Serenissima, e questi in breve “pizzicarono” il Patriarca cercando di portarlo a più moderate ragioni e posizioni.

La chiesetta dell’Anconetta perciò con la sua “Schola della Beata Maria” ripresero “a correre e girare” come e più di prima, e dopo quei fatti così ostici s’incrementò ancor più la frequentazione e l’attenzione dei Veneziani verso quel “loghetto dei miracoli”che li attirava come carta moschicida e con grande consolazione di rimando.

Nel 1525 i Preti del Capitolo di San Marcuola (verdi di rabbia me li immagino)trascinarono di nuovo i giovani dell’Anconetta a processo per via delle numerosissime “celebrazioni improprie” che si permettevano di realizzare nel loro “loghetto non autorizzato” a pochi passi, troppo vicino alla loro chiesa tanto da disturbarla.
I giovani, ormai non più giovanissimi, non si scomposero neanche questa volta, anzi. Con la massima disinvoltura continuarono anche nel 1570 a celebrare e cantare ogni sabato sera e con il solito afflusso numeroso di gente le loro “Compiete in onore della Vergine”, e invitarono proprio il Piovano e il Capitolo della chiesa di San Marcuola (sembrava una sfida) a dirigerle e presiederle. Per far questo quelli dell’Anconetta pagarono un salario-offerta annua di 9 ducati ½ al Capitolo dei Preti di San Marcuola ... e costoro si recarono puntuali all’Anconetta attratti come api dai fiori e dal miele, percependo ogni volta 40 soldi per ogni “Messa Semplice o Letta”… Gli affari erano affari.

Nove anni dopo, i Gastaldi in carica della Schola dell’Anconetta aumentarono addirittura il “salario delle Compiete dei Preti” portandolo a 12 ducati annui ma senza l’autorizzazione previa dei Confratelli del Capitolo della Schola. I finanziamenti abusivi ai Preti vennero subito sospesi, e gli iscritti della Schola consigliarono ai Gastaldi di pagare i Preti di tasca propria.

Nel 1581 l’Oratorio dell’Anconetta è ricordato nelle carte della Visita Apostolicaa ogni luogo sacro di Venezia: “Tutto a posto … l’Anconetta è cosa buona, ben ornata di valenti pitture e altri degni ornamenti.” Cinque anni dopo: Carlo figlio del defunto Paolo Barbier all’Anconeta, Iseppo Barcarol da Venezia e Francesco Lunan da Feltre vennero impiccati a Venezia per ordine del Consiglio dei Dieci … questo per dire come attorno all’Anconetta fervesse la normale vita cittadina e le solite dinamiche dei Veneziani di quel tempo.

La Schola stimatissima dell’Anconettadistribuiva anche due grazie di 10 ducati ciascuna a donzelle povere per potersi maritare … nel 1591 le “grazie per le donzelle” divennero cinque … Due anni ancora dopo, gli associati dell’Anconetta acquistarono un organetto usato di proprietà di Pre Alessandro Girardini Secondo Prete della Collegiata di San Marcuola, e lo collocarono sopra alla porta principale dell’Anconetta fissando un assegno di 4 ducati annui per l’organista che l’avrebbe suonato durante le “Compiete del sabato sera” e tutte le altre feste e celebrazioni sempre partecipatissime.

Nell’agosto 1623 Pasqualino Carlottilasciò per testamento all’Anconetta alcune sue case che sorgevano dietro all’Oratorietto che perciò potè allargarsi in quella direzione: “… Lasso la mia casa di Ven.a posta a San Marcuola all'Anconeta, alli doi Ponti, alla Gloriosa Vergine Maria anzi che gli la restituisco, pregando essa Gloriosa Madre di Dio che ispiri nel core a quelli che maneggiano quella Confraternita che vogliano allargare la Chiesa e quadrarla, e perchè possino farlo senza scusa, voglio che, pagate le gravezze a San Marco di detta casa, di volta in volta che si scoderà li affitti, adunisi tanti denari che si possino buttar zozo la detta casa, et allargar la chiesa fino all'Altar Grando, et fino al livello del soffittado di detta chiesa, e fino sora la Calle che va alli doi Ponti, dove se gli faccia un'altra porta, con obbligo di farmi dire ogni giorno una Messa da Morto per l'Anima mia in perpetuo…”
Infatti l’Anconetta venne ingrandita fino a contenere tre piccoli altari in marmo con numerosi dipinti.

Nel 1627 il libraio Gasparo QuartaroliVicario della Schola di Santa Maria dell’Anconetta raccontava nelle sue memorie che di nuovo il Capitolo dei Preti di San Marcuola aveva “mosso lite e processo” contro l’Anconetta perché lì s’era introdotta la celebrazione di nuove Messe di Suffragio per le Anime del Purgatorio … “e quelli erano di certo Uffizi celebrati a danno della chiesa di San Marcuola”.

Stavolta quelli dell’Anconetta s’erano fatti furbi: mostrarono, infatti, ai Preti di San Marcuola un “breve ottenuto direttamente dal Papa Urbano VIII°” che permetteva ai Confratelli dell’Anconetta di praticare i loro Riti ai quali associava oltre alle sue Benedizioni anche delle preziosissime Indugenze Perpetue da lucrare da parte di coloro che partecipavano alle celebrazioni dell’Anconetta.
Furibondi i Preti di San Marcuola (ovvio)… ma alla fine spazientiti i Confratelli dell’Anconetta che decisero di licenziare e tagliare i fondi al Clero del Capitolo di San Marcuola sostituendoli “nelle mansioni liturgiche delle Messe e delle Compiete del Sabato sera” con 4 Frati ingaggiati nella Ca’ Granda dei Frari nel Sestiere di San Polo al di là del Canal Grande.
Anche stavolta il Capitolo dei Preti di San Marcuola s’inviperì, e cercò concretamente d’impedire che il Cappellano-Frate potesse intonare le Compiete del sabato sera. Si rivolsero di nuovo al Patriarcae anche al Nunzio Apostolico residente in Venezia, e anche stavolta riuscirono nell’intento di ottenere “un severo monitorio contro i Frati”che impediva loro di partecipare “agli Uffizi dell’Anconetta”. Come le volte precedenti, il Gastaldo e i Confratelli della Schola dell’Anconetta si attivarono, e andarono dritti nella Basilica di San Marco e a Santa Giustina portando in gondola all’Anconetta una intera squadra di “Cantori”che: “… cantarono Compieta con allegrezza del Popolo e contro il volere de Preti de San Marcuola …”
I Preti della Collegiata di San Marcuola fuori di se fecero allora ricorso al Provveditor da Comun e anche al Consiglio dei Dieci della Serenissima, ma ottennero in cambio un giusto “rebuffo gagliardo ai Preti di San Marcuola dicendo che se vogliono tiranneggiare le borse andassero a tenere la loro chiesa … e che dovessero provvedere ugualmente alle Compiete dell’Anconetta …”

“La dura quaestio” fu quindi vinta dalla Schola dell’Anconetta ... Giusto così. 

Dal 1651 in Calle delTabaccoo del Figher all'Anconetta esisteva uno spaccio di Tabacco importato a Venezia fin dall’inizio del secolo e venduto in esclusiva dagli Speziali da Medicina a imitazione di quanto si faceva già nel Regno di Napoli ... Sempre in Calle del Tabacco o del Figher abitava in casa propria Marco Boschini pittore, scrittore, e autore delle “Ricche Minere della Pittura Veneziana” ... Nel febbraio dell’anno seguente il “Molto Venerabile Oratorio dell'Anconetta venne per autorità del Senato Serenissimo ricevuto in protezione della Signoria, acciocché, continuandosi il governo della Chiesa e Scuola da persone laiche, proseguissero nella loro divotione con accrescimento di merito e decoro della città, et esaltazione del culto divino...”

Però ! … che vittoria !

La Confraternita a cui erano ammesse anche le donne continuò con le sue “Compiete del sabato sera” a cui aggiunse anche il “Canto pubblico delle litanie ogni martedì”, la celebrazione solenne di alcune Feste Mariane, la celebrazione di 13 Messe da Morto per ogni Confratello Defunto iscritto, e anche “il Festone del Santo Patrono Antonio da Padova” organizzato fino dal 1706 dal Suffragio di Sant’Antonio da Padova con 30 associati ospitato all’Anconetta fino al 1722 quando si trasferì per “incomprensioni” alla Madonna dell’Orto: “… andando in meglio, e celebrando Messe in Terzo e Vespri Solenni su un bell’altare con la statua del Santo.”

E’ curiosissimo notare e sapere che il Suffragio di Sant’Antonio dell’Anconettanon accettava come iscritti né barcaroli né facchini. Bisognava avere meno di 40 anni per potervi aderire, e dopo sei mesi dall’iscrizione con relativi versamenti si aveva diritto all’assistenza medica gratuita e alle medicine a spese della Schola con un sussidio di 1 lira al giorno. Il Medico della Schola visitava e curava non solo il singolo iscritto ma anche tutta la sua famiglia, compresi anche i servi e le serve che vi lavoravano ... Dopo tre anni di malattia continua non venivano più pagate le medicine ma si percepiva un sussidio fisso di 1 ducato alla settimana. Il Suffragio però non prestava assistenza in caso di Morbo Gallico, mali incurabili e ferite volontarie, e celebrava ogni martedì una Messa letta per i vivi e i Morti della Schola … Offriva funerali gratuiti con accompagnamento alla tomba con Prete e Zago, concedeva alla famiglia del Defunto 5 ducati per sopperire alle proprie necessità … e faceva celebrare per ogni defunto tante Messe di Suffragio quanti erano gli iscritti alla Schola.
I versamenti da effettuare a favore della Schola erano una tassa di Benintradainiziale di lire 2 e soldi 4 seguita da altre lire 12 e soldi 8 per le opere di Sovvegno … Si versavano inoltre periodicamente: lire 2 per “deposito di Messe”, soldi 24 per la tassa di Luminaria delle candele, e lire 2 e soldi 4 ogni prima domenica del mese. Insomma il Sovvegno era un’istituzione assicurativa, preventiva e sanitaria che permetteva di gestire le criticità della vita dei diversi Veneziani associati.

Fra 1500 e 1700 come viene raccontato in dettaglio nelle 3 buste, nei 7 registri e nei 15 fascicoli raccolti e ancora conservati nell’Archivio di Stato di Venezia, la Schola dell’Anconetta continuò a gestire vari lasciti testamentari e fece valere le sue ragioni a più riprese intentando diversi processi contro: Califfi, Origoni, Romani, Bozzato, Pirati, Pagliazin, Rati, Corner, Marconi, Franchini, la Curia Patriarcale e ancora contro il solito Clero di San Marcuola ... Nel 1687 la Schola vendette alcune case di sua proprietà nella Contrada di Santi Apostoli … Nel 1712 l’Anconetta possedeva rendite annuali di 24 ducati provenienti da beni immobili che possedeva in Venezia … Nel 1729 affittò un “inviamento da Forner con casa e bottega”di sua proprietà per 128 ducati annui ... e giunto il 1740 l’Anconetta venne restaurata del tutto utilizzando un lascito testamentario de donna Laura relita del quondam Isepo Sandrin Linariol.”

Infine una brutta nota storica: nel 1772 il Guardiano della Schola(massima autorità),“homo assai grossolano ed ignorante, da qualche anno levò tutti li quadri dei quali erano fornite per intero le muraglie della chiesa e datovi di bianco non vi lasciò che le tavole degli altari ... Andarono perduti molti preziosi dipinti compresa “l’Annunziata” di Domenico Tintoretto ...”In realtà non andarono perduti, ma il Guardiano pensò bene di venderseli per conto proprio:“esecrabilissimo fatto !”

Nel novembre 1789, infine: “… il fuoco appiccossi non lungi dal Campiello del Tagliapietra in Parrocchia dei SS.Ermagora e Fortunato (ossia San Marcuola) distrusse anche il Ponte dell'Anconetta coi circostanti edifici lunghesso il canale ...”

E’ tristissima le fede giurata stesa mercoledì 30 Marzo 1797 dal Guardiano Grande della Schola della Beata Vergine dell'Anconeta Giulio Cogni quondam Bastian in cui elencò in risposta al Decreto del Senato: ori e argenti della Schola disponibili per essere consegnati e poi fusi in Zecca: “Unicamente esistono nella chiesa e Schola nostra: un ostensorio d’argento, due calici con le loro patene, cinque Reliquiari, un turiferario con la sua navetta e il cucchiaino d’argento, una pace, due zoggie: una della Beata Vergine e l’altra del Bambino, una Croce d’altar, sei candelieri d’argento, sei vasi grandi e sei piccoli d’argento, una fornitura di tolette per rivestire l’altare, quattro lampade d’argento e una Matricola di Velluto della Schola con finiture d’argento …”

Mercoledì 10 maggio dello stesso anno gli oggetti elencati vennero prelevati dalla Chiesetta dell’Anconetta e portati in Zecca dove dopo la fusione divennero le nuove verghe d’argento n° 1689 e 1690 del peso totale di 3 once d’argento buono.
All’Anconetta rimase poco o niente di prezioso.

Un ultimo inventario stilato nel 1806, un attimo prima che Napoleone spazzasse via e sopprimesse tutto lasciando come sempre il solito mucchio di rovine inutili, enumerava oltre alla presenza in deposito nella chiesetta ancora di una piccola quantità di argenti, ben venticinque quadri appesi al soffitto e sulle piccole navate: nel mezzo del soffitto campeggiavano un’ “Annunciazione”, una “Natività di Maria”, e una “Visitazione” di Leonardo Corona, e sempre sul soffitto ai lati erano state collocate altre due tele con una “Presentazione di Maria al tempio” e un’ “Assunzione” dipinte da Giacomo Petrelli in sostituzione di “Quattro teste di Evangelisti”sempre di Leonardo Corona tolte e spostate nella microscopica sagrestia dell’Oratorietto dove stava anche un quadretto con una “Natività della Vergine” di Angiolo Lion  e una piccola pala con “San Francesco di Paola” dipinta da non si sa chi.
E non era tutto, perché sopra alla “porta che dava in calle” era collocato un “Miracolo di Sant’Antonio” realizzato da Daniel Van Dick, mentre nel piccolo Presbiterio della chiesetta stavano ancora sul soffitto: un “Padre Eterno ed Angeli” di Giacomo Petrelli, e sull’Altar maggiore dedicato alla Vergine Anconetta un’altra pala ancora dello stesso Petrelli.
Alle pareti della chiesetta c’era appeso un tempo anche un “Angelo annunciante” e una “Vergine Annunciata” dipinti da Domenico Tintoretto scomparsi e trafugati e venduti, e sui piccoli altari laterali in marmo c’erano collocate dello stesso autore: un “Crocifisso con la Beata Vergine e San Giovanni” e un “Sant’Ambrogio, Sant’Anna e Sant’Apollonia.”… e ancora altre pitture: una “Lapidazione di Santo Stefano” di Giacomo Petrelli, un “San Giovanni Evangelista e San Marco” di Filippo Bianchi, e una “Strage degli Innocenti” di Giovan Battista Rossi.

Che ve ne pare ? L’Anconetta non per niente un oratorietto di campagna, ma un altro piccolo e coccolo bijoux della nostra solita Venezia Serenissima. Per forza i Veneziani continuavano ad accorrervi in massa: anche in quel posto vedevano incarnate, concretizzate e curate le loro aspettative, la loro sensibilità interiore … e perché no anche le loro donazioni.

Nel 1830 “nei luoghi dell’Anconetta” era ancora presente e attiva un’ultima Confraternita di Devozione dedicata a San Filippo Neri … Nel 1844, invece, al posto dell’Anconetta c’era solo un cumulo di rovine privo di ogni arredo e riferimento sacro … e nel 1855 il niente rimasto dell’Anconetta venne rimosso del tutto: “… per allargare la pubblica via insieme all’interramento dei vicini Rio de San Lunardo, Rio Farsetti, Rio del Cristo e del Rio drio de la chiesa.”

Ogni opera e cosa che riguardava l’Anconetta andò perciò del tutto dispersa dentro a tutto quello sconquasso totale … eccetto la Madonnetta dell'Anconetta che alla fine della fine venne salvata nella chiesa di San Marcuola dei Preti che l'avevano tanto osteggiata. L'hanno, invece, ben accolta, coccolata e venerata ancora a lungo i Veneziani, fino ad oggi quando la si ricorda un po' meno di ieri.

E' rimasto inoltre almeno fino a ieri pomeriggio anche il toponimo nella Contrada di San Marcuola ... speriamo ancora per un altro “poco”.

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