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“ZATTIERI, ZATTERE E INCURABILI ... A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 117.

“ZATTIERI, ZATTERE E INCURABILI ... A VENEZIA.”

Iniziamo con i Zattieri ossia i “Menadàs”che iniziarono le fluitazioni dei “legnamina” dalle Montagne Dolomitiche fin dal primo Medioevo lungo l’Adige dal 1181 circa con le zattere dell’“Ars radarollorum”, poi sul Brenta fino a Bassano come è documentato nelle loro Corporazioni di Mestiere nel 1295, e dal 1308 fino alla Laguna di Venezia lungo il fiume Piave.
Nel 1396 alcuni Mercanti da Legname di Venezia nominarono:“capo menada”Francesco Benedetto dei “Radaroli di Belluno” per organizzare e guidare la fluitazione del legname fino in Laguna “secundum bonam et antiquam consuetudinem” della sua Corporazione che aveva Statuti con diritti e doveri, e gestiva scali, percorsi, e prezzi delle zattere marchiando tutto il legname.

Quello dei Zattieri non fu affatto un mestiere facile … Anzi, era quasi sempre una specie d’avventura perigliosa intrapresa con lo scopo di procurarsi il pane quotidiano. Un lavoro pesante come molti altri verrebbe da dire … in cui a guadagnarci erano di certo altri e non i Zattieri stessi.
I Zattieri apparentemente sembrano aver poco a che fare con la Serenissima, la sua Storia, e le economie della sua Laguna. Invece, non è stato affatto così perché i Zattieri con Venezia andarono proprio a braccetto in quanto le hanno reso per secoli un servizio davvero prezioso rifornendo in continuità il suo celeberrimo Arsenale.

Tutto iniziava nei boschi d’alta montagna, e la fluitazione lungo il Piave dei tronchi che formavano le zattere avveniva solo dopo aver fatto “scoppiare”la “rastèra del Cidolo o della Stua” ossia la chiusa costruita ai piedi dei boschi del Cadore, del Comelicoo del Cansiglio dove erano stati raccolti i tronchi tagliati e scorticati già su nei boschi. I proprietari di questi “serragli” erano di solito i mercanti e i titolari dello sfruttamento dei boschi: feudatari come i Welsperg, Comunità Montane, o Principi come i Conti del Tirolo o l’Arciduca d’Austria.
Fra 1596 e 1621 nel Primiero di queste costruzioni e luoghi di raccolta ce n’erano almeno 21: “… i boschi del Tirolo, del Tesino e della Val Pusteria era afferenti alla Camera dei Duchi del Tirolo, mentre i boschi soggetti alla Serenissima erano quelli del Cadore e Ampezzano, dell’Agordino, del Cansiglio Alpaghese, Valvisdende, Auronzano, Zoldo, Cajada Bellunese, Montello, Altopiano d’Asiago, Patria del Friuli e Montona dell’Istria … La suddivisione in 54 boschi di Abeti, Faggi, Larici e Betulle del Primiero nel 1558 fornivano circa 309.700 taglie da costruzione e 3.156.000 borre o tronchi di legna da ardere ... All’inizio del 1600 si fluitavano lungo il Cismon 40.000 taglie divenute 48.600 a metà del 1700, mentre 30.000 se ne fluitavano lungo il Piave, e 25.000 sul Cordevole…”

Un solo cuneo di legno strategico teneva in piedi l’intera altissima diga fatta di tronchi e riempita d’acqua nel cui invaso si raccoglievano tutti gli alberi fatti rotolare giù per pendii seguendo: i ludali, livinali, borrali, giavate, roibee risineterreneossia i viali d’avvallamento e scivoli dei boschi che facevano convergere tutto il legname a valle. Oppure i tronchi venivano trasportati con slitte, muli e cavalli e carri giù per mulattiere e sentieri impervi fino ai luoghi dell’accatastamento e inacquamento nel lago improvvisato per la raccolta.
Lì un bel giorno, un giovane tanto coraggioso quanto veloce dava un colpo secco a quell’unico cuneo di legno che teneva in piedi e unita l’intera diga, e poi correva a mettersi in salvo se faceva a tempo a farlo. Era una specie di corsa per la vita, e qualche volta il giovanotto non faceva a tempo “a trovar scampo” prima che l’immane fiumana d’acqua e legni irrompesse violentemente giù per la valle in direzione del fiume Piave. Se ci riusciva, invece, portava a casa un gruzzoletto che gli avrebbe permesso non di sistemarsi, ma di mettere via qualcosa per il suo futuro o la sua famiglia.

Poi iniziava un lungo viaggio degli Abeti, Larici e Faggi “navegando la Piave” fino a Venezia e il suo Arsenale … fino alla Barbaria delle Tole a Castello, alle Fondamente Nove, alla Celestia, alla Sacca della Misericordia, a Sant’Alvisedi Cannaregio e fin sulle Zattere nel Sestiere di Dorsoduro dove le Zattere venivano smontate, vendute e spartite.
A Venezia c’era sempre un gran bisogno di legname: si piantavano migliaia di pali, boschi interi nei fondali della Laguna per porre le fondamenta di case, palazzi e chiese … Ancora alla fine del 1700 Venezia poteva contare ogni anno per questo scopo su una quantità di legname pari a 350.000 tronchi … e poi ci sono sempre stati i bisogni dei cantieri, degli squeri, e soprattutto della Casa dell’Arsenale che inviava i propri Proti ed Estimadori esperti in Roveri, Lecci e Faggi per scegliere e marchiare le piante migliori nella “Viza da remi della Serenissima del Cansiglioo nei “Boschi degli alberi di San Marco” della foresta di Somadida, o nel“Bosco dei Roveri” del Montello .

Le “Commesse dei Roveri per la Serenissima” nascevano col lavoro dei tre Stimadori inviati dai Patroni dell’Arsenale che consegnavano ai Capitani dei Boschi una lista dei Roveri adatti segnata su appositi registri. Per i 233 Remeri stabili della Serenissima si ordinava ogni anno il taglio di 1500-2500 “remi da Galia Sottìl” e 300-600 “remi da Galia Grossa”. Si sceglievano: “Fagari per remi dall’Alpago e dalla Carnia”; “Nogheri (ossia Noci e Olmi) per timoni e bolzelli” dai Boschi del Mantovano; “Roveri da nave” da Rovereto, Trento, Cadore, Carnia, Friuli o dall’estero ossia dalla Toscana e fin nel Napoletano. Per costruire ogni Galea Grossa si spendevano: 17.680 ducati in legname, mentre per varare una Galea Sottile la Serenissima ne spendeva 3.534.

Inoltre, secondo una relazione del Molin del 1633, si ricorda che si conservavano depositati stabilmente nell’Arsenale altri 5.000 “Roveri”, di cui 1.000 erano ancora in buon stato: “…a volte sono lasciati tagliati nei boschi o sulle rive dei fiumi per anni per cui vengono condotti non buoni e valgono solo a occopar e non servir la Casa dell’Arsenale…”
I Proto dei Remeri che andavano a scegliere i legni nei Boschi assieme agli Stimadorie poi dirigevano la costruzione dei remi percepivano uno stipendio di 8-11 ducati mensili, l’uso di una casa nei pressi dell’Arsenale, e 2 anfore di vino annuali. Costoro erano coadiuvati nel loro lavoro dai Proto degli Alberanti che a loro volta supervisionavano la costruzione degli alberi e dei pennoni delle navi percependo uno stipendio di 7,5-10 ducati mensili e gli stessi privilegi “di casa e vino” uguali ai Proto loro colleghi.

Dopo un libero afflusso del legname lungo la parte più ripida del Cismòn, del Travignolo  e dell’Avisio prima, e poi del Piave, dell’Adige, del Cordevolee del Brenta, i tronchi venivano legati insieme a formare le Zattere sopra alle quali si creava con delle tavole un ricovero per le intemperie. Poi si caricavano con carbone, minerali soprattutto di rame, piombo e ferro dal Zoldano, chiodi, mole di arenaria da Tisoj nel Bellunese per affilare spade e macine di mulino commerciate in tutto il Mediterraneo, botti di acido solforico dalle miniere della Val Imperina che serviva per la tintura delle stoffe, canapa,  pelli, lana, prodotti caseari, bestie, pietre di Castellavazzo, oggetti e attrezzi, qualche migrante e anche qualche buon passegger”… e le Zattere così scendevano come: “menàda o tradotta o condotta” lungo i fiumi fino a Bassano,Treviso, Padova… e infine fino a Liza Fusina e Brondolo e Venezia dove esistevano veri e propri “porti e capolinea delle Zattere”.
A più riprese e ancora nel 1834, i Veneziani e i bottegai della zona (soprattutto l’Oste Domenico Matiazzo, il Biavarol Giovanni Maria Milesi, e il Tagiapiera Pietro Dupàr nel 1835-1839) si lamentarono col Doge e col Governo per la grande confusione esistente in quelle Contrade di Venezia dove s’ammucchiavano ovunque cataste di legname, merci e pietre intasando e “imbonendo” con zattere e peate cariche di legname e tronchi  i Rii di San Trovaso, di Ognissanti e quegli adiacenti dove non si poteva più passare, e occupando il libero transito sulle Fondamente al Ponte Longo delle Zattere.
Mercanti di legname come i Coletti nel 1837 o Giovanni Maria Dorotea e Alessandro Bonifiglio di Nicolò nel 1799, e Vincenzo Vissà ancora prima vantavano il diritto e la concessione secolare di poter disporre i legni accatastati ad asciugare sopra agli spazi pubblici per poterli poi commerciare in giro per Venezia, il Lido e tutta la Laguna.


(alcuni marchi di Mercanti da legname)

Fin dalla partenza i legnami venivano numerati e marchiati con i segni dei commercianti di legname, e soprattutto strada facendo venivano contati per pagare i dazi, come quelli d’entrata nei territori della Serenissima, o quello del Vescovo a Fonzaso sul legname che scendeva dai boschi del Primiero attraversando il suo territorio: “… due soldi di piccoli per ogni tronco tondo, tre per ogni tronco squadrato… o in alternativa: un tronco ogni dieci transitati”. La riscossione delle decime veniva spesso appaltata a privati che fermavano temporaneamente la fluitazione costringendola a passare in apposite “serre”: “… si fa fede per l’Offitio della Cancelleria Episcopale che la decima de legnami che vengono per il fiume nel Cismòn aspetta a questo Vescovado, dal quale si riscuote come segue cioè: d’ogni taglia soldi tre; d’ogni borra doppia soldi due; di scavezzoni un soldo l’uno; de squarrati soldi tre; de dogarenti squarati o altro legname squarato come traversette e simili: soldi tre; delli scaloni d’ogni sorte di legname siano si riscuote la giusta decima: cioè d’ogni dieci uno; de dogarenti non squarati la giusta decima; de remi la giusta decima; d’altri legni tondi d’ogni sorte la giusta decima; delle taiole la giusta decima …” certificava il Feltrino Giorgio Teuponi e Giovanni da Fonzaso a nome del Vescovo Giacomo Goblin che esigeva la decima sulle circa 48.770 taglie di legname che fluitavano ogni anno.

A Caput Pontis o Ponte nelle Alpi di Belluno si pagava il dazio al Vescovo di Belluno che scrisse più volte alla Serenissima precisando quanto gli spettava di pedaggio sulle merci che transitavano per la sua città, e chiedendo di legare il commercio del legname con l’importazione del Sale. Fin dal 1293 si pagava un altro dazio al Vescovo di Trevisotransitando per le dogane di Ponte di Piave o del Castello di Quero dove di notte si tirava una catena sul fiume per impedire il passaggio incontrollato delle zattere. Al Vescovo di Treviso spettava un “diritto d’entrada” del valore di 1/40° sulla “muda del Legname del Piave” diretta a Venezia. Percepiva: “… 5 soldi per “raso e zata”, 6 denari per ogni albero, 12 denari per ogni botte di pece, e le imposte su catini e cucchiai di legno”… Anche il Patriarca d’Aquileia, nel 1357, s’interessò della “Mercatura legnamis”sequestrando e poi restituendo ai Veneziani in Carnia, Cadore, Bellunese, Feltre, Mel e Cesana carichi di legna diretti alla Laguna di Venezia ... Scesi a Musile di Piave le Zattere pagavano ancora un dazio fin dal 1335 su “zate lignamis ligate”, e poi proseguivano per il Canale dei Lanzonifino alla Cava e Torre del Caligo, e poi per il Cavallino e Treporti entrando dopo 15 giorni di viaggio nella Laguna di Venezia a Lio Mazòr da dove proseguivano “secondo corrente” per i Canali dei Bari, del Rigà e di San Felise sostando nelle isole di Burano, Murano, San Giacomo in Paludo e infine giungendo nei pressi dell’Arsenale a San Francesco della Vigna, alla Celestia e in Sacca della Misericordiadove venivano smontate e distribuite.

Le “condotte” di almeno 20 Zattere fluitavano lungo i fiumi guidate da equipaggi anche di dieci persone ciascuna, e trainate talvolta da cavalli lunghe le rive. La “Menada Granda” formata talvolta da 12 a 16 zattere congiunte insieme in un unico corteo lungo fino a 300 metri durava circa quattro mesi: dall’inizio di aprile alla fine di luglio, ed erano circa 3.000le Zattere che ogni anno scendevano fino a Venezia passando di mano a Nervosa o Nervesa, Falzè e Ponte di Piave. Certe “Zattere Longhe” pesavano fino a 20 tonnellate, venivano denominate: “Raso o Ras” e trasportavano a valle fino a 18 alberi maestri per le navi che potevano misurare fino a 35 m ciascuno.
Un “Raso” era utile per armare due galeoni, non portava mai carichi sovrapposti, e sopra gli venivano inchiodate tre “antenne”(ossia futuri pennoni da nave) sopra dei quali si costruiva il “suolo”di tavole della Zattara su cui lavoravano i Zattieri … Esisteva anche il Rasèt” con due sole “antenne minori”, la Barca” con travi da 7 metri, il “Barcòt de sbàre” con travi da 10 m, il Barcòt da rài” con taglie da 4,20 metri, la Troncona”, il “Barcòt de scòrs”, la “Mandra da carbòn”, la “Faghèra” e la “Melòsa” ... Le zattere del Piave erano perfino personalizzate con un nome: sulla testa di una, ad esempio, c’era inciso: “LODE A DIO”.

I “Cortei delle Zattere” si fermavano di notte in apposite aree di sosta, e ogni tanto i Zattieri dovevano disincagliarle nelle forre o nei punti più stretti dei corsi d’acqua usando gli “Angèri”e destreggiandosi fra le rocce con funi e braccia. Spesso disputavano e litigavano per il passaggio con gli uomini delle 13 grandi Segherie della Serenissimadistribuite lungo i percorsi, o con i mugnai delle “rogge e roste” dei molini che rallentavano e impedivano il libero transito lungo il fiume.
Nelle segherie dei paesetti spesso omonimi sorti in loro funzione posti lungo le sponde dei fiumi, iSegantini lavorano giorno e notte a turni continui: c’erano le Segherie di Sacco del Bianchin, Lazzaris di Ansogne, Carolto, Venago, Rivalgo, Candidopoli, Termine, Wiel, Malcolm dal 1880, Rivalta, Villanova e Vajont.

Le piene, le aree sabbiose e ghiaiose, le frane rovinose, le “Brentane”, i violenti temporali come l’eccessiva siccità dei fiumi spesso rallentavano e talvolta facevano disperdere l’intero carico … allora era un dramma per molti.
Fra le tante è ben documentata una fluitazione estiva lungo il Piave che partiva dal Comelico, passava per Sappada in località Acqua Tona, o per Auronzo trasportando ogni volta fra 200-240.000 taglie d’alberi. Un’atra ne passava in primavera per lo stesso percorso diretta al Cidolo diPerarolo e Longarone portando da Auronzo 30-40.000 taglie; e un’altra ancora di minore entità “correva giù” d’inverno con soli 10-20.000 taglie partendo dai Trepontialla confluenza del torrente Ansiei col fiume Piave. Una fluitazione diversa ed estiva di 60-70.000 taglie scorreva lungo il torrente Boitepartendo da Cortina e dall’Ampezzano dove ne esisteva anche una invernale più modesta che partiva da Venàs.

Nel 1440 Hans Welsperg vendette ai Mercanti Veneti 8.000 fusti di conifera … 20.000 l’anno seguente, e 11.670 nel 1443 ... Nel 1572 c’era l’obbligo per le Pievi di montagna del “contributo in remi” alla Serenissima. Il Distretto di Belluno doveva dare a Venezia: 6.000 remi piccoli o 3.000 grandi, pena 100 ducati, entro 8 giorni dall’ordine partito dall’Arsenale Lagunare, compresa la spesa di conduttura del legname, ossia 14 soldi per remo. Secondo una precisa “lista delle spettanze dei Legni”: Agordo doveva 1.200 remi per 840 lire, Zoldo ne doveva, invece: 838 per 586 lire, Limana: 210 remi per 147 lire, San Felice: 419 remi per 293,6 lire, Mier : 419 remi per 293,6 lire, Oltrardo 209 remi e ½  (?) per 146,13 lire, Frusseda: 419 remi per 293,6 lire, Pedemonte: 419 remi per 293,6 lire, Lavazzo 209 remi e ½ (?) per 146,13 lire e l’Alpago: 838 remi per 586,12 lire … Nel 1558 il Governo di Innsbruck stimava di 309.700 taglie il legname da opera commerciabile, mentre poteva essere di 3.156.000 quello della legna da ardere col proposito di raddoppiarla nei sei decenni successivi ... Nel 1649 quando Vergoman e Miane sulle colline di Ceneda(Vittorio Veneto) vennero invase e danneggiate dalle acque in piena del Rio San Antonio che rovinò i paesi oltre che il già povero raccolto imminente: tutta la Valmareno fu ridotta alla fame. Si compilò perfino “un boccatico” di sopravvivenza stimando le biade che possedeva ciascuno. Ma nonostante la grave calamità naturale, nell’autunno dello stesso anno siccome era scoppiata una nuova guerra col Turco, la Serenissima chiese ugualmente nuove contribuzioni in denaro, e soprattutto un certo numero di “guastatori e uomini da remi-vogadori”. D’ordine della Serenissima si aspettavano a Venezia per ottobre: “66 vogatori a lire 6 al remo”, e si dispose un contratto per procurare i remi per la voga delle Galee da guerra stipulandolo tramite due Zattieri da Puos d’Alpago che assunsero l’incarico di far tagliare le piante del Cansiglio e di condurle a Venezia con le zattere per il prezzo di “lire 7,10 a remo” ... Nel 1848 i Zattieri del Piave eludendo la stretta sorveglianza Austriaca portarono volontari, soccorsi e vettovaglie a Venezia ... e ancora nel 1900 fra 150 e 200 “Menadàs o Zattieri” trasportarono su Zattere in Laguna più di 1.300 tonnellate di legname.

Secondo la “Guida Commerciale di Venezia” del 1846: il più facoltoso Mercante da Legnameattivo a Venezia eraTaddeo Wielche possedeva ben tre depositi di tavole e legname: due sullaFondamenta della Zattere sul Canale della Giudecca, e un terzo sul Rio di Cannaregio sul canale proveniente da San Secondo e laTerraferma. Sempre sull’imbocco del Rio di Cannaregio c’erano anche i depositi di Pietro Santuari,diFrancesco Gele deiFratelli Masiche ne possedevano un altro inBarbaria delle Tole. Lì s’assiepavano a poca distanza l’uno dall’altro le tese e i magazzini dei commercianti: Giuseppe Malvezzi & C, C.F. de Koepff, Giuseppe Malvezzi, Giuseppe Fabbro e Bartolomeo Lazzaris che ne possedeva un altro aSant’Alvisepoco distante dallaSacca della Misericordiadove c’erano quelli di Isidoro Goletti, Giovanni Corte e Girolamo Teza.Sulle Fondamente Novelavorava Giobatta Cadorin, e a ridosso dell’Arsenalec’era il deposito diGiovanni Antonio Manzoni. Emilio Pascolivendeva legname poco distante dagli Incurabili, e Luigi Girardini e i Zanardini lo vendevano e compravano nei loro depositi vicino all’attuale Piazzale Roma.

Il viaggio delle zattere cariche di: “scaloni, chiavi, bordonali, rulli, piane, zappole, taglie, tavole, ponti refilati o sfiladoni, palancole, scurete, morali interi, mezzi o bastardi” era tutt’altro che agevole e comodo.
Napoleone Cozzi nel 1899 raccontò una “Discesa in Zattara da Perarolo a Belluno”:

“…al luogo d’imbarco una brigata chiassosa di Zattèri allineavano le ultime travi, marcava le assi e assicurava cogli ultimi legacci le parti vitali del bizzarro veicolo che dovea portarci a Longarone. A Perarolo, il Piave non è più nella sua infanzia …si presenta qui nella sua virile fierezza … Il Padola, l’Ansiei, il Boite e cento altri affluenti minori vi hanno riversato il loro liquido tributo: la massa delle acque si urta con fracasso e si frange in candide spume … muovono le pale a una dozzina di seghe e molini, travolgono nella loro ridda impetuosa migliaia di tronchi trascinandoli via come un fuscello di paglia … a 12 chilometri all’ora, la superficie mobile di oltre 70 metri quadrati dell’ammasso galleggiante di due o trecento travi che costituisce ogni zattera ... Il comando secco del capo zattiere, il colpo di remo che ci dirige risolutamente nel mezzo del fiume, il coro dei saluti e degli auguri che si elevano dalla sponda, Perarolo che sparisce al primo svolto ... La zattera segue normalmente il tronco principale del fiume e serpeggia con esso a curve ora strette ora ampie, zitta e velocissima; passa sotto un masso fuori di piombo, guizza tra i fogliami, s’interna in una gola, esce libera in un largo bacino ... Passano casette rustiche isolate o a gruppi, molini, ponti, seghe; dalle valli secondarie affluenti d’ogni grandezza si uniscono al Piave, quali a cascatelle, quali con un ultimo salto, quali scendendo blandatamente dal loro candido letto di ghiaia …Non sempre si corre così tranquillamente: gl’incidenti abbondano ed offrono la nota seria od allegra, secondo la natura loro … Spesso, per evitare una rapida curva si sceglie un braccio di minor profondità: la zattera si trascina gravemente, stride sui ciotoli, è uno scompiglio, un finimondo per le povere viscere ... Talvolta, proprio quando sembra di veder chiaro per un lungo tratto di percorso, la faccia del capo zattera si rabbuia; i suoi cenni si fanno più decisi, più autorevoli, uno sprone di roccia è li minaccioso ad uno stretto svolto e non si può evitare. I colpi di remo si fanno più spessi, diventano febbrili, disperati; ma è vano, impotente ogni sforzo. Il pesante veicolo viene scaraventato contro, l’impeto lo rende indomabile; tutto dovrà sfasciarsi, convien pensare al salvataggio ... Ad un affanoso silenzio succede uno scricchiolio formidabile, poi una scossa potente, disastrosa, che tutto sconvolge, accavalla; sposta, sbalza, sommerge. Il natante sembra squassato; il corretto rettangolo è diventato un goffo trapezoide. Lo sfregamento ha reso le parti esposte, smussato gli angoli; l’urto ha spezzato un remo, svelto uno scalmiere, reciso i legami a una decina di travi che vengono travolte dalla corrente e perdute, ma il resto è salvo; la meravigliosa costruzione ha resistito! … Più scabroso è l’affare, allorchè l’urto avviene in piena prora della zattera e ne tronca di botto la corsa violenta. Che lavorio allora per smuovere a grado a grado l’inerte massa, cui la rapidità della corrente tiene lì fissa, incastrata, nelle sinuosità rocciose dell’immane ostacolo! … Già ad una certa distanza, il corso del fiume sembra troncato da una diga che lo attraversa lasciando uno sbocco stretto oltre il quale l’enorme massa liquida precipita con fragore: le cascate. Avvicinandosi, si pensa, e si ha tutta la voglia di credere che certamente la zattera verrà trattenuta o sviata da chi sa che congegni, da chi sa quali provvidenziali circostanze. Corre invece sciolta ed ardita l’infamissima! È un’indegnità; deve essere una grossa una colossale celia o una pazzia senza nome; saranno matti i zattèri. Ormai non c’è scampo; ancora pochi momenti e saremo assorbiti, ingoiati. La velocità aumenta ancora, il rombo si fa sempre più assordante. Si vorrebbe coprire il viso colle mani, vien voglia di ribellarsi spiccando un salto disperato sulla ghiaia fuggente.
Ci siamo: I due provieri lasciano i remi, si curvano si afferrano alla corda, la prima parte della zattera cigola, si piega, precipita, dispare. Dietro a noi ritto, fiero, impassibile come il dio delle tempeste il capo zattera da col suo remo l’ultimo colpo direttivo, poi si abbassa, si assicura anche lui. Ecco l’attimo: numi dell’abisso! L’appoggio ci manca sotto; le dita si aggrappano alle travi, si aggrovigliano alle corde, ai legacci, quindi con un altissimo grido d’entusiasmo sprofondiamo, ebbri d’emozione, lambiti da un’onda di spuma, avvolti da un diluvio di spruzzi argentini… il viaggio non è terminato … Sulla sua ampia rotaia liquida, passerà altre chiuse, vedrà altre città, altre borgate, altre rive feconde; e correrà ancora ancora, sulle onde maestose dell’azzurro Piave dalle larghissime distese di ghiaia, via via, tra i fiordalisi; le biade, e gli sparsi casolari delle campagne solitarie; tra i filari di pioppi e le alte giunchiglie, laggiù nell’immensa pace delle sconfinate pianure venete.”

Non era inusuale che più di qualche Zattiere non facesse più ritorno a casa seguendo “l’aspra via d’acqua del legnaiolo”…Fra Perarolo e Codissago c’era la Malatorta” ossia un curvone tortuoso con curva e controcurva dove succedevano spesso incidenti anche mortali … poi c’era la “stretta di Quero” dove s’incrociavano le correnti dell’acqua … “sotto al Montello” affioravano dall’acqua le rocce: croste durissime che a volte sfasciavano le zattere o facevano disperdere l’intero carico.
“Il viaggio della Menada fino a Venesia” era quindi sempre ricco d’insidie e drammi, perciò fra i Zattieri fiorirono diverse Schole di Devozione di Mestiereche si dedicavano: “… a implorar aiuto dal Cielo per i Lavoranti vivi, Suffragio pei Morti e Soccorso per le famiglie rimaste” ... Alla partenza delle Zattere il “Zattiere Capo” portava con se la Carta” ossia una sorta di bolla di accompagnamento che elencava il legname trasportato e tutto quanto accadeva lungo il viaggio: materiali caricati e scaricati, incidenti, mancanze, accrescimenti, liti, gabelle e qualsiasi altra variazioni. La “Stampa” della lista terminava con la scritta in calce: “che Dio ci porti a salvamento”, e Zattere e i Zattieri venivano ogni volta benedetti prima della partenza per la lontanissima Laguna di Venezia.

A tal proposito esisteva una Confraternita di San Nicolò a Valstagnache nel 1566 contava 21 aderenti ... Cinque erano, invece, le Confraternite o Fraglie dei Zattierifondate a Codissago, Ponte nelle Alpi, Borgo Piave, Falzè-Nervesa e Ponte di Piave. Le squadre degli equipaggi dei Zattieri si alternavano lungo le tappe del viaggio prendendo in consegna “le zattare” che viaggiavano dirette alla pianura partendo, ad esempio, da Codissago dove c’era il Porto di Castello delle Zattere”Nell’estate del 1492 la “Schola dei Barcaioli e Zattieri del Piave” ospitata nella chiesa di San Nicolò di Belluno in Borgo Piave ottenne dal Maggior Consiglio della Serenissima il riconoscimento ufficiale del suo Statuto ratificato dal Doge Agostino Barbarigo in persona. Si trattava di una specie di “Consorzio mutualistico degli Zattieri”... Nel centro fluviale di Cacoxana di Mira lungo il fiume Brenta e vicino a un traghetto con apposito “Ospizio per Naviganti” c’era una Scuola di San Nicolò dipendente dall’Abazia di Sant’Ilario di Fusina e San Gregorio di Venezia Un’altra Schola dei Barcaroli dedita a San Nicolò sorgeva a San Girolamo di Mestre poco distante dalla Torre Podestarile.

“In epoca tardo medioevale: Tommaso Grifo possedeva “… multas acqua set paludes in loco vocato Dogà…” nella Laguna Nord dietro Torcello, e si lamentava d’essere danneggiato dal continuo transito delle zattere provenienti dal Piave e dirette a Venezia, che compromettevano i suoi sbarramenti stagionali posti in Laguna per la cattura del pesce …”

Nella Laguna di Venezia esisteva tutta “una collana” di presenze e culti dedicati a San Nicolò Patrono degli Zattieriche quasi li accompagnava lungo tutto il loro percorso fino all’Arsenale della Serenissima. C’era San Nicolò della Torre del Caligoe di Lio Mazor presso l’omonimo canale dove transitavano le Zattere entranti in Laguna … Poco distante da Mazzorbo e Torcello c’era l’isola di San Nicolò della Cavanasolo in seguito chiamata Madonna del Monte … A Murano sempre sulla strada del passaggio delle Zattere c’era: San Nicolò della Torre solo più tardi chiamato Santa Chiara di Murano… e proprio sul bordo ultimo della Laguna ai Santi Giovanni e Paolo a ridosso della Barbaria delle Tole esisteva un Cappella-chiesetta del Capitolo di San Nicolò… Al Lido c’era San Nicolò… così come nel Sestiere di Castello sorgeva San Nicolò di Castello … La Chiesa della Contrada di San Biagio dei Forni sul Molo di San Marco ospitava una Confraternita di San Nicolò che arrivò a contare ben 250 affiliati ...  e perfino dentro a Palazzo Ducale esisteva una Cappellina di San Nicolò affrescata dal Tiziano a cui il Doge Antonio Grimani regalò il suo manto dorato per ricoprire la statua di San Nicolò il giorno della sua festa.
Nella chiesa monasteriale dei Carmelitani Scalzi dei Carmini nel Sestiere di Dorsoduro era presente e attiva la Confraternita di San Nicolò dei Mercanti, la Fraglia di San Nicolò del Traghetto provvedeva a collegare Sant’Eufemia della Zuecca con le Zattere al di là del Canale delle Giudecca … Nella splendida chiesa di San Nicolò dei Mendicoli(dove abito io attualmente) collocata proprio sulla dirittura d’arrivo dell’itinerario dei Zattieri da Fusina verso le Zattere si fa espressamente riferimento agli Zattieri (di cui resta un dipinto di San Nicolò Protettore degli Zattieri con le zattere accanto).

Questo “San Nicolò onnipresente”è stato quindi considerato da sempre come: Protettore dei Naviganti, “Padre de Marinari”, dei Pescatori, dei Traghettatori e anche dei Mercanti da Legne nonché dei Zattieri.

(San Nicolò Patrono degli Zattieri in un dipinto per San Nicolò dei Mendicoli)

Ed è proprio lì sulle Zattere fin dal 1532, precisamente dentro alla “chiesa tonda de San Salvatore degli Incurabili”(in realtà di forma elittica edificata da Antonio Da Ponte su disegno di Jacopo Sansovino) che venne ospitata la Scuola di Santa Giustina e San Nicola dell’Arte dei Mercanti da legname e degli Zattieri del Cadore. Ecco perciò il collegamento dei Zattieri con gli Incurabili di Venezia.
L’Arte dei Zattieri e dei Venditori di Legname non dipendeva più dalla Giustizia Vecchia come tutte le altre, ma bensì direttamente dal Magistrato sopra le Legne e i Boschi … La Confraternita faceva ardere giorno e notte un “cesendello” davanti all’Altare di Santa Cristina che ospitava la Schola dei Zattieri e del Legname, faceva inoltre celebrare di continuo agli Incurabili Messe quotidiane per i benefattori vivi e per i Morti, assisteva i Confratelli malati, bocciò l’idea d’istituire doti a favore di donzelle da maritare, e “teneva banco e Capitoli in capo al dormitorio de’ Preti o nel Refettorio degli Incurabili”.

Diverse stampe del 1500 e 1600 mostrano sulla Fondamenta delle Zattere, e davanti alla grande croce infissa sulla Fondamenta accanto al Luogo degli Incurabili alcune zattere ormeggiate, e i legni delle zattere smembrati, sciolte e accatastati in attesa d’essere trasportati ai cantieri di Venezia e all’Arsenale.
La “Fraglia dei Zattieri e degli uomini del Legname degli Incurabili” si diede all’inizio una nuova Mariegola, e ancora nel 1797 contava 11 iscritti. Si trattava di una specie di società-consorzio a cui aderivano Nobili, Cittadini originari e popolari, e riuniva coloro che commerciavano “Legna all’ingrosso e da fuoco” in giro per Venezia. Era quasi tutta gente originaria del Cadore che spesso si passava il mestiere di padre in figlio e nipote e pronipote. Per le riunioni del “Capitolare dei Confratelli”, invece, i Commercianti da legname e i Zattieri si ritrovavano vicino alle Fondamente Nove prendendo a prestito le sedi o i locali delle Schole de San Piero Martire in Campo San Zanipolo o quelli della Schola de la Madona de la Paxe, della Schola di Sant’Orsola o di San Vincenzo Ferreri.

Nel febbraio del 1610 l’Arte dei Mercanti di Legname inviò una supplica alla Serenissima lamentandosi delle difficoltà causate dalla difficile congiunzione economica veneziana, perciò ottenne uno sconto fiscale del 25% passando dal pagamento di una tassa di 31 ducati annui a quello di soli 15 ducati … Nel maggio 1723:“…esisteva in Venezia una carestia somma di legna da fuoco: non se ne trova per danari…” … Sopraggiuntopoco dopo mister Napoleone, ovviamente si decretò lo scioglimento e la soppressione di tutto, e anche di quell’Arte considerata inutile … rimasero però attivissime in Venezia le private famiglie dei Commercianti di legname che continuarono a gestire le zattere di legna che scendevano dal Cadore e dalle montagne.

Gli Incurabiliè stato uno dei quattro grandi complessi ospedalieri voluti dalla Serenissima, ed è sorto a Venezia per ospitare gli affetti dal“Morbo Gallico o Mal Franzoso”… ossia la malattia Sifilide: “L’Ospedaletto dei Derelitti, la Pietà, le Zitelle e gli Incurabili sono i quattro principalissimi bastioni della nostra Repubblica … ed arrivarono ad ospitare fra homeni, maladi e putti e infanti fino a 3.000 persone…”

La cura della Sifilide che si praticava agli Incurabili era detta anche“Cura dell’Acqua e del Legno o del Legno Santoo lignum indicum, e funzionava a base di raro quanto costosissimo Guaiaco Americanoimportato a Venezia con un lucrosissimo commercio soprattutto daiMercanti Fugger Tedeschi di Augusta presenti in massa nel Fondaco dei Tedeschi di Rialto. Con l’erba importata dall’America si creava uno sciroppo o unguento che si somministrava sotto varie forme per 2 ore 2 volte al giorno per 30-40 giorni che venivano prolungati spesso a 3 mesi.Il“Rimedio pel Mal Franzoso”si somministrava in luogo molto caldo ed essudativo associandolo a diuretici, salassi, lassativi, diete ferree e perfino col Mercurio almeno fino al 1700 ... e si ripeteva la cura in primavera e autunno, e solo per un numero limitato di malati (sembra che venissero estratti a sorte 48 malati a Padova. Non si sa bene secondo quasi criteri).

Nel 1527 secondo il “Liber de Morbo Gallico” scritto da Nicolò MassaMedico Veneziano ed edito in quello stesso anno: la Sifilide si poteva curare con “pomate mercuriali” mescolate con grassi animali soffregate ogni sera sulle articolazioni che venivano poi bendate col paziente a letto per 2 ore a sudare. La “cura” usata solo se falliva l’altra “cura col Guaiaco”provocava ulcere in bocca, costante saliva fetida, perdita del sonno e dell’appetito, nonché diarrea.

L’iniziativa sanitaria degli “Incurabili di Venezia” è sorta fra 1517 e 1522 sotto lo Juspatronato del Doge in persona, e aveva come ispirazione e sottofondo economico l’apporto delle 12 prime “Governatrici dell’Ospedale”ossia alcune “donne da conto veneziane” fra cui Marina Grimani legata alla famiglia di Vincenzo Grimani figlio del Doge Antonio, Maria Malipiero della Contrada di Santa Maria Zobenigo, Maria Gradenigo, Elisabetta Vendramin, Ludovica Gabriel sorella di uno dei primi governatori degli Incurabili: Benedetto Gabriel, Bianca Giustinian moglie di Benedetto Gabriel e sorella del Camaldolese Paolo Giustinian, e Lucia Centi madre del predicatore francescano Bonaventura Centi in contatto col Carafa e Giberti che donò all’ospedale una casa di gran valore e molte volte migliaia di ducati.
Ispirate dall’Agostiniano Don Girolamo Regini loro Confessore, col sostegno spirituale dei Canonici Lateranensi residenti poco lontano a Santa Maria della Carità che riprendevano la spiritualità del Divino Amore e della Devotio Moderna di origine fiamminga in risposta all’inquietudine religiosa e sociale d’inizio 1500, le Nobildonne Veneziane espressero una forte volontà concreta e fattiva di dedicarsi alla“Cura degli Incurabili”. Il principale apporto motivazionale oltre che economico venne anche da San Gaetano da Thienefondatore dell'ordine dei Teatini che riuscì a farsi donare un terreno poco distante dalla chiesa dello Spirito Santo dal Nobile Zaccaria Semitecolo, sul quale costruì un “Ospissio di legno” per accogliere uomini e donne affetti da Sifilide.
In seguito fra molti altri prestarono cura agliIncurabili di Venezia anche San Francesco Saverio e soprattutto il Nobile Veneziano Girolamo Miani(poi considerato Santo) che a Venezia negli stessi anni aveva già istituito due asili per fanciulli abbandonati in Contrada di San Bastiàn e a San Rocco, e un altro “Ospeàl per febbricitanti detto il Bersaglio”, finendo poi col gestire la nuova Istituzione dei Chierici di San Gaetano. Dopo costoro, agli Incurabili si alternarono i Gesuiti, e infine i Chierici Regolari Somaschi.



Nel febbraio1522 il Patriarca ed i Provveditori alla Sanitàobbligarono:“… infermi, impiagati da mal franzoso ed altri mali che sostano con gran fetore e pericolo di contagio sotto i portici delle chiese, di San Marco e Rialto dedicandosi a furfanterie per sopravvivere a farsi ricoverare sotto pena di bando nel “Luogo allo Spirito Santo” detto degli Incurabili.” … Nell’agosto 1524 si accolse agli Incurabili sistemandolo in un luogo a parte il Nobile povero e vergognoso Bernardo Contarini…Dal febbraio 1525 s’iniziò a ricoverare agli Incurabili, dove già c’erano 350-400 ospiti, anche putti e putte orfani ed abbandonati: “… vestivano una divisa colore turchino, abitavano in stanze separate dall’Infermeria Comune, accompagnavano a pagamenti i Morti al funeral, facevano i “Balottini” per il Maggior Consiglio, venivano ammaestrati nel leggere, scrivere e lavorare chiodi, panni, tessitura, stampa, e si concedevano in adozione o a mestiere, o s’imbarcavano nelle galee veneziane ... Non dovevano essere più di 33 (come gli anni di Cristo) … Si doveva annotare in un libro apposito quelli adatti a cantare.”... Nel 1528 quando i Governatori degli Incurabili erano: Pietro Contarini, Andrea Venier e Francesco di Giovanni dalla Seda, i pazienti erano 150 fra uomini e donne, e: “… l’Hospeàl degli Incurabili aveva Medego e Spezial e i malati erano benisimo atesi e medegati” Per tutelare l'attività dei lasciti testamentari a favore degli Incurabili, nel 1538 il Maggior Consiglio affidò il governo dell’Ospedale a un apposito comitato composto da non meno di dodici e non più di ventiquattro fra Nobili e Cittadini … A un certo punto si creò fra ricoverate ex prostitute una specie di “reparto separato, una specie di Monastero di Convertite” interno all’ospedale che ricevette grazie e privilegi direttamente da Papa Clemente VII… nel 1544 Zorzi Bombaser dalla Contrada di San Gallolasciò per testamento alcuni suoi campi a Salzano col cui frumento voleva si facesse “pane bianco” per i poveri dei Derelitti e degli Incurabili.

A metà del 1500 per ricoverare agli Incurabili si estraeva a sorte 10 malati di Sifilide fra quelli in nota per entrare in Hospeàl e quelli che si trovano vagabondi e abbandonati per le strade di Venezia … Nel 1565 Pre Tacino Francesco Cappellano dell’Ospedale dei Derelitti lasciò agli Incurabili: “… un monacordo nuovo assieme al suo povero vestiario” ... … e qualche anno dopo Beretin Francesco de Zuane da Capodistria lasciò “residuari delle sue sostanze economiche” i Derelitti, gli Incurabili, il Monte Santo di Sion e l’ospedale dei Matti di Treviso … Nel 1569 si processò Zanetto Cicuta Barberotto accusato di Luteranesimo e di aver lasciato la stanza agli Incurabili all’inizio della Messa … Riuscì a cavarsela scusandosi per l’abbandono del Rito perché riferì:  “… d’aver le mani unte di unguento mercuriale della cura degli Incurabili” ... Nel 1571 LudovicoPriuli figlio del Doge Girolamolasciò un legato di un paio di scarpe e calzette a tutti i putti dei Derelitti e degli Incurabili … Alla fine del 1500 il Chierico Emidius Lisius da Ascoliinsegnava Grammatica ai 9 alunni dell’Ospedale degli Incurabili.“…a chi do concordantie, a chi do latini, ghe ne sono de quelli che latinano per gerundii. Vergilio e Donado a mente…”

Nel 1600 si consacrò la chiesa del Santissimo Salvatore degli Incurabili situata al centro dell'attuale cortile interno frammentato in quattro piccoli cortili triangolari con quattro vere da pozzo collocate ai lati … e l'assistenza ai malati inizialmente gestita dalle Nobildonne Governatrici per le donzelle e le inferme, e da Nobilomeni per gli infermi maschi, venne in seguito affidata a personale sanitario stipendiato su cui sovraintendevano i Governadori degli Incurabili“Il Pio Luogo è compartimentato in quattro appartamenti: due per le donne e due per gli uomini per un totale di 150 ammalati ospitati, 70 donzelle e 50 giovanetti. Viene governato da una Congregazione di Nobili e Cittadini con buone e tante regole per la cura dei poveri ... Per il governo spirituale c’è un Rettore, un Cappellano e 4 Laici che sono tutti Padri Somaschi .... Le donzelle suonano strumenti e si fanno sentire in tutte le feste e solennità …”

La gente di Venezia stimava moltissimo l’Ospedale che ospitava non solo gli Incurabili, ma anche bambini orfani per istruirli nella religione ed avviarli allavoro, nonchè bambine per educarle al canto. Pur di entrarvi ricoverati i Veneziani si portavano da casa letti e materassi(gli stramagli)
Il celebre Paolo Veronese dipinse per gli Incurabili un: “Cristo Crocifisso con la Madonna e San Giovanni”(oggi collocato nella chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti di Venezia, la chiesa incorporata all’Ospedale Civile) … Inoltre la chiesa degli Incurabili ospitava opere di Tintoretto, Aliense, Padovanino, Giorgione, Celesti, Mantegna, Ingoli, Strozzi, Salviati e Palma il Giovane sotto alla cupola affrescata da Angelo Rosis.

Dal 1601 si aggiunse agli Incurabili una “Farmacia-Spezieria interna o Officina Aromatica e armadio farmaceutico”.
Scriveva Giovanni Nicolò Doglioninel1613:“… poche città puono eguagliarsi alla città di Venezia nella pietà et nel mantenir con elemosina i poverelli et specialmente che si ritrovano né luoghi dedicati ad opere pie. Che, tralasciando le tanti e tanti Monasteri di Frati e di Monache mendicanti, ecco i bambini nati di nascosto et abbandonati da padre et madre hanno luogo comodo per allevarsi nell’Hospitale della Pietà. Gl’infermi di mali incurabili con piaghe et tumori han l’Hospitale dell’Incurabili a ciò deputato. Quegli altri poveri, non con tanto male, sono soccorsi nell’Hospital di San Giovanni e Paolo. Li meschini malamente feriti han lor ricovero in San Pietro e San Paolo ... Quelle donne che dal mal fare si rimettono e si danno al far bene sono raccolte nel Monasterio delle Convertite. Le giovanette già da marito che stanno in eminente periglio di cadere in peccato son levate da alcune Matrone Primarie della città et anco a forza condotte et chiuse nel luogo delle Citelle. Quelle donne che maritate, non però voglion vivere caste, si conservano ben guardate nel Soccorso ... Vi sono anche altri luoghi pii et fraterne…”

In una“Relazione sugli Incurabili in Venezia”del 1650 recapitata aPapa Innocenzo Xsi legge:“… Li padri Somaschi servono il pio luogo detto Hospitale degli Incurabili in spiritualibus solamente. Questo pio luogo è molto cospicuo nella città e per l’opera che contiene e per le persone de quali riconosce li suoi principi ed accrescimenti ... Riceve tutti li poveri con piaghe che vi vogliono entrare quali sono proveduti delle cose necessarie al vitto, medicinali e servitii; di più, in certi tempi dell’anno, che si fanno le purghe col decotto, vi sono sino 800 poveri che ivi stanno per 40 giorni.
Tiene 63 zitelle, quali si maritano ai suoi tempi con dote di scudi 100 oltre le robbe che se li permettono acquistarsi da parte de suoi lavorieri … Alimenta 33 orfanelli, quali s’ammaestrano e sono applicati ad arti diverse secondo il genio … Ha chiesa ragguardevole, capace assai, nella quale oltre le prediche dell’anno, la quadragesima, si predica ogni giorno mattina e sera con molta frequenza.
Li padri Somaschi in numero di 6, cioè 3 sacerdoti e 3 laici, affaticano giorno e notte con patimento più che ordinario in opera così preciosa a gli occhi della divina maestà. Un sacerdote serve alle confessioni delle zitelle, li altri due per l’infemarie, tutti 3 all’amministrazione continua de sacramenti alla chiesa. Ricevono per loro sostentamento: pane, vino, olio, legna, sale, abitationi, utensili grossi, lenzuoli, camicie, medico, medicinali, in più scudi 43 per testa per il vitto ed il vestito. Hanno elemosina di messe certe circa 30 scudi l’anno, di straordinarie circa scudi 50. Elemosina di chiesa per il calcolo fatto da 4 anni in qua: scudi 60 circa …
Gli aggravii per i Padri constano di: 8 Messe alla settimana oltre altre 9 Messe cantate all’anno, dette gratis per servitio del Pio Luogo; Per sussidio al Padre Generale si danno scudi 6 … Al Padre Procuratore scudi 5 … Al Padre Visitatore scudi 6 … Per aiuto alla Casa Professa della Trinità: scudi 50 … Per alloggi scudi 12.
Questo pio luogo si governa con molta carità nelle cose temporali da 25 gentiluomini e cittadini quali con l’applicatione delle persone e loro dinaro proveggono a quanto bisogna.
I Sacerdoti presenti ora agli Incurabili sono: Don Giovanni Antonio Zonisio che è Rettore, Don Giovanni Maria Rovere che è Chierico Regolare e Don Calo De Rossi che è Confessore e Chierico Regolare. Sono inoltre presenti i Frati Laici: Giacomo Modonino Veneziano e Bartolomeo Ossola da Lugano …”

Nel 1647 si installò nella chiesa degli Incurabili un’ampia tribuna per il “Coro delle Putte degli Incurabili”. Il Pio Luogo degli Incurabiliera perciò uno dei luoghi della Musica di Venezia, dove le Putte si esibivano in celebri Cantate come è scritto a chiare lettere nel titolo del “MODULAMINA SACRA DECANTANDA A FILIABUS PIISSIMI XENODOCHII INCURABILIUM” riedito ancora a Venezia nel 1746 a cura del Maestro del Coro degli Incurabili Nicolao Jomelli. Come lui furono Maestri di Coro degli Incurabili:Rigatti, Pallavicino, Porposa, Hasse, Carcani e ancheBaldassare Galuppi detto il Buranello che fu Maestro agli Incurabili fino al 1776.

Secondo tradizione secolare degli Incurabili, durante l’ultima domenica di Carnevale e il Giovedì Grasso mentre i tori impazzivano per i Campi di Venezia e perfino nel cortile del Palazzo Ducale: “… nell’Hospeàl agli Incurabili s’esponeva il Santissimo delle Quarantore in alternativa riparatoria ai tanti abusi perpetrati dal Carnesciale”… Inoltre si praticava una processione solenne partecipata da ben 72 pellegrini e 53 orfani serviti in seguito a pranzo dai Confratelli dell’Oratorio del Divino Amore… in Quaresima si predicava quotidianamente “il Quaresimale” come in altre 37 chiese cittadine di Venezia … Agli Incurabili si festeggiava, inoltre, San Marcoil25 aprile … la Santa Croce il 3 maggio anche con Messa Solenne Cantata dal Coro delle Putte, come nella festa del 21 giugno per San Luigi Gonzaga subito dopo a quella solenne del 13 giugno per Sant’Antonio da Padova sentitissima e partecipatissima in tutta la Laguna ... e il 21 ottobre la Schola delle Nobildonne Orsoline si radunava con le Putte del Coro degli Incurabili per cantare mottetti in onore della loro Patrona Sant’Orsola davanti al dipinto di “Sant’Orsola con le Vergini”eseguito per loro dal Tintoretto (oggi conservato a San Lazzaro dei Mendicanti).

Nel 1722 agli Incurabili scoppiò un grande incendio che danneggiò buona parte del complesso … Nell’agosto 1739, scriveva Charles De Brosses amico del musicista Prete Antonio Vivaldi: “…musica eccezionale qui è quella degli Ospizi. Ve ne sono quattro tutti formati da fanciulle bastarde od orfanelle, e da quelle che i loro genitori non sono in grado di allevare. Sono educate a spese dello Stato e le istruiscono esclusivamente per farne delle eccellenti musiciste. Quindi cantano come angeli e suonano il violino, il flauto, l’organo, l’oboe, il violoncello, il fagotto; insomma non c’è strumento per grosso che sia che possa far loro paura … le loro voci sono adorabili per la modulazione e la freschezza. La Zabetta degli Incurabili è la più straordinaria per l’estensione della voce ed i trilli di violino che ha in bocca … quello dei quattro Ospizi dove vado più spesso e dove mi diverto di più è l’Ospizio della Pietà; è questo anche il primo per la perfezione dell’orchestra. Che rigore di esecuzione !”

Nell’aprile 1743 raccontava, invece, Girolamo Zanetti:“…oggi si cominciarono le esposizioni delle 40 Ore in molte chiese con riguardevole spesa ed apparato di lumi ed altro. Si distinsero: gli Incurabili, i Mendicanti, Santi Apostoli, San Geremia, Santa Maria Zobenigo e San Canziano ... ma forse sopra tutti i Mendicanti dove le donzelle di questo Pio Luogo cantavano 4 bei mottetti composti due dal celebre Antonio Rodella e due da certo Frate. Furono posti in musica da Baldassare Galuppi detto Buranello maestro ordinario d’esso Pio Luogo che per questa funzione fece in musica molto bene il salmo Miserere … Agli Incurabili si cantò una composizione, ossia Oratorio sopra la Passione, composto da certo Abate Bandino Modenese e posto in musica da Giuseppe Carcani Cremasco, Maestro attuale di quello ospedale. Il Miserere che colà si cantò era composto di Giovanni Adolfo Hesse detto il Sassone, vecchio e rinomato maestro di quel coro … era singolarmente bello e dilettevole … ”

Giunto il 1755, gli Incurabili incapparono in una grave crisi finanziaria che portò alla chiusura dell’istituto per bancarotta nel 1777 … Nel 1807 con i napoleonici “il locale degli Incurabili” venne adibito ad Ospedale Civile… nel 1819divenne Caserma dell’Artiglieria e deposito dei materiali del Genio Militare radendo al suolo la chiesa che occupava il cortile centrale ... Ancora nel 1824 Cicogna nella redazione delle sue “Iscrizioni” ricordava:“… l’ospedale annesso che oltre a malati accoglieva orfani e persone in condizione disagiata … Era diviso in 4 grandi appartamenti: due per gli orfani e giovanetti: circa 50, e due per le fanciulle educande circa 70 ... La chiesa era di forma ovale: …aveva tre sporgenti tribune sostenute da mensole, i cui parapetti suddivisi da pilastrini avevano gli specchi a traforo. Erano quetsi sormontati da graticcie di ferro per nascondere alla vista degli astanti le donzelle che in quel si raccoglievano per eseguire i noti concerti che si davano alla ricorrenza di certe determinate solennità…”

Infine nel 1900 l'ex Ospedale degli Incurabili ospitò gli uffici del Distretto Militare… dal 1950 divenne Riformatorioper Minorenni, e poi venne nuovamente chiuso e lasciato inutilizzato ... Oggi dopo opportuni restauri ospita l'Accademia di Belle Arti che ha abbandonato la sua sede originaria lasciando maggiori spazi alle Gallerie dell'Accademia. Il sito degli Incurabili è quindi tuttora attivo e presente sulla Riva delle Zattere assolata e spesso silenziosa: unico nome e segno rimasto di quella grande attività curiosa che qui ferveva per tanto tempo.

P.S.: le immagini di Venezia e dei Zattieri di ieri.
Venezia e i Zattieri di ieri: le immagini.



“TROVATO IL COLPEVOLE DELLA PESTE DEL 1348 … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 118.

“TROVATO IL COLPEVOLE DELLA PESTE DEL 1348 … A VENEZIA.”

Si parla sempre delle grandi Pestilenze che hanno coinvolto Venezia: quelle del 1600 con i grandi “Voti di Stato” e l’edificazione dei grandi templi votivi del Redentore alla Giudecca e della Madonna della Salute affacciata sul Bacino di San Marco. In quelle occasioni si sono innescate tradizioni secolari che coinvolgono ancora oggi i Veneziani, sebbene si siano metabolizzati, ridotti e mutati il senso e “il sentire originale” di quelle ricorrenze annuali diventate tipicamente Veneziane.

Il fenomeno delle Pestilenze a Venezia e in Laguna è ben più antico, e non si è affatto esaurito in quegli episodi così eclatanti. C’è stato come un “continuum” di pestilenze e calamità che ha pervaso senza discontinuità l’intera epoca Medioevale interessando spesso l’intera Europa oltre che i luoghi e le genti della Serenissima. Le Cronache antichissime di Venezia ricordano che già durante il 1100 accaddero in Laguna ben 12 epidemie di Peste, mentre altre 8 si succedettero durante il 1200, e ne capitarono altre nel 1301 e 1343 … e nel 1348 che è l’anno di cui c’interessa raccontare un poco.

A dire il vero e ad essere precisini, già fin dall’inizio del 1340 c’era stato una specie di annuncio e presentimento perché era iniziata a circolare per Venezia una strana leggenda che raccontava di: “… una certa Galea carica di Diavoli e forze ostili della Natura che volevano sommergere Venezia con una mareggiata di straordinaria violenza ...”
La stessa Leggenda raccontava che Venezia sarebbe stata salvata dall’intervento unitario dei Santi: Nicolò, Giorgio e Marco divenuti per questo: Protettori dell’intera area Marciana e portuale della Serenissima.
S’avvertiva quindi che:“… qualcosa stava per accadere e incombeva nell’aria”. Si presagiva che stava per succedere di nuovo qualcosa di brutto e letale per la città Serenissima.

Ma andiamo per gradi … Per capire meglio quell’epoca, bisogna ricordare che nel 1343 il Nobile Andrea Dandolo detto “il Cortese per il suo modo grazioso di fare”, venne eletto a soli 37 anni 54° Doge della Repubblica di Venezia. (lo rimarrà fino alla morte nel 1354). Si trattava di un uomo potente e dottissimo: un Procuratore di San Marco, uno scrittore di “Cronache veneziane”, un raccoglitore di Statuta”e atti diplomatici. Fu il primo Doge di Venezia a laurearsi e addottorarsi all’Università di Padova dove fu anche insegnante di Diritto … inoltre fu anche amico del Petrarca, e mecenate di diversi letterati.
Andrea Dandolo faceva parte di un gruppo di grosse Famiglie Patrizie che a Venezia primeggiavano su tutte le altre. I Dandolo erano politicamente considerati: “Apostolici e filopapali”, molto uniti nelle loro Ramificazioni di consanguineità parallele, e anche molto legati con vincoli matrimoniali e d’amicizia con le Nobili famiglie dei Marcello, Longo, Bemboe Bragadincon i quali spesso si schieravano nel Maggior Consiglio sapendo bene di poter contare l’uno sull’appoggio degli altri.
Storicamente i Dandolo furono la quinta famiglia ad occupare il maggior numero di cariche di governo della Storia della Serenissima: furono una famiglia di Dogi in quanto prima di Andrea c’erano già stati alla guida della Repubblica Veneziana: Francesco, Giovannied EnricoDandolo... I Dandolo, insomma, erano quasi sempre Dogi.

In origine erano Mercanti provenienti da Altino, e s’erano insediati prima a Torcelloe poi a Rialto nell'Insula di San Luca dove con gli altrettanto Nobili Pizzamanofinanziarono ed edificarono la nuova chiesa della Contrada. Ricchi di possedimenti e di feudi fin nelle Terre del Friuli, in un certo senso i Dandolo erano simbolo della Venezia ascendente, spregiudicata, ricca e sempre più potente gestita dalla sua oligarchiamercantile. S’impegnarono fin da subito in attività mercantili oltremare con l'Oriente Bizantino dove possedevano numerosi interessi commerciali e beni a Costantinopoli e nei feudi di Gallipolie Andros.
Domenico Dandolo, considerato il capostipite del Casato dei Dandolo, si diceva avesse portato a Venezia il corpo-reliquia di San Tarasio donandolo al sempre più prestigioso, ricco e potente Monastero delle Monache Benedettine di San ZaccariaQuando nel 1201, il Papa bandì la Quarta Crociata, l'anziano Doge Dandolo la indirizzò prima su Zara conquistandola dopo lunghi anni di rivolte, e poi sulla stessa Costantinopoliprendendola nel 1204(pensate che in fondo i Bizantini erano Cristiani come i Veneziani: altro che Crociata per la Religione ! … quella era solo una scusa per arricchirsi)

Infatti quel gesto permise a Venezia di assumere il controllo dell'intero Mare Adriatico e d’iniziare il suo vasto Impero coloniale in Oriente accanto al neonato Impero Latino.
In quell’occasione i Dandolo si costruirono il proprio palazzo sul Canal Grande con i marmi saccheggiati a Costantinopoli. Il saccheggio era abitudine comune dei Veneziani: basti pensare che metà dei quadretti racchiusi dentro alla famosissima Pala d’Oro della Basilica di San Marco, come gran parte dei suoi marmi, proveniva dalle ruberie perpetrate a Bisanzio e in Oriente. A tal proposito è curioso ricordare che l’altra metà dell’Iconostasi da cui furono tratte quelle stupende “storie di smalto e preziosi” racchiuse poi dentro alla Pala d’Oro è rimasto ancora in Oriente.
Venezia e i Veneziani quando conquistavano qualcosa o qualcuno sapevano essere rapaci, voraci e insaziabili come e peggio degli altri. Nel caso delle scene dorate che diverranno parte integrante della Pala d’Oro di San Marco, nella foga folle e sanguinaria del saccheggio rubarono e strapparono dalla chiesa di Costantinopoli solo una parte, metà di ciò che era esposto davanti all’altare lasciando pendulo sul posto tutto il resto (che si trova oggi ancora lì).

Tornando ai Dandolo, se non “esercitavano” da Dogi sedevano stabilmente al vertice dei Consigli Dogali, o in alternativa facevano i Vescovi o almeno il Patriarca di GradoSempre per mantenere un certo livello di prestigio, gli stessi Dandolo fecero sposare Anna Dandolo con il Gran Zupano di RasciaStefano Nemagna divenendo con lui la prima Regina dei Serbi e madre di ben due Re: Stefano I° Vladislav e Stefano I° Uroš ... e si racconta che un altro Dandolo sconfitto nella Battaglia di Curzola, si tolse, invece, la vita fracassandosi la testa contro il remo a cui era stato incatenato: “… perché Venezia non subisse l'onta di veder condotto a Genova da schiavo il discendente di colui che aveva dato un impero alla Repubblica.”

Andrea Dandolo, come vi dicevo, venne eletto dunque Doge dopo molte votazioni andate a vuoto, e il suo schieramento politico conservatore si contrappose a quello di Marin Falier progressista e più propenso a un tipo di governo Comunale e democratico non legato alla Signoria oligarchica di pochi Nobili Mercanti. Non a caso Marin Falier venne condannato alla “damnatio memoriae” dopo la sua presunta congiura e un tentativo di colpo di stato. In fondo quello del Falier fu il partito dell’opposizione, l’antagonista dei Dandolo, che rappresentava anche un generale quanto fastidioso malessere delle classi popolari e mercantili estenuate dalla prolungata crisi economica e dallo sforzo della guerra contro Genova. Bisognava liberare Venezia da tutto quel fardello pesante di proteste e di novità che avrebbero potuto disorientarla e rallentare la sua crescita, perciò i Dandolo eliminarono e cancellarono i Falier anche fisicamente ed economicamente, oltre che politicamente … in quei tempi si costumava così.

In quegli stessi anni Genova e Venezia guardavano all’Oriente commerciale preoccupandosi delle vicende italiane solo in funzione dei propri interessi e della propria ascesa ed espansione economica. Venezia provò anche ad allungare il suo zampino sul sale, sulle terre e sulla via commerciale e fluviale del Po dei Duchi diFerrara ritraendolo subito dopo essendosi scottata perdendo la guerra malamente. Si raccontò a lungo in giro per Venezia dei Veneziani risparmiati dai Ferraresi e rimandati in Laguna accecati per raccontare come erano stati sconfitti e annegati nel Po ben in 6.000. Inutilmente i Veneziani tentarono gesti di vendetta e rivalsa su Ferrara organizzando qualche incursione nei suoi territori provando ad alleviare il peso della sconfitta. Con molte galee si recarono nel Ravennate fino a Sant’Albertodando alle fiamme molte case prossime al distrutto castello di Marcamòe bruciarono diverse navi dei Ferraresi che trasportavano Pellegrini Tedeschi diretti a Roma ... ma fu evidente a tutti che quelli erano solo gesti di frustrazione senza alcun esito politico utile.

Ma com’era Venezia in quegli anni lontani ? Che cosa si faceva in Laguna verso la metà del 1300 quando la Repubblica non era ancora diventata del tutto la grande Serenissima ?

Semplice ! … A Venezia si viveva e soprattutto si cresceva in ogni senso ... Di certo la città e la Laguna erano diverse da come sarebbero diventate nelle epoche dorate successive come nel Rinascimento, nel Seicento e nel Settecento. Per molti versi però Venezia era anche molto simile a se stessa: quell’epoca era come l’inizio, l’annuncio di un successo futuro che stava già incominciando. La città lagunare era perciò vivissima, già splendida, con un fascino e un’attrazione che già allora erano invidiati e appetiti da molti se non da tutti.

Nella Sestiere di San Polo erano attivi diversi Pellicciai non ancora relegati con tutta la loro categoria d’Arte e Mestiere nell’isola della Giudecca ... L’Abate Pietro di Sant’Ilario di Fusina concesse terre, molini sul corso d’acqua “Botte dei Bianchi”, e un bosco a Fiesso a Rolando Magister Miniator del fu Goto di Padova abitante in Contrada di San Polo dove essendo accaduto a Venezia nel 1343 un grosso terremoto nel giorno della Festa di San Paolo ossia San Polo le cui scosse si prolungarono per ben quindici giorni: “… seccossi il Canal Grande e caddero mille case”,si cominciò a dire del Santo: “San Polo dal terremoto”.

Lo stesso Sestiere di San Polo ospitava il sempre più organizzato Emporio di Rialto in grande espansione: gli Ufficiali Sopra Rialtochiesero l’allontanamento dei Bastazi(facchini) dalle aree prossime alla chiesa di San Zuane Elemosinarioperché facevano troppa confusione e creavano troppo disordine … In Contrada di San Mattio di Rialto, il Maggior Consiglio condonò all’Oste Corozato da Modena la pena di 3 lire inflittagli dai Giustizieri Nuovi perché vendeva “pane da fuori” non consentito nella sua Osteria … ridusse anche a 40 soldi di piccoli la condanna di 10 lire di piccoli impartita a un altro Oste: Rosso Bon per aver tenuto nella sua osteria 28 letti invece di 30 … concesse a Giovani Sacharola di condurre sempre in San Mattio di Rialto una Taverna con sala da ballo e 8 letti ... ridusse a 8 lire la pena di 20 lire di piccoli inferta ad Anastasia “Ostessa della Zucca”in Rialto multata per aver ospitato stabilmente nella sua Osteria due meretrici … e a 100 soldi la pena di 30 lire imposta a Bilantelmo “Oste alla Serpa”per aver fatto la stessa cosa con altre 3 prostitute.

Fuori delle Osteria-Locanda di Rialto: “Al Melon”, “Al Saracin”, “Al Bo” e “All’Anzolo” sostavano le meretrici durante tutto il giorno a caccia di clienti ... Ma anche l’“Ostaria del Camello”, l’“Ostaria del Vaso”, quella “Al Cavalletto”, “Alla Colonna” e “Alla Corona” erano considerate e nominate fra “i lupanari di Rialto”.
Nei pressi di Rialto funzionavano gran parte delle 16 Osterie, Taverne, Alberghi o Hospitalia esistenti in quell’epoca a Venezia: una di queste era proprietà dello Stato, due delle Monache fra cui quella “All’insegna della Scimmia”, e tre di privati bene in vista come i Sanudo, i Foscarie i Soranzo. Buona parte degli esercizi dell’Emporio di Rialto non godevano affatto di buona fama perché erano frequentati da giocatori d’azzardo, gente turbolenta, “Gaiufi e gabbamondo”, millantatori d’arti magiche, e da puttane con i loro temibili ruffianiche occupavano per farle esercitare le“volte”contigue alle Osterie facendole sembrare normali botteghe.
Le Locande di San Zuane Elemosinario come “Alla Campana”, “Alla Spada” e “Alla Stella” erano, invece, più raccomandabili: a pianoterra o “pepiàn”c’era il banco, la cucina, una sala da mangiare o da ballo; mentre di sopra nel mezzanino o “mezado” c’erano parecchie camere da letto affittabili a giornata o anche a ore. Più di qualche Locanda possedeva anche una stalla per i cavalli.

Sempre a Rialto, poco lontano dalla Statio Draparie di Marino Carlo era attivo il tavolo del Banchiere Marino Storlado che durante la peste da infermo fece testamento nominando 4 Commissari fra cui il banchiere Soranzo. Lasciò 300 ducati al Monastero del Corpus Domini dove era monacata sua figlia Maria Sturiòn o Storlado.
Come racconta il “Libro Mastro Nero” della ditta fiorentina di Duccio di Banchello & Soci attiva all’epoca a Venezia, i Banchieri presenti a Rialto erano fra 8 e 10. A Venezia ogni anno si esportava per 10 milioni di ducati d’oro e s’importava per altrettanti con un guadagno netto di 4 milioni: 2 sulle esportazioni e 2 sulle importazioni ossia il 20% dell’intero capitale.
Per realizzare tale consistente guadagno si utilizzava un naviglio di 3.000 bastimenti con 17.000 uomini, 300 navi con 8.000 uomini e 45 Galee con 11.000 Marinaicostruite da 3.000 Marangoni da Nave e 3.000 Calafati. Le navi molto spesso appartenevano allo Stato che le appaltava a Mercanti privati “per divisum” mettendole “all’incanto o nolo”. Il Senato decideva il numero dei navigli ammessi, determinava le rotte e il “viaggio in carovana”, sceglieva il Capitanio che guidava la Muda, ispezionava il carico, organizzava razioni ed equipaggi, e decideva se lungo il percorso le navi avrebbero dovuto ingaggiare azioni di guerra “a nome di San Marco”.

Ogni singola “Galea grossa da mercato” caricava di solito merci in stiva per 140-250 tonnellate, ed era governata e condotta da circa 212 uomini compreso un cuoco e un Medico di bordo ... Chi partecipava alle “Mude delle Galee e delle navi tonde della Serenissima” versava anticipatamente una cauzione di 10 soldi per milliarium  o un pegno di 2.000 libbre per garantirne la partenza.
Diverse “Compagnie di Galea” che in genere erano “Fraterne familiari” fornivano capitali privati per noleggiare, assicurare, caricare ed equipaggiare ogni singola galea. Ogni Compagnia di Galea era suddivisa in 24 Caratio Partecipazionidette Parcenevoli che sborsando ciascuno cifre come 7.000-8.000 ducati avevano influenza sulla scelta del “Patròn della Galea”.
Il Patronus o Patròndi Galia era perciò un funzionario di Stato, e oltre a guidare la flotta o la singola nave gestiva “un fondo pubblico”, supervisionava e annotava meticolosamente tramite uno Scrivano il caricamento e l’entità delle merci, controllava frugando nelle stive, fra la paglia, le casse e le balle che non vi fossero merci nascoste, e chiudeva a chiave i boccaporti della nave quando era fuori bordo o assente.Il Patrònera tenuto ad imbarcare ogni Mercante che avesse caricato almeno 10 balle di merci o che avesse pagato almeno “20 solidi di grossi” di nolo. A ciascun imbarcato sulla nave concedeva uno spazio largo 2 piedi col consenso di portare a bordo: una coperta, un materasso di peso non superiore a 30 libre, un baule, una valigia e armi per se e un servitore. Chi contraeva debiti con i Patròn di Galea senza assolverli poteva finire in prigione o incatenato a remare per sanarli … Era però possibile navigare anche liberamente, da privati, e a proprio rischio e pericolo … ma spendendo meno.

Negli stessi anni, dopo tante proibizioni, l’Arte della Lana di Venezia aveva iniziato con grande fatica e grandi proteste dei Mercanti a lavorare le lane in Laguna invece d’importarle e basta come s’era fatto a lungo anche con le pelli, lo Zafferano e l’Argento … Un opificio dell’Arte della Lana si trovava nel Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello .... e i Lanarolidi Venezia contestarono apertamente alla Repubblica il Dazio sui Panni Lana mandati a lavare nelle acque dolci dei folli di Treviso, Portogruaro e Padova chiedendo di poterli lavare liberamente a Venezia o in almeno in una zona più comoda e vicina … Poco dopo, infatti, il Maggior Consiglio concesse anche a Bernardus Fustagnarius di poter lavare i propri fustagni ai Bottenighi e nel “luogo della Tergola di Mestre” ma senza disturbare il lavoro di quelli che lavavano la lana ... i Laneri di Venezia erano stati accontentati.
Dopo gli anni della peste però, i Gastaldi dell’Arte della Lana furono costretti a chiedere al Governo di poter mandare a filare le lane fuori di Venezia per la scarsità della manodopera delle filatrici rimaste vive, in quanto erano passate quasi tutte ad altri mestieri più redditizi.

La maggior parte delle botteghe degli Oresi, degli Argentieri, dei Diamanteri e Zogellieri di Venezia era concentrata “sotto alle Volte di Rialto nella Ruga degli Oresi o Ruga Vecchia di San Zuanne di Rialto”, anche se non mancavano botteghe altrove come in Spadaria, nelle Merceriee in Piazza San Marco. Gli Oresi non dovevano essere ricchissimi perché davano alle figlie doti solo da 100-200 ducati.
Nel 1340: “… l’Orese Leonardo Rosso reo confesso d’aver venduto come buoni oro e argento alterati e di bassa lega venne condotto legato e con un cartello al collo che diceva la sua colpa da San Marco fino a Rialto. Gli fu inoltre proibito di esercitare ancora la sua Arte in Venezia, e gli fu comminato di scontare un anno di carcere.”

In giro per Venezia esistevano più di 80 Inviamenti da Olio… però tutto l’olio convergeva a Rialto da Zara, dall’Istria e da tutti gli altri posti dovendo pagare una tassa di 2 piccoli per libbra alla Tavola della Ternaria dell’Olio che molto spesso comprava tutto l’olio per lo Stato rivendendolo a prezzo maggiorato o calmierato: due appositi Stimatori da Comun andavano a misurare l’olio con mazze segnate, tenevano un “registro grande” della produzione e vendita di tutto l’Olio di Rialto, e gestivano un giro di 30-40.000 ducati annui … I Pestrini di Venezia, invece, macinavano semi di linovendendo l’olio prodotto a 20-26 denari alla libbra. Producevano 720.000 libre annue che però non potevano vendere ai nemici delle Serenissima … come i Padovani, ad esempio.

Sempre nell’Emporio di Rialto, per pesare Grano e Carbone si usava come misura lo “staio”o le“libbre grosse o sottili”, mentre altrove si usavano misure varie come le “mine, metà, staia, quartari e quartini”, oppure misure strane come il “raso scodelle”, “colmo scodelle”, “quartucci delle 12” e “quartucci delle sedici”. Per misurare i liquidi, invece, a Rialto si usavano “le secchie” divisibili in “caraffe” e “boccali”, mentre all’estero si suddivideva in “pinte, fiaschi, barili, zaini, mezze, brente, inguistate e bicchieri”. Le superfici delle stoffe si misuravano a “braccia da seta o braccia da panno o braccio da tela, piedi o braccio da muro, pertiche o cavezzo o trabucco”, mentre altrove si misuravano in “quadri, canne, miglio, passetto, once, atomo, minuto e decimo, catene, palmi e braccio da tessitore”.
In giro per i mercati Italiani tutte quelle suddivisioni e misure creavano un vero casino e una grande confusione, mentre “… a Venezia si era più essenziali, pratici e ordinati: si sapeva commerciare meglio” … lo dicevano gli altri, i Mercanti provenienti da tutta Europa e oltre.

Già fin dal 1312, ogni anno a Natale, la Scola di San Giacomo dei Terneri e Casaroli di Rialto dovevano offrire al Doge 100 libre di buon formaggio dolce … Le Arti dei Gallineri, Buttiranti e Ovetari (venditori di uova)avevano, invece, l’obbligo di fornire allo stesso Doge: un paio di buone Oselle grandi e 30 denari a Natale, una buona gallina a Carnevale, e una buona colomba di pasta farcita con 14 uova a Pasqua.

Sempre nei pressi dello stesso Emporio di Rialto, nellaContrada di San Bortolomio o San Bortolo, appena giù dal Ponte Realtino, dove ieri come oggi sorgeva la Calle della Bissa” che portava quel nome per le tortuosità del suo percorso: “Vicus qui, in anguis speciem retortus, anguineus dicitur”, il Vicario della chiesa che rappresentava il titolare del Beneficio ossia il Patriarca di Grado(residente nella vicina San Silvestro) era proprietario dell’ “Osteria alla Cerva presente in Rialto”.
Papa Innocenzo VI nominò come giudice Marco Bianco Vescovo di Jesolo sulla controversia sorta fra Fortunato Vaselli Patriarca di Gradoe Nicolò I Morosini Vescovo di Castello per le “Decime mortuarie”percepite nella chiesa di San Bartolomeo di Rialto nel cui mercato: “… accadevano furti, percosse, omicidi e altri malefizii con disonore della città e danno dei Mercanti. S’erano rubate merci alla Stadera del Comune, alla Riva del Ferro, a quella dinnanzi la Beccheria, e casse d’ova … Ed era naturale, perché i Capitani con cinque soli compagni ciascuno mal possono far la guardia; e i custodi degli Uffizii sono vecchi ed impotenti. Si aggiungano adunque quattro guardie per ciascun Capitano di Rialto, col salario di 6 lire al mese, le quali vadano di notte ai luoghi sospetti, ed ivi si mettano cesendeli e lampade …” 

Anche nel Sestiere di Dorsoduro, in Contrada di Santa Margherita dove Marino Civran era Plebanus della vecchia chiesa Collegiata abitavano e lavoravano diversi Pellicciai, e c’erano diverse Chiovere di Tintori di Panni ... Nella stessa Contrada abitava una certa “Bisina o Risina Vendramin solitaria ed eremita” che si era fabbricata un’angusta celletta nel campanile della chiesa da dove entrava per assistere dall’alto ai riti tramite un pertugio fin dentro alla grande cupola dorata che sovrastava un tempo la chiesa sostenuta da quattro grandi colonne di marmo portate dall’Oriente (di tutto questo non esiste più niente). La “Pizzoccara” usciva dal suo romitaggio solo per recarsi a San Marco il giorno della Festa dell’Ascensione per potere lucrare e acquisire le numerose indulgenze che venivano lì concesse in quel giorno speciale.
La Bisina-Risina”in quel giorno spendeva a San Marco un patrimonio in elemosine e per comprare indulgenze, tuttavia ci teneva a precisare che versava un regolare canone di 8 grossi annui al Capitolo di Santa Margherita per l’uso della sua celletta e di un piccolissimo orto nelle vicinanze della chiesa.

Un campo e un ponte più in là, nella vicina Contrada di San Barnaba accanto alla chiesa tutta decorata a mosaico (oggi andata distrutta e ricostruita) si costruì il nuovo campanile in cotto e per la prima volta il Ponte dei Pugni in pietra ... Poco distante avvenne una lunga contesa fra il Nobile Raffaele Ghezzo della Contrada di San Pantalon e il Capitolo di San Basilio di cui era Piovano Prè Barnaba Dalla Fontana per la proprietà e l’uso di una stretta calle che correva fra chiesa e campanile. Secondo i Preti del Capitolo era privata in quanto conteneva le fondamenta della chiesa, mentre per il Ghezzo era pubblica perchè confinante con la sua proprietà che aveva acquistato dai Pino. I Giudici sentenziarono salomonicamente: “Sarà pubblica salvo che si dimostrasse il contrario”.

Poco distante da lì, in periodo di peste, il Mercante Marco Arian Capo Contrada ossia “Major” dell’Anzolo Raffael lasciò: “… a li vivissimi de la Contrada … per i bisogni al povolo e a boni homeni de la Contrada” un legato di 300 ducati per la costruzione di due pozzi con le loro “vere in piera”.Morì anche lui di peste facendosi seppellire in una tomba della chiesa dei Carmini, le sue intenzioni vennero incise sui pozzi, mentre il suo testamento veniva letto due volte l’anno davanti alla porta della chiesa dell’Anzolo Raffael.

Qualche ponte e qualche passo più in là, il Gastaldo di San Nicolò dei MendicoliMarco da Cavarzere e Pietro Rosso da San Moisè supplicarono e ricevettero dalla Serenissima l’uso di alcune acque “a palata Tregolle usque a Botonigum” dove poter costruire mulini a patto di non nuocere all’equilibrio delle pubbliche acque.
Nel settembre 1343 l’alta marea o “Acqua magna” attaccò i muri del Monastero Benedettino delle Monache di Santa Marta come era appena accaduto l’anno precedente a quelle di Santa Maria in Valverde di Mazzorbo, Santa Caterina di Chioggia e nell’isola di San Clemente che ottennero ciascuna dallo Stato “un marano di piere” del valore di lire 124 di piccoli per sopperire ai danni “propter maris impetum”.
Sempre lo stesso Monastero di Santa Marta dotato di un Ospizio e di diverse risorse e lasciti testamentari da parte di Jacobina ScorpioniMonaca a San Maurodi Burano(ma originaria di San Nicolò dei Mendicoli), acquistò terre e casali a Russignago, e s’allargò verso la Laguna inglobando e prosciugando 20 piedi di palude verso l’isola di San Giorgio in Alga, e altri piedi verso l’interno consolidando le rive ed espandendo anche il proprio giardino. Dovette però lottare non poco contro le pretese di Filippo Salamon e della sua famiglia che bramavano d’esercitare il proprio Juspatronato sul Monastero ... Le stesse Monache del Santa Marta bonificando e costruendo muri e muretti, e pali di confine litigarono non poco con i Preti di San Nicolò dei Mendicoli per competenze, allargamenti e sconfinamenti, e per la gestione delle proprietà … e “sbaruffarono a son de Avogadi”perfino con i Magistrati del Piovego per l’occupazione degli spazi pubblici e delle rive finendo più volte a processo con relative sentenze.

Dall’altra parte del Sestiere di Dorsoduro, in Contrada di San Trovaso abitava Bertuccio Israello “Paron de nave” e suocero dell'architetto Calendario, che per ripicca e vendetta contro Giovanni Dandolo pagatore alla Camera dell'Armamento divenne complice di Marin Falier “suo pubblico innimico”.

Più avanti, nella Contrada di Sant’Agnese dove da poco era stata consacrata la nuova chiesa a cura di Giovanni Zane Vescovo di Caorle, Giovanni Magno Vescovo di Jesolo e Ottonello Vescovo di Chioggia col consenso del Vescovo di Castello Giacomo Albertini, Lucia moglie del Cittadino Nicoletto Alberti residente nella stessa Contrada di Sant’Agnese comperò dai Canonici di Torcello un terreno di 6 campi “… confinante a mane con altre sue proprietà; a meridie con la Scomenzera per la qual si va al Lido del Mar; a sera col Monastero di Sant’Arian; a monte col Monastero de San Marco de Amiani.”

Procedendo più avanti ancora, siccome il terreno della chiesa di San Vio stava sprofondando, il Senato assegnò per riattare la chiesa col suo portale sussidi e marmi tratti dalle case atterrate dopo la sua congiura a Bajamonte Tiepolo ... La chiesetta col Priorato della Santa Trinità(nell’attuale Campo della Madonna della Salute o del Seminario) appartenuta un tempo ai Cavalieri Templari e sempre frequentatissima dai Veneziani e dai Pellegrini per via delle sue numerose indulgenze Papali che lì si potevano ottenere facilmente, venne lasciata andare in decadenza dai Cavalieri Teutonici che erano subentrati ai Templari. I Frati-Cavalieri Teutonici trasferirono la loro residenza a Mariemburgo in Prussia ma costruirono sulla punta estrema dell’isola una serie di magazzini paralleli cinti da mura e con una torricella. In seguito la Repubblica prese in gestione il luogo adibendolo a Deposito del Sal e poi a Dogana da Mar spostandola dalle Rive di San Biagio dei Forni sul Molo di San Marco … Sempre nello stesso luogo, presso il Nobile Andrea Lippomano Priore della Trinità e suo amico andò ad abitare Girolamo Miani(poi dichiarato Santo) che aveva appena fondato una “Casa per poverelli” in Contrada di San Basegio.

Oltre il Canale fra il Sestiere di Dorsoduro e la Giudecca sorge appunto l’isola della Zuecca. Lì i Monaci del Monastero di San Giacomo della Giudecca iniziarono una lite e un contenzioso giudiziario senza fine con Gratiabona e Mora e i loro eredi per dei beni in Contrada di San Barnaba e in quella di Sant’Eufemia della Zuecca che durarono fino al 1682.

Nell’ottobre 1343, invece, al Monastero di San Biagio e Cataldo della Giudecca e alle Monache di Sant’Angelo di Contorta venne dato un sussidio di Stato perché i Monasteri aveva subito danni gravissimi a causa delle inondazioni che ne avevano sommerso e intaccato le fondamenta. Si dovette costruire attorno ai Conventi delle “palade a difesa”…. come si fece anche a San Piero in Volta ch’era stato ugualmente danneggiato dal mare … al pari del Convento di San Leonardo di Malamocco.

Nel Sestiere di Cannaregio, dall’altra parte di Venezia, già da qualche decennio s’era assegnato per abitare ai Tintori Lucchesi le Contrade di San Giovanni Crisostomo, San Canzian e Santi Apostoli … in Contrada di San Lunardo i Carmelitani Marco e Morello e i Vescovi Domoceno, Francesco ed Urense consacrarono la nuova chiesa nel maggio 1343 … Il Maggior Consiglio autorizzò l’Arte dei Filacanevo ad acquistare una casa dove poter lavorare la canapa per conto del governo in Contrada di San Geremia in una zona di squeri e saline gestite dal Monastero di San Secondoin isolaNella Contrada di San Marcuola dove da poco s’era consacrata anche lì la nuova chiesa, il Maggior Consiglio graziò Marco Tagjapiera da San Salvador, Pasquale e Diamonte Teutonico da San Marcuola, e Margherita Boltremo da San Marcilian condannati dagli Ufficiali del Dazio del Vino per non aver pagato la tassa su quanto avevano esportato e venduto a Mestre … Nella stessa Contrada Cristoforo quondam Stefano Lanarius acquistò un manso di 36 campi ossia quasi 18 ettari a Casale sul Sile nel Trevigiano: “… cum una domo magna murata de cupis…” e altri edifici, con 24 staia annue di frumento ossia 20 quintali e metà del vino, che riscuoteva come affitto.

Poco più avanti in direzione di Rialto, Frate Guido Vescovo di Ferrara dopo la riconciliazione di Venezia col Papa investì a Bologna di un fondo indivisibile a Formignana e Trisigallo trasmissibile a eredi maschi Filippo Corner e il nipote Zanino Cornaro quondam Marcodella Contrada di San Felise… dove Parisino Parsio da Lucca esercitava da Tintore … Giusto nell’anno della peste, il 1348, Lucia della Contrada di Santa Sofia faceva “la vendrigola” ossia la “rivendugliola di strazzarie” ... e qualche anno prima la Serenissima aveva stabilito dei Commissari per ripartire i costi dell’ampliamento della strada pubblica fra San Bartolomeo dell’Emporio mercantile di Rialto, il Fondaco dei Tedeschi e San Giovanni Crisostomo abbattendo alcune case e un campanile. Anche tutti gli abitanti del Sestiere di Cannaregio avrebbero tratto beneficio da quella nuova operazione edile, perciò si tassarono tutti i residenti delle Contrade e Parrocchie fra Santa Lucia e San Giovanni Crisostomo. Chi beneficiava maggiormente pagava di più: San Giovanni Crisostomo e Santa Sofia pagavano 2 soldi, 6 denari per ogni valore di 1000 lire di proprietà, mentre da San Marcuola a San Felicela quota era di 1 soldo, 6 denari, e per la zona di Santa Lucia – San Leonardo: 1 soldo. Solo la Contrada di San Bartolomeo di Rialto era esentasse.

Nel cuore pulsante di Venezia, ossia il Sestiere di San Marco: il Piovano Francesco Carello della Contrada di San Samuel, dove abitavano anche Ser Marco dalla Carta, Stefano dalla fornaia e Zuanne da Carole, venne condannato più volte a pene detentive per adulterio e amoreggiamenti con Orsa moglie di Zanin Diedopartito per Corfù. Costei fece bottino di tutto quanto c’era in casa, e abbandonati i figli andò a convivere col Piovano. Condannata a prigione a vita, in seguito ottenne la grazia e fu rimessa in libertà. Non pentito, né redento fu, invece, il Piovano Carello perché con un'altra sentenza venne in seguito condannato a due anni di carcere per aver commesso adulterio stavolta con Lucia moglie del Nobilhomo Marco Barbarigo figlio del defunto Maffeo che le fece perdere la sua dote maritale.

Intanto nella Zecca di Piazza San Marco si coniava 1 milione di ducati d’oro l’anno, 200.000 monete d’argento e 80.000 di rame. Il Ducato d'oro di Venezia detto anche Zecchino era già famoso e molto utilizzato nei commerci internazionali fin dalla conquista di Costantinopoli sotto il Doge Enrico Dandolo. Competendo col Genovino d'oro e il Fiorino andò a sostituire il vecchio “matapàn” d’argento di Venezia ... A Venezia si usava per commerciare “denaro piccolo” soggetto a inflazione per le transazioni locali, e “denaro grosso” molto stabile per le transazioni internazionali di valore come per il mercato della seta greggia, dell’olio e del burro.

Poco distante da Piazza San Marco, i Frati Eremitani di Campo Santo Stefanoacquistarono ulteriore terreno per allargare il cimitero attorno alla loro convento e alla chiesa che dovette essere riconsacrata più volte a causa di ben 6 ferimenti successivi che vi accaddero al suo interno … Uno avvenne nel giorno di Pentecoste proprio dell’anno della peste quando Girolamo Bonifazio ferì il Nobilhomo Marco Basadonna fratello di Fra Francesco Basadonna.
Nello stesso Convento, alcuni anni dopo la peste, si scoprì che Fra Benedetto degli Eremitani di Santo Stefano era colpevole di passare informazioni segrete a Moncorso e Bernardo di Lazara che a loro volta le trasmettevano al Carrarese di Padova. Reo confesso Fra Benedetto ammise che erano implicati in quell’intrigo anche altri quattro Nobili di Venezia che avevano accesso ai Consigli segreti della Serenissima. Venne perciò condannato a prigione a vita dal suo stesso Priore, allo stesso modo del Nobile Alvise Molin Avogadore da Comun, di suo genero Leonardo Morosinimembro della Quarantia, di Pietro Bernardo Consigliere Dogale e di Francesco Barbarigouno deiCapi dei Quarantacondannati però entrambi a un solo anno di prigione ed esclusione permanente dai consigli segreti e dalle cariche inerenti ad essi.Comunque anche dalla prigione gli interessati cercarono ancora di corrispondere con Padova attraverso Fra Bonaventura, il Padre Provinciale dei Francescani e il Nobile Ramusio Dolfin ... ma vennero prontamente intercettati dagli accorti uomini della Serenissima.

In Contrada di San Zulian verso San Marco, dove Giovanni Traverso lavorava da Pestrinaio e risiedevano almeno 55 persone considerate abbienti, abitava anche il Nobile Romeo Querini le cui proprietà terriere e rendite a Papozze e Trisigallo nel Ferrarese avute in concessione dall'Abate di Pomposa erano malridotte e non affittabili dopo la sconfitta veneziana di Ferrara ... Nella stessa Contrada "in una bottega in Ruga" esercitava l’attività di deposito e prestito lo Spicièr Nicolò Sturiòn che applicava sui prestiti un tasso variabile intorno al 12% annuo ... Altrove si arrivava ad applicare tassi anche del 24% ... Nella stessa Contrada lavoravano: Anzolo dei Manègi, Andrea, Michiel, Vielmo e Gabriel dell’Avorio, Azo Curamèr, Bortolo e Nani Balestrai, Corado Spicièr, Francesco Spadèr, Giacomo, Zuanne e Polo Curacèri, Lorenzo Cassellèr, Lorenzo Tintor, Lunario Scarselèr, Marco Rosso Carozèr, Marco Bon Strazaruòl, Marco “dalle ore”, e Nicolò Tedesco che faceva il Massèr comeZuanne de Andrea Tommaso nella bottega “All’insegna della Campana”.

Al di là delle acque del Bacino di San Marco, il Monastero di San Giorgio Maggiore nell’Isola di Santo Stefano dei Cipressi figurava nella lista dei Monasteri Benedettini doppi ossia promiscui come quello di Santa Maria Celeste di Castellodetto “la Celestia” dove era giunta dall’Oriente un’immagine della Vergine Madonna. Negli anni della peste Nicolota vedova di Giacomo Venier nominò la Badessa della Celestia tra le esecutrici testamentarie del suo patrimonio facendo molte donazioni al Convento.
Qualche anno dopo, invece, Ysabeta Falier vedova di Andrea Da Mosto che aveva una sorella Monaca alla Celestia e una nipote Monaca a San Giovanni Evangelista di Torcello, lasciò 2 grossi ciascuna a ogni Monaca della Celestia e 1 candela da 10 libre ciascuna alle chiese dei Frari, San Zanipolo, Santo Stefano e Santa Maria dei Servi.

Spostandosi altrove, nel più periferico e lontano Sestiere di Castello: Zanni Bianco faceva lo Spicièr in Contrada de San Martin… La dotazione economica dei Canonici della Cattedrale della Contrada del Vescovo di San Piero de Castèo era così povera tanto che non si riusciva a finanziarne adeguatamente le singole prebende … Perfino la sede del Vescovado di Castello rimase per un certo periodo vacante perché nessuno la voleva in quanto scarseggiava di rendite … Alla fine l’accettò Angelo Dolfin Canonico di Castelloche la mantenne fino alla morte del 1336.
In quegli stessi anni il Vescovo di Castello si lamentava che il Canale di Carbonera giungeva a rosicchiargli le mura del palazzo scorrendo con troppa e violenta corrente verso il Porto di Sant’Erasmo che sarebbe stato meglio interrare … Era stato costretto a costruire anche lui degli speroni di riparo per il suo Vescovado … così come aveva subito danni per 600 ducati sempre a causa delle stesse acque anche la “Clausura e il Laborerium portus nostri”del Convento di Sant’Anna di Castello. Il Governo di Venezia contribuì prima con 100 ducati, e poi con altri 300 per porre palate e pietre attorno al palazzo del Vescovo … e perché risultarono anche ulteriori danni ai dormitori e a tutti i muri portanti dello stesso Convento di Sant’Anna.
Qualche anno dopo fu il turno del poco distante Monastero delle Vergini che subì danni nei suoi granai collocati sempre verso lo stesso Canale di Castello… Anche lì si dovette costruire un muro a protezione lungo la chiesa delle Monache spendendo 1.000 lire … Sfruttando però la stessa violenta corrente delle acque che entravano e uscivano dalla Laguna, Bonavisa Falegname e Mastro Zonta Ferrarese ottennero dalla Serenissima un prestito di 1.000 ducati da restituire 150 ducati l’anno, per costruire 4 mulini “su sandoni” collocandoli proprio dietro al Palazzo del Vescovo.

Poco distante da lì, la Casa dell’Arsenal era già presente e in continua espansione conglobando una zona “qual’era tutto palludo et acqua”. Venne incaricata di“… refar e concàr lo faro di piera lo quale è signàl del porto de Venexia.” ... I Magazzini da Sal della Contrada di San Biagio dei Forni allo sbocco del Rio dell’Arsenale vennero trasformati in Pubblici Graneri come i vecchi cantieri di Terranova accanto all’allargata “Ripa Sancti Marci” poco lontano dalla Piazza San Marco che venne selciata e collegata alle vicine Contrade tramite nuovi ponti in pietra.

Nel già potente quanto ricchissimo Monastero di San Zaccaria governava la Badessa Ursa Magno coadiuvata dalla Priora Ysabeta Menguolo. Il Monastero vendette le terre che possedeva a Ronco d’Adige nel Veroneseacquistando terre più comode da raggiungere e controllare a Casale sul Sile nel Trevigiano ... Il Piovano col Capitolo di Santa Maria Formosa acquistarono alcuni possedimenti con diritti di caccia e pesca a Pellestrinaconfinanti anche con una palude di proprietà Rivo Longo, e una “Cona d’acqua” vicina all’isola di San Secondo.
La stessa Parrocchia litigò parecchie volte con le Parrocchie circumvicine per questioni di giurisdizione e “di cura d’Anime”, ma soprattutto “guerreggiò a suon di processi” con Santa Marina per le prerogative economiche contendendole alcune abitazioni ubicate su terreni recentemente bonificati … Santa Maria Formosalitigò anche con San Bartolomeo per via dei funerali di Betta di Francesco Quintavalle moglie di Pietro Da Lezze della Contrada di Santa Maria Formosa. Il Parroco Filippo Da Monte di Santa Maria Formosa affermava che la donna era stata sua parrocchiana, mentre il Capitolo di San Bartolomeodichiarava che essendo morta nel loro territorio spettava a loro il “diritto di decima” del suo funerale con tutto ciò che ne derivava.

Chi avrà vinto alla fine ? … Non lo so ... e poco importa.

Sempre la stessa Piovania di Santa Maria Formosa era inoltre “chiesa matrice” sulle chiese filiali dei Santi Apostoli, San Felice, San Giovanni Crisostomo, San Giovanni in Oleo, San Lio, Santa Maria Assunta, Santa Marina, San Provolo e Santa Sofia ... e nell’anno della peste, il 1348, il suo Piovano B.Francesco Querini Dottore  e Maestro in Teologia e Sacra Scrittura divenne prima Vescovo di Capodistria, poi di Candia, e infine Patriarca di Grado fino alla morte del 1372 quando venne sepolto nella chiesa dei Frari … e ancora: Pietro Lufri da Asburgo fece quietanza di una certa somma che gli doveva il fu Leonardo Contarini da Santa Maria Formosa a saldo di un affare: “racionis tellarum” vendutegli per lire 107 soldi 6 4 di grossi e piccoli 14, tra cui 25,240 braccia di tela comprate a lire 18 di piccoli il 100.

Sarebbe lunghissimo dirvi tutto, queste sono solo “briciole curiose” spulciate qua e là in giro per la Venezia di quasi metà 1300: “… Ogni tanto audaci armati su barche valicavano i confini doganali rompendo le palificate o palade, e talvolta ferendo e uccidendo i Gabellieri della Serenissima ... Viceversa i pescatori lagunari ponevano sulle acque graticci fatti di canne palustri, contribuendo a provocare l’interramento del porto e dei canali. Perciò se ne proibì l’infissione concedendo però deroghe “ai miseri pescatori di San Nicolò dei Mendicoli e della Contrada di Sant’Agnese”.

E venne allora il terribile anno 1348 … Oggi quasi nessuno lo ricorda, se ne parla e scrive pochissimo, ma a Venezia in quell’anno accadde un’immane tragedia: fu una delle più gravi pestilenze della sua Storia secolare, anzi ormai plurimillenaria. A dire il vero, l’intero anno 1348 fu per Venezia un anno drammatico, un anno “sfigatissimo” e maledetto perchè prima dell’ondata di peste nera accadde anche un violentissimo terremoto che procurò numerosi danni, crollo di edifici e centinaia di vittime.

Sopra la porta della Scuola Grande di Santa Maria della Carità(oggi l’Accademia) si leggeva in una iscrizione scolpita sulla pietra: “In nome di Dio Eterno e della Biada Vergene Maria i l’anno dell’Incarnazion del Nostro Missier Giesù Christo MCCCXLVII a dì XXV de zenèr, lo dì de la Conversion de San Polo cerca ora de bespero fo gran terramoto in Venexia e quasi per tutto el mondo, e cazè molte cime de campanili e case e camini e a glesia de San Baseio, e fo si gran spavento, che quasi tutta la zente di diverse malattie e nazion moria, e alcuni spudava sangue per la bocca, e alguni veniva granduxe sotto li scaii e al mezere, e alguni vegnia lo Mal de Carbon per luegaine e pareva che questi mal se piasse l’un dall’altro, zoè li san da li infermi, et era la zente in tanto spavento, ch’el pare non voleva andar da fio, né el fio dal pare. Dura questa mortalitade de cerca mesi VI e sì se diseva communamente che’l ira morto de le do parte della zente de Venexia, et in questo tempo se trova esser Vardian de questa Schola: Missier Piero Trevisan de Barbaria, i mie circa mexi due e morì, e lo Guardian e cerca X de soi Compagni, e con plu de CCC de queli de questa Schola, e fo la Schola in gran derotta e può, a dì XX de zugno, fo fatto Vardian Missier Iacopo Bon da la Zudeca. Ancora in quest’anno avè li fedel Christiani una grandissima grazia da Misser lo Papa che in zascaduna parte chi li moria, contriti de li soi peccadi dal dì dela Ascension de Christo infina al dì de Sancta Maria Maddalena, senza pena andasse alla Gloria de Vita Eterna ala qual sinde conduga lo Onnipotente Dio, Pare, Fiol e Spirito Santo qual vive e regna in saecula, seculorum, Amen.”

La Peste bubbonica giunse in Laguna dalla base commerciale di Caffa in Crimea dove si acquistavano dai Mercanti Asiatici: grano, cera, pellicce, pesce salato, caviale, e schiavi e schiave. Fu per davvero un evento orrendo perchè dal marzo seguente, e per diciotto mesi di fila andò a morire quasi due terzi dell’intera popolazione di Venezia che era considerata in quei tempi una delle città più popolose d’Europa con più di 100.000 abitanti. Il morbo proveniente da qualche luogo arcano, remoto e ignoto delle Steppe dell’Asia aveva infettato quasi tutto l’esercito Tartaro che assediava la città, e probabilmente s’imbarcò per Venezia su di una Galea che approdò sul Molo di San Marco nell’autunno 1347.
Poi accadde “la mattanza” perché oltre alla grande massa del popolo, morirono anche 950 persone della categoria dei Nobili Patrizi di cui più di 1.000 erano capaci di disporre di rendite da 200-500.000 lire annue. Si sfoltirono, smembrarono e morirono più di 50 interi storici Casati prestigiosi: vennero spazzati via e cancellati per sempre. Primo fra tutti fu quello dei Da Rosa che ebbe ben 70 morti in famiglia, ma i Blani ne ebbero 64, i Barisanfamiglia di Notai e Senatori: 56, Papacizza: 46, Pemon: 37, Bricco: 33, Bolovier: 32 come i Da Zara, Tanisti o Tonisti Consiglieri Dogali e Podestà di Verona e Chioggia: 28, Vidor: 24, e i Mastalici detti Mori Mercanti di spezie originari della Morea-Peloponneso residenti fra il Rio della Madonna dell’Orto e il Rio della Sensa dove avevano un Fondaco all’insegna del Cammello, subirono nel Casato ben 22 decessi.
Sorte non diversa toccò a vari: Agrinal, Agadi, Adoaldi, Bonomospesso Rettori di Trieste, Balistieri, Baibola, Barbuini, Cotanto, Calasei, Costantini, e i Carosi antica famiglia di Tribuni Aquileiesi che ebbero incarichi di governo nella Serenissima, e con Alberto Caroso dai Santi Filippo e Giacomo faceva parte del Maggior Consiglio come riconoscimento per aver represso la congiura dei Querini-Tiepolo. I Caroso furono: Senatori, Avvocati alla Corte del Forestier, Savi agli Imprestidi, Rettori dell’Istria, Giudici nel Tribunale della Quarantia e alla Corte dell’Esaminador. A questi s’aggiunsero i Caresini, i Calergi che ebbero Michele Vescovo di Venezia e vari nomi nel governo Veneziano, ma anche un ribelle di nome Leone cucito in un sacco e buttato ad annegare in mare. E ancora perirono in gran numero: i Canio, Canzanigo, Dal Sol, Dente, Da Ponte, De lorenzo, Franco, Gallina, Ganizzi, Mazzaman, Miolo, Mengolo, Massolo, Marmore, Orsiolo o Orisolo, Polo: Mercanti di rame e ferro da Belluno, Pantaleo, Pentilo, Quintavalle, Ragusin, Ravagnin, Sisibolo, Sesendolo e Tolonighi. Di fatto si azzerarono quasi del tutto le liste nobiliari di Venezia.

Nel settembre di quell’anno il Clero di Venezia col Vescovo di Castello Nicolò Morosini concordarono col Comune la gestione delle “Decime sulla fiumana dei Morti” causate dalla peste in quanto c’erano esagerate pretese da parte dei Preti sulle parti delle eredità spettanti al Vescovo, al Clero, alla Fabbrica della chiesa e ai poveri.
I morti erano davvero tantissimi … e al di là dei nomi altisonanti in città accadde un vero e proprio disastro: un eccidio efferato, capillare e devastante. La Peste fu un carnefice spietato, e i Veneziani disperati accorsero in massa presso i Notai Pubblici per esprimere le loro ultime volontà e per presagire in qualche modo un qualche nuovo futuro migliore e diverso.

In Venezia esisteva una vera e propria folla di Notai Pubblici. C’erano: Egidio e Avanzo Preti in Santa Sofia, Nicolò Prete ai Santi Gervasio e Protasio, Albano Prete in San Felice, Domenico Prete in San Basilio, Antonio Prete della chiesa di San Bartolomeo, GiovanniPrete in San Giovanni Battista in Bragora, Pietro Canonico di Castello, come DamianoPrete della Contrada di San Severo a cui si rivolsero Alvise dalle Fornase, Antonio Borsèr, Marin Stanièr e Zulià Cambiadòr che erano persone abbienti.
Viceversa Marco Dalla Vigna era Piovano di San Giovanni Crisostomo oltre che Notaio e Cancelliere Dogale. Divenne poi Vicario Generale del Vescovo di Castello Ramberto Polo, Arciprete del Capitolo di San Pietro di Castello e infine Patriarca di Grado ... Marco Bianco“Alunno di chiesa” della Collegiata di San Geremia fu anche Notaio dell’Avogaria da Comun e Notaio Veneto, e divenuto Vescovo di Jesolo continuò ad esercitare la professione notarile fino alla morte anche mentre “era a Gesolo”.
Anche Donato, Paolo e Vettor Preti esercitarono da Notai nella Contrada di San Cancian dove Andrea faceva il mugnaio… Notaio fu il Piovano Nicolò Renio che fu anche Cancelliere Dogale … e sempre Notaio fu: Amizo Piovano della chiesa San Moisè di cui Ser Nicolò de Zane vasaio era il Procuratore. Nella stessa Contrada di Moisè in tempo di peste Donna Francesca faceva la Scudelèra, Marcamanus faceva il Bechèr e Nicolò Donado il Casaruòl.

Ancora oggi nell’Archivio di Stato di Venezia si conservano ben 2.073 testamenti di Veneziani morti di peste nel 1348. In quell’anno ci fu un picco di rogiti notarili fra aprile e giugno quando quasi 1.500 persone si rivolsero ai 74 Notai attivi in Venezia beneficiando figli, mogli, mariti e congiunti oltre che le istituzioni statali, religiose e caritatevoli della città Lagunare.
Al Notaio Lorenzo della Torre Piovano della Contrada di Sant’Anzolo si rivolsero 22 suoi Parrocchiani, altre 17 persone della vicina Contrada di San Maurizio; 6 di quella di San Vidal, 5 di Santa Maria Zubanigo, 4 di San Salvador e altri di San Patergnan, San Samuel, San Beneto, San Trovaso, San Moisè, San Marcuola, San Giovanni in Bragora, San Gregorio, San Fantin, San Zimignan, San Polo e Santa Margherita.

Insomma: tutta Venezia era tempestata e infestata da quel morbo fetente e disgraziato ... Dal Notaio Niccolò Rosso Prete della Contrada di San Simeone Apostolo si recarono per deporre e dettare il proprio testamento Veneziani di San Simeone Piccolo e San Simeone Grande o Profeta, e poi delle Contrade di Santa Croce, Santa Lucia, San Giacomo dell’Orio, San Zàn Degolà, San Pantalòn, Sant’Agostìn, San Cassiàn, San Barnaba e San Zuanne de Rialto.

La grande mattanza pubblica pettinò letteralmente ogni Contrada di Venezia seminando Morte indiscriminata ovunque. Venezia intera era palcoscenico di uno scenario allucinante oltre che deprimente: tutti cercavano uno scampo che non esisteva per nessuno.
Il Destino fu padrone di lasciare la vita in mano ad alcuni, mentre per molti altri non ci fu niente da fare: Nicoleto Zecler della Contrada di Sant’Anzolo nominò in fretta e furia suoi esecutori testamentari Ser Ivan, Ser Stefano Zecler e Ser Giacomo Scudelèr lasciando soldi a sua nipote e altre persone … Michele figlio del già defunto Pietro Micherosso della Contrada di San Vidal nominò sua Commissaria la sorella Monaca a San Nicola lasciando denaro a sua cugina e ad altri due amici … Marco Videto da Santa Margherita ordinò al Commissario Nicoletto de Fineto di distribuire il resto del suo patrimonio a beneficio della sua Anima … Giovanni Lico da San Giacomo dell’Orio ordinò al cognato Nicola Foscolo e alla sorella Caterina di dare al Prete della sua parrocchia 50 soldi di piccoli perché costui pregasse per lui … Bertuccio Tasso lasciò come eredi la madre Betta, il suo Barbiere Soligo e la Serva CaterinaDonata vedova di Bartolomeo da Sant’Anzolo lasciò tutto a sua madre: Donna Cissa ... Francesco Del Carro lasciò tutto a sua moglie Caterina e ai suoi figli Nicoletto e OrsaTommaso Venier da San Samuel consegnò all’amico Ser Prosdocimo Falier le sue volontà testamentarie: “Voio che sia mie Comesari lo dito Prosdeçimo Falier e Ser Antonio Bonçi e mia muier Dona Bonaventura”… mentre Lucia da San Salvador nominò suo unico erede: “Liberalem virum meum dilectum.” come Margarita da Sant’Anzolo.
Allo stesso modo di un’altra Margherita moglie di Nicoletto Piliçario da San Samuel, anche la Nobile vedova Maria Barbarigo lasciò 4 Libre per far celebrare “le Messe de San Grigol per l’Anema de mio marido e per l’Anema di mia figlia Franceschina e di mio figlio Andriol ... Lascio anche libras VIII a Sofia schiava di suo padre … e le rimanenze dopo delle vendite dei miei beni a Margherita sclava che sta a Sen Chaxan in la chorte da Chà Michiel.”
Franceschina moglie di Pietro figlio di Ser Bonomin lasciò scritto: “… che tuto el rexidio sia de Piero mio marido ch’el posa far tuto quelo che i plaxe. Et se de queste spexe alguna chosa avançase, sia tuto de mio marido Piero. Et Chomesario laso mio marido Piero…”

Maddaluccia moglie di Pietro Testa da San Maurizio lasciò detto a suo marito che poteva cercare e risposarsi con un’altra donna, e affidò alla madre Lucia Boali la cura dei suoi figli che avrebbero potuto disporre dei suoi beni solo una volta raggiunta la maggiore età … La stessa cosa deliberò anche Nicoletta moglie di Benedetto Adanis di San Polo, che lasciò “soldos decem grossorum” da riscuotere “ad etatem legitimam”.
Francesca moglie di Graziano de Caceris da San Simeon si preoccupò del futuro della figlia Antonia lasciandole “libras quinque grossorum” per sposarsi o monacarsi … Cristina moglie di Antonio Buteglario da San Maurizio cercò, invece, di tutelare la propria madre temendo che il proprio marito Antoniopotesse “molestarla” non ridandole la “repromissa” della sua dote … Viceversa Vincenzino Preco da San Patergnan come Francesco Del Carro da Sant’Angelo nominarono la moglie erede patrimoniale a patto però che non si risposasse, altrimenti non sarebbe stata sua Comissaria né avrebbe potuto godere della sua “repromissa di cento libbre di piccoli”
Cristina vedova di Ser Andriolo Zane da Sant’Anzolo lasciò alla figlia Cataruccia 1.000 libbre di denari veneziani disponendo che li investisse nella Camera degli Imprestidi lasciandoli lì finchè non avrà un figlio o una figlia, salvo che lei non rimanesse vedova, senza figli, e in necessità.

La Nobildonna Giacomina Contarini moglie “domino Stephani Contareni” donò alla serva Rina che abitava con lei “… libras tres grossorum pro suo maritare …” lasciando detto che: “afranchentur ipsam et si ipsa erit bona femina suis corporis”… ossia che sarebbe stata liberata dalla schiavitù se avesse fatto buon uso del proprio corpo !
Giovanna vedova di Ser Filippo Tessitore era affezionatissima ai propri domestici: “…se Francisco, mio “famulus” volesse prendere in moglie Chataruciam “famulam meam”, voglio che lei abbia come sua dote quanto residua di tuti i miei beni ... E se Francesco la vuole prendere in moglie, voglio che riceva sette soldi di grossi dei miei beni di cui cinque potrà tenerli per se, e due li userà “pro Anima mea” … come Caterina, vedova di Ser Michele Morosini, Francesca Petracha moglie di Ser Nicoletto Petracha che lasciò tre ducati alla sua domestica Agnesina: “per la mia Anima e per il servizio che mi ha reso durante la mia infermità …”

Infine: Prete Giacomello Nannolo di San Zàn Degolà lasciò al suo servitore Gregorio:2 ducati d’oro e numerosi abiti di valore.

Potrei continuare a lungo … ma avete di certo già capito tutto quanto accadde in quell’anno a Venezia. La città lagunare fu una delle poche realtà europee che nominò una specie di “Comitato di Sanità e di crisi temporaneo” per sopperire alla peste: scelse e nominò tre Nobili come “Provveditori sopra la Salute della Terra”… ma inutilmente.
Allora si era convinti che la Peste polmonare e bubbonica fosse dovuta al morbo che aleggiava nella corruzione delle arie e dell’atmosfera, come pensavano i medici di quel tempo: “… In quest’anno prima l’Italia e poi l’Europa tutta fu crudelmente affitta dalla peste. Cominciava a divenire naturale in oriente dov’è divenuta una malattia quasi abituale … Alcuni vascelli mercantili ne portarono il lievito da Costantinopoli in Sicilia et in Toscana … divenne infinito il numero dei malati; di 100 infetti solo 3-4 si salvarono … morivano ogni giorno a migliaia et abbandonati. Nessuno aveva il coraggio di accostarsi alle case infette, li stessi medici ricusavano il loro ministero per il pericolo e per essere inutili a moribondi. Per tre mesi non vedevasi che pianti, spavento, desolazione et impossibilità di trovar fra vivi bastanti braccia a seppelir i morti. Rimasero estinte più di 50 case di gentiluomini, il Gran Consiglio composto prima di 1250 nobili fu ridotto a 380. al fine cessò dopo di aver tutto consumato. Venezia si trovò quasi senza abitanti …”

Durante la peste i piccoli cimiteri di Contrada non bastarono più perché traboccavano di corpi come le arche e le tombe dentro alle chiese e nei chiostri. Perciò si andò a seppellire gli appestati in fosse comuni al Lido e nelle isole di San Lazzaro(poi degli Armeni) e di San Leonardo e San Marco in Boccalama collocate a 100 passi di distanza dalla via acquea commerciale da e per Venezia sulla foce del fiume Brenta dirottata sul Volpadego. Le isole erano state ormai abbandonate dai Canonici Regolari o Agostinianiperché considerate insalubri e lasciate andare dopo un tentativo di ripararne la cavana in rovina.
I Lazzaretti di Venezia in quegli anni erano ancora da inventare: erano solo isole con chiesetta occupate da pochi Monaci, o piccoli Ospizi per Pellegrini, o rigogliose vigne affittate a contadini.

Alla fine, dopo aver braccato Venezia come un animale ferito, e quasi bloccandone quel suo formidabile meccanismo e quell’istinto indomabile di crescita, la Peste si spense e terminò ancora una volta lasciando un’immane desolazione. Ma Venezia non era stata domata … anzi !
Superata la tragedia il Maggior Consiglio decretò l’interramento di alcune “piscine d’acqua” della città dando i terreni risultanti in concessione per costruire nuove abitazione e imbonire così quei siti paludosi che conteneva “miasmi pestilenziali” Le “colmate”dovevano lasciare un Rio di 4 passi di larghezza ... S’interrò in molti luoghi diversi, soprattutto in Contrada di Santa Fosca, San Barnaba, San Pantalon, San Nicolò dei Mendicoli, Santa Margherita, San Basilio, San Vio, San Trovaso e si prosciugò anche il “Lago dell’Anzolo Raffael” ... mentre ai Capi Contrada di San Samuel venne proibito d’interrare la Piscina di San Samuel che venne salvaguardata e conservata con apposita sentenza del Piovego.

Detto questo … qualcuno doveva pur essere colpevole di tutto quello scempio e di tutta quella grande rovina !  Qualcuno doveva pur pagare ed essere riconosciuto come “causa prima”.
Tutti quei morti dovevano pur avere un comune denominatore, un innesco mortifero. Ci doveva pur essere da qualche parte un qualche “dannatissimo colpevole di tutta quella moria.”
Infatti fu così … Probabilmente a Venezia e nelle sue isole “… dove si moriva a grappoli” non ne sapevano niente ... Non so se alla Serenissima sia giunto al riguardo qualche dispaccio o una qualche lettera d’informazione … In ogni caso in Laguna in quegli anni avevano ben altro a cui pensare. Sappiamo però che Venezia sapeva tutto di tutti … quindi è probabile che possa anche aver saputo dei fatti accaduti in quello stesso anno nel Delfinato ossia nella lontana Savoia. Furono vicende davvero interessanti e curiose … proprio perchè riguardavano Venezia e soprattutto il riconoscimento dell’autore, del colpevole di quella grande sciagura che l’aveva così tanto devastata.
Nella Savoia-Delfinato vicino al confine col Regno di Francia era accaduto che nel 1322-23 trovasse rifugio una numerosa comunità di Ebrei espulsa dalla stessa Francia. L’epopea del popolo Ebraico la conoscete, e ogni secolo della Storia ripresenta quasi sempre l’accanimento atavico, ingiusto e gratuito perpetrato verso questo popolo predestinato. Non aveva importanza se anche gli Ebrei morivano di Peste, o se la pestilenza si presentava in luoghi dove gli Ebrei non c’erano, o non erano neanche passati per caso.
Venivano sempre e comunque considerati colpevoli di ogni nefandezza, e quindi anche della propagazione del morbo della peste. Prendersela con gli Ebrei era un po’ ovunque“un classico”, anche nei Paesi che si consideravano più evoluti e santi.
Accadeva qualcosa di diverso e strano da qualche parte ?
Erano stati di certo gli Ebrei … Sempre loro: “… quelli che sapevano fare metamorfosi e trasformarsi in topi … e assaltavano i bimbi nelle loro culle per cucinarli e farne unguenti da usare durante i loro riti notturni che erano orgiastici … banchettavano, danzavano intorno al loro “Magistrello”, che sarebbe stato il Demonio in persona … Calpestavano sotto ai piedi la Santa Croce, non veneravano l’Ostia consacrata … ma ossequiavano quell’Orso Nero, quel animale Satanico che era aberrante caprone dagli occhi infuocati …”
Perciò scattò ancora una volta l’inchiesta, il processo, la cattura, la persecuzione, la tortura … e la condanna finale spesso a morte e al rogo che doveva essere liberatoria dopo tanti inutili e insulsi patimenti e umiliazioni.
Quanto assurda è stata a volte la Storia! … anzi: troppo spesso, e sembra anche che non abbiamo imparato nulla da tante vicende accadute.
Persino Papa Clemente VI da Avignone provò a stemperare i toni e salvaguardare a modo suo gli Ebrei: emise ben due Bolle Papali di seguito provando a scagionarli … ma niente da fare, forse perché lo fece anche in maniera troppo blanda e poco autorevole. Infatti, gli Ebrei vennero massacrati a migliaia in Provenza dove folle inferocite li cercarono, assaltarono e “matarono del tutto” a Carcassone,Narbonne e altrove.
In realtà i primi segni della peste erano comparsi a Messinagià l’anno precedente nell’autunno del 1347, e a catena dalla Galee Genovesi di ritorno da Costantinopoli con nelle stive il bacillo della Peste indossato dai topi, “la moria” si sparse rapidamente interessando l’intera Europa. Gli Ebrei ovviamente non c’entravano nulla.
L’assalto agli Ebrei iniziò comunque nel Ghetto di Tolone nell’aprile dell’anno seguente verso Pasqua, durante i Riti della Settimana Santa. Il quartiere Ebraico venne saccheggiato, dato alle fiamme, e 40 persone fra uomini, donne, vecchi e bambini vennero gratuitamente massacrati ignari nel sonno. Il Governo rimase a guardare, non mosse un muscolo. Anzi, visto che gli Ebrei sotto tortura confessavano i loro misfatti, era palese che dovevano essere considerati colpevoli ... e perciò puniti.
Il fenomeno persecutorio si diffuse in breve a macchia d’olio: Hyeres, Riez, Digne, Manosque, Forcalquier e fino a La Baume dove in maggio tutti gli Ebrei vennero sterminati eccetto uno solo che si trovava casualmente fuori città.

E siamo al dunque: fra metà settembre e l’inizio di ottobre un gruppo di dodici Ebrei fra cui undici uomini e una donna confessarono sotto tortura presso il Castello di Chillon. Tutti costoro abitavano a Villeneuvepresso il Lago Lemano e avevano ammesso dopo una certa resistenza la loro colpevolezza descrivendo con abbondanza di particolari la cospirazione a cui avevano preso parte per spargere la Peste in giro per tutta l’Europa. L’ispiratore di tutto era stato il Chirurgo Balavigny abitante a Thononche a sua volta aveva ricevuto il veleno da un Ebreo di Toledo insieme con una lettera d’istruzioni preparata da un Maestro della Legge Ebraica. Lettere analoghe erano state spedite anche agli Ebrei di Evian, Montreaux, Vevey e Saint Moritz e di altri paesi e città.

Ed eccoci qua ! … Una di quelle lettere fu data anche al Mercante di Seta Agimetcon l’incarico di spargere il veleno anche a Venezia dove si recava spesso per affari come in Calabria e Puglia. 

Ecco chi era stato il colpevole della Peste di Venezia del 1348 !

Gli imputati descrissero anche le polveri dei veleni che erano rosse o nere, contenute in sacchetti di cuoio o di pelle o dentro a imbuti di carta. Era sufficiente solo una piccola quantità di polvere per scatenare “la moria”, bastava: “una noce, un uovo, un pugnetto” e si sarebbe inquinato un luogo, una fontana, o una città intera.

Il Castellano di Chillon si preoccupò d’informare con un documento scritto le autorità superiori diStrasburgo precisando che “nell’impresa criminale” erano coinvolti tutti gli Ebrei complici di Lebbrosi e di Bande contadinesche di finti Pastorelli, e anche bambini di appena sette anni apparentemente innocenti, nonchè diversi Cristiani che erano stati scoperti, adeguatamente puniti e mandati al rogo.
A seguito di queste informazioni autorevoli, in decine di città lungo il Reno fra cui Magonza, Strasburgo e Basilea, nella Germania Centrale e Orientale: Breslavia, Francoforte, Eifurtebbe iniziò una violentissima caccia all’uomo, anzi: “caccia all’Ebreo” con roghi e stragi. Inutilmente qualche voce sparuta provò a richiamare: “…al buon senso, alla ragione e alla discrezione cercando di non dare credito alle dicerie popolari …”

Duemila Ebrei vennero uccisi … compreso “il malefico artefice della Peste di Venezia del 1348”.

“Giustizia fu fatta !” si disse in giro per tutta l’Europa e forse anche a Venezia.

Che grande squallore in realtà ! … ma questa fu la Storia.



“UNO STRANO INQUISITORE DA INQUISIRE … A VENEZIA NEL 1629.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 119.

“UNO STRANO INQUISITORE DA INQUISIRE … A VENEZIA NEL 1629.”

L’ho già detto diverse volte: la Storia e le tradizioni di Venezia Serenissima sono una miniera di notizie e informazioni, un pozzo senza fondo da cui estrarre curiosità quasi all’infinito. A Venezia lungo i secoli è capitato sempre di tutto e di più, a volte anche le cose più inverosimili e inaspettate … come quella dell’Inquisitore della Santa Inquisizione che bisognava inquisire perché troppo gravemente indegno del suo stesso ruolo.

Ma veniamo ai fatti e alle vicende storiche accadute così da farvi comprendere che cosa è successo a Venezia fra 1628 e 1629 circa.

Mentre in fondo all’Italia, nel Sud e nelle isole, il Santo Uffizio di Palermo dell’altrettanto Santa Inquisizione issava sopra al rogo perfino bambini accusati di “Anomale storie notturne con donne misteriose vaganti dentro alla notte, dette anche: “Le Matrone”, “Le Maestre”, “Le Bone Signore Greche”, “Le Sapienti”, “Le Regine” o “Le Patrone de Casa”; di sopra nel Nord dell’Italia, dalla parte dell’arco Alpino e delle montagne, l’Inquisizione non è che stesse solo a guardare e con le mani in mano: si dava parecchio da fare.

Una vecchia di montagna “in deliquio” sognava di volare insieme a Herodiana: la “Dea del Bon zògo” ? ... Bum ! … Subito l’Inquisizione s’interessava della faccenda, e non certo solo per curiosare e spettegolare. C’era poco da scherzare e indugiare: si trattava dei residui degli antichissimi culti pagani alla “Dea Richella dalla mano pelosa e fredda” con la quale alcuni “sprovveduti senza Dio” stringevano “un contratto” il cui valore consideravano valesse anche dopo la Vita e la Morte … Roba da distruggere !
Anche in questo caso si trattava di una Dea dai molti nomi e dai tanti aggettivi vistosi e appellativi votivi: “… il solo nominarla e invocarla è già crederle e affidarsi a Lei …” si continuava a dire fra le montagne.

“Sono cose aberranti da cancellare ! … culti Demoniaci decrepiti e folli da distruggere.” s’affrettò a dire l’Inquisizione. In realtà erano solo pratiche rituali seguite ancora da pochi in qualche angolo remoto della Val di Fassa.
“… sacche di malizie e di perversi spiriti resistenti all’unica apertura interiore capace di donare Salvezza.” precisò ancora il Santo Uffizio dell’Inquisizione. Perciò il Vescovo-Conte di Bressanone ordinò più volte: “… d’estirpare quell’immonda vergogna e di abiurarla … Ma quei villici erano ostinati, tignosi e ignoranti, e continuavano a fare offerte e venerare impunemente quelle Dee tanto fasulle quanto indemoniate ...”

Perciò il Santo Uffizio continuò strenuamente a intervenire, indagare, ricercare, catturare, carcerare, processare, torturare, condannare e mandare in fumo quei “pervertiti, ossessi e dannati” accendendo fumosi, odorosi quanto macabri roghi … cosa che accadde puntualmente più e più volte.

E a Venezia e in Laguna ?

Lì la faccenda era diversa perchè la pur sempre Santa Inquisizione pur essendo sempre presente sembrava un po’ aver perso le unghie e avere armi spuntate. Pareva non sapesse funzionare a dovere a causa delle resistenze e delle opposizioni dei Veneziani libertini e del loro Governo Serenissimo. Venezia insomma risultò essere quasi un’isola felice e immune dove il Santo Uffizio pur essendo attivo e agguerrito dovette accontentarsi di dare la caccia ai venditori di Libri, censurare in maniera preventiva i “Libri Pericolosi”, passare a setaccio le Librarie della città lagunare, e bruciare pubblicamente in maniera spettacolare “tutta quell’immondezza diabolica e proibita” sopra al Ponte di San Domenico di Castellouna volta all’anno, a metà primavera.

Certo non era la stessa cosa bruciare libri invece che persone, ma era pur sempre qualcosa, perché i libri, si diceva, erano l’innesco di ogni eresia, oggetti pericolosi come la Peste, “una radice da cui possono nascere frutti su rami di menti umane bacate dagli influssi nefandi del Demonio”.

A dire il vero, il timore del “potere dei libri” era una fissa Europea diffusa ovunque, perché a Laon nella PiccardiaFranceses’era giunti perfino a ordinare pubblicamente di chiudere ogni pertugio delle case onde evitare che emissari Svizzeri buttassero dentro testi eretici come untori capaci di deviare le menti. Si diceva che i libri erano in grado di confondere oltre che incuriosire, e se lasciati agire potevano giungere a far convertire al Male le persone.

Per questo l’Inquisizione di Venezia diede la caccia ai Libri e ai Librai con lo stesso zelo e la stessa determinazione con cui nel resto dell’Europa Cristiana (o presunta tale)si davano torture e fiamme alle persone.

“Venezia Serenissima non permette facilmente di bruciare la gente per le idee, la filosofia e la Religione … ma ogni tanto se indirizzata e consigliata adeguatamente è capace di compiere qualche eccezione …” commentò un Nunzio Papale residente a Venezia negli ultimi anni del 1500.

Nel 1596 Antonio Maria Graziani Nunzio Papale residente a Venezia ribadiva il concetto: “Li libri stanno rinchiusi nelle camere, e non si conosce il danno che fanno se non quando si trova poi che li animi infetti danno fuori il veneno e la peste contratta da questi libri …”

In realtà i “Libri Proibiti” a Venezia venivano venduti tantissimo, più che altrove e più di tutti gli altri libri, e più venivano proibiti più erano appetiti da moltissimi, e non solo dai Nobili, ma anche da coloro che per primi avrebbero dovuto vietarli e distruggerli. Si sa bene che il gusto del proibito aumenta negli uomini la voglia di provarlo e possederlo, in tal caso leggerlo.

A Venezia si raccontava apertamente che passando in segreto di casa in casa e di mano in mano il valore dei libri raddoppiava, triplicava e talvolta quadruplicava di prezzo, così che la proibizione procurava l’effetto contrario di venderli, comprarli, noleggiarli, ristamparli, e addirittura copiarli a mano facendo talvolta arricchire più di qualcuno. Il mercato del Libro era florido, sparso e radicato, sebbene ricchissimo solo per pochi ... anzi: pochissimi. Anche perché tanto per cambiare la Serenissima vigilava su tutto e tutti … seppure a modo suo.

Ma quali erano questi libri così proibiti e pericolosi ?

“I Colloquia” e tutte le opere di Erasmo da Rotterdam, ad esempio. Oppure i Libri e le pergamene di Cabala Ebraica come “Arbor di Cabalà” comprati spesso nel Ghetto di Venezia dove c’erano Ebrei ritenuti esperti di Magia che facevano affari d’oro vendendo presunti testi magici e di esperimenti.

O ancora i libri nascosti dentro a un cassone portato a Venezia in gran segreto da Fra’ Bonaventura, personaggio un po’ burrascoso di cui vi dirò fra poco, aiutato da due barcaroli-fruttaroli dei Tolentinie nascosto insieme ad altre robbe in casa di un altro Fruttarol: Ser Polo Da Rivache stava in Contrada di San Basegio. Nel cassone c’erano diversi libri rubati dall’Archivio dell’Inquisizione di Padova (forse più di 100). Fra questi c’era:

--“Libri del Macchiavello”.
--“Libri dell’Aretino” fra cui: “L’Humanità del Christo Figlio di Dio” per il quale si voleva ben 10 ducati.
--“Libri di Ciecco d’Ascoli” fra cui: “Fera del Sacrobosco” di cultura negromantica.
--Il “De occulta philosophia et de elementi magici” di Cornelio Agrippa Von Nettesheim: un’enciclopedia magica contenente scongiuri, orazioni e brani per rituali magici.
--La“Clavicula di Salomòn.”: il prontuario negromantico più apprezzato a Venezia che circolava perfino in copie manoscritte.
--La “Magia”, “Geomantia”, il “Latrum”, l’“Elucidarium necromanticum”, l’ “Heptameron”, l’ “Annulorum experimente” di Pietro d’Abano: “che contenevano secreti diversi et gran cose”.
--La “Steganographia” di Giovanni Tritemio.

Non so voi … ma questi titoli a me, salvo pochissimi dicono ben poco o niente. Per noi di oggi ad essere sincero sono libri uggiosi e pesantissimi in tutti i sensi, libri che non si scriverebbero mai ai nostri giorni, e che li leggerebbe ancora meno persone. Ma in quei secoli si pensava e scriveva diversamente … Quelli erano libri considerati molto importanti, ed erano capaci di creare veri e propri “casi complessi e clamore grandissimo” ... tanto è vero che l’Inquisizione era in continuo affanno per starci dietro.

Per Venezia di “Libri proibiti” ne giravano tantissimi … Riuscirete mai a leggere tutta questa lista ? (è solo una piccolissima parte di un elenco in se lunghissimo che veniva di continuo aggiornato e allargato).

--“Artis divinatricis” del Parisio.
--“Centuriae IX memorabilium utilius” di Antonio Milaldo.
--“De immortalitate Animae” di Antonio Rocco.
--“De occulta philosophia”.
--“De secretis mulierum” di Alberto Magno: opera a carattere magico-esoterico.
--“Desideri Erasmi Roterodami-Colloquia Familiaria”.
--“Dichiarazione dei Salmi di Davide a Panigarola”.
--“Gli scongiuri di Sant’Elena, San Daniel, di Santa Marta e di Sant’Orsola”.
--“I Salmi di Davide” di Pellegrin Heri Modonese.
--“Iddio operante” di Tomaso Roccabella.
--“Il Cortegiano” del conte Baldessar Castiglione: opera letteraria.
--“Il duello del mutio Justinopolitano”.
--“Il duello” di Andrea Alciato.
--“Il Parlatorio delle Monache”: “libro dishonestissimo”.
--“Il Salterio secondo la Bibbia”.
--“La sferza invettiva”, l’ “Adone”,  la “Murtoleide”di Giovan Battista Marino.
--“Medico zirizeo de la complessità” e “Similitudinum ac parabolarum a Levino Lemnio” di Levinio Lennio.
--“Opus Merlini Cocaii” ossia Teofilo Folengo.
--“Testamentus Raymundi Lulli”, “Quinta essentia”, e “De secretis” di Raymondo Lulli: opere appartenenti al Nobile Francesco Grimani dalla Contrada di Santa Fosca, o mandate a rilegare insieme a un’altra decina di libri dallo Spicièr della Maddalena.
--Il “Pasquino in estasi”: di Celio Secondo Curione: testo di polemica Protestante AntiCattolica che trattava “di tutte le persone del mondo” ... ma che in realtà trattava di ben altro in maniera ironica.
--L’“Alcorano”: “avuto per vendere da un Frate Carmelitano dei Carmini di Venezia”.
--L’ “Anema” e il “Corrier svaleggiato”: “libro infamissimo” di Ferrante Pallavicino.
--La“Bibbia” in lingua volgare o in Tedesco.
--La “Catastrofe del Mondo”.
--La “Demonomania degli Stregoni”di Jean Bodin.
--La“Lucerna” di Francesco Pona.

Molti di questi testi erano considerati eretici, e vennero a più riprese sequestrati anche nella bottega del Libraio Salvatore De Negri a San Rocco accanto alla chiesa e Convento di Santa Maria Graziosa dei Frari.

Ve ne siete accorti ? Uno dei titoli era l’“Alcorano” che altro non era che il “Corano”:libro già fin da allora considerato proibitissimo e pericoloso. Musulmani, Islam, “simil lsis” e dintorni erano una realtà ben presente, attiva e temuta già molti secoli fa … A ben pensare: già fin da prima dei tempi delle Crociate … Ma non è di questo che intendo dire, scrivere e parlare.

Tornando ai Libri e all’Inquisizione di Venezia nel 1624, sentite un po’ queste notizie.
Innanzitutto come già sapete ci furono la caccia ai Libri, le perquisizioni, i sequestri dei Libri, le accuse, i processi, e le condanne di alcuni Librai Veneziani o residenti a Venezia. Il caso di certo più clamoroso fu quello di Pietro Longo Libraio ed Editore, che a Venezia nel 1575 e 1576 lavorò da solo e in società con Gaspare Bindoni il Vecchio servendosi della tipografia di Cristoforo Zanetti. Vi potrà stupire, ma il Longhi era libraio internazionale che pur risiedendo a Venezia frequentava di continuo la Fiera di Francoforte fin dal 1569. Venne arrestato dall’Inquisizione nel 1587 con l’accusa di simpatie per il Protestantesimo e soprattutto per traffico, contrabbando, e importazione di libri proibiti: “cose per la quale non andava molto per il sottile” ... e siccome la Serenissima non era tanto dolce in quel periodo con ogni forma di contrabbando, evasione dei dazi, e intrallazzi in genere, finì con l’essere giustiziato per annegamento il 31 gennaio dell’anno seguente.

Annegato e ucciso ? … Sì … Proprio così. Fu una di quelle deroghe a quella larga tolleranza di cui spesso Venezia andava fiera. Credo che Longhi non sia stato ucciso in quanto Libraio, ma per essere stato inteso come comune criminale.

Oltre a questo, ci furono altri casi come quelli dei Librai: Francesco Valvasense, Gregorio Facchinetti, Giacomo Batti e Francesco Piccininofinito condannato a cinque anni “di voga in Galea con i ceppi ai piedi”. Ci fu anche un altro caso curioso, anzi per me curiosissimo, che riguardò un altro Libraio: Salvatore De Negri originario dalla Pugliache tenne bottega per quasi tutta la vita a San Rocco dietro al famoso Coro della nobilissima Ca’ Granda dei Frari dei Frati Conventuali Minori Francescani … Fatalità, spesso proprio quei Frati Conventuali Francescani erano come i Padri Domenicani a Capo dell’Inquisizione delle grandi città compresa Venezia.

Salvatore De Negri, fra l’altro era padre di 6 figli (due maschi e quattro femmine), aveva perciò famiglia da mantenere col suo lavoro, e forse era questo il motivo di fondo del suo operare. Venne denunciato più volte al Santo Uffizio dell’Inquisizione di Venezia dai suoi stessi clienti, da quelli che gli portavano i libri a rilegare come lo Speziale Antonio Donati della Contrada della Maddalena, o da quelli che andavano da lui per noleggiarli e poi copiarseli a mano in privato, da quelli glieli ordinavano, da quelli che glieli avevano venduti in precedenza clandestinamente, o glieli portavano per essere venduti come facevano alcuni Nobili bisognosi di un po’ di liquidità.
L’Inquisizione dal 1628 al 1661 lo inquisì e processò, se non vado errato, per ben sei volte … Iniziò ad avere a che fare col Santo Uffizio di Venezia che aveva 21 anni, e finì l’ultima volta descritto da Giuseppe Deleidis Aromatario “Alle due fontane” presso il Fondaco dei Turchi di San Stae come: “Homo vecchio e malridotto intento a vendere libri vecchi come lui”, quando aveva più di 54 anni e venne fatto ufficialmente abiurare in Tribunale per chiudere definitivamente il suo caso.

Bisogna dire però che al di là delle ammonizioni e condanne che si prese rimanendo più volte “carcerato a lungo fra casa e bottega” col solo permesso di uscire per andare a Messa a San Rocco, e multato di 100 ducati per i quali il Mercante Ippolito Coletti da San Simeon Profeta gli fece da garante come pagatore, il Libraio De Negri non smise mai di comprare e vendere continuando tranquillamente con i suoi traffici incurante dell’attività repressiva esercitata dall’Inquisizione nei suoi riguardi. Indomito, dopo ogni nuova perquisizione e sequestro di libri, dopo ogni testimonianza a suo sfavore, e ogni volta che ricompariva convocato in udienza e a processo, fingendosi un po’ tonto e inconsapevole faceva finta di non essere a conoscenza del valore e della pericolosità di quanto vendeva … anzi … Lui era innocente del tutto, non sapeva mai niente di niente circa quanto gli veniva addebitato ... e andava avanti così, anche perché aveva famiglia da mantenere.

“Salvatore De Negri fu “la rovina di Venezia in materia de’ libri proibiti”, uno dei tanti nodi di una fitta rete di scambi e commerci di libri proibiti. Per decenni poté vendere, noleggiare, prestare e smerciare testi messi all'Indice, e per decenni il Sant'Uffizio di Venezia lo stette ad osservare raccogliendo informazioni e denunce, ingrossando un fascicolo processuale che avrebbe chiuso solo nel 1661 con una blanda condanna.”

Ma non è ancora tutto … Devo dirvi dell’Inquisitore da inquisire.

Quello che più mi ha sorpreso e incuriosito, infatti, è stato riscontrare che fra quelli che dovevano inquisire personaggi “colpevoli e immorali” come i Librari c’era, invece, ben di peggio. Ossia gli stessi Inquisitori non brillavano di certo per onestà, fedeltà e coerenza del loro stesso ruolo … Non tutti s’intende, anzi: bisogna dire che la maggior parte degli Inquisitori erano degli uomini integerrimi e fedelissimi … Ecclesiastici e Religiosi tutti di un pezzo capaci di fare pelo e contropelo a chiunque in nome della Fede e della sue regole morali (o presunte tali)… e ci riuscivano eccome terrorizzando e a volte strapazzando parecchio gran parte dell’intera Cristianità ... anche di Venezia.

C’erano quindi anche fra gli Inquisitori “delle mele marce”, e proprio a Venezia ce ne fu un esempio eclatante che ebbe proprio a che fare col Libraio De Negri dei Frari e Campo San Rocco.

Si trattava di un Frate Francescano Conventuale, tale Fra Bonaventura Perinetti da Piacenzagià Vicario del Santo Uffizio dell’Inquisizione di Padova e di recente nominato come nuovo Inquisitore di Belluno.

Ed ecco i fatti che giunsero all’orecchio dell’Inquisizione di Venezia, e poi per suo tramite direttamente all’Inquisizione di Roma … nonché ai “grandi orecchi” della Serenissima:
Si raccontò che venerdì 30 giugno 1628 Angelo Dana Orefice Veneziano con bottega “Al segno della Luna”nella Crosera della Contrada di San Pantalon, andò a denunciare alcuni fatti davanti al Padre Domenicano Girolamo Zappetti da Quinzano Inquisitore di Venezia ormai da tre anni.

Essendo Angelo Dana incallito e sfortunato giocatore d’azzardo, per di più soverchiato da diversi debiti, andava in giro per Venezia a raccontare i suoi insuccessi, a cercare nuovi finanziamenti nonché qualche buon espediente per riuscire nel gioco della Bassetta e delle Carte. Raccontò all’Inquisitore Zappetti che andando in giro capitò anche dal Libraio De Negri di San Rocco che riuscì a vendergli un “anello quadrato considerato magico e dal potere segretissimo capace di farlo vincere e rifarsi dalle sue perdite di gioco”. L’anello l’aveva dato al Libraio un Frate del confinante Convento della Ca’ Granda dei Frari: un certo Fra’ Bonaventura da Piacenza ... che guarda te … era di passaggio a Venezia dopo essere stato eletto come nuovo Inquisitore di Belluno dopo aver lasciato l’incarico di Vicario dell’Inquisitore di Padova che era appena defunto.

L’anello in questione era piccolo e sottile, portava incise tre lettere GMGossia: Gesù, Maria e Gabba, ed era considerato molto potente perchè l’Inquisitore Perinetti in cambio di 15 lire vi aveva celebrato sopra 15 Messe per fortificarne il potere intrinseco dicendo d’averci imprigionato dentro “uno spirito”. Il Libraio Salvatore disse all’Orefice Angelo che “regola dell’anello” da parte chi lo indossava nella mano destra durante il gioco delle carte “… dopo aver pigliato tre punti di spade delle carte da giocar …”,era dire: “Queste spade te passino il core”diretto contro colui con cui si giocava.
Angelo aggiunse che il Libraio gli aveva inoltre consigliato di regalare al Frate “un presente” in segno di riconoscenza consistente in almeno: “… doi cochiari, et doi pirono d’argento”.

In seguito l’Orefice Angelo era tornato a giocare con l’anello perdendo sempre, così come aveva perso sempre anche il suo fratello più giovane: Giacomo a cui l’Orefice aveva prestato l’anello ... Spazientito e deluso, alla fine, Angelo bisognoso di soldi aveva venduto per poco prezzo “quell’anello inutile” a un altro Orefice: Battista Badoer, che gli aveva offerto “un real o un soldo” in tutto.

E ancora … La storia dell’ “anello fasullo di Fra’ Perinetti” non era tutto, perché i Frati del Convento dei Frari chiamati a comparire davanti all’Inquisitore o presentatisi spontaneamente rivelarono anche dell’altro. Fra’ Eleuterio da Crema Conventuale Baccelliere della Ca’ Granda dei Frari rivelò che Frate Bonaventura Perinetti da Piacenza quando era Vicario del Santo Uffizio di Padova prima di partire da quella sede s’era impossessato perfino delle lenzuola, dei materassi, di altri oggetti e soprattutto di molti libri proibiti rubandoli dall’Archivio di deposito dell’Inquisizionedi Padova. Li aveva in parte subito venduti nella stessa Padova presso “il Bo” al Libraio Bernardino Bressano, mentre con molti altri aveva riempito un gran cassone che si era portato dietro fino a Venezia dove poi aveva cercato di rivendere diversi di quei “Libri proibiti” chiedendo in cambio cifre notevoli.

Dopo tutto questo lo stesso Frate Eleuterio precisò davanti all’Inquisitore che Frate Perinetti godeva dentro al Convento dei Frari della strenua protezione di Frate Andrea Berna Guardiano Grando della Ca’ Granda dei Frari. Lo stesso Guardiano aveva invitato lui stesso a tacere sui fatti ed andarsene subito dal Convento di Venezia minacciandolo di farlo mettere in prigione, e aveva inoltre minacciato e obbligato a tacere anche i Frati Maestri Guglielmo da Mondaino, Ottavio da Monte dell’Olmo e Francesco Maria Gnochi ... Infine era andato anche da sua madre perché lo inducesse a tacere sulla storia dell’anello minacciandolo di farlo perseguire, picchiare e torturare dall’Inquisitore di Cividale famoso per non essere affatto tenerissimo.

E non era ancora tutto, perché venne fuori anche che Frate Bonaventura aveva una donna di nome Giustinadalla quale aveva avuto un figlio, e che ogni mattina partiva dalla casa della donna di Venezia dove aveva dormito per recarsi a celebrare Messa passando attraverso la chiesa di San Rocco, e lo faceva senza andarsi mai a confessare … e che tale cosa la sapevano tutti nel Convento della Ca’ Granda dei Frari … E ancora: Frate Bonaventura era dedito al gioco delle Carte, e quando invitava altri ad andare a giocare con lui era solito dire: “Andiamo a dir l’Officio”intendendo andare a giocare a Carte, e aggiungeva: “Se quel San Martin a cavallo mi volesse agiutàr questa volta.” riferendosi ai cavalli delle Carte.

A far la questione ancora più grande si aggiunse che i alcuni Frati del Convento che appoggiavano o coprivano Fra’ Perinetti non erano affatto dalla condotta esemplare. Si rivelò che il Frate Bacelliere Paolo Piazza divenuto di recente Guardian Grando della Ca’ Grande dei Frari, era molto attaccato al patrimonio del Convento e dei Frati tanto che quando morì nel 1671 Fra’ Girolamo Zaltieri Priore a Mestre lui corse nottetempo e in gran segreto senza convocare il Capitolo dei Frati a impossessarsi “della miglior parte delle di lui robbe assieme con il denaro et argenti d’uso di tavola ... Frate Zaltieri possedeva molti beni perché aspirando a gradi decorosi andava aumentandosi di facoltà, e specialmente in apparati ecclesiastici, mobili di casa, suppellettili necessari e denaro bisognevole …”
Frate Paolo Piazza venne perciò denunciato da Fra’ Ottavio Vicentini da Venezia al Provveditore Sopra ai Monasteri della Serenissima che lo convocò a processo chiedendogli di rendere conto dello spoglio che aveva effettuato a Mestre. Alla fine gli fu chiesto di risarcire il Convento di Mestre di tutto ciò di cui si era impossessato indebitamente.

In quelle stesse circostanze processuali dell’Inquisizione di Venezia, si venne a sapere inoltre che erano coinvolti in tutto quel “gran giro di Libri” anche altri Preti di Venezia oltre che Nobili in gran vista. Si fecero fra tutti i nomi del Chierico tonsurato ventenne Antonio Freghetta di San Silvestro che faceva anche il pittore, e se ne stava a copiare tutto il giorno “Libri proibiti” in un suo cubicolo foderato di legno accanto alla Sacrestia della chiesa di San Silvestro. Costui s’interessava “d’Arti Magiche, carte superstiziose, incanti e segreti d’Alchimia”, e prestava e vendeva libri ad altri Preti e a figli di Nobili Veneziani.

Antonio Freghetta venne sottoposto a perquisizione da parte degli uomini del Santo Uffizio e dovette comparire davanti all’Inquisizione perché trovato in possesso di alcuni “Libri proibiti” fra cui il “Libro della Verità della Religione Christiana” di Filippo Mornais, e il “De occulta Philosophia” di Cornelio Agrippa, oltre che di 16 stampe contenenti “ritratti di donne nude lascive et inhoneste con atti inpudici” comprate in Piazza San Marco da altri pittori.  Venne condannato agli “arresti domiciliari”.

Dopo il Chierico di San Silvestro venne fuori anche il nome di Prete Bernardino Romani dalla Basilicata abitante in Contrada di San Mattio di Rialto, e quello dei Nobili Venier che però non si osò minimamente coinvolgere. Toccare certi Nobili a Venezia era cosa pressochè impossibile e imprudente anche da parte della stessa Inquisizione.

Come andò a finire tutta la faccenda secondo voi  ?

Frate Bonaventura Perinetti chiamato da tutti nel Convento della Ca’ Granda dei Frari: “L’Inquisitore della Fede” venne accusato ufficialmente, indagato, processato e punito come si meritava per la complessa serie di mancanze e i misfatti che gli venivano attribuiti ? 

Anche se non mi potete rispondere credo di conoscere già quale potrebbe essere la risposta di molti di voi, cioè: no.

Infatti andò proprio così: l’Inquisizione mise tutto sotto silenzio, stracciò sempre dai fatti le colpe di Frate Perinetti che odorata “la mala aria” se ne partì bel bello per andare a fare l’Inquisitore a Belluno. Lì le cronache raccontano che esercitò la sua “professione inquisitoriale” secondo il suo consueto stile chiedendo di continuo rimborsi alla Santa Sede di Roma e diversi permessi (che ottenne sempre) per andarsene in giro a “concionare e predicare”… almeno così diceva.

Solo anni dopo, quando l’intera storia fu palese a tutti, e la figuraccia dell’Inquisizione era diventata troppo evidente almeno quanto la sua poca coerenza e credibilità, un decreto partito da Roma privò Frate Perinetti del proprio Incarico di Inquisitore di Belluno sostituendolo con Padre Bernardino da Lusignano.

Sembra che Frate Bonaventura sia tornato a rifugiarsi nella sua Piacenzadove di lui si persero le tracce per sempre dopo la presentazione delle sue ultime richieste di rimborso fatte ancora una volta al Tribunale dell’Inquisizione di Roma che non lo degnò neanche di una risposta.

Così andarono le cose fra Librai e Inquisitorinella Venezia Serenissima fra 1629 e 1661 circa ... e queste sono solo briciole di tanti e tanti fatti che ci sarebbero da ricordare.


“L’UNIVERSITA’ DI SAN COSTANZO DEI NONZOLI … A SAN BASEGIO DI VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 120.

“L’UNIVERSITA’ DI SAN COSTANZO DEI NONZOLI … A SAN BASEGIO DI VENEZIA.”

Avete mai provato l’ebrezza di suonare con le mani un campanone vero ? … Ma non un“sonello” o una campanella argentina attaccata a una cordicella dentro a un campaniletto. Intendo uno di quei campanoni massicci e pesanti capaci di suonare a distesa e farsi sentire possenti fino ai confini della Laguna dentro a una grande torre: un“campanòn grando”, “una granda o una mezàna”, o la pesante “Vecia” ?

Io l’ho fatto più volte … e vi garantisco che è stata una “figàta”impensabile, pazzesca ! Un’esperienza singolarissima che probabilmente non riuscireste neanche a immaginare. E’ stata una sensazione che oggi non si può più provare, perché sono scomparse le corde della campane grosse come un pugno e lunghe decine su decine di metri che scendevano dentro alle canne dei campanili fino ad acciambellarsi sul pavimento. Oggi si schiaccia un bottoncino e via, e tutto lo scampanio s’accende canterino e sonoro spargendosi ovunque nell’aere col suo bel effetto allegro e chiassoso ... Non è rimasto niente di quel “divertimento spassosissimo” a cui tenevamo tanto.

Sapeste quante volte durante la mia prima giovinezza l’abbiamo provato insieme ai miei amici: tante volte e più tante. Era una sensazione piacevolissima e davvero molto divertente … ma non solo per il fatto di suonare i campanoni in se, ma soprattutto perché accettando d’essere un po’ spericolati e disposti a rischiare, si poteva “giocare” per davvero con le corde delle campane compiendo veri e propri equilibrismi arditissimi.

Quello che forse vi potrà sfuggire è che esisteva in quel caso una specie di “il rinculo” e di possente “trazione di ritorno” della corda della grossa campana avviata a suonare in cima al campanile capace di issarti “di peso con tutto il corpo” alzandoti per più di una decina di metri e oltre verso il soffitto interno della torre. La corda tirata e ritirata ci sollevava di continuo portandoci più e più volte altissimi dentro alla base del campanile ... e poi essendo sconsiderati tanto quanto e di più del nostro giovane maestro, ci lasciavano prendere dall’idea divertentissima (e pericolosissima) di camminare e correre sui muri interni del campanile passeggiandovi in salita al ritmo della campana.

Una “figàta pazzesca” ! … oltre che un’ebrezza rischiosissima. Mille volte ci siamo lasciati tirare su e penzolare e calare, e i più abili di noi sapevano perfino compiere anche una capriola in volo attaccati al lungo canapone delle corde.
Si faceva perfino a gara a chi trascorrevamo più e più minuti sollevato in alto, e a chi correva più in alto lungo i muri facendo il segno col gesso sulle pareti ... Lo so … Eravamo un po’ pazzi … Ma a chi importava in quei giovani anni?… Allora ci divertivamo anche così, come si poteva … e poi, a non tutti era dato di poter fare quella cosa.

Aggiungo solo, che se lo avessero saputo e scoperto il Piovano o il Sacrestano: ossia il Campanaro titolare della chiesa, ci avrebbero di certo dato“un bel rebuffo e un grosso cicchètto”… ossia una lavata di testa indimenticabile.
Ma non accadde … e quello rimase uno dei nostri “divertimenti segreti”… La cosa insomma è andata così, e adesso sono ancora qui a raccontarvelo vivo e vegeto, sebbene forse con le spalle un po’ rovinate a suon di farsi “strappare in su” dalla potenza di quei “sonori battòcchi” che hanno rimbombato a lungo sopra le isole della Laguna di Venezia … facendoci divertire come matti.

Perché vi ho raccontato tutto questo ?

Perché suonare le campane era un tempo una delle tante mansioni riservate ai Campanari e ai Nonzoli, in altra maniera chiamati anche:“Sacrestani o Sagrestani”, ma anche “Scaccini”, “Santesi”e “Mansionari”.

Erano una categoria sociale di persone che praticamente oggi non esiste più, o di cui è rimasta solo una vaga immagine e un ricordo sbiadito. Fino al secondo dopoguerra mondiale, invece, quel genere di persona esisteva in gran parte di Venezia e delle sue Lagune … ma anche altrove, ovunque, ed erano spesso, a dire poco, dei “tipi un po’ singolari”.
Durante la mia esistenza ho avuto la fortuna di conoscerne più di qualcuno, forse gli ultimi di quella “covata originale”, e vi posso garantire che da loro ho imparato tantissimo: sia nella capacità d’arrangiarsi in tante incombenze pratiche servendosi di un buon “fai da te”, che dal punto di vista dell’interscambio umano e del contatto con gli altri.

Giungo a dirvi che in questo momento vedo scorrere dentro alla mia mente un’intera sequenza di nomi e volti, dai quali “a conti fatti” ho ricevuto davvero “tanto”, e che sono riusciti a incidere in qualche modo sulla mia esistenza in maniera duratura.

Come dicevo, quella dei Nonzoli o dei Sagrestani è sempre stata una categoria di persone per certi versi originalissima. Conducevano quasi sempre una vita austera, difficile, modesta, quasi al confine con la povertà. Molto spesso erano spinti interiormente da “un’affezione potente” che provavano per “le cose di Chiesa”, una specie di “molla quotidiana irrittenibile” che li obbligava ad agire, vivere e comportarsi in una certa maniera. Altre volte, invece, quello che più semplicemente li spingeva era il bisogno di procurarsi di che vivere in qualche maniera, perciò si prestavano a compiere un’infinità di mansioni che noi oggi neanche ci sogneremmo d’intraprendere.

Vi dico anche che ne so qualcosa personalmente di tutto quello “strano servizio”, perché per diversi anni ho partecipato anch’io a quel genere di vita provando a provvedere in quella maniera a finanziare la mia retta scolastica degli “studi da Prete”(“carriera” che poi ho puntualmente intrapreso per ben 5 splendidi anni a Venezia).
“Far da Sacristi e Nonsoli” significava spesso trascorrere gran parte della propria giornata dentro all’edificio della chiesa e nei suoi dintorni. Fino a qualche decennio fa le chiese si aprivano ogni giorno all’alba e si chiudevano al tramonto, e il suono delle loro campane scandiva, quasi marchiava dandone il senso, la giornata e il lavoro di tutti. La gente si riversava in chiesa molto e molto più di adesso, e “far da Sacrestano” non consisteva solo nel tenere a bada l’orda dei turisti o “la manolonga” di qualche “gallinaccio rubaelemosine” che circola in giro per la chiesa ancora adesso, ma in tutta una lunghissima serie di compiti a volte complessi, a volte anche difficili e faticosi, oltre che noiosi da raccontarvi.

A farla breve, dico che da sempre in Venezia e in Laguna i Sagrestani organizzavano “i riti e le funzioni di chiesa”. Per farlo ogni volta bisognava “vestire, svestire e apparecchiare ogni altare e fino a ogni panca e colonna dell’intera chiesa” come se fosse quasi una persona viva da accudire.
Il mio vecchio Piovano mi ripeteva sempre: “La chiesa è come una splendida e leggiadra sposa che non si è mai terminato di preparare.”  … ed era vero, non si finiva mai di trafficare e arrabattarsi in chiesa.

A Venezia e dintorni poi, è sempre esistita la tradizione d’allestire nelle chiese grandi apparati scenici, imponenti luminarie, e “grandi parècci” per sottolineare visivamente e plasticamente l’entità, quasi “il volto, la facciata” di certe celebrazioni e di certe ricorrenze annuali. Si paravano le chiese come fossero il “salotto buono di casa”: “a lutto”, “a Festa”, “da Feria”, “per i Funerali e i Matrimoni de Prima, de Seconda, de Terza”, “da Quaresima”, “da Nadàl e da Pasqua”, “da Quarantore”, “par i Santi e par i Morti” e non si finiva mai. Era tutto “un fa e dèsfa”, e più di qualche volta l’intera chiesa cambiava del tutto fisionomia nel giro di poche ore: “Che sfadigàe indimenticabili !”

Concretamente tutto quel lavorare significava issarsi per lunghissime ore su e giù per le paraste e le colonne della chiesa con lunghe scale barcollanti, stendere chilometri di velluti e damaschi su ogni panca, srotolare pesantissimi e polverosissimi tappeti immensi, distribuire e appendere un po’ ovunque “soprarizzi”, arredi sacri, Reliquiari, piante ornamentali, un’infinità di ceri di tutte le misure … e addobbi, gonfaloni, insegne, paramenti, candelieri, torce, fanali, panche, cuscini, poltrone, paliotti … sarebbe lungo elencarvi tutto, mi servirebbero diversi fogli di carta.

Voglio dirvi, insomma, che non era mai finita, e che più di qualche volta con i miei amici rimanevamo lì dentro per l’intera giornata tornando a casa a sera per davvero “cotti” dalla fatica ... ma era anche divertente, perché accompagnavamo il tutto con un immancabile goliardia e spensieratezza, oltre che col miraggio di racimolare qualche piccolo utile per le nostre tasche sempre vuote e bucate.

I Sacrestani comunque non sono stati solo questo, sono stati ben di più. Hanno esercitato un’attività a tempo pieno che spesso ha caratterizzato tutta la loro esistenza. Hanno vissuto in maniera diversa da quelli che ho incontrato negli ultimi anni. Di recente si sono inventati spesso in questo ruolo di “pura guardiania e sorveglianza” qualche anziano dalla modesta pensione, o qualche studentello bisognoso di racimolare. Ho conosciuto, invece, impegnati in quei frangenti anche uomini che “scappavano di casa” per rimanere lontani dalle grinfie di qualche moglie in preda alle esagitazioni incontrollate della menopausa ... Qualcuno è finito col fare il Sacrestano per intraprendere una “salutare fuga” dalla prigionia del gioco, dell’osteria e del vino, del fumo, del “vizio delle donne”, e perfino per vincere la depressione, la noia del non saper che cosa fare, e il vivere a spese d’altri. Altre volte ancora, ho conosciuto gente che ha svolto quelle particolari mansioni per pura simpatia per la Religione e i suoi “dintorni”, oppure per amore verso l’Arte e i monumenti della nostra città singolare di Venezia … C’è stato perfino chi ha fatto da “Nonsolo”per una certa nostalgia verso un modo e una maniera di vivere fondata su“certi sani e ordinati principi tradizionali reduci dei tempi andati” che vedevano come riassunti e incarnati in quel “sostare a lungo” dentro alle chiese.

Altri hanno “servito” per riconoscenza verso il Clero che aveva accolto nelle proprie file il figlio come Prete, o la figlia come Monaca … e c’è stato perfino chi ha ricoperto quel ruolo per la semplice possibilità d’incontrare qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere che non fossero “le solite parole del Mercato o dell’Osteria”.

A volte il mondo e le persone sono belli, proprio perché sono vari e sorprendenti.

Come vi dicevo, andando però a ritroso nei tempi precedenti, la figura di questi “Nonsoli da chiesa”è stata più ricca e significativa. I Sagrestani o Nonsoli erano a volte persone che fungevano da “longa manus, orecchio e occhio”dei Preti, Frati e Monaci. Così com’erano efficienti gregari, serventi, messaggeri e puntuali informatori e rappresentanti delle Monache. In cambio ottenevano spesso solo un tetto sopra alla testa, un piatto caldo, un fiasco di vino, un po’ di carbonella per scaldarsi, o quattro stracci vecchi lasciati da qualche Prete o Monsignore morto per vestirsi riattandoli come potevano.

I Nonsoli erano laici che finivano per gravitare e vivere giorno e notte nell’entourage delle chiese e dei Conventi svolgendo funzioni paraliturgiche e di contorno di tutti i tipi. Sorvegliavano i luoghi aprendoli e chiudendoli, allestivano tutti gli apparati delle cerimonie liturgiche, suonavano le campane, partecipavano ai riti cantando e salmodiando con un loro “latinorum”approssimativo e talvolta comico, sporgevano al celebrante gli oggetti, i libri e i “vasi sacri” durante i riti (per questo erano detti anche: Sacristi), raccoglievano le offerte e le elemosine, smanacciavano e rifornivano le chiese di cere di ogni tipo e misura … e anche di ostie per le Messe, e del “Vin Santo”… contenuti sui quali da sempre si sono congetturate gag e barzellette di ogni sorta.

Oltre a tutto questo, più di qualche volta i Sacristi s’industriavano accanto al Clero e nei pressi dei Religiosi e delle Suore come abili ortolani, barcaroli, pulitori e factotum della chiesa e dei Conventi. Più di qualche volta sapevano inventarsi ed esercitare da piccoli sarti, taglialegna, lucidatori di lampade, lampadari e ottoni, argenterie e oreficerie di ogni tipo … e altre volte ancora facendo tutto questo erano anche capaci di trovare una loro complementarietà con alcune figure femminili come le Perpetue, le domestiche, le cuciniere, le “lavandere” e serve di CasaCanonica e dei Preti con le quali finivano con l’essere anche amici, mariti, conviventi e compagni.

Giusto sul ciglio delle mie memorie, ricordo uno degli ultimi Sagrestani della Basilica della Madonna della Salute di Venezia (quella famosa del voto della Peste). Se ne avrete occasione provate a recarvi nel Coro dietro all’Altare Maggiore, noterete che in alto sulla sinistra ci sono ancora oggi alcune finestre “accecate” e coperte da vecchie tende rosse polverose. Lì dentro e in alto abitava il Nonzolo della Salute, in fondo alla “Calle della Piavola”,che era il braccio terminale dell’ala del palazzo del Seminario confinante con la Basilica. Dietro a quelle finestre oggi oscurate e dimenticate esisteva un vero e proprio “Buco di stanza” a cui si accedeva anche da dentro la chiesa salendo su per la scaletta dell’organo e poi contornando in modo aereo le pareti del Coro sopra un breve passaggetto. Non so oggi, ma un tempo in quella stanzucola c’era un armadio a muro contenente una finestrella da cui si poteva guardare “giorno e notte” direttamente in chiesa … Lì in quella specie di loculo asfittico ha vissuto per molti anni uno degli ultimi Nonzoli della Salute con la sua “fida mulièra”, e ogni giorno si recava all’ora di pranzo dalle Suore che accudivano il Seminario con la “sua pignatella” per ottenere quanto gli spettava “di diritto” per mangiare. Di soldi, stipendio, contributi, pensione ? … Neanche l’ombra … solo qualche offerta “una tantum”, qualche “strenna”… e il “buon cuore” di qualche Prete o Santo Monsignore.

Fra gli altri suoi numerosissimi compiti c’era anche quello di recarsi nel campanile per “far danzare le campane dettando a tutti la giusta regola del Tempo da spaccare a fette in dì di Festa e di lavoro”… Era quasi fiabesco il suo attaccamento alla “Causa della Chiesa e dei Preti”, come a quella del suo mitico “fiaschetto del buon vino fresco e dolcerello della Santa Messa” di cui era vero esperto e intenditore … Vestiva rigorosamente di nero e smunto, al confine col lacero, portava un’inseparabile calottina scura in testa, inseparabili guanti alle mani tagliati sulle dita, vecchie galosce sonore, sciarpe di lana odorose avviluppate attorno al collo “dall’autunno alla Passion de Pasqua”, pastrani e vecchie zimarre improbabili nei giorni di gelo, manicotti bisunti e coperti di cera, e abiti rivoltati mille volte e stretti sulle gambe con lacci o provvidenziali elastici.

Era “un numero” insomma, come si diceva di solito a Venezia … e la sua “silenziosa e quasi anonima consorte”era la sua ombra perfetta (con aggiunta dello scialle infeltrito e dello scaldino a carbonella sotto alla gonna), il pendant in versione femminile del suo portamento. Il mondo di quell’uomo era ogni giorno saturato da mille genuflessioni sgangherate, raffiche di giaculatorie interminabili, preci e litanie … e talvolta improperi dedicati a tutti i Santi e le Madonne dell’intero Calendario. A suon di bazzicare fra Riti, Funzioni e Liturgie aveva persino forgiato un linguaggio e un vocabolario quotidiano tutto suo: “da Sacrestia”. Per cui certe cose si potevano fare “in un sicutère”, per altre serviva, invece, “il tempo di un Pater Noster … di un GloriaPatri o di un’AveMaria”, o se si andava di fretta bastava “un GesùMaria” che tutto si faceva in un attimo. Funzionava tutto così.

Ma c’è dell’altro …

Oltre a uno degli ultimi “Nonzoli della Salute”, la lunghissima quanto inesauribile Storia di Venezia non ommette di raccontare vicende di Nonsoli-Sacrestani che furono anche personaggi popolari e talvolta pittoreschi. Spesso i Nonsoli erano conosciuti da tutti nelle Contrade cittadine, non erano solo persone dedite “alla causa della Chiesa”,ma anche dei punti di riferimento comuni, persone di fiducia con cui confidarsi, gente onesta e caritatevole, disposta a prestare qualche buon consiglio e qualche aiuto pratico all’occorrenza. Erano perciò figure benvolute e aggiornatissime su tutto e tutti, delle specie di “Pizie e Oracoli da Contrada” da consultare al bisogno, e personaggi in grado di avere in qualche modo in mano “la temperatura e la situazione” di intere piccole zone di Venezia.
Se poi a fine giornata finivano dentro a qualche bettola o osteria poco distante dalla chiesa in preda “alla balla franca” … ne venivano fuori di tutti i colori, e spesso erano“dolori per tutti”... perchè da certe “grandi squacquarate” e pettegolezzi derivavano risate, risse, guai, sorprese e canzonature per tutti.

I Sacrestani e Nonsoli in un certo senso sono stati come dei veri e propri “Traghettatori fra Sacro e Profano”, ma non solo. Le Cronache Veneziane raccontano anche di gente “furbetta, sveglia e un po’ traffichina”. Si dice, ad esempio, di quei Sacrestani corsi a vendersi nottetempo e in fretta i reperti preziosi rinvenuti dentro alle tombe scoperchiate dei Dogi e dei Nobili Senatori e Cavalieri della Serenissima aperti e provvisoriamente scoperchiati dentro al grande Pantheon dei Dogi di Venezia ossia il chiesone dei Santi Giovanni e Paolo ossia San Zanipolo… Sono stati immediatamente “presi e beccati”, ancora con le mani nel sacco, e hanno dovuto restituire “il malloppo” loro malgrado.

Detto questo non meraviglierà affatto sapere che a Venezia fra le tante Schole Piccole di ogni sorta, esisteva anche quella dedicata ai Nonsoli e ai Sacristi-Sagrestani. Si trattava dell’ “Università di San Costanzo dei Nonsoli”con sede presso la oggi non più esistente chiesa di San Basegio o Basilio verso le Zattere nel Sestiere di Dorsoduro.

A dire il vero, la Schola dei Nonsoliera un po’ un’associazione a numero chiuso, riservata ai soli Sacrestani che prestavano funzioni presso Cappelle e Altari delle più rinomate e onnipresenti Schole del Santissimo o del Venerabile (le uniche che verranno risparmiate in seguito da napoleone a Venezia). Più che “Schola” quella dei Nonzoli veniva addirittura definita: “Università” ossia un’aggregazione, una società di maggiore dignità e rispetto a confronto con tutte le altre Schole qualsiasi di Venezia.
Si raccontava, infatti, che quella “Congrega”esisteva già nella città Lagunare fin dal 1300 (anche se le Schole del Santissimo non sorsero prima dell’inizio del 1400 o 1395 … Boh ?).

La “Congrega dei Nonsoli” si chiamò anche “Pia Unione di San Costanzo”, e di quella forma associativa si conservano ancora oggi: un “Libro cassa”, uno “Squarzo dei fratelli Nonzoli”, il “Libro Mastro” per l’iscrizione dei Sacrestani, un “Libro de’ riceveri” per il pagamento delle loro tasse alla Schola, un “Libro delle Messe”, un “Libro de amalati” e perfino un “Libro de’ Capitoli”.

All’atto degli ultimi sbadigli stanchi della Storia della Serenissima, nel 1771, la Schola-Università dei Nonsoli era ancora viva e vegeta e riconosciuta ufficialmente dal Governo di Venezia. Ridotta alla fine a piccola società riservata di mutuo soccorso, napoleone la spazzolò via indifferente con tutto il resto delle associazioni simili classificandola con la dizione: “Schola inutile, priva di significato: da abolirsi e sopprimersi”(così come vennero definite fin troppe altre cose in maniera analoga).
Il Protettore della categoria dei Nonsoli, il Patrono dell’“Arciconfraternita o Compagnia dei Nunzii eraSan Costanzo d’Ancona le cui spoglie furono trasportate in tutta fretta nel 1865 nella chiesa di San Trovaso al momento della demolizione di quella di San Basegio prossima alle nuove rive del Porto della Marittima di Santa Marta.

Nella giungla d’indicazioni, decreti e norme con cui la Serenissima ha avvolto per secoli Venezia per governarla in tutte le sue espressioni, c’è stato spazio anche circa le mansioni dei Nonsoli.
In alcuni decreti del 1643-1654 si può leggere:“… in pena di tratti 3 di corda … (i Nonsoli) non lascino questuare poveri per le chiese … tenuti a discacciare dalle chiese li poveri questuanti … non possa essere fatta loro grazia … e presentar al Magistrato i nomi dei disobbedienti”… e qualche anno dopo: “… in relazione a giudici e spazii de Consigli, Nonzoli soltanto delle Scuole del Santissimo vestino, portino e seppelliscono li morti; destinati espressamente a tali funzioni. Testificata povertà di alcuno, eseguiscano quanto sopra senza alcuna ricognizione.”

E più di cento anni dopo sempre circa la stessa funzione dei Nonzoli: “… siano tenuti portar notizia al Magistrato di qualunque morte repentina … al caso conseguissero cos’alcuna dalle famiglie de poveri ascritti nelle Fraterne per la tumulazione defunti, obbligati esborsar soldi 10 alli custodi de cimiteri e riffonder nelle Fraterne suddette il più che avessero estorto …”

E oltre i due terzi del 1700: “… tosto ricuperato un sommerso, facciano portare lo stesso in qualche stanza chiusa o in qualche Ostaria senza aspettare che sia licenziato, avvertano Medico e Chirurgo della Fraterna o il più vicino, facciano portar l’istrumento inserviente al ricupero che attrovasi nelle Spezieri indicate…si prestino con tutto l’impegno al soccorso di tali persone … in pena mesi 3 di camerotto, tenuti a rifferire al Magistrato il nome di quelle femine che col nome di qualche comare approvata presentassero bambini alla fonte et il nome ancora della comare…”

Infine verso lo scadere della Repubblica, nel 1781: “… Nonzolo e bassi serventi della chiesa di Santo Stefano visitino giornalmente li Claustri di quel convento, riferiscano al Magistrato immediate ogni volta che trovassero scattole con aborti ne’ soliti luoghi ...” e infine: “… I Nonsoli veglino anche sugli spazzini affinché siano mantenuti puliti il circondario della chiese, la locazione e la pubblica strada ...”

I Nonzoli-Sacrestani avevano quindi un ruolo ben preciso e riconosciuto dentro a Venezia, ed eseguivano curiose mansioni di pubblica utilità. Ma accadde anche dell’altro:“… nell’ottobre 1624, Marietta Mori cercando di evitare le procedure del Santo Uffizio dell’Inquisizione di Venezia raccontò direttamente al Patriarca di Venezia di aver “usato carnalmente” con un Sacrestano della chiesa di San Pantalon: Orazio Cino. Lei era sposata, ed era stata solo “una distrazione” perché in cambio il Sacrestano le aveva promesso di regalarle “uno spirito da portare sempre con se” se lei avesse accondisceso a “donare l’Anima al Diavolo”.
Per ottenere “lo spirito” Orazio aveva aperto per ben tre volte consecutive un libro di Pietro d’Abano che era in suo possesso. Quel libro si doveva aprire solo in particolari occasioni pena un mucchio di guai. Si diceva, infatti, che la volta che l’aveva aperto impunemente era scoppiata la polveriera di Verona e un fulmine gli aveva quasi bruciato la casa, mentre in una seconda occasione a Padova s’era scatenata una tempesta.
Marietta inizialmente era curiosa di vedere “serpenti seguiti da un carro trionfale col Diavolo sopra”, perciò dopo aver inizialmente rifiutato la profferta di Orazio lo accolse in casa sua ... e il gioco fu fatto.
In realtà Orazio l’aveva raggirata per bene, fingendo anche di resuscitare “con i poteri del Libro” il campanaro morto di San Pantalon: Gregorio Manzino suo complice nella burla.
Alla fine il Sacrestano col complice finirono a processo, e l’Inquisizione di Venezia non fu proprio tenerissima con lui...”

Giungendo quasi all’oggi, è triste ricordare come in tempi abbastanza recenti i Sacrestani siano stati in negativo anche veri e propri conniventi e complici nell’ “alienamento e svuotamento incontrollato”accaduto in tante chiese grandi e piccole di Venezia, della Laguna e della Terraferma … Diversi di loro hanno contribuendo insospettabili e impuniti a rifornire, goccia dopo goccia, mercatini di Sestiere e Antiquari di dubbia qualità spesso con la tacita partecipazione degli stessi Preti, Monache e Frati. Erano tempi diversi da oggi, quando ancora non esistevano catalogazioni sistematiche, inventari ben precisi, e sorveglianze accanite delle Sovraintendenze dello Stato ... Quindi è accaduto un po’ di tutto, e quello che non poteva e non doveva uscire ufficialmente dalla porta a volte capitava che se ne andasse agevolmente fuori dalla finestra rimasta inspiegabilmente o furbescamente aperta.

Io stesso qualche anno fa sono riuscito a comprare sulle bancarelle del Mercatino dei Miracoli dei “Libri da Morto” che hanno accompagnato mille funerali dei Veneziani, o un “Libro da Adorazione del Santissimo” su cui hanno pregato chissà quanti Preti, Monache e Fedeli … Il tutto era “scappato fuori come vecchiume” dalla porta sul retro di qualche Sacrestia di Venezia in cambio di qualche magro spicciolo facile ... ma questa è un’altra storia.

Durante gli anni ottanta del Novecento, quando vivevo da Prete a Venezia, mi è capitato di accogliere in Confessionale la curiosissima confidenza penitenziale di uno degli ultimi Sacrestani della Laguna di Venezia, di quelli “alla vecchia maniera” (inutile ipotizzare chi fosse: è ormai morto da un bel pezzo). Dentro al segreto riservatissimo del Confessionale venne a rivelare mortificatissimo davanti “al Cristo Misericordioso capace di perdonar quasi tutto”(così si espresse, lo ricordo ancora bene come fosse ieri), che era stato lui l’autore di quell’occhio nero procurato al Capo del Partito Rosso della Contrada del suo paese.
Era stato lui in una sera di vento e pioggia invernale ad incontrare mentre rientrava a casa dall’Osteria quell’uomo fanfarone e borioso: “che offendeva e derideva troppo spesso il Piovano, la gente, i valori, e le Dottrine della Chiesa.” Quella notte, forse alticcio (senza forse), non aveva saputo resistere all’ennesimo sfottò e a un sorriso sardonico e provocatorio di troppo che quell’uomo troppo laico, laido e dissacratore gli aveva rivolto.
Accadde tutto in fretta, in un solo attimo … Mi disse che non ricordava bene quale parola o gesto precisamente avesse fatto accendere la miccia nella sua testa. Era accaduto però che gli montasse dentro improvvisamente una rabbia incontenibile … che senza alcun preavviso o discorso lo spinse ad agire in maniera violentissima. Inatteso, andò a picchiare “di brutto e in pieno” direttamente l’occhio del malcapitato antagonista che gli stava di fronte incredulo.
L’omone grande e grosso, davvero massiccio e in carne, e tutt’altro che sprovveduto venne preso del tutto alla sprovvista. Al vederlo sembrava uno “spaccateste cafone incontenibile”, ma era rimasto impotente di fronte a quel pugno micidiale sferrato con violenza inaudita da quel Nonsoletto mingherlino, basso di statura e ossuto ritenuto quasi capace di niente.

Il Nonsolo quella volta mi è sembrato davvero mortificato nel raccontarmi la vicenda, ed era pentitissimo per quel suo gesto tanto che il giorno seguente era andato prontamente a scrivere all’altro uomo un riservatissimo e sincero biglietto di scuse al quale aveva aggiunto anche una bottiglia di “buon vin da Messa” che gli aveva offerto un Monsignore di Roma “per usarlo in circostanze particolari”.

“E’ stato quasi un brindisi per la sua vittoria !” ho provato a dirgli provando a stemperare la tensione … ma lui non ha sorriso affatto.

Pur dovendo conservare il segreto totale sui dettagli di quell’episodio, il giorno seguente mi sono sbellicato dalle risate venendo a sapere che il Capo di quel paese andava a dire in giro d’essere stato assalito nottetempo da un’intera squadra di Fascisti reazionari che l’avevano assalito da ogni parte … ai quali aveva anche contraccambiato con una buona dose di botte rimediando solo quell’occhio pesto e nero.

“Ma quali Fascisti e squadra ? … E’ stato il Nonsolo Mingherlìn !” mi sono detto. Anche così “giravano”tempo fa le “cose del mondo” intorno a Venezia.

Ancora oggi i Nonsoli e i Sagrestani possiedono i contratti lavorativi e sindacali più bassi d’Italia, e non c’è volta che non vengano assimilati a puri volontari generosi, o pagati “a bonus”, o più semplicemente in nero. Si sa bene: i Preti e i Religiosi in genere sono sempre stati “stitici”e con certe difficoltà nell’applicare le dovute spettanze e misure contributive e di prevenzione. Su certi argomenti, come il fisco e le contribuzioni ad esempio, hanno sempre avuto “la manina un po’ corta” … mentre per altre circostanze. Comunque non voglio generalizzare … Oggi esistono anche molte situazioni perfettamente e correttamente gestite.

Concludo raccontando che ho conosciuto anche un altro ultimo Nonsolodi Venezia: era una persona squisita, sebbene un uomo comune e qualsiasi, quasi senza nome. Per più di trent’anni ha assistito puntualmente e tutti i giorni “in zitto silenzio” una donna anziana e vedova che teneva a casa presso di se un figlio disabile spesso arruffato e agitato.

“Che ci vuole ?” diceva semplicemente, “Una mano lava l’altra.”

Perciò non c’è stato giorno: vento e pioggia, acqua alta e neve, caldo o freddo, estate e inverno, festa o giorno lavorativo, che quell’uomo fra una campana e una Messa e l’altra non si sia recato a casa di quei due sfortunati nascosti a prestare la sua opera amabile in cambio di un solo miserissimo caffè. Esemplare ! … Uomo e Nonzolo esemplare.

Venezia è costellata da un’infinità di Storie … e anche quelle dei Nonsoli hanno fatto parte di esse. Ho provato a ricordarlo un poco …


“UN STRANO VASETTO MISTERIOSO E TERRIFICANTE … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 121.

“UNO STRANO VASETTO MISTERIOSO E TERRIFICANTE … A VENEZIA.”

Questa curiosità ve la butto là così, nuda e cruda, quasi grezza, così come l’ho trovata scritta in un vecchio testo sgangherato che parla di Venezia. E’ priva di dettagli utili per collocarla degnamente in una data precisa, così come manca di dettagli buoni per identificare come si dovrebbe le persone coinvolte nella vicenda, però rimane a mio parere curiosissima lo stesso.

Eccola qua.

La storia bisogna collocarla nei pressi del grande Emporio-Mercato di Rialto. Credo che l’epoca sia stata il tardo Medioevale o forse l’inizio del Rinascimento, o forse dopo … non saprei dire, ma poco importa.

Una servetta di casa nobiliare si era recata una mattina qualsiasi nella bottega di un Mercante tornato a Venezia dopo un lunghissimo viaggio da Aleppo in Siria sopra una delle Galee della Muda da Mercato della Serenissima. Si era nel tardo autunno di non so quale anno, però so che come tutte le altre volte la flotta delle Galee armate aveva portato a Venezia un consistente tesoro fatto di spezie, stoffe, sete, denaro, perle, oggetti preziosi, balle di cotone, tappeti fatti a mano e molto altro.

E’ questo “molto altro” che c’interessa e incuriosisce … perché il Mercante Asiatico (?) dentro allo sciame formicolante delle barche e dei facchini che provvidero a svuotare le Galee portando il carico a Rialto spargendolo dentro una miriade di magazzini, botteghe, volte e fondaci, portò nella bottega tenuta da sua moglie una serie di “oggetti strani” tenuti accuratamente protetti e nascosti dentro a un involto di panno ricamato.

Durante tutto il viaggio il Mercante (dal nome ignoto) non aveva perso di vista quei piccoli oggetti un solo attimo, non perché fossero chissà quanto in se preziosi, ma perché era convinto che fossero oggetti fortemente potenti e pericolosi.
A dire il vero, come si diceva nell’entourage della sua bottega e fra i suoi amici Mercanti non è che lui fosse per davvero certo che quegli oggetti sapessero compiere per davvero miracoli … ma i suoi clienti, invece, lo erano, e questo gli bastava in quanto sua moglie era conosciutissima e ricercata in gran parte di Venezia proprio perché era in grado di fornire quei cimeli “tanto rari quanto efficaci”.

La “massera de casada” che dopo tanta attesa entrò finalmente in quella bottega bassa e probabilmente ombrosa e umida, doveva essere giunta lì dopo grande attesa, oltre che mossa da grande astio nei confronti del suo Nobile padrone. Infatti, era accaduto che dopo tanti onoratissimi e generosissimi anni di servizio a palazzo lui l’aveva con una scusa banale di fatto messa alla porta, ossia licenziata. A niente era servito ricordargli che lei di fatto aveva allevato e accudito tutti i suoi numerosissimi figli e figlie, così come il “Patrizio di alta classe” aveva ignorato il fatto che la donna l’aveva: “servito e seguito fedelmente ovunque, e in ogni tempo e in ogni situazione”… e per pochi soldi. Lei era sempre stata onorata d’appartenere a quella sua nobile famiglia, e s’era dedicata per tutti quegli anni a loro senza risparmiarsi mai: “gioendo con loro e patendo con loro”.

Il Padrone, invece, era stato ferreo, irremovibile: doveva andarsene e basta.

La domestica inizialmente provò anche a capirlo perché lo conosceva bene, l’aveva visto crescere, affermarsi, e fare ricchezza e fortuna fino a stare fra quelli che popolavano il Consiglio Grande della Serenissima. Sapeva che un uomo deciso, di valore, intraprendente e ostinato, per questo era diventato quello che era diventato. Ora a causa delle congiunture internazionali delle guerre, della carestia, dei mercati chiusi, e della coda dell’ennesima pestilenza che aveva intaccato Venezia e tutto il suo Dominio, il Padrone aveva avuto un rovescio di fortuna e di guadagni.

Era uno dei tanti Nobili casati in crisi economica, e si sapeva bene come funzionavano le cose a Venezia: fin che c’erano soldi e poteri tutti erano amici, protettori e riverenti … ma quando le tasche si svuotavano s’iniziava ad essere chiamati “Nobilotti” o “Nobili decaduti e depressi”, e allora non si contava più niente, scemavano gli appoggi e le conoscenze, e s’intraprendeva una vita di ristrettezze e di espedienti … almeno finchè la “Fortuna Bendata” non avesse voltato di nuovo la sua “faccia propizia” risollevando le sorti.

Tutto questo era da secoli nella “logica” e faceva parte dell’essenza della Serenissima. Era come una tacita “regola del gioco” di quel mondo Mercantile Veneziano che non guardava in faccia a nessuno ma solo al guadagno e alla crescita della Repubblica. Non era stao questo, infatti, a far preoccupare e arrabbiare la “massera”, ma un altro dettaglio fastidiosissimo.

Il suo Nobile Padrone aveva messo in strada lei, ma non l’altra giovane domestica che prestava servizio a palazzo da pochissimi anni. Era altrettanto vero che lei era quasi una donna vecchia, per di più vedova e senza figli, mentre l’altra donna era prestante, giovanissima, carina e col futuro aperto davanti … Ma lei a conoscenza anche di altro: ossia che la “giovane fringuella” non era solo abile a servire e cantare durante le feste di palazzo con gli amici del Nobile Padrone, ma era anche la sua “spudorata amante”.

La domestica cacciata si risentì non poco di aver ricordato inutilmente al padrone le sue abilità di domestica consumata dall’esperienza, né lui s’era dimostrato interessato al fatto che la moglie dipendeva in tutto e per tutto da lei. Non c’era abito, tovaglia, arazzo, addobbo o oggetto di famiglia che si muovesse a palazzo senza la supervisione di quella domestica di famiglia. E anche la Nobildonna Moglie e Signora sarebbe stata persa senza l’aiuto solerte e sempre presente di quella che lei considerava la sua“damigella personale”.

Non ci fu niente da fare, il padrone era rimasto irremovibile: fuori la vecchia, rimaneva la giovane.

A niente era servito anche il “pigolio flebile” della Matrona di casa che era andata a protestare col marito. Lei era una grande “donna di comodo”, tutta dedita a gestire il grande “carrozzone lussuoso e prestigioso dei figli, della famiglia e del Nobile Casato”. Viveva dentro a quel mondo dorato interessandosi solo del blasone, dell’onore … “Fingeva perfino, perché le donne hanno sempre mille occhi e anche se sembrano non vedere vedono tutto lo stesso, di non sapere di quella donnetta che intrigava col suo marito ... In realtà lasciava fare, così almeno s’era tolta di torno l’assidua fame spudorata di quell’umo che le aveva fatto partorire un ruotare fastidioso di figlie e figlie ... La Dama non aveva più grìngole ed energie da spendere … aveva dato.”  spiegò in seguito la Massera.

Perciò la dama lasciò fare fingendo d’ignorare, e di non vedere nè sapere.

“Che di divertisse pure quel suo marito ingrato e disassennato.” aveva detto confidenzialmente in una recente occasione la stessa Dama alla stessa attempata servetta. A quel punto la “massera” si lasciò prendere da un senso d’incontenibile frustrazione, che piano piano si trasformò in furibonda vendetta.

La donna però non era però quel tipo di persona che sapeva offendere platealmente, non voleva ferire faccia a faccia spudoratamente. Lei era sempre stata d’indole modesta e riservata, una persona dai sentimenti contenuti e disposta sempre a dire una parola in meno piuttosto che una di troppo. Perciò il tipo di vendetta che iniziò a covare dentro fu raffinato: voleva far del male a quell’uomo, ma farglielo per davvero ... e in maniera sottile. Voleva semplicemente mandarlo in rovina del tutto e per sempre.

Fu proprio il giorno in cui il barcarolo di casa mandato dallo stesso padrone a comunicarle la decisione di farla ospitare in una stanzucola in casa di alcune Pizzocchere della Contrada di Santo Stefano, che lei dentro di se andò su tutte le furie.
“Che spudorato quel Nobilastro in decadenza, non ha neanche più il coraggio né la decenza di parlarmi direttamente guardandomi negli occhi.” disse dentro di se senza neanche muovere un muscolo esteriormente, al barcarolo non rispose neanche una parola, ma abbassò solo la testa mestamente. “Proprio a casa di quelle bigotte petulanti e bibbiose doveva relegarmi ?” brontolò sottovoce, “Non aveva di meglio ? … Che umiliazione !” concluse fra se e se.

La rabbia le montò ulteriormente dentro, perciò decise d’ingaggiare e iniziare fin da subito la sua “sottile quanto perversa vendetta”. Uscì allora dal palazzo dopo aver raccolto per l’ultima volta il piccolo fagotto delle sue cose, e andò dritta dritta sotto ai portici di Rialto presso “la volta della Zanze che vendeva un po’ di tutto”. Si conoscevano da sempre, fin dalla loro infanzia, tanto da essere più che amiche, delle vere e proprie confidenti.

Condivisi i fatti e spiegatesi e capitesi per bene, le due donne architettarono uno stratagemma di soluzione: tramite il marito di Zanze che era Navigatore e Mercante-Agente di un altro Nobilissimo Veneziano nelle terre di Levante si sarebbero procurate in necessario per architettate un’insolita vendetta.

Trascorse quasi un anno da quell’incontro e dai tempi di quell’improvvido licenziamento, e giunse a Venezia: “la giusta punizione di tanti millantate umiliazioni”, ossia quel che voleva essere la vendetta orchestrata dalle due donne.
“Questo vasetto di terracotta è antichissimo e davvero speciale.” esordì Zanze di fronte alla “massera” più che mai sorpresa ma con ancora dentro la gran voglia di rifarsi nei confronti di quel Nobile malefico e irriconoscente. Quel ricordo e quel nome le rodevano dentro infinitamente al solo pensarli e nominarli tanta era la rabbia che covava nei suoi riguardi.

“Questa che mi ha procurato mio marito dal Levante è una Coppa dei Demoni”, proseguì Zanze, “proviene da oltre i Deserti, una trappola che imprigiona dentro un essere Maligno”.

La povera massera sedutale di fronte rabbrivì e tremò tutta per lo spavento.

“Un incantesimo ha rinchiuso qui dentro uno spirito terribile che brama soltanto d’uscire fuori per disperdere ovunque la sua nefanda potenza ... Guarda che non scherzo affatto: questo vasetto contiene un’entità per davvero pestilenziale.”

La domestica diventata ormai Pizzocchera senza un mestiere deglutì dentro alla bocca senza riuscire a proferire una sola parola. Era confusa e anche parecchio intimorita.

“Come puoi vedere, tutto intorno a questo vasetto c’è dipinta una collana di piccoli Demoni intrecciati insieme al nome dello spiritello che sta imprigionato: guai a evocarlo e chiamarlo ! … Il nome è dipinto solo per non essere pronunciato impunemente … Prendilo ! … Tienilo nelle mani.” disse la bottegaia verso la massera che a malincuore accolse tremula nel palmo unito delle mani il piccolo vasetto decorato.

“Il nome del Demone è scritto in Aramaico, Mandaico e Siriaco … ma il significato è sempre lo stesso … Questo vasetto sarà capace di far scaturire una magia aggressiva e deleteria, una profonda maledizione contro colui verso il quale lo vorrai indirizzare … Questo vasetto ne racchiude un altro di più piccolo tenuto chiuso dentro da una particolare resina adesiva e sigillata … Lo Spirito Malvagio è stato catturato con particolare esche d’uovo e frammenti d’umani morti …”

“Un fantasma ?” borbottò appena la Pizzochera.

“Peggio amica mia, questo è uno Spirito represso che desidera soltanto d’infestare la vita e la casa di tutti coloro contro i quali sarà scatenato … Stai attenta ! … perché se per caso lo rompi fuori luogo potranno accadere ovunque cose nefaste se non tragiche … Finchè lo Spirito sta richiuso dentro è trattenuto a sufficienza da un incantesimo protettivo che è stato inserito dentro alla coppetta esterna … Una volta che verrà rotta lo Spirito sarà libero d’andare ed espandersi senza che nessuno possa più trattenerlo … Leggi qui su questo foglio … Mio marito durante il viaggio ha tradotto e trascritto le parole dell’incantesimo racchiuse dentro a questo vasetto strepitoso e pericoloso.”

La Pizzocchera prese con una delle mani una piccola pergamena consunta di poco valore, e srotolandola lesse da una calligrafia nervosa scritta probabilmente in fretta: “Il Malefico fa sviare il cuore degli uomini, appare loro nei sogni notturni e nelle visioni diurne, arde e infiamma con gli incubi, attacca e uccide gli infanti maschi e femmine. Questa forza potente è qui vinta e sigillata lontana dalla sua casa di Malizia, costretta dentro dal grande principe della Guarigione Misericordiosa capace di vincere ogni magia e potente incantesimo. Sia confusa, legata nelle mani, e bandita dal Cielo e dalla Terra, da ogni Costellazione e da tutte le Stelle, e ogni Fattucchiera, Strega e Incantatrice che voglia e osi ridare vita e respiro a questo Spirito sia Maledetta ! Amen.”

La donna con un gesto istintivo di ripulsa ripose sul tavolo la pergamena e il piccolo vaso come se le avessero scottato le mani … e senza proferire parola indietreggiò verso la porta della bottega scuotendo la testa in segno di diniego.

“Non è la vendetta che volevi ?” chiese Zanze divenuta serissima.

“Sì … ma non forse fino a questo punto…” balbettò di nuovo l’altra donna sottovoce e incerta.

“Sta a te scegliere a questo punto.” Concluse Zanze. “Il vasetto è qui davanti a te ... Tua è la scelta.”

Alla fine la Pizzocchera pallida uscì dalla bassa volta sotto ai Portici di Rialto col suo fagottino stretto fra le mani come fosse un oggetto preziosissimo. Aveva il volto stralunato, i capelli sciolti e scarmigliati sulle spalle, e la fronte sudata ... Passò ancora qualche giorno in cui più di qualcuno vide la donna entrare e uscire più volte nella stessa giornata dalla vicina chiesa di Santo Stefano in preda a chissà quali pensieri misteriosi.

Poi venne il giorno … e la donna tornò al palazzo del suo antico padrone. Bussato al portone ottenne d’essere introdotta finalmente alla sua presenza. Il Nobile non immaginava affatto quanto stava per capitargli, e preso da chissà quale vago rimorso accettò d’incontrarsi con la donna. L’incontro fu brevissimo, durò solo pochi minuti.
Si guardarono in faccia rimanendo vicini all’entrata del grande salone principale del piano superiore del palazzo. La donna era salita su per lo scalone illuminato, ed emersa sul pianerottolo smunta e dimagrita, vestita miseramente di scuro. Non sembrava quasi neanche più lei … Il Nobile la squadrò perplesso da cima a fondo, poi dall’alto del suo sussiegoso prestigio lasciò che fosse lei la prima a dimostrarsi bisognosa di proferire parola, scuse, saluti, o quel che fosse. Rimase lì in attesa.
La donna non disse nulla, lo fissò soltanto con insistenza negli occhi. Poi con un gesto disinvolto quanto veloce, estrasse da sotto la veste il suo vasetto dipinto, e con una manata secca lo scaraventò sul terrazzo colorato della sala.
“Che tu sia maledetto !” gridò al Nobile sorpreso e intimorito per quel gesto inconsulto e misterioso.  “Sarà questa la quietanza per i tuoi tristi misfatti” aggiunse con voce tremula la donna, che detto questo s’alzò sopra la testa lo scialle, volse le spalle e scese zoccolando giù per lo scalone deserto.

Il Nobile rimase immobile, pietrificato sul posto senza proferire parola e senza muovere neanche un muscolo. Osservò a lungo in silenzio quei frammenti frantumati per terra che s’erano sparsi attorno a un mucchietto secco di polvere … Poi regnò il silenzio totale.

Passato qualche istante, il Nobile trasalì e si riebbe. Provò a far fuggire uno strano presentimento, poi provò anche a sorridere di tutta quella strana faccenda senza però riuscirci affatto: “Una maledizione è una maledizione !” pensò,“ anche se lanciata da quella vecchia ormai diventata cenciosa e forse pazza.”

E passò del tempo … diverso tempo, forse alcuni anni.

Lascio ora a voi farvi un’opinione sul resto della storia.

La famiglia del Nobile nei tempi seguenti venne colpita da ulteriore disgrazia economica: il Mercante vide sfiorire del tutto i suoi affari oltremare. La guerra aveva fermato le Carovane che rifornivano i Veneziani di Aleppo. Anche se i magazzini erano pieni di merce non potevano essere caricate le Galee dei Veneziani perché non potevano più avvicinarsi ed entrare nei porti della Siria.

Inoltre la figlia maggiore del Nobile principiò a litigare a lungo con la Badessa del suo Monastero, e arrivò a tanto che venne cacciata via e costretta a trovare rifugio e ospitalità in un Monastero di terza classe situato oltre la Laguna nell’isola di Mazzorbo… Fu un disonore per il nome della famiglia, così come lo fu altrettanto il fatto che il secondogenito maschio finì irretito da brutte compagnie e coinvolto in grosse perdite di gioco. La famiglia si trovò indebitata per somme spropositate, e il padre per non soffocare del tutto nella vergogna e nella miseria si vide costretto a cacciare il figlio dalla sua dimora e farlo fuggire in gran segreto fuori e oltre i confini della Serenissima ... Non migliore sorte ebbe il resto della famiglia: nel breve arco di una decina d’anni venne a mancare dalla vita un altro dei figli colto da “mal venereo potente” che in breve lo portò a morte con grandi febbri e mancanza di respiro totale. Di pena diversa morì a seguire la sua Signora, la Madre, forse per deliquio e malincuore per il male misterioso e la sfortuna che stava attanagliando l’intera sua famiglia.

Perciò il Nobile oltre che in ristrettezze economiche si ritrovò anche colto da vedovanza. Ma quel che è peggio, la giovane domestica che aveva preferito alla vecchia diventata Pizzocchera s’ammalò a sua volta “di mal franzòso” (qualcuno disse perché frequentava anche il giovane figlio del Nobile deceduto di quello stesso male)… di cose su quella famiglia se ne vociferavano davvero tante e le più curiose. La giovane amante da bella e formosa che era s’era abbruttita non poco a causa della malattia, ma quel che fu peggio fu che perse anche il senno iniziando a dar di continuo strepito e ira vivendo furibonda dentro alle mura del palazzo. Provò nottetempo anche a uccidere l’uomo, e il Nobile decaduto e in rovina giunse alla disperazione quando la donna in preda a una delle sue crisi visionarie appiccò il fuoco a gran parte del palazzo dicendo d’essere inseguita da un fantasma.

Alla fine il Nobile non trovò altra soluzione per salvare le sue cose e la sua incolumità che “ridurre” la donna presso le Monache di un Monastero di Mazzorbo dove costei andò a finire i suoi giorni in ristrettezza, grande sofferenza e molte angosce: finchè morì anche lei.

Furono gli effetti della maledizione, dello Spirito Maligno liberato dal vasetto ? Oppure furono solo coincidenze storiche, casualità o prodotti del caso, destino o effetti della congiunzione delle Stelle ?

Chissà ? Nessuno mai seppe né osò dare una coerente e logica spiegazione ai fatti.

Giunti a tal punto, la donna Pizzocchera che in fondo aveva sempre continuato ad aver a cuore le sorti di quella famiglia, si pentì a fondo di quanto aveva fatto scatenando quel suo “Folle Demone”. Ma era tardi, perché nel frattempo anche Zanze era morta di vecchiaia, e il marito Mercante aveva chiuso bottega a Venezia ritornandosene ai suoi paesi desertici e Orientali.

La Pizzocchera non sapeva più nè che fare né a chi rivolgersi, finchè un giorno, parola dopo parola, consiglio dopo consiglio, approccio dopo approccio, riuscì finalmente a contattare: “un giovin Prete della Contrada di Sant’Aponal ch’era gran intenditore di Magia, Sortilegi, Astri ed Esorcismi …”

L’uomo di Chiesa mezzo arruffato la ricevette in un suo bugigattolo in cui viveva dietro alla chiesa. Sembrava una spelonca di ladri tutta ricoperta di talismani, libri, carte, scritte e oggetti proibiti sparsi ovunque. Sui muri stavano disegnati dei grandi segni incomprensibili, e sotto a una lunga serie di lettere mai viste, la donna riconobbe: “… i segni del Sole, della Luna, de Pianeti e Astri, della Cometa Nera e delle Grandi Stelle del Mattino e della Sera mescolate ai Segni Zodiacali dei Mesi e a tanti altri segni mistreriosi oltre che paurosi ...”

La donna provò in quel momento un brivido simile a quello che provò quel giorno nella bottega di Zanze. Quell’uomo non sembrava affatto un Prete e un uomo timorato di Dio. Sembrava piuttosto: “un’Anima in pena, uno stregone, un senza Dio che aveva traviato e perso la retta e onesta via del vivere”.

“Non abbia timore Piissima ... Risolveremo con un colpo di luce tutta questa nebulosa e satanica faccenda.” Spiegò il Prete alla donna intimorita mostrandole un sorriso giallastro e rassicurante dopo aver attentamente ascoltato tutta la sua storia. 

“Dovrà soltanto scegliere qualcuno intimo della famiglia che dovrà sullo stesso luogo in cui a suo tempo è stato infranto e liberato lo Spirito Malvagio, recitare questo controincantesimo … Non abbia timore … Vedrà che funzionerà.”

La donna contritissima e amareggiata per tutto quanto era accaduto secondo lei anche per sua colpa, pagò profumatamente al Prete la contromisura valida ad assopire e avvilire lo Spirito Demoniaco. Offrì al Prete di celebrare “30 Messe per chètare lo Spirito” ossia gli offrì 15 ducati, cioè tutte le risorse che possedeva. Soddisfatto il Prete le consegnò le sue pagine che contenevano questo scongiuro recitato tre giorni dopo sulla porta del salone di palazzo dalla figlia minore del Nobile decaduto ignaro di tutto.

La “Piccolina”, ossia la figlia minore del Nobile era sempre stata “la coccola” ossia la preferita dell’antica massera-domestica. Chissà perché a quella giovane era stato risparmiato ogni fastidio ... Convinta da una visita frettolosa e furtiva della vecchia, la giovane donna si recò un mattino all’alba nel salone, e col volto rivolto al muro dell’entrata, dando rigorosamente le spalle al grande Crocifisso che occupava la parete di fronte, buttò del sale per terra sciorinando una fettuccia in aria come un serpente, poi lesse dal foglio le parole che il Prete le aveva inviato:
“Nel Nome del Signore della Salvezza, si allontani la malvagità di Lilith da questa casa … S’allontani ogni spirito maschio e femmina … Colui che afferra, frana, brama e geme … Allontanatevi tutti: uno, due, tre, quanti siate … Nudi siate scacciati e dispersi … Andatevene da questa casa ! …  Io Dio di tutti i Padri lancio dal Cielo un bando contro tutti voi ! …  Una condanna e ammonimento, un distacco che scende dal Cielo, sale dal Mare e giunge da ogni angolo della Terra … Udite e fuggite da questa casa ! Non vi appartiene più ! … Uscite nella notte e assopitevi di nuovo nel sonno eterno: perché IO UNO e TRINO vi spengo e sigillo in alto dentro la memoria senza fine del Tempo ... Contro di voi scateno col fuoco gli Abitatori delle Stelle, delle Sfere del Cielo, e i Guardiani del Grande Trono. Alleluiah ! … Amen.”

Che cosa sarà successo in seguito ? Non si sa bene con certezza.

La vecchia tornò al suo romitaggio devoto perdendosi nel niente anonimo della Storia di Venezia. La giovane figlia finì col sposare il Nobile figlio di un potente Senatore della Serenissima … La figlia Monaca divenne Badessa nel suo Monastero di Mazzorbo ... Il figlio maggiore riuscì finalmente a perpetuare la stirpe del Casato avendo un figlio maschio dal suo matrimonio fino ad allora rimasto infruttuoso … il vecchio Mercante Nobile sfortunato e andato in rovina uscì dal suo travaglio economico ricevendo finalmente i suoi beni rimasti obbligati oltremare. Fu un vero ribaltamento delle sorti di quella famiglia.

Fu un altro caso ? Forse sì … ma forse no ... forse chissà.

Di certo questa è un’altra delle infinite storie e aneddoti che affollano la Storia della nostra Serenissima: un'altra pagliuzza tratta da un pagliaio senza fine in cui credo non finiremo mai di curiosare ed esplorare.

Occhio ai vasetti strani però ! … Non spezzateli … Non si sa mai ... Ve lo raccomando !




“UN PAIO DI FLASH SUI CARMINI DEL 1600 … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 122.

“UN PAIO DI FLASH SUI CARMINI DEL 1600 … A VENEZIA.”

Tra le mille e mille cose che si possono ricordare, dire e scrivere su Venezia e dintorni: propongo stavolta due flash sui Carmini ossia sul chiesone Monastero dei Carmelitani Calzati di Santa Maria del Carmelo o dell’Assuntanella popolosissima e animatissima Contrada Veneziana di Santa Margherita nel Sestiere di Dorsoduro a Venezia … ossia in quelli che sono stati “i miei Carmini”(tutti sapete ormai a che cosa mi riferisco). 

Sono solo due flash significativi, due piccolissimi episodi che non avevo mai avuto modo di scoprire. In se non valgono moltissimo, però sono curiosi e riportano un piccolo spiraglio-spaccato su quell’epoca ormai lontanissima. Voglio dire, insomma, che ai Carmini è successo anche questo assieme a tutto il resto di brutto e bello che ha caratterizza l’ormai più che millenaria Storia di quello spicchio di Venezia a me così familiare.

Le due testimonianza vanno collocate a breve distanza di tempo, anzi, sono quasi contemporanee, e raccontano di un’epoca storica dei Carmini durante la quale: mentre si seppelliva in chiesa Lorenzo Loretto Carmelitano e Vescovo di Adria, “Teologo sommo al Concilio di Trento” ... e si commissionava (forse al pittore Leonardo Corona) la pala dell’altare dopo la porta della Sacrestia con l’“Addolorata con gli Angeli” (nuova devozione diffusasi nell’Ordine Carmelitano in quegli anni) ... e “l’altare del Crocefisso reso prezioso da pietre preziose trasparenti  a forma di specchio …” come racconta lo Stringa … “e l’altare della Schola con la pala del Paci” … e s’inaugurava anche il Sovegno di San Liberale Vescovo Pugliese con altare proprio a sinistra della porta d’ingresso con la pala di  “San Liberal benedicente” eseguito da Andrea Vicentino … ebbene, proprio in quegli anni: (ecco la prima notiziola dell’aprile 1624)“… un Prete ovverossia Padre dei Carmini vendeva in giro per Venezia stravaganti Libri Proibiti fra cui l’Alcorano (***il Corano), e altri Libri di Negromanzia, Geomanzia e Chiromanzia pieni di pentacoli, bollettini e scritte eretiche di malia...”

Come sapete certi Libri erano rigorosamente perseguiti e cacciati e ricercati dall’Inquisizione di Venezia perché considerati dannosissimi per la Religione e per il sapere dei credenti. Sembra quindi che proprio coloro che avrebbero dovuto essere d’esempio e dimostrare particolare attenzione a difesa della “Vera Scienza, della Dottrina e delle Cose Sante della Chiesa” non lo fossero propriamente del tutto, ma anzi, siano stati proprio loro veicoli e propositori in negativo di quel commercio improprio così redditizio oltre che confusionario e forse deleterio per i Credenti Veneziani di ogni sorta e ceto.

Il secondo scenario, infatti, conferma quella strana situazione, e narra ancora di più. Alcune testimonianze raccolte dentro ai documenti di un processo dell’Inquisizione di Venezia del 1642 rivelano di riflesso che: “… c’era ai Carmini tale Pietro di Vespa Carmelitano, Cittadino Veneto, e titolato come Arcivescovo di Pafo, che faceva scurir la chiesa, e levato il lume faceva comparir una stella con una corda lunga in forma di cornetta, e tirava uno spago, e la faceva muovere … tutti cridavano: Misericordia … e correvano a fiumi le elemosine …”

Tutto qua … Come vi ho annunciato sono solo due flash veloci e curiosi, niente di più, ai quali non c’è molto da aggiungere e da commentare: due piccoli episodi storici che in un certo senso parlano e si commentano da se.

Venezia alla fine del 1500 e nella prima metà del 1600 (erano i tempi della grande Peste del Redentore e della Salute per intenderci)era insomma un enorme calderone, un miscuglio incredibile di potente Fede e Devozione ma anche di controverso e incoerente attaccamento del popolo, del Clero e degli uomini e donne di Religione a quel che era tutto il mondo del magico, dell’astrologico, della cabala e dei numeri, all’esoterico e profetico, all’esorcistico e Diabolico … con tutto ciò che d’economico ruotava intorno.

Voglio dire che ieri come oggi, tanta gente di Religione dietro la facciata ufficiale del ruolo si dava e da un gran da fare semplicemente: “… per tirare a campàre in qualche maniera a prescindere e in barba al Padre Eterno, ai Dogmi e ai veri Princìpi della Religione …” come riassume uno storico in modo efficace.


Niente di nuovo quindi … La Storia si ripete … Così è sempre andato il mondo degli uomini in ogni epoca senza smentirsi mai … Anche nella Venezia di ieri … curiosamente.

“BURANESI CONTRO MURANELLI … 1:1.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 123.

“BURANESI CONTRO MURANELLI … 1:1.”

Lo so bene che è sbagliatissimo dire così … anzi, lo sanno tutti che si dice precisamente: Buranelli e Muranesi… ma perché questo modo diverso di chiamarsi pur essendo isole pressappoco vicine a poche remate di distanza ?

Buranelli e Muranesi, e non Buranesi-Muranesi o Buranelli-Muranelli non è un caso.

La spiegazione è ovvia e per noi Veneziani quasi banale: c’è sempre stata una notevole contrapposizione secolare e un significativo antagonismo campanilistico fra le due popolazioni isolane ugualmente Veneziane fino al midollo.
Questo io lo so più che bene, proprio sulla mia pelle, perché sono Buranello d’origine e di sangue al 100 %.

Erga … non sono affatto Muranese  ! (per fortuna … ma sto solo scherzando.) !

Al di là degli sfottò storici, le stupende isole di Burano e Murano, come ben sapete, sono un paio d’“isole oltre le isole” del più famoso e compatto grumo insulare del superbo arcipelago Veneziano. Soprattutto Buranocome Mazzorboe Torcellosi trovano al di là e in fondo alla Laguna, come un’ulteriorità preziosa, un  bijoux nascosto riservato a pochi intenditori ed eletti (almeno così era un tempo).

“Speremo che bonàssa!” mi diceva un’anziana Buranella in carrozzina l’altro giorno in ospedale mentre osservava fuori la pioggia che scrosciava … “A Buràn scravassa ! … Vero paesàn ? … Ti te ricordi de Buràn vero ?”

“E come dimenticarlo nonna ?” le ho risposto, “Buranèi se resta per sempre !”

E’ stato subito come aprire un rubinetto … e le memorie, e i ricordi della nonnetta si sono sprecati inseguendo una treccia incrociata del Tempo che sarebbe stata capace di dipanarsi per ore, forse per giorni: “Buràn xe sempre Buràn … O mègio posto che ghe sìa !” ha concluso alla fine la donnetta saturata di nostalgia e con gli occhi arrossati.

Quand’ero piccolissimo e vivevo nell’isola di Burano con la mia famiglia, recarsi fino a Venezia era per noi un evento importantissimo. Vi potrà sembrare impossibile, ma per noi era una fatto davvero significatico che accadeva al massimo un paio di volte all’anno. Per l’occasione indossavamo l’unico vestito buono che avevamo, e per me era più che una festa uscire dall’isoletta e raggiungere “la capitale”, quella che consideravo il “caput mundi”, “il meglio del meglio”visto che nella mia testa non c’era altro riferimento che quello. Quella di ritornare a Venezia era un’occasione che sognavo a lungo, anche perché già da allora mi affascinava quel labirintico intrico di calli, corti, campi e strade che nella mia fantasia corrispondeva a un mondo col sapore dei film e di tutte le storie che conoscevo. Venezia per me era il top, il “non plus ultra”, e girovagarci a mano dei miei genitori, entare in qualche negozio, o solo raggiungere Piazza San Marco era il massimo che potevo desiderare. Se poi riuscivo in qualche maniera a portarmi a casa qualcosa: qualche matita colorata, un albun da disegno o un paio di quadernetti … allora era festa nella festa, il massimo della soddisfazione. Nella mia vita d’allora non poteva mancare altro, se non “la cosa” del sogno: ossia prima o poi ruscire a possedere un compasso ! … Sì … Proprio un compasso … simile a quello che andavo ogni giorno ad osservare nella vetrina dell’unica cartoleria della mia isoletta. Allora vivevo così …

Ebbene, in una di quelle preziose volte in cui rientravamo a Burano col mio preziosissimo bottino di un paio di magliette nuove e una scatoletta di “cerette da disegno” coloratissime, improvvisamente il nostro battello che chiamavamo “il Patate” per via del potentissimo motore che sembrava ripetesse all’infinito: “patate ! patate ! … patate ! patate !” si fermò in mezzo alla Laguna strombazzando furiosamente.

“Che succede mamma ?”

Ci precipitammo tutti ai finestrini ad osservare l’arcana sopresa: c’era una serie di barche da pesca di traverso e incrociate fra loro che occupavano del tutto lo spazio di transito del canale. Era impossibile passare e proseguire col battello di linea. Ma quel che era peggio, era che sopra, accanto e a fianco di quelle basse barche da pesca c’era in corso una formidabile zuffa fra pescatori a base di prepotente vociare ma soprattutto di botte da orbi. Se le stavano dando alla grande e di santa ragione … ma proprio tante, come nei film di Cowboy e Far West che andavo a vedere alla domenica al “Cinema dei Preti” di Burano.

Inutile lo strombazzare del vaporetto, quelli continuavano a darsele di brutto, e oltre ai pugni volavano possenti remate da una barca all’altra con gente che finiva fuoribordo e in acqua … denti sputati, teste rotte, e barche sfondate che colavano a picco.  Ricordo come fosse adesso un ispiritato che con un balzo felino è saltato in un'altra barca con una grossa ancora in mano sventrandone il fondo con pochi colpi feroci … A dire la verità, ero estasiato dallo spettacolo, mentre inutilmente la gente che stava a bordo gridava verso i contendenti cercando in qualche modo di ridurli a ragione … e almeno lasciarsi passare.

Niente da fare … Sembravano sordi … così come erano sordi i colpi dei pugni e delle remate che continuavano a fioccare dentro al gruppo di almeno una decina di persone inferocite e scatenate.

Quando Dio volle lo “spettacolo”finì … perché finalmente in lontananza si udì una fievole sirena dei Carabinieri che s’avvicinavano per venire a riportare quiete e ordine. Udita la sirena, gli energumeni si riscossero dal loro battagliare, e in un battibaleno raccolsero il salvabile e si separarono e dispersero dandosi alla fuga e prendendo ciascuno una direzione opposta: Buranelli a nord … Muranesiverso sud.
Quando arrivarono le forze dell’ordine era già tutto concluso: le barche dei pescatori s’erano già allontanate, e  c’era solo qualche rimasuglio che galleggiava pigramente in superficie: un “per de pagiòli” da una parte, un “tràsto” dall’altra, e due tre casselle rotte ... Nessuno aveva visto e capito niente … Alla fine il nostro “Patate” singhiozzando e sbuffando ha ripreso a procedere lentamente in direzione di Burano: lo spettacolo era terminato … Ma che spettacolo ! Non mi era mai capitato d’assistere a una scena del genere.
Come mi spiegarono i miei genitori in seguito, tutto quel parapiglia non era niente di speciale: si trattava dell’ennesimo episodio della rivalità storica che esisteva da sempre fra Buranelli e Muranesi per il controllo degli spazi acquei della Laguna, e se non era per quello era per le zone di caccia e pesca … o per le vendite del pescato, o per qualsiasi altro motivo utile o non utile, vero o non vero per darsele a vicenda.

Tornato a Burano, il giorno seguente sono rimasto non poco sorpreso nell’incontrare fuori della porta dell’Osteria poco distante da casa mia proprio alcuni dei protagonisti di quella grossa baruffa lagunare. Se la stavano dicendo e spiegando insieme a molti altri pescatori e curiosi, e uno aveva l’occhio pesto e la faccia gonfia, un altro portava una grossa benda tutto intorno alla testa, e un altro ancora mostrava a tutti come avesse perso un paio di denti e adesso avesse al loro posto una bella finestra. Fra un brindisi e l’altro, e un: “Evviva ! … Alla Salute !” e “Bravi !”… fu tutto un accalorato raccontare e spiegare … e io me ne stavo nella schiera dei bimbetti seduti per terra tutto intorno intenti a non perdere una sola parola di quei racconti quasi epici.

“I Muranesi ! Sono dei gran figli di … I Muranesi qua … i Muranesi là …” e avanti l’intero pomeriggio con quel ritornello. Fu ovvio che piano piano anche in noi ragazzini si radicò incosapevolmente quell’antagonismo e quella sorta di contrapposizione spontanea.

Se per qualche compera o per qualcos’altro un Muranese approdava in barca e scendeva in Piazza Galuppi a Burano, inevitabilmente da entrambe le parti partivano autentici quanto bellicosi sfottò da stadio.

“Vèdi Buran … col campanìl storto ... Noi abbiamo, invece, una Basilica bellissima, antica, piena di bei mosaici ... Voi un casselòtto de cièsa cadente …”

“Sì ma avete una Madonna sul mosaico che sembra aver preso il sonno …”

“Buranèi: Pìssa in acqua !”

“Muranesi: campagnoli ! … Vèri rotti e biccièri sbeccài … morti de fame ... Neanche boni a cusinàrve i Bussolai de Pasqua ... Ve tocca venìr fin qua da noaltri per comprarli e cusinarli … Savè far solo bussolài de legno …”

Non ce le mandavamo a dire. Era un continuò darle e prenderle senza fine … Ogni occasione era buona per contrapporsi e provocare… A quei tempi era rarissimo trovare nell’isola chi vendesse vetri di Murano, così come da loro si disprezzavano i famosi Pizzi, i Merletti di Burano ... Poi dentro alle case era tutto diverso, perché fra le poche “robe bone e de sèsto messe in mostra” sull’unico mobile buono della famiglia il più delle volte si ostentava qualche bel pezzo di vetro di Murano a Burano e qualche tovaglia di pizzo o centrotavola in merletto a Murano.
Ufficialmente però ognuno dichiarava “paccottiglia e lavori modesti”i prodotti dell’altro ... Era proprio un’avversione forte, un senso di ripulsa e accanimento incontenibile.

A Burano c’erano le casette basse coloratissime e linde anche se miserrime: “Sono le casette dei sette nani delle fiabe” dicevano i Muranesi … Murano, invece, aveva case insignificanti, grezze e anonime: “Case insipide coi cessi in orto ... palafitte da campagnoli primitivi e cavernicoli.” chiosavano ridendo i Buranelli.
In realtà Murano è stata per secoli il “Giardino delle Delizie” per i Nobili Veneziani che usavano l’isola come loro dependance di lusso. Murano a pochi passi da Venezia è sempre stata isola d’evasione, feste e musica, luogo d’incontri e prestigiosi Casini dove sfoggiar cultura e letteratura … oltre che palazzi e ritrovi dove lasciar sfogare eccessi e ogni tipo di divertimento. Come non ricordare i famosi Casini Muranesi deiMorosini, dei Giustinian, Pisani, Grimani

E poi, come se non bastasse, si mettevano anche i vecchi con le loro fole fantasiose e risentite a cavallo fra leggendario e fantastico. Mi diceva mio nonno durante le nostre passeggiate pomeridiane in giro per Burano e fino a Mazzorbo: “Sono stati i Muranesi di notte con delle corde a provare a tirare giù il nostro campanile di Burano … Ma non ci sono riusciti … Sono stati capaci solo di “storgerlo” da una parte … poi sono stati messi in fuga dai Buranelli … e il campanile è rimasto così …I Muranesi sono spaventapasseri ! … Non i ghe ne imbròcca una !”insiteva il nonno col mozzicone di sigaro toscano puzzolente all’angolo della bocca, “Non i xe stài neanche capaci de tiràr sòso el campanièl !”e io sorridevo divertito e risentito per quella bravata non riuscita ai Muranesi, e orgoglioso perché i Buranelli di un tempo erano riusciti a metterli in fuga.

Che l’antagonismo fosse diventato leggendario lungo i secoli a Burano non c’era alcun dubbio: ogni anno all’inizio dell’estate si estendeva per ore la grande “Processione dei Tre Santi Patroni” che calamitava attenzione, consenso e gente da ogni parte della Lagune. Erano giorni di gran festa solenne, e alla fine del triduo preparatorio l’immensa Processione Acquea e Terrestre attraversava con grande concorso di popolo, musica, canti, addobbi ed esultanza tutte le piccole e coloratissime contrade dell’isola nonché tutti gli specchi d’acqua circostanti Burano con pompa magna ... e altrettanta invidia di chi ... come i Muranesi, non aveva dalla sua parte “Sant’Alban, San Domenego e Sant’Orso”.

“Sant’Alban: brasso de pègoa !” esclamano invidiosi i Muranesi.

I Buranelli non si scomponevano affatto perché un tempo quel braccio dorato di Sant’Alban con dentro l’osso del Santo che veniva portato ogni anno in processione, era stato anche capace di dare sostegno e sostentamento agli isolani messi in difficoltà dalla carestia e dalla pestilenza. Durante il 1700, infatti, il Piovan de San Martin Bortolo Michielvendette il braccio dorato delle Reliquia di Sant’Alban sostituendolo con un altro di rame dorato distribuendo ai miseri dell’isola il ricavato … e di questo i Buranelli andavano fieri: altro che “brasso de pègola ! …E’ stato il brasso de la Provvidenza !”

E già che c’erano, i Buranelli rincaravano la dose sfottendo i Muranesi per l’abbondanza che Sant’Alban sapeva riversare sull’isola di Burano, tanto che c’era addirittura in San Martin un “bottazzo miracoloso di Sant’Alban” capace di rifornire di vino ininterrottamente l’intera isola … I Muranesi crepavano d’invidia per questo fatto, perciò nottetempo andarono a Burano e rubarono il famoso “bottazzo miracoloso” portandoselo a Murano. Figurarsi i Buranelli ! Fu guerra aperta.

Giunto però nell’isola, fuori dal suo “magico contesto Buranello”, il “bottazzo” s’iniradì e non produsse più niente, neanche un goccio di vino … I Buranelli perciò se la risero …  e tira e molla, e molla e para, le liti fra Buranelli e Muranesi per il “bottazzo” continuarono senza fine assommate a rimostranze, vendette, botte e baruffe … finchè il Podestà di Murano Carlo Querinimise fine nel 1543 a tutta quella sarabanda facendo infiggere in parete accanto al soffitto di Santa Maria e Donato di Murano il famoso “bottazzo della discordia”.

“Che provassero stavolta i Buranelli a ritornare a prenderselo !” e questo mise fine al grande accanimento e alla grande discordia ... e non ci fu più vino gratuito per tutti. Andate a Murano in San Donato, e guardate la parete della navata centrale in alto a sinistra verso soffitto: il “bottazzo di Sant’Alban” è ancora là … rinsecchito e asciutto ovviamente … perché a Murano che miracoli vuoi che accadano ?

Il padrone e proprietario della casupola in cui ho vissuto in affitto la mia infanzia a Burano era un Muranese … il che guastava non poco nella mia mente per più di un motivo: primo perché non era tenerissimo con la mia famiglia che era notoriamente con le tasche vuote, secondo perché non si decideva mai a darci il permesso di costruirci il gabinetto con l’acqua corrente in casa, cosa di cui non potevamo ancora usufruire a differenza di molte altre famiglie dell’isola.

“Gli affari sono affari” ripeteva sempre …“Accontentatevi ! … Voi pagate poco, io concedo poco ... Volete di più ? … Pagate di più !” e se ne andava sempre via sorridendo col cappello sghembo sopra la sua testa pelata, e lasciandoci sempre così com’eravamo: senza camino per cucinare, senza acqua corrente per bere e lavarci, e con i “boccali da notte sotto al letto”.

“Maledetto strozzino !” commentava la mamma fra i denti quando si chiudeva la porta dietro al padrone, “Chissà che ti te pìssi dòsso !”aggiungeva sorridendo fiduciosa lo stesso.

Anche crescendo fra noi ragazzi e con i miei amici, gli sfottò e le contrapposizioni con quelli di Murano erano fortissime, irrinunciabili, quasi obbligatorie. Ogni tanto, essendo la nostra Scuola Media sezione staccata di quella di Murano, si organizzavano incroci-incontri per familiarizzare e condividere i percorsi scolastici delle due “Scuole Gemelle”… In poche parole si facevano delle belle partite a Calcio che inevitabilmente finivano sempre per essere “partite a calci” con qualche bella rissa, grosse menate, improperi, canzonature e minacce d’ogni sorta.

Quando andava bene, ci si accontentava di provocazioni benevole: “Vi hanno cacciato via da Venezia come i conciapelle puzzolenti relegati alla Giudecca perché con le vostre fornaci davate fuoco in continuità a tutta la città Serenissima…”

“I nostri vetri ce li apprezzano e comprano in tutto il mondo ! … voi avete solo quattro merletti di spago.”

“Noi abbiamo anche Baldassare Galuppi: uno dei più bravi musicisti della Venezia del  1700 !”

“Eh ! Che vuoi che sia ? Sarà stato un pifferaio … uno zampognaro … Noi abbiamo l’Abate Zanetti!”

“E chi xèo sto Abate ? Qualche fratòn ignorante con la pànza grossa … che va zavatàndo in giro per le fornàse ?”

“Voi Buranelli xe peociòsi !”

“E voàltri avè sempre la spocchia da primi della classe … la spùssa sotto al nàso (ossia siete sbruffoni, pieni di se)”.

E si andava avanti così, con questo continuo “darsèla e tòrsela” che non aveva mai fine e si riaccendeva ad ogni occasione in cui ci si incontrava. In verità Burano aveva più che mai bisogno di Murano, e i Muranesi lo sapevano bene. Cambiando i tempi non si poteva più vivere solo pescando in Laguna e per Mare, perciò buona parte dei Buranelli e delle Buranelle sono finiti per vite intere a lavorare nelle fornaci, nelle conterie, nelle molerie, specchierie e fabbriche di Murano … ed è stata una fortuna !

Inutile non dire che come in tutte le storie del lavoro e delle fabbriche anche a Murano accaddero sfruttamenti, restrizioni, angherie e sopprusi insieme a rivendicazioni, lotte e aspre contestazioni a volte anche violente oltre che dolorose per le magre economie familiari. Non si deve tacere che più di qualche volta soprattutto le donne sono state strapazzate nel crudo e pesante lavoro delle fornaci del famoso Vetro, sono accadute diverse storiacce: fattacci, licenziamenti immeritati e gratuti, ristrettezze, violenze fisiche, liti, e anche di peggio …

Accanto alle fatiche del lavoro, c’erano poi i normali drammi e le grandi e piccole contrapposizioni tipiche delle isole. Da sempre i Muranesi erano “frèga (ruba) morose”… il che aizzava non poco i giovani Buranelli spesso aitanti e bellocci ma dalle tasche bucate … i Muranesi, invece, erano spesso più ben messi e impomatati, e col portafoglio più gonfio.
Ed erano anche baruffe e tirate di capelli fra donne …

Difficilmente una Buranella sposava un Muranese rimanendo ad abitare ancora nell’isola di Burano: sarebbe stata “presa de mìra e da stòrne” per tutta la vita. Sposare un Muranese lo si considerava comunemente come una specie di tradimento … e un piccolo disonore. Perciò era preferibile per quieto vivere che l’interessata andasse ad abitare a Murano, oppure a Venezia.

“A se ghà ridòta a sposàr uno da Muràn … Poarètta !”

“Quando la spùssa monta in scagno …” si dicevano fra loro le donne “accalorate e sempre bellicose”.

“So scorossà da tanti anni con me sorèa” mi diceva sempre l’Antonietta che abitava poco distante da casa mia, “perché la gha sposà un Muranese”.

Alcune delle mie giovani e belle cugine molto più grandi di me che avevano lavorato a più riprese a Murano mi dicevano spesso ridendo:  “I Muranesi xè càga alto !” erano perfide, tremende, e io ci cascavo in continuità nel loro giochetto: “Le donne di Muran sono tutte brutte, sembrano strighe con i capelli per aria … Hanno le gambe storte, il culo grosso, sono piatte e senza tette, e con gli occhi storti … Infatti non possono portare neanche le scarpe a spillo perché hanno sempre i piedi gonfi dentro alle ciabatte larghe…”

Insomma un monumento alla bruttezza: e io prendevo per buona quella classificazine, tanto che quando rimanevo a lungo seduto sul gradino di casa a osservare le barche dei turisti che passavano dentro al canale, osservavo le donne e dicevo a me stesso: “Questa è carina: è Veneziana !”… quella è brutta, un cesso: “E’ Muranese !”

“Quella è tonda, grossa e paffuta ? … E’ Pellestrinotta !” classificavo.

“Guarda quella con la coda dietro … sopra alla barca piccola ! … è sfàtta e stònfa.” diceva mio fratello divertito.

Io decretavo puntualmente: “E’ una Muranese !”

“Pure l’altra !”

“Muranese anche quella !” e così via in un gioco fantasioso e divertente senza fine che a volte riempiva interi pomeriggi.

Diventato più grandicello, ricordo un episodio. Una volta si è presentata nell’Archivio di Casa-Canonica della Parrocchiale unica di San Martin (che io praticavo giorno e notte con i miei amici in un divertimento curiosissimo senza fine), una giovane studiosa Muranese simpatica e carina. Doveva far delle ricerche d’Archivio per la sua tesi di laurea.

“Qui non c’è nulla in cui cercare!” l’apostrofò severo l’anziano aiutante-custode-Archivista della Parrocchia.

“Ma come ?” gli diedi di gomito trovandomi accanto.

“No … Siamo spiacenti non è rimasto più niente … E’ andato tutto bruciato con l’incendio dell’Archivio …” continuò a spiegare gentilmente e con grande sussiego.

“Ma quale incendio ? … Il Piovan mi ha mostrato tante volte le carte antiche del 1400 e 1500, le pergamene preziose da non toccare perché sono troppo fragili e antichissime.” continuai a sussurragli all’orecchio indispettito oltre che sorpreso … Non capivo quella strana bugia.

“Sta zitto, insomma !” mi spiegò poco dopo, “Non capisci niente … Non vorrai mica che i Muranesi si facciano belli alle nostre spalle venendo a cercare dentro alle nostre carte ?  … Questa qui è una Muranese … Che vada allora a cercare a Murano !” e la mise per davvero alla porta a mani vuote … però con un bel sorriso cordiale.

Una cosa invidiavo ai Muranesi: il loro possente faro bianco a strisce nere. Ogni volta che ci passavo di sotto rimanevo ammaliato da quella torre altissima, e di notte mi affascinava sempre osservare nel buio della Laguna quella luce che s’accendeva e spegneva indirizzando i naviganti e orientando le navi che entravano nel Porto di Venezia. Mi sarebbe tanto piaciuto che quel faro così utile fosse stato impiantato a Burano dove i pescatori Buranelli erano stati costretti a dipingere a colori vivissimi le loro case per poterle distinguere dentro alle fitte nebbie della Laguna.

Ogni anno alla fine della stagione estiva c’era la Regata di Burano che chiudeva la stagione delle competizioni remiere ufficiali di Venezia. La Regata di Burano era ed è ancora oggi prestigiosissima e molto sentita per diversi motivi: primo perché è sempre stata considerata la rivincita della famosissima Regata Storica nel Canal Grande di Venezia che si tiene di solito pochi giorni prima. Secondo perché era lo scenario ideale per realizzare l’ennesima contrapposizione fra Buranelli, Muranesi, Ciosòtti, Castellani, Pellestrinotti,Sant’Erasmini e chi più ne ha più ne metta ... C’era sempre nell’aria quella rivalità senza fine, e anche la Regata era un’altra occasione per far festa alle spalle degli altri, oltre che per far baldoria, sfottersi ed eventualmente azzuffarsi in allegria.

La Regata di Burano comunque è sempre stata uno spettacolo stupendo di colori, intensa partecipazione, allegria e festa, e la competizione è stata sempre accompagnata sulle rive e sulle barche con grandissimo entusiasmo sia dei Buranelli che dagli altri isolani e Veneziani ... compresi i Muranesi che di solito sono sempre: “Mùso duro e barèta fraccà.”… ossia spesso seriosi … oltre che permalosi e suscettibili.

Sempre in autunno a Burano si organizzava ogni anno anche la Festa del Rosario diventata poi Festa dei Ragazzi. Era un’altra occasione stupenda di festa tanto che il suo bel ricordo mi è rimasto radicato e cicatrizzato per sempre nella mente. Non dimenticherò mai lo stupendo contorno che ogni anno animava l’isola in quella occazione: la piazza e le case venivano addobbate a festa, si stendevano tutto intorno reti e cogòli da pesca come fossero allegri festoni, nella piazzetta si cucina da mattina a sera “polenta e pesce” su dei calderoni stupendi e fumosissimi posti accanto alle cataste di legna e sopra a dei fuochi crepitanti … Rimanevo lì per ore a godermi lo spettacolo … L’isola intera s’affumicata e diventava odorosa di pesce arrosto e fritto e di legna bruciata … e perfino durante la Messa nella chiesa vicina c’era sparso nell’aria il profumo appetitoso di pesce cotto al posto dell’incenso … Sembrava che qualcuno stesse cucinando miracolosi “pani e pesci” dietro a qualche colonna o su qualche altare della chiesa.

Burano in quei giorni era davvero festosa, bellissima … Uno spettacolo eccezionale riempito da turisti e anche da tanti Buranelli “fuoriusciti in Terraferma” che per l’occasione tornavano a visitare isola e parenti.
Per tutta la giornata era grande spasso per noi giovanissimi: si organizzavano giochi, gare podistiche, e competizioni di ogni sorta e per ogni gamba e capacità. Ce n’era per tutti e di tutti i colori, insomma …

Il clou delle manifestazioni ludiche accadeva però nel pomeriggio e verso sera, quando si teneva il famosissimo “gioco delle pignatte”. Favoloso ! … Non me lo perdevo mai … Mi piaceva un sacco vedere quelle pentolacce rotte dai bendati barcollanti fatti girare mille volte su se stessi. Non vedevo l‘ora di vedere spezzata la pignatta con la farina, e quella piena d’acqua, e poi anche quella con dentro i soldi o una gallinella viva che scappava spaventatissima in mezza alla folla … Poi c’era anche quella piena di caramelle che il vincitore s’affrettava a lanciare verso la folla con grande parapiglia di noi bambini che per una caramella eravamo disposti a tutto … e poi accadeva “il top del top”, ossia il “Palo della Cuccagna”.

Era era un divertimento e un’emozione fortissima perché molte volte le squadre che si susseguivano nella scivolosissima arrampicata erano quelle dei Buranelli, dei Treportini, dei Mazzorbesi … e ovviamente dei Muranesi (detestatissimi).

Ricordo in particolare un anno, non ho presente quale precisamente, era comunque verso la fine deli anni ’60. Il palo della Cuccagna era altissimo come non mai oltre che ricoperto da uno scivolosissimo e straordinario strato di “sèo nero”, ossia di grasso … In alto al palo pendeva sospeso ogni “ben di dio”: davvero tante cose buone, molte più del solito … tanto che erano accorsi diversi gruppi per tentare quell’improvvida quanto remunerativa scalata.

Iniziarono i Treportini e fu subito una risata colossale per tutti: nonostante si foderassero il petto di sabbia e segatura, non riuscirono a salire il palo più di tanto scivolando giù maldestramente: eliminati subito … e fuori uno !

Fu poi il turno della squadra dei Mazzorbesi, notoriamente considerata “schiappa”(altro antagonismo acerrimo esistente: quello fra Buranelli e Mazzorbesi: ma questa è un’altra storia). Infatti, dopo un paio di tentativici infruttuosi vennero anche loro considerati eliminati … e fuori due !

E venne allora il turno dei Muranesi… e qui la concitazione, le grida e gli sfottò salirono a mille, anche perché stavolta i giovani Muranesi sembravano davvero aguerriti e bravi, capaci di accallappiare l’intero “bottino”

Piano piano vedendo che la pila umana progrediva sempre più verso l’alto salendo uno in spalla all’altro (come previsto da regolamento) sulla piazza salirono ulteriormente di tono le incitazioni, le grida … e le maledizioni. I Muranesi stavano quasi per farcela, tanto che quello più agile, giunto molto in alto per ben due volte, aveva provato ad abbrancare i premi … Era ancora troppo basso per fortuna, ed era scivolato più volte in basso senza però mai arrendersi. Comuque era evidente che ormai era questione di tempo … stavolta i Muranesi erano fin troppo bravi.

Perciò mentre tutti in apprensione guardavano in su, ci fu da un lato della piazza fibrillante un “cenno speciale” di un papà notoriamente iracondo e antiMuranese fino alle ossa. Non avrebbe mai sopportato  di perdere proprio quell’anno  e con quella così ricca “Cuccagna”… S’era perfino già dato l’appuntamento per ritrovarsi a sera e spartirsi il tutto nella vicina solita Osteria. Io ero là, proprio attaccato a lui … L’omone era rosso in volto, grosso come un armadio, ed eternamente sudato e quasi sempre arrabbiato (contro i Muranesi, ma mai con noi). Fece solo un accenno, annuì appena con la testa verso sua figlia piccola: la mia amica Sabrina, che partì immediatamente.

Dentro al frastuono e al chiassare rumorosissimo, nell’andirivieni assiepatissimo che c’era ai piedi del palo della Cuccagna dove s’assiepavano e accavallavano tutti col naso all’insù, nessuno s’avvide che Sabrina andò dritta dritta ad infilzare con una forcina da testa il polpaccio dell’energumeno Muranese che teneva su tutta la piramide dei salitori Muranesi impegnatissimi nello sforzo della “conquista del palo”. Nell’enorme confusione si udì appena un urlo di dolore … ma mentre Sabrina era già scomparsa, iniziò a traballare la piramide umana posta sopra alle spalle massicce del Muranese dolorante e sanguinante. Tanto bastò, perché mentre l’uomone maiuscolo tamponava con la mano il taglietto, quelli sopra di lui si destabilizzarono, persero l’equilibrio, e vennero giù di sotto uno dopo l’altro, a cascata e come tante pere mature giù da un albero.

I Muranesi si ritrovarono accatastati l’uno sopra all’altro ai piedi del Palo della Cuccagna che rimase quindi inespugnato.

“Tentativo fallito !” sentenziò il giudice ... e ci fu un boato della folla dei Buranelli ... me compreso. A niente servirono le proteste furibonde dei Muranesi: non era successo niente, e quella presunta puntura di spillo o di quel che era stato, voleva essere solo una scusa per giustificare l’inabilità (solita) dei Muranesi. E poi dai ?... Un omone grande e grosso così … che andava a lamentarsi dalla Giuria d’essere stato ferito e punto ? … Ma dai ! Che se ne inventassero un’altra !

Qualche istante dopo, dentro a un entusiasmo indicibile toccò alla squadra dei Buranelli. In un batter d’occhio s’addossarono al palo “quattro muscolacci” che si piantarono alla base e sui primi metri del palo prendendolo d’assedio. Dopo di loro spuntò dalla folla un giovane “folletto tutto nervi” di Burano, che scalzo, fascia sulla fronte, e rivestito di stracci vecchi e ricoperto di “sabiòn” dalla testa ai piedi, sgusciò e s’arrampicò su come uno scoiattolo calcando teste, spalle, e ossa degli amici sottostanti fino ad abbracciare saldamente il palo viscido e nero che divenne un tutt’uno con lui stesso. La gente di sotto e intorno era in delirio … E dopo un’infinita ondata di urla, incitazioni e incoraggiamenti d’ogni tipo, quasi riuscendo a mordere il palo, strisciando perfino con le guance, serpeggiando in su e giù con i piedi attanagliando il tutto, sudato zuppo, e piantando anche le unghie dentro al viscidume ... finalmente dopo l’ennesimo sguardo bieco verso l’alto: protese la mano esile una prima volta a vuoto, e subito dopo riuscì ad agganciarla al premio finale … E venne giù Burano intera … Fu un tripudio, un’esplosione dell’intera Piazza Galuppi … mentre i Muranesi se n’erano già andati via con la coda fra le gambe.

“Murano toh ! … Sarà per un’altra volta.” gli sghignarono dietro e contro i Buranelli quasi accompagnandoli.

Infine giunse la sera con le “campane del Vespro” che si ribaltarono mille volte dentro al “campanil storto” suonando a festa … e si terminò la festa come sempre con canti, musica e balli in piazza … Venne a suonare in isola come il solito la prestigiosa Banda Musicale e Cittadina di Venezia, che col “Va pensiero” e i grandi pezzi d’opera lirica suonati orchestralmente fecero venire i lucciconi agli occhi a tanti Buranelli e Buranelle che cantarono a squarciagola fino a commuoversi del tutto.

Che festa !

Diventato più grandicello, e studiato un pochetto, ho invidiato ai Muranesi anche altro, per esempio quella splendida Madonna Bizzantina dallo sguardo magnetico che troneggia sul catino absidale sontuosissimo e unico nel suo genere di San Donato di Murano. E’ una delle più belle Madonne delle Lagune, una delle famossime e misteriose Sante Marie antichissime che punteggiavano le acque delle Lagune Venete. Una sorta di concatenazione mistica che si estendeva oltre Torcello, Muranoe San Marco, e fin dentro alla Terraferma: a Caorle, Eraclea, Jesolo, e poi ancora oltre fino a: Concordia, Pordenone, e fino a Gradoe oltre ancora risalendo probabilmente l’intero Golfo Adriatico fino a Trieste. Quelle Sante Marie prestigiosissime oltre che bellissime erano segno di una specie di gemellaggio interiore, artistico e devozionale, olte che d’intenti commerciali e alleanze fra le genti delle Lagune e del primo entroterra Veneto.

Quanti contenuti d’altri tempi pregni di significati ci sono sparsi per la Laguna … Peccato che oggi siano andati smarriti e dispersi oltre che dimenticati quasi del tutto.

Oggi i tempi sono per davvero cambiati: certe rivalità campanilistiche si sono del tutto assopite, anzi: non esistono più. Volendo banalizzare: la partita, l’antagonismo tradizionale di ieri, si è concluso sostanzialmente con un pareggio neutrale che accontenta entrambe le sbiadite fazioni dei Muranesi e dei Buranelli. Rimane, invece, lo spettacolo della distesa delle acque placide e lisce della Laguna e delle isole che appaiono sempre come un miraggio onirico e mutevole mai esausto. Un fascinoso contenitore ameno dentro al quale è ancora possibile rinvenire e raccogliere briciole e brandelli di Storia curiosissima e davvero interessante che però si va assopendo sempre più.

Dove un tempo le plaghe d’acqua venivano smosse appena dai remi faticosi senza riuscire a rompere quei silenzi maiuscoli e quasi incantati sorvolati da Cormorani, Folaghe, Anitre e Gabbiani e da mille Pesci che saltavano fin fuor dall’acqua, ora sfrecciano all’impazzata “a prua alta” motori chiassosi, fuoribordo e lancioni che fanno ribollire i canali e vomitano sulle isole folle di turisti “toccata e fuga” ansiosi di depennare anche quelle visite dalla loro lista di “cose Veneziane de vedere in fretta”. Le bricole contorte, consumate e divelte ondeggiano e si piegano tristemente … la Laguna sembra tremare non potendo protestare.

“Ponte di Rialto: visto … Ponte dei Sospiri, Palazzo Ducale e Piazza San Marco: visti e fatti ! … Adesso: Burano: fatto anche quello … Murano: fatto … Torcello: visto ! … Ho visto venezia: possiamo andare … Adesso toccherà a Firenze, Roma e Napoli …”

Che tristezza !


Per fortuna le Stelle e le Storie continuano a girare immote sopra Venezia e la sua Laguna … Qualche volta bisognerebbe trovare il tempo per osservarle almeno un attimo, scorgendo fra nuvola e nuvola spezzoni di memorie del passato che continuano a farci sorridere oltre che pensare ... orgogliosi di quanto abbiamo vissuto sopra a queste amene acque.

“UN AEROSTATO CHE VA TOMBOLANDO SOPRA LA LAGUNA DI VENEZIA … NEL 1803.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 124.

“UN AEROSTATO CHE VA TOMBOLANDO SOPRA LA LAGUNA DI VENEZIA … NEL 1803.”

Se ne avrete voglia, provate ad andare a leggere quanto racconta curiosissimamente Franco Mutinelli nei suoi “Annali delle Province Venete dall’anno 1801 al 1840” stampati a Venezia nella tipografia G.B.Merlo nel 1843.
In estrema sintesi diceva che essendo scomparsi in questi ultimi tempi i grandi mecenati delle antiche Arti Classiche capaci di procurare personaggi come Michelangelo e Raffaelle, ora al mondo moderno non resta che darsi alla Scienza e alla Fisica guardando a personaggi nuovi come Volta, Galvani, Spallanzani … e Zambeccari.
A dire il vero, quest’ultimo Zambeccari era un po’ strano continuava a scrivere il Mutinelli perché volendo andare da Bologna a Milano, si ritrovò, invece, a vedere Venezia. Perciò alquanto perplesso concludeva dicendo pressappoco:
“… Ignota ancora l’utilità che venir possa all'uomo dal volare per l'aria …”

Che era successo a questo Zambeccari ? … e chi era costui ?

All’epoca Francesco Zambeccari venne definito un “grande personaggio”, e in effetti lo fu per davvero in quanto fu pioniere e protagonista dell'Aviazione Europea oltre che di quella Italiana. Fu un uomo curiosissimo, sostanzialmente un “Inventore”che amava definirsi: un “Aeronauta”.
Nacque e Bologna nel 1752 nella ricca famiglia Patrizia del Senatore e Conte Giacomo e morì sempre a Bologna nel settembre 1812 per gli esiti di una sfortunatissima quanto tragica spedizione. Essendo Nobile ricevette un'educazione e un’istruzione molto accurate, ma fin da giovanissimo preferì gli studi scientifici nel Collegio dei Nobili di Parma. Insofferente nei confronti del conformismo tradizionale e bigotto dei nobili Bolognesi (e di suo padre) se ne andò presto di casa andando ad arruolarsi nella Guardia Real dove divenne ufficiale dell’Armada Espanola.  La Marina Spagnola lo inviò subito a combattere contro i Pirati del Mediterraneo e poi nell’Atlantico e in Americaai tempi della Rivoluzione Americana.
Da lì fu presto costretto a fuggire e cercare rifugio in Europa abbandonando l'Avana in quanto s’era messo in contrasto con Tribunale dell'Inquisizione che aveva iniziato ad indagarlo dandogli la caccia. Giunto a Parigi, nel 1783 assistette alle prime ascensioni di Charlese dei fratelli Montgolfier, e recatosi poi a Londra nel novembre dello stesso anno, cominciò a sperimentare per conto proprio il volo aerostatico utilizzando prototipi larghi più di tre metri e senza persone a bordo riuscendo a farli atterrare intatti a 75 km di distanza.
Fu un successo ! … ma era appena l’inizio, perchè tentò l’avventura del volo con persone a bordo decollando lui stesso diverse volte su palloni “a doppia camera” gonfi d’idrogeno e con aria riscaldata sotto raggiungendo e superando quote di 3.000 metri.
Era un Italiano eh ! … Non dimentichiamolo.
Nel 1787 si trasferì a San Pietroburgo entrando nella Marina Imperiale Russa, ma dopo un naufragio venne fatto prigioniero dai Turchi rimanendosene in prigione a Costantinopoli per due anni finchè venne finalmente liberato su intercessione del Re di Spagna. Il tempo trascorso in carcere gli servì per studiare ancora e mettere ulteriormente a frutto le sue pensate e le sue invenzioni.
Tornato libero a Bologna sposò Diamante Negrini contro la volontà del padre avendo da lei tre figli e lavorando da commerciante. Come potete immaginare si dedicò al volo aerostatico, scrivendo diversi saggi e testi che raccoglievano le sue teorie, osservazioni, esperimenti, pratiche ed esperienze con le moderne “macchine aerostatiche” descrivendo quelle che secondo lui erano “le regole” dell’Atmosfera e del Volo. A Zambeccari si deve la realizzazione di alcuni strumenti di misura come un dinamometro per misurare la tensione delle corde, la "stadera anemometrica"per valutare l'intensità delle correnti atmosferiche, e il cavo stabilizzatore chiamato "guiderope o cavo pilota” impiegato fino ai giorni nostri. Effettuò diversi esperimenti utilizzando a bordo dell'aerostatolampade ad alcool per riscaldare l'aria senza più gettare zavorra per salire o liberare gas per scendere, e perfezionò la sua invenzione realizzando il “pallone a doppia camera” detto“pallone di Rozier", che si sarebbe dovuto chiamare più correttamente "pallone Zambeccari(Pilâtre de Rozier e Pierre Romain morirono il 15 giugno 1785 durante il un tentativo di traversata della Manica su pallone)
Qualche anno dopo Francesco ereditò le sostanze di famiglia, ma trascurandone la gestione fondiaria, immobiliare e terriera, si dedicò con gli allievi Pasquale Andreoli e Gaetano Grassetti a compiere diverse ascensioni in Italia ed in Inghilterra investendo ingenti somme di denaro e chiedendo sovvenzioni, prestiti e sussidi di ogni sorta.
Fu proprio in quel contesto tra il 7 e l'8 ottobre 1803 che Francesco Zambeccari e compagni partendo dalla Montagnola di Bologna andarono a naufragare nell'Adriatico vicino alla costa dell'Istria. In verità, l’idea degli Aeronauti era quella di compiere il tragitto Bologna-Milano, ma il volo divenne un’avventura epica di quelle che si finisce col raccontarle per sempre.
Gli aeronauti, infatti, persero fin da subito il controllo dell’“aeromongolfiera a doppia camera", che salì velocemente a quote elevate facendo perdere conoscenza ai viaggiatori e piloti che trasportava.
Racconta ancora Franco Mutinelli negli stessi “Annali delle Province Venete” che vi citavo prima: “Acconciatosi adunque in compagnia del Grassetti da Roma, e dell’Andreoli d'Ancona, mezz'ora dopo la mezzanotte del 07 ottobre 1803 in un suo grande e bene costrutto pallone, e “Addio patria ! … Addio cittadini !” esclamando, elevavasi tosto ad una altezza superiore alle nubi. Cominciava già Zambeccari a far uso degl'immaginati suoi remi, ma ben presto ne perdeva uno, provando intanto, e così era anche di Grassetti, un ansamento, una tendenza al vomito e un principio di assopimento: solo Andreoli affatto sano e più vigile rimaneva…”
Povero Zambeccari ! …e anche sfigato … perchè: “Giunte le “le procelle che annualmente sogliono regnare nelle maremme veneziane” come dicea il Filiasi,  alle ore due e mezzo del mattino, con sorprendente velocità piombava nel mare il pallone, ma sollecitamente della zavorra alleggerito, si elevava di nuovo e in così alta regione, che le parole, per la rarefazione dell'aria, appena poteano udirsi, e orrendamente sanguigna vedeasi la Luna: se non che, per la perdita di gas, altra volta gravato dal proprio peso il pallone, scendeva nuovamente, però con più tranquillo moto, sul tempestoso mare …”
Insomma gli Aeronauti mezzi intontiti era finiti dentro a una tempesta che li ha sballottati per bene su e giù nell’aria scaraventandoli poi di sotto fin sull’acqua, e spingendo poi il “pallone” ingovernabile in mare aperto.
“Velocissimamente per gli aerei spazi trascorrendo intanto il pallone, e ciò per essere stato colto da un groppo gagliardissimo di vento, all'improvviso un fragor di marosi non interrotto, terribile, avvertiva i viaggiatori che il piano ad essi soggetto non era più terra, bensì l'Adriatico ...”
Le Cronache dell’epoca raccontano che alcuni marinai che stavano navigando da Venezia verso l'Istria nel mare in burrasca videro agitarsi nel buio del cielo quella strana mole luminosa risplendente: “andar tombolando sopra le acque tempestose del Mare e della Veneta Lagunasullo sfondo orrendo di una Rossa Luna …”
Il “bello”fu, che i Marinai più che essere preoccupati per il mare grosso e agitato, lo erano soprattutto per una vecchia tradizione degli stregoni Uscocchi che diceva di: “… Demoni talvolta vaganti per l’Adriatico per sconvolgerne Mare, Isole e Coste e attaccare e danneggiare i naviganti”.  Perciò scambiarono l’Aerostato-Pallone bolognese: “per Diavolo vagante per l'aria in un globo di fuoco … laonde per cui, raddoppiate le vele, ce ne fuggimmo diligentemente dall'incontro ...”
Zambeccari & C, intanto, provarono a gettare fuori bordo tutto quanto era possibile: strumenti, viveri e indumenti per provare a rigovernare l’aerostato, finchè finalmente riuscirono a riguadagnare quota sul mare per poi andare a ricadere sul Monte Ossero delle Coste Istriane dove vennero tratti in salvo stremati e semiassiderati da una barca di pescatori.
Ancora negli “Annali Veneti” si legge:“Esercitando allora il ponente la forza sua contro la ingegnosa macchina, condotta per l'aria e non già per i flutti, trasportavala con veemenza dalla costiera d'Italia a quella opposta d'Istria, quasi naufragata nave, mezzo sommersi rimanendo i viaggiatori infelici: come a Iddio piacque, dopo cinque ore di terribile conflitto colle onde e colla morte, una oneraria veniva a salvarli e a condurli a Venezia ...”
Ma non finì così, perché il pallone liberato dal peso degli occupanti e lasciato incustodito riprese nuovamente quota rapidamente andando a schiantarsi del tutto presso la località di Ripac in Bosnia.
E lì accadde un'altra curiosissima scena di quella “strampalata vicenda”:  “… il pallone divenne “demonio taumaturgico” perché calò di primo mattino presso la fontana del borgo Turco della Bosnia sulle rive dell'Unna. Gli abitanti meravigliati e spaventatissimi gridarono al “miracolo e al grande prodigio dovuto a uno Spirito Demoniaco dell’aria”… e per far cosa giusta i Bosniaci presero il pallone e lo fecero in mille pezzi distribuendone le “parti miracolose” a parenti e amici raccontando a tutti che da quel momento: “… le acque della detta fontana aveano acquistato virtù di guarire da qual si voglia malattia.”
E qui finisce la storia dell’Aerostato che da Bologna doveva andare a Milano.
“L’infelice” Zambeccari finì all’ospedale con le mani congelate insieme ai malconci e intirizziti Grassetti e Andreoli ... e l’avvenimento-avventura venne considerato straordinario e famosissimo …”tanto che la Libreria e Società Letteraria e Tipografica di Venezia ne ricavò un grande manifesto col l’avventura e con i ritratti di Zambeccari e di Montgolfierinsieme che andò venduto a ruba ottenendo un grande successo anche economico.
L’ormai solito Franco Mutinelli degli “Annali delle Province Venete” scrisse ancora in conclusione: “… Dir potendosi pertanto che l'esperienza infelice di Zambeccari abbia avuto per risultato quello solo di convalidare in superstizioni pazze dei goffi uomini, e di rendere innanzi tempo egli stesso quasi vittima del proprio zelo per la scienza …”
Nonostante l’impresa avesse sfiorato la tragedia Zambeccari divenne noto e si procurò diversi sostenitori che lo finanziarono permettendogli di costruire nuove “macchine volanti” e continuare a “prendere il volo”. Il 22 agosto 1804 salì in aria di fronte a 50.000 persone dal prato dell'Annunziata fuori Porta San Mamolo a Bologna atterrando malamente a Capo d'Argine dove scese spaventatissimo il suo compagno di volo. Zambeccari indomito, invece, riprese quota subito dopo e proseguì fino al delta del Po dove andò ad atterrare nei pressi di Comacchio.
E bravo Zambeccari !
Negli anni seguenti fra mille debiti e difficoltà economiche e fiscali Zambeccari proseguì con i suoi esperimenti e le sue ricerche realizzando un terzo aerostato “a doppia camera” che gli fu fatale. Infatti il 21 settembre 1812, andò a urtare contro un albero durante il decollo, e l'alcol del bruciatore si rovesciò sugli occupanti della navicella sottostante che prese fuoco. Francesco Zambeccari morì il giorno seguente per gli esiti delle ustioni diffuse in tutto il corpo, e venne sepolto e risepolto più volte in maniera travagliata nella tomba di famiglia nella Basilica di San Francesco in Bologna non lasciandolo tranquillo neanche dopo morto.


Due ultimissime aggiunte curiose:
-        Sembra che l’aerostato raffigurato sulla tela di Francesco Guardi del 1784 intitolata "Ascensione di un pallone sul canale della Giudecca a Venezia" sia quello progettato da Francesco Zambeccari e realizzato dai fratelli Nicolò e Domenico Zanchisu finanziamento del Cavalier Pesaro Procuratore di San Marco. L'aerostato s’innalzò a Venezia il 15 aprile 1784 in occasione della Festa della Sensa durante il tradizionale rito dello "Sposalizio col Mare". 
-        La vita e la storia di Francesco Zambeccari è stata abilmente raccontata da Timina Caproni Guasti e Achille Bertarelli in un bel saggio intitolato Zambeccari aeronauta di Bologna.” pubblicato nel 1932. (Timina Caproni Guasti fu moglie di Gianni Caproni ideatore di uno spettacolare Museo-Collezione dell’Aeronautica realizzato a Trento che raccoglie ancora oggi tantissimi prototipi, velivoli, documenti e cimeli il cui utilizzo ha caratterizzato le prime esperienze di volo Italiane ed Europee.)




“ZONTE E CURIOSITA’ SPICCIOLE, ANZI: MINIME SULLE SCHOLE E SCOLETTE DI VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 125.

“ZONTE E CURIOSITA’ SPICCIOLE, ANZI: MINIME SULLE SCHOLE E SCOLETTE DI VENEZIA.”
(parte prima)

Sulle Schole Grandi e Piccole di Venezia si è già detto e si continua a dire già tantissimo e bene, anche se non si riuscirà mai a raccontare tutto. Gran parte delle loro vicende sono ancora lì, in gran parte da studiare e analizzare, oppure sono retaggio di pochi fortunati, o d’indomiti ricercatori che si sono cimentati nello studiare“vicende e i modi” dentro al “mare magnum” delle foreste degli Archivio dove sono “sepolte e rinchiuse” le preziosissime carte.
Ogni tanto mi piace quindi incontrare qualcuno che mi racconta “di più”, o scoprire e leggere qualche ulteriore dettaglio, aggiungere una pagliuzza alle tante come che ho già sentito curiosando dentro questo argomento Venezianissimo.
Sono come briciole che cadono da una mensa imbanditissima che non mi stanco di raccogliere e mi piace giustapporre come i pezzi infiniti di un puzzle che mai finirò di completare.
Eccone altre, così … un po’ alla rinfusa e senza pretese:
·      Non veniva ammesso alla Schola chiunque fosse anche solamente sospetto d’usura. Le Schole erano consuete a offrire prestiti “amore Dei” ossia gratuiti o con interesse minimo o modesto ai Confratelli bisognosi … Concedevano, invece, somme notevoli ad altre realtà sociali applicando interessi notevoli ma mai da strozzinaggio. Visto “il pelo e contropelo” con cui si valutavano a Venezia le persone, più di qualcuno del mondo Mercantile e Nobiliare poteva rischiare di rimanere “tagliato fuori”.
·      S’imponevano Penalità e Debiti ai Confratelli della Schola. Si poteva giungere alla sospensione fino a un anno dalla partecipazione alle attività della Schola in caso di debiti verso la stessa Schola. Se protagonisti di un litigio, avendo trasgredito l’obbligo di: “no far briga ne romòr ne rìe parole”, o per inosservanza verso qualunque obbligo previsto dalla Mariegola: la pena poteva essere la stessa. Penalità in denaro venivano accollate in caso di “turpiloquio o bestemmia”: in ragione di 20 soldi se contro Dio e la Madonna, e di 10 soldi se contro i Santi(anche nelle bestemmie c’era una gerarchia).
·      Uno dei modi previsti per i Confratelli per assolvere agli obblighi verso la Schola in caso di debiti verso la stessa: era di lavorare gratuitamente i campi, le vigne, gli orti e i terreni appartenenti allo stesso sodalizio.
·      Il Gastaldo della Schola poteva fare “da paciere” intromettendosi “con i soi boni uffici” in caso di beghe private dei Confratelli gestendo una specie di “Giustizia spicciola”, correlata e ufficiosa che la Serenissima sopportava senza replicare.
·      Il Gastaldo di solito sovraintendeva ad ogni Funerale dei Confratellipresentandosi davanti alla casa del deceduto “col Pennello o Stendardo e con la Croce della Schola”. Se il morto era povero o indigente, la Schola provvedeva al pagamento del Funerale, alla sepoltura, e più di qualche volta a un primo sussidio a favore dei figli e alla vedova utilizzando talvolta denaro appartenente alla Schola o soldi raccolti tra i“boni homeni della Schola”, persone abbienti o Nobili particolarmente generosi.
·      Molto spesso, quasi giornalmente, un “Comandator della Schola” girava per le Contrade e per i Sestieri, a volte casa per casa degli iscritti, col compito di rammentare i “Giorni Comandati” in cui si aveva l’obbligo di presenziare a Messe, Processioni o “Uscite”, Convocazioni di Capitoli, e ai “Corpi”ossia i Funerali.
·      In diverse occasioni gli stessi congiunti dei Confratelli: mogli, figli di età superiore ai 7 anni, sorelle e affini erano tenuti a partecipare alle “Uscite della Schola” pur non essendo iscritti e aggregandosi al di fuori della Schola tutte le volte che “usciva il Pennello della Schola” in processione.
·      In certe Schole era fatto obbligo ad ogni Confratello di recitare “la Soluzione Angelica” ossia l’Ave Maria tutte le volte che si dava lettura della Mariègola in Capitolo Generale overossia “al levar tolella o toletta”(quando si assumeva, o veniva consegnato un particolare segnale di presenza e riconoscimento con quale, nella stessa occasione, si versavano anche i soldi delle tasse o si riparavano i debiti dovuti alla Schola e segnati nel “Libro dei Riceveri della Schola”). In diverse Schole all’atto di ricevere la “tolella”ci si apprestava a recitare “5 Ave Maria e 5 Pater Noster in suffragio delle Anime dei Confratelli e delle Consorelle Morti andando ad occupare gli spazi riservati alla preghiera della Schola che più di qualche volta possedeva un suo Oratorio-Cappella privato per questo genere di “Devozioni e Suffragi”.
·      In molte Schole e Scholette di Venezia, ma anche delle Isolde della Laguna e in tante Pievi della Terraferma, il Gastaldo forniva a tutti i Confratelli il giorno della Festa del Titolare un “Pan Benedetto” o un “Pan Acconzio di Zuccaro e Olio” ossia condito, e/o una “cesendello o candela benedetta” … a patto che fossero in regola con i pagamenti annuali e della Luminaria previsti dalla Schola.
·      In certi periodi e in certi luoghi il pagamento della tassa della Luminaria oltre che in denaro contante poteva essere pagata “in generi” ossia offrendo una certa quantità d’olio per le lampade della Schola o della chiesa-oratorio, o offrendo direttamente “cera” prodotta in privato.
·      In diverse Schole i Confratelli avevano l’obbligo di “Confessarsi e Comunicarsi” almeno due volte l’anno con relative partecipazioni ai Riti ed apposite elemosine: a Natale e Pasqua, pena il deferimento scritto al Vescovo e talvolta l’espulsione temporanea o perpetua dalla Schola in caso di mancanza occasionale o ripetuta e recidiva. Si conservano ancora le lunghe liste degli inadempienti presentate alle Curie dei Vescovi che registravano tutto accuratamente conservandone “puntuale memoria” ... come un buon ufficio “anagrafe un po’ particolare”.
·      All’atto della soppressione delle Schole e delle così dette “Pie” risultavano alcune situazioni davvero curiosissime. Nella revisione, ad esempio, da parte dei nuovi Governi Francesi circa i “maneggi e il dovuto fiscale delle Schole”si provvide a inviare dei solleciti per regolarizzarle. Il bello era che buona parte delle Schole Piccole soprattutto quelle di Devozione gestivano economie disastrate e situazioni debitori croniche da parte di tantissimi iscritti che non pagavano ormai da molto tempo, così come risultava insolvente una lunga lista di persone che erano già morte ormai da parecchio tempo. Se qualcuno “viveva” l’esperienza della Schola un po’ alla leggera, era facile che in breve tempo si ritrovasse oberato di multe, debiti e insolvenze a cui non riusciva a far fronte molto spesso a causa del tenore di vita davvero modesto. Trattandosi molte volte di “persone per davvero bisognose” la Schola continuava a pazientare con le riscossioni e a “scrivere sul giàzo oltre che sul Libro”le sanzioni e i debiti che comunque venivano inferti e quindi crescevano. Alcune Schole poi vivevano esclusivamente delle donazioni davvero “spicciole” di questo genere d’iscritti e simpatizzanti per cui non erano mai state gravate dalla Serenissima di alcun tributo. Alcune Schole nascevano e morivano, risorgevano, s’aggregavano e fondevano con altre proprio per motivi economici e perché più di qualche volta non riuscivano “a reggere le spese”. Sembrerà strano ricordando i pomposi e infiocchettati e grandemente riveriti “Guardiani Grandi delle Schole Grandi” di Venezia ricordare alcuni “piccoli Guardiani o Gastaldi” in carica nelle Schole Piccole che “si presentarono davanti all’autorità competenti dei nuovi Governi Moderni a far ricorso o a chiedere la cancellazione dei debiti fiscali ostentando situazioni e abiti davvero miserevoli, e confusi e inadatti nel dover trattare d’insensati dovuti allo Stato per: cere, olio da lampade, Messe e orazioni per Morti, o spese irrisolte di qualche magra sepoltura di qualche popolano rimasto senza nessuno”.
·      Curiosa “una partecipazione indiretta” che alcune Confraternite di Squeraioli chiesero e percepirono per secoli. Si trattava di un “diritto in denaro dito tiradùra”, che la Confraternita percepiva da chiunque per ogni scalo occupato nei cantieri o squeri, e per il “tiraggio in secco di qualsivoglia sorta di barca … overossia anco per l’uso del tiradòr e dei vasi appartenenti spesso alla Schola”.

Sono solo alcune semplici note “en passant”, qualche altro dettaglio curioso per arricchire quel che già sappiamo circa le Schole di Venezia e dintorni … Alle prossime !


*** L’immagine miniata è tratta dalla Mariegola della Scuola Grande della Carità di Venezia che aveva sede nelle attuali Gallerie dell’Accademia che inglobano e ospitano a tutt’oggi gli ambienti e i dipinti che appartenevano alla Schola distrutta e soppressa (tanto per cambiare) da un certo Napoleone.

“LA PESTE "IN GITA" DA VENEZIA A CAPODISTRIA … NEL 1630.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 126.

“LA PESTE "IN GITA" DA VENEZIA A CAPODISTRIA … NEL 1630.”

Nel 1630 Capodistria e Venezia divennero quasi del tutto simili, anche nel modo in cui si pregava dentro alle loro chiese: “A Peste, fame et bello libera nos Domine” (Liberaci o Signore dal flagello della Peste, della fame e della Guerra). La Peste infatti s’era affacciata anche lì oltre l’arco marino dell’Adriatico, e sembra sia stata portata proprio da Venezia … sempre per quella fame insaziabile dei Veneziani di andare e venire a Mercatare ovunque … anche con la Peste indosso.
Detto da qualcuno in maniera forse un po’ banale: “… fu come se la Peste fosse andata in gita portando se stessa dentro alla Galee da Mercato dei Veneziani … quasi come regalo insolito messo accanto ai beni coi quali la Serenissima s’era fatta grande ormai da secoli.”
Capodistria (oggi Koper in Slovenia) era un’isola costiera dell’Istria Occidentale, una cittadina divenuta Veneziana fino al midollo. Caput-Istriae era di fatto un porto e base militare di Venezia affacciato sull’Adriatico, utile anche per le sue Saline che sorgevano giusto fuori della città nello specchio lagunare di Valstagnon o Stagnòn(oggi non esistono più in quanto sono state interrate unendo Capodistria alla terraferma)
All’inizio Capodistria non s’era lasciata sottomettere docilmente dalla Serenissima perché nel 1145 fu proprio lei a rivendicare l’autonomia dell’Istria capeggiando la resistenza anche delle città vicine … ma fu tutto inutile perché alla fine dovettero capitolare nel 1279 diventando il Regimento Veneziano di Capodistria.
A dire il vero, la fine dell’indipendenza di Capodistria era già stata annunciata e decretata da un pezzo, perché già quarant’anni prima Capodistria era finita sotto il controllo diretto del Patriarca di Aquileia.
Inizialmente Capodistria si chiamava: Aegida ed era passata sotto l’influsso dei Bizzantini ospitando in seguito i profughi Romani in fuga da Trieste invasa dai Longobardi. In onore dell'imperatore romano d'Oriente Giustiniano II s’era ribattezzata come Giustinopoli, ma alla fine prevalse l’altro nome latino molto più semplice e pratico che la identificò come: Capris, Caprea, Isola delle Capre o Caprista ossia terra di capre dell’Istria: Capridistria.
Buona o no che sia l’etimologia del nome, alla fine del 700 Capodistria passò in mano ai Franchi, e già nel secolo seguente iniziò i primi approcci e commerci con la neonata Venezia pur rimanendo “città imperiale” come confermato ancora da Corrado II nel 1035.

Fu però Venezia ad allungare lo zampino fino a marchiare in maniera indelebile la Storia di Capodistria, perché in un certo senso la città visse un’intensa “figliolanza della Serenissima” che la portò a imitare, quasi “scimmiottare”in tutto e per tutto, i modi, le cadenze, le tradizioni, l’organizzazione che ostentava Venezia appena al di là del mare. Capodistria divenne una specie di Venezietta Istriana perché si addobbò di chiese e palazzi in stile gotico Veneziano (Palazzo Pretorio), adottò l’uso dei soprannomi come si costumava nelle isole della Laguna di Venezia, ospitò diverse comunità di Frati, Monaci e Monache, si organizzò e distinse nei ceti sociali dei Nobili e Mercanti che si radunavano sotto alla Loggia cittadina, fondò diverse Schole d’Arte, Devozione, Carità e Mestiere dette anche “Le Pie”, si fece governare da un Maggior Consiglio come a Venezia dove sedevano i Nobili più ricchi e potenti ricoprendo le cariche di: Cancelliere, Notaio, Avogador e Auditore da Comun, Provveditore e Sindaci di Terraferma... tutto esattamente come si faceva a Venezia.

Infatti era la Serenissima che comandava a Capodistria perché sopra al Consiglio governava con leggi e Magistrature molto simili se non uguali a quelle Veneziane il Podestà e Capitanio scelto e inviato dalla Repubblica Lagunare che stava oltremare. Perfino la nomina del Medico di città fu di pertinenza diretta di Venezia fino al 1452 quando il Maggior Consiglio di Capodistria iniziò a scegliere direttamente “uomini di valore” a cui affidare la “condotta medica, la polizia sanitaria, nonché la visita dei detenuti e l’assistenza dopo la tortura da parte del Tribunale”… Ma chi scelse e nominò ? … quasi sempre Medici formati a Padova, Feltre, Udine e Venezia … chissà perché ?

Sempre come a Venezia, a Capodistria erano attivissimi gli Ebrei.  Lì non esisteva un Ghetto come a Venezia, ma già dal 1386 il Tedesco David Veynar prestò denaro su pegno con regolare contratto notarile lucrando parecchio insieme a Salomon de Crucilach. Dal 1391 al tempo del Podestà e Capitano Michele Contarini, dopo l’allontanamento per motivi politici dei Banchieri Toscani esuli da Firenze, si fecero ufficialmente i primi patti e accordi direttamente con gli Ebrei. Costoro dovevano abitare presso il Castel Musella in Belvedere, in un terreno recintato a loro spese che doveva servire loro anche come cimitero privato, dovevano inoltre portare sul petto: “… una “O” per contrassegno e una cordella zalla larga un digito della grandezza di un pane da quattro denari”, non avevano la facoltà di acquistare case nè di stabilire livelli su beni stabili, ma la città garantiva loro rispetto e protezione anche se prestavano con interessi da usura che andavano dal 12 al 20% se non molto di più.

Gli Ebrei a Capodistria però “funzionavano”perché nel 1416 anche Trieste mandò a comprare denaro presso i Banchi di: Abramo di Libermano, Moisè di Samuele, Samuele di Salomone, Jacob Jiudeo, Abramo da Mestre ed altri ancora.
E ancora nel gennaio 1437 fu la Serenissima stessa nella persona del suo Podestà e Capitano Jacopo Venier a confermare sotto la Loggia Nuova in Piazza a Capodistria l’affidamento della “Condotta del Banco” agli Ebrei Mandulino e Marco, figli di David Veymar dietro il versamento di adeguata tassa.
A seguire accadde tutta un’intensa storia di intrallazzi, prestiti, disdette e rinnovi di fiducia reciproci fra gli Ebrei e Veneziani che videro coinvolti in successione fino all’inizio del 1600 i Podestà-Capitani ossia i Rettori di Capodistria: Zanetto Calba e Bernardo Balbo e Domenico Moro, il Comune di Venezia nella persona del Nobilhomo Lorenzo Minio, e l’Avvocato da Comun di Venezia Delfino Venier.
Solo nel 1608, il Podestà e Capitano di Capodistria autorizzò la costituzione del Sacro Monte di Pietà pubblico limitando di fatto l’attività degli Ebrei che rimasero però presenti e operanti in città fino al 1613.

Come vi dicevo, Capodistria cercava d’essere in tutto e per tutto simile a Venezia: nel 1579 il Vescovo di Verona Agostino Valier che la visitò ne elencò ben 38 fra chiese, cappelle e oratori: “... oltre al  Duomo dell’Assunta col Battistero di San Giovanni Battista risalente al 1100, Capodistria possiede la chiesa di San Giacomo Apostolo il Maggiore, quella di San Basso o Biagio costruita su un luogo dell’antico Ospizio del 1318, la chiesa di Santa Marta dei Frati Cappuccini, la chiesa e Monastero di Sant’Anna degli Osservanti, e il Cenobio Cassinese di San Nicolò d’Oltra fondato dai Monaci Benedettini di San Nicolò del Lido di Venezia ...”

Esistevano inoltre: San Domenico e San Gregorio abbattute con i loro chiostri in epoca napoleonica, Santa Chiara delle Monache Francescane e San Francesco: sede dell’Inquisizione di Capodistria che venne attivata dopo strani discorsi su certi tunnel sotterranei che collegavano fra loro i Monasteri maschili e femminili della città. L’Inquisizione di Capodistria giunse perfino a giudicare come eretico il Padre Guardiano dei Frati Francescani Fra Giulio Moratocostringendolo a ritrattazione e firmare l’atto di pubblica abiura. Nel 1558 fu titolare del Santo Uffizio di Capodistria: Fra Felice Peretta da Montaldo che trent’anni dopo divenne Papa di Roma col nome di Sisto V.

E’ curiosissimo notare che nel 1263, tre anni dopo la fondazione del Convento di San Francesco di Capodistria, fu la Nobildonna Veneziana Aurelia Falier Badessa di San Giacomo in Paludo vicino a Murano, a concedere alla neonata comunità un orto a Capodistria di proprietà del Monastero Lagunare; e l’anno seguente fu il Patriarca d’Aquileia Gregorio a concedere al Convento un altro pezzo di terra per allargare “il Brolo del Convento”.

Ogni chiesa era ricca d’opere d’Arte: fra le tante quella più famosa fu di certo la pala per l’altare della chiesa di Sant’Anna di Capodistria consegnata nell’inverno del 1513 “verso Nadal” da Gian Battista Cima da Conegliano e arricchita da cornici di legno intagliate e dorate da Vittorino da Feltre.
L’opera conservata ancora oggi è composta da 10 dipinti su tavola disposti simmetricamente su tre piani rappresentante tutti i Santi Protettori di Capodistria e una Madonna con Bambino, venne commissionata per conto dei Frati dal Procuratore Alvise Grisoni per il prezzo di 70 ducati. Per darvi un’idea del notevole “giro d’Arte” presente in Capodistria si giunse perfino a congetturare che il famoso pittore Vittore Carpaccio attivo a Venezia fosse nativo della città, e ci si affrettò anche ad individuarne l’abitazione … Era una grossa balla ovviamente.

Inerente alle chiese di Capodistria è interessantissima la figura troppo taciuta e quasi dimentica di Pier Paolo Vergerio Vescovo di Capodistria.

Una personalità di certo singolare non solo perché nato proprio a Capodistria nel 1498, ma soprattutto perché dopo essere diventato Vescovo della stessa Capodistria divenne, invece, Riformatore Protestante e Luterano. Inizialmente Vergerio era uno stimato Teologo e un rinomato Vescovo Cattolico affiliato al Papa di Roma: aveva studiato dal 1517 al 1524 Giurisprudenza a Padova, dove s’era laureato e aveva insegnato. Esercitò con un certo successo l’Avvocatura a Verona, Padova e Venezia, ma dopo la morte precoce della moglie Diana Contarini si diede del tutto alla carriera ecclesiastica.

Nel 1530 accompagnò alla conferenza di Augusta il Legato Papale Lorenzo Campeggi, e tre anni dopo venne inviato come Nunzio Papale presso il Re Ferdinando I di Germaniaritrovandosi nel bel mezzo della contrapposizione storica fra Protestanti e Cattolici. A Wittenberg conobbe e frequentò di persona Martin Lutero tentando inutilmente di farlo ricredere sulle sue posizioni anti Papali e anti Cattoliche. Il Papa Paolo III nonostante l’insuccesso e la non riconciliazione con Lutero lo nominò prima vescovo di Modruš in Croazia e poi Vescovo di Capodistria. Dieci anni dopo Vergerio continuò la sua febbrile attività diplomatica a favore della Chiesa Cattolica andando al seguito del Cardinale Ippolito in Francia, e in seguito andando come rappresentante del Re Francesco I di Francia alla Conferenza religiosa di Ratisbona in Germania dove scrisse anche il trattato: “De unitate et pace ecclesiae”.
Alla fine, forse per invidia, venne imputato da molti, soprattutto dal Cardinale Gasparo Contarini, d’essere troppo accondiscendente con i Protestanti. Allora Vergerio si ritirò dalla carriera di rappresentanza e se ne tornò a studiare a Capodistria dove però giunse alla fine a sposare apertamente le idee della causa Protestante insieme a suo fratello Gianbattista Vescovo di Pola.

Figuriamoci il Papa e l’Inquisizione ! … Andarono fuori di testa di fronte alle “posizioni inquietanti” di quel Vescovo di Capodistria.

Fra 1536 e 1539 a Capodistria accadde un episodio curiosissimo che forse fece perdere del tutto la pazienza all’Inquisizione scatenandola contro Vergerio. Durante una sua visita alla chiesa di Sant’Anna di Capodistria, Vergerio trovò un letto sospeso a mezz’aria appeso al soffitto della chiesa in onore di Sant’Anna protettrice delle partorienti e anche dai pericoli delle onde e delle punture nocive dei pesci velenosi. Vergerio fece togliere immediatamente quel “profano quanto inutile letto sospeso” suscitando lo sdegno di gran parte dei Frati Osservanti e di gran parte della popolazione molto devota a Sant’Anna ... perciò scattò la denuncia all’Inquisizione che probabilmente non aspettava altro.

Vergerio venne subito indagato e inquisito dal Santo Uffizio dell’Inquisizione di Venezia che provvide anche ad arrestarlo e sottoporlo “ad attento esame” prima di rilasciarlo. Nel frattempo, approfittando del fatto che non era stato formalmente assolto del tutto dall’Inquisizione, il Cardinale Marcello Cervini(futuro Papa Marcello II) lo escluse dalla partecipazione al Concilio di Trento che Vergerio aveva a lungo preparato.

Poi accadde una sorta d’escalation degli avvenimenti: Vergerio da una parte assunse via via toni sempre più Antiromani e Antipapali, mentre dall’altra parte l’Inquisizione e la Chiesa tradizionalmente sempre molto disponibili duttili, accoglienti, dialogici e concilianti (per niente), giunsero a minacciarlo apertamente col Nunzio Apostolico di Venezia Giovanni Della Casa: “se non ti allineerai alla posizione ufficiale della Dottrina Ecclesiastica … Ti faremo fare la fine di Spiera”.

Francesco Spiera era stato un eclettico Giurista e Avvocato di Cittadella(Padova) con 11 figli a carico, che era diventato a sua volta Protestante terminando tragicamente la sua vita. Visto che negava l’esistenza del Purgatorio, il Culto dei Santi, i Giubilei, le Indulgenze, le Reliquie, l'autorità del Papa e soprattutto la Giustificazione mediante le opere oltre che con la sola Fede, venne denunciato col nipoteBartolomeo Facio per Luteranismo e processato a Venezia nel maggio 1548.

Nel giugno seguente venne condannato a pagare una multa salatissima, ad ordinare una Messa da celebrarsi nella festa del Corpus Domini, e soprattutto venne costretto ad abiurare solennemente le sue convinzioni prima nella Basilica di San Marco davanti allo stesso Legato Pontificio Giovanni Della Casa, e in luglio nel Duomo di Cittadella. Tutto ciò lo mandò in profonda depressione, in “Melancolia”,fino a lasciarsi morire, e questo Vergerio l’aveva visto di persona.

“… di poter rihavere et ricuperare i doni che mi sono stati tolti, ma non è in mia libertà di potergli ricuperare. Dio me gl'ha tolti in pena del peccato ... et so et sento che non me gli vuol restituire, et già mi ha dannato, et già sento le pene dell'inferno…”  lo sentì dire Vergerio. “… Non crediate che lo esser christiano sia una cosuccia leggier, et che consista in esser battezzato et andar a sollazzo, et in legger un poco dell'Evangelio, et in tener una certa via mescolata et intricata, la quale partecipi un poco di questo et un poco di quello, chi vuole esser christiano bisogna che si pensi esser una cosa robusta et salda, una cosa netta e schietta, semplice et aperta.”

Vergerio quindi non ebbe altra scelta che fuggire dal Tribunale dell’Inquisizione di Venezia e Capodistria andando a Sondrio e Chiavenna in Valtellinaossia nei Grigioni Svizzeri. Lì a Vicosoprano in Val Bregaglia divenne Pastore Protestante e polemista, a Poschiavo presso lo stampatore Dolfino Landolfi pubblicò nel 1549 un Catechismo: “Institutione Christiana”,e a Basileai “Dodici trattatelli” o le “Otto difensioni” dove riassumeva la sua posizione teologico-dogmatica.

L’Inquisizione di Roma, Venezia e Capodistria risposero avvelenando a morte suo fratello, processandolo in contumacia, deponendolo dalla carica di Vescovo Cattolico, proibendogli di partecipare alla Conferenza di Poissy e al Concilio di Trento, lo dichiarò eretico condannando apertamente le sue 34 tesi, e ordinò di arrestarlo appena possibile ovunque si trovasse.
Vergerio salvò la vita girando più che potè alla larga dall’Inquisizione: si recò in Germania, viaggiò in Austria e Polonia contattando e interagendo con i Protestanti della Slovenia, della Croazia e della stessa Istria.
Fu quindi un personaggio singolare di Capodistria da non dimenticare.

In epoca più tarda si giunse a contare all’interno delle mura di Capodistria fino a 40 Confraternite oltre alle chiese soprattutto monastiche. (Ancora nel recente 2006 erano presenti e attive in città 16 fra chiese, cappelle e oratori e dei 6 Conventi di un tempo oggi è abitato solo quello di Sant’Anna gestito con la chiesa omonima dai Frati Francescani.)

Le Schole di Capodistria erano numerosissime con i Confratelli che vestivano cappe diversamente colorate, e portavano in processione preziosi fanò”, “segnali”, “stelle”, “selòstri” di legno intarsiato e dorato, e pennelli”di grande valore artistico. Altrettanto numerose erano le Schole anche nel Capodistriano: non meno di 106, tutte con bilancio in pareggio o addirittura in attivo, mentre quelle della città di Capodistria erano quasi tutte indebitate col Conte Michele Totto che concedeva prestiti a tutte con interessi davvero rilevanti.

Ancora nel 1797 l’elenco delle Confraternite di Capodistriacomprendeva 17 “Aggregazioni Pie” alcune delle quali (6) ancora attive nel 1945:
  • Pio Ospitale di San Nazario e dell’omonima Confraternita di San Nazario.
  • Confraternita di Sant’Antonio Abate abbinata al Pio Ospitale omonimo fondato dal Vescovo Corrado nel 1262, e completamente in decadenza e abbandono nel 1454 quando venne affidato in gestione alla Schola. Si trovava nei pressi del convento di San Domenico nella cui chiesa la Confraternita aveva altare e arche per le sepolture, ed era una delle Schole più importanti e ricche della città perché gestiva beni, case, vigne, prati, saline, magazzini, lasciti e legati testamentari, denaro liquido e prestiti (concessi anche al Pio Monte di Pietà). E’ rimasta in vita e attiva fino alla soppressione napoleonica del 1806.
  • Confraternita del Santissimo Sacramento o Arciconfraternita del Corpo dei Nobili.
  • Confraternita di Sant’Andrea dei Pescatorifondata il 12 dicembre 1574 nella chiesa di Sant’Anna da “ventuno boni homeni”pescatori di Bossedraga riuniti in Capitolo Generale. I Pescatori di Capodistria si spingevano a pescare fino al di là dell’Adriatico andando a litigare per l’uso delle acque marine perfino con i pescatori di Chioggia.
  • Confraternita di San Nicolò dei Marinai.
  • Confraternita di Santa Maria Nova presso il Collegio Cittadino.
  • Confraternita di San Cristoforo e Santa Barbara del Corpo dei Bombardieri di Capodistria.
  • Confraternita della Beata Vergine della Rotonda.
  • Confraternita di San Giacomo.
  • Confraternita della Santa Croce
  • Confraternita di San Sebastiano.
  • Confraternita di San Francesco.
  • Confraternita del Santissimo Nome di Gesù
  • Confraternita di San Tommaso.
  • Confraternita della Beata Vergine del Carmine.
  • Confraternita dell’Immacolata Concezione.
  • Confraternita della Beata Vergine del Rosario.

A favore di una di queste non specificata esisteva una contribuzione versata dalla Camera Fiscale per l’assistenza prestata ai quattro condannati ad esecuzione capitale.
Inoltre in città esisteva anche un Ospitale di San Marco” che forniva alloggio gratuito a un piccolo numero di “femmine vergognose indigenti”.

Ma torniamo finalmente alla Peste del 1630 …

Capodistria non era affatto insolita ad ospitare epidemie e pestilenze in città. Si potrebbe dire che era quasi abituata a conviverci vista l’alta frequenza con cui veniva visitata dal morbo epidemico: in brevissimo tempo si contarono ben sette Pesti: 1511, 1527, 1553, 1554, 1556, 1573, 1578.
Non a caso il Medico di Capodistria Giovanni de Albertis già nel 1450 fu famoso per aver dissertato sulla peste bubbonica associando la diffusione dell’antico flagello alla presenza dei topi.

Con la Peste del 1553, ad esempio, Capodistria aveva subito una bella batosta: i suoi abitanti da 10.000 s’erano ridotti a soli 4.000 (tornati poi in breve tempo ad essere 5.000).
Nel 1573 altro anno di Peste, invece, il Maggior Consiglio, accogliendo le istanze dei cittadini di Capodistria fece voto pubblico d’erigere nella Cattedrale un suntuoso altare in onore di Santa Marta e Maria Maddalena per impetrarne l’aiuto contro la Peste. Ma la città in condizioni disperate non fu in grado di espletare il voto perché passava continuamente di epidemia in epidemia, perciò anni dopo, nel 1611 al tempo delPodestà e Capitanio Candiano Bollani, il Maggior Consiglio di Capodistria cercò di compensare provando stavolta a fondare una chiesa con un Convento da affidare ai Frati Cappuccini utili per pregare e per dare eventualmente una mano con gli appestati. Ma il tutto nonostante l’acquisto dei terreni e diversi finanziamenti andò un po’ a rilento … e venne un’altra ondata di Peste: quella del 1630.

Le Cronache dell’epoca descrivevano Capodistria come città porto di mare, non certo un bijoux per igiene e pulitezza: “...c’erano scafe e scoli delle Concerie e degli Scorzeri ovunque, vasche e torchi e fornelli da seta, in giro per la città vagavano cavalli e muli che entravano per abbeverarsi nelle fontane e nelle vasche pubbliche e per portare dentro e fuori ogni tipo di merci su carri e carretti di ogni tipo. Per le strade di Capodistria scorrazzavano maiali grufolanti che scavavano i selciati e assalivano i passanti, ovunque c’erano scoli sotterranei, colatoi e gallerie. Si buttavano e riversavano in strada in grandi quantità di acque luride e urine, i contenuti dei mastelli dei tintori, dei lanieri e drappieri e della concia, e si lasciavano gli escrementi ammucchiati in giro per poi usati come fertilizzanti. Ovunque c’erano acque putride, alghe ammuffite, strame e paglia e cose putride e fermentate ... L’aria era ammorbata e piena di esalazione … i gàtoli non erano sufficienti a far defluire quella schifezza sparsa, le donne buttavano per strada i bigatti della lavorazione dei bachi da seta, e i resti dei garùsoli marini mangiati … perciò la peste trovò ambiente ideale per espandersi e diffondersi sempre di più.”

La Peste approdò in Istria provenendo dalla Repubblica Veneta scendendo dalle Galee da Mercato ormeggiate nel Porto. In seguito la Peste superò silenziosa e invisibile la cerchia delle mura attraversando la Porta Maggiore o della Muda … prese poi la via della Ruga di case della Calegaria o Gallegaria: la Contrada dei Calegheri piena di botteghe, mercanzie, magazzini e gente. (a imitazione del nome della principale strada di Costantinopoli).

Il 20 settembre 1630 morì in casa sua a Capodistria Mazzoleni Francesco Genella: “per accidente”, arrivato da poco da Venezia, dove il morbo infuriava già da giugno provocando più di 46.490 morti.
Dieci giorni dopo moriva nella stessa casa la figlia del Mazzoleni, Lauretta, “di malattia fortemente sospetta”, tanto che venne subito ordinata la chiusura della casa. Subito dopo crebbe il numero dei morti in città, per cui il Podestà e Capitano Alvise Gabriel col Collegio della Sanità formato dai Nobilhomeni: Girolamo Zarotti, Almerigo Petronio e Giacomo del Tacco fece un accertamento ispezionando i cadaveri. Vide subito un bubbone sulla coscia dell’Orefice Giovanni Michiel, perciò la diagnosi fu ufficiale: era di certo Peste bubbonica.

Presto si morì a grappoli anche nella promiscuità stretta dei Conventi: morirono diverse Monache Agostiniane e Clarisse, poi fu il turno di 5 Frati Cappuccini, di 4 Santanesi, 2 Padri Domenicani, 3 Terziari di San Gregorio, 1 Padre Servita e del Frate Guardiano del Convento di San Francesco.
Il morbo si diffuse durante l’inverno nel Rione di San Marco ossia di San Martino vicino al Porto, dove alla fine di gennaio 1631 si contarono 44 persone morte. Nel vicino Rione di Porta Maggiore i morti furono 12, a Porta Pusterla: 19, a Porta Ognissanti: 6, a San Tomà: 2. Nel mese di febbraio l’epidemia si diffuse ulteriormente nei Rioni di Porta Brazzòl e di Bossedraga; in marzo la Peste era giunta a Ponte, poi a San Pieri, finché in aprile l’intera città era coinvolta ovunque.
Con l’arrivo del caldo in maggio ci furono altri 188 casi di malattia, in giugno 581 e in agosto ben 716. Un’intera famiglia Del Bello fuggita a rifugiarsi in campagna perì completamente: padre, madre e i 4 figli.

I morti della città vennero sepolti nel prato di Semedella, e si attivò il Lazzarettoa tre miglia fuori dalla città dove si fecero raccogliere gli appestati delle campagne e dei villaggi fino a Muggia.

Solo in agosto la Peste cominciò a perdere virulenza: i morti furono 71, che scesero a 17 in settembre-ottobre e   finalmente soltanto a 4 in novembre quando si rimase in attesa col fiato sospeso.
Tutto venne accuratamente annotato in un Libro iniziato l’8 aprile 1631: “Libro nel quale si notano le case che giornalmente si sequestrano per sospetto, d’ordine degli Ill.mi Sig.ri Prov. et medesimamente si notano tutti quelli che muoiono alla giornata di mal contagioso tenuto per me Domenico Del Bello Canc. del Sindacato”.
Si contarono 1.990 decessi di cui 104 al Lazzaretto su 2.300 persone colpite dal morbo, ossia il 49% dell’intera popolazione di Capodistria di 4.200 Anime.

Il Senato della Serenissima ordinò al Podestà-Capitanio e al Provveditore alla Sanità Nicolò Surian di non abbandonare il luogo, di garantire l’ordine pubblico, di garantire gli approvvigionamenti, di prestare tutti i soccorsi e gli aiuti possibili, e di sgomberare e seppellire i morti. Il Dogedi Venezia inviò a più riprese aiuti economici: prima 600 ducati, poi altri 800, destinando ai soccorsi il ricavato di ogni multa pubblica.
Il 4 aprile 1631, il Maggior Consiglio di Capodistria interpretando il volere comune fece voto solenne … come si faceva anche a Venezia col Redentore e con la Madonna della Salute … di erigere almeno un altare in Duomo chiedendo alla Provvidenza di salvare la città dalla Peste.

Nel frattempo era morto anche il Marmoraro ossia il Tagiapiera, e i marmi messi da parte per quello scopo erano stati impiegati in altra maniera. Il Maggior Consiglio di Capodistria dispose allora nell’agosto 1639 di edificare una chiesetta sul cimitero di Semedella dedicandola alla Madonna delle Grazie. Si diede l’incarico a Mastro Nicolò Carpaccio Murer e al Marangon Pietro Isdrael, e si acquistarono pietre in una cava di Rovigno trasportandole a Capodistria tramite due barcaroli di Pirano. Si commissionò anche una pala d’altare al pittore veneziano Guido Guidotti spendendo 50 ducati usufruendo delle offerte volontarie di Pietro Corte e Carlo de Carloe dei legati testamentari di campi e di vigne lasciati da Caterina vedova Veronese e da Simonella Cocever.

Quella del 1630-1632 per Capodistria fu una Peste davvero drammatica … fu una strage, e la città divenne un luogo fantasma.

Il 17 agosto 1632 il Provveditore Veneto Nicolò Surian relazionò a Venezia: “Finalmente, dopo le continuate incessanti diligenze a fermare il corso al male, piacque al Signor Iddio et alla Beatissima Sua Madre, che ne seguisse la liberatione di quella città nella quale sono stati li morti in tal calamità per la metà et nel suo territorio per il terzo”.

Il Santuarietto della Madonna di Semedella venne consacrata dal Vescovo Pietro Morari con immane festa e grande Processione degli abitanti di Capodistria il 24 aprile 1640. Anche Papa Urbano VIII si affrettò a concedere l’immancabile “l’indulgenza plenaria” legata a chi “visitava piamente il miracoloso Santuario producendo adeguata e dovuta elemosina”.

Passata la Peste, Venezia controllò Capodistria e se la tenne stretta a braccetto fino al suo declino definitivo, ossia il 1797.

Gabriele D'Annunzio saturo di romantiche nostalgie poetiche cantò Capodistria nel suo “Alcyone”:“Settembre, il tuo minor fratello Aprile fioriva le vestigia di San Marco a Capodistria, quando navigammo il patrio mare cui Trieste addenta co' i forti moli per tenace amore.
Capodistria, succiso adriatico fiore!”


Il Santuario e il cimitero di Semedella rimasero in uso fino al 1811 … A Capodistria non tornò più la Peste che forse s’era stancata “d’andare in gita” in giro per il bacino dell’Europa e dell’intero Mediterraneo. Quelli di Capodistria hanno continuato ugualmente per secoli a rivolgersi lì “perpetrando salvezza dai pericoli del Mare e della Terra”. Ancora nel 1944 si continuava ad appendere ex-voto sulle pareti della chiesetta … poi forse qualcosa si è assopito, o forse spento del tutto … come la Peste.

“LA “DOMUS CILIOTA” e SAN ROCCO e SANTA MARGHERITA A SAN SAMUEL … A VENEZIA OVVIAMENTE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 127.

“LA “DOMUS CILIOTA” e SAN ROCCO e SANTA MARGHERITA A SAN SAMUEL … A VENEZIA OVVIAMENTE.”

La domanda sarà più o meno sempre la stessa: “Che è ? … Ma dov’è ?”… perché San Rocco e Santa Margherita non è un posto di Venezia facile, di quelli di cui si parla sempre. Magari penseremo alla Scuola Grande di San Rocco e al famoso Campo Santa Margherita oggi così silenzioso, tranquillo e sempre disertato e deserto soprattutto di sera e di notte (seh ?... magari).
Invece no … San Rocco e Santa Margheritaè un’altra cosa, e si trovava, anzi quel che ne resta si trova ancora oggi, dall’altra parte di Venezia: nella Contrada di San Samuel vicino a Campo Santo Stefano nel Sestiere di San Marco. San Rocco e Santa Margherita è stato un Monastero di Monache che oggi non esiste più … ma che c’è ancora.
A dire il vero, se oggi andrete a cercare in quel posto di ieri vi troverete di fronte: la “Domus Ciliota”, ossia quel che è diventato oggi dopo vari passaggi quella realtà Veneziana di ieri che si chiamava: San Rocco e Margherita”.
La “Domus Ciliota”è oggi un Bed & Breakfast confortevole situato in fondo alla Calle delle Botteghe a Santo Stefano, dove svoltando a sinistra ci s’immette in Calle delle Muneghe. In Internet si può leggere: “… una “casa per ferie” centrale sorta sulle mura di un antico convento, soluzione perfetta per vacanza a Venezia, in camere luminose e confortevoli con splendida corte, piacevole area relax ideale per la prima colazione o per un romantico aperitivo al calar della sera.”
San Rocco e Santa Margheritaè diventata un altro di quei posti di Venezia che “ci sono e non ci sono”, una delle infinite proposte turistiche della Venezia di oggi, in un angolo della Contrada di San Samuel in cui sembra non sia cambiato niente e che tutto sia rimasto com’era secoli fa. Non fatevi però ingannare dall’apparenza tranquilla e quasi anonima, in quel posto ameno e “coccoletto”è accaduta un’altra porzione di quella che è stata la poliedrica e inesauribile Storia di Venezia, anche se un po’ offuscata dalle vicende della vicina realtà molto più grande e prestigiosa che è il chiesone e Convento di Santo Stefano un tempo in mano ai Frati Agostiniani.
“Fino a qualche decennio fa l’ombrosa Calle delle Botteghe era un luogo di Venezia vivissimo e animatissimo ... Era appunto piena di botteghe … uno di quei luoghi verso cui si convergeva da ogni parte di Venezia sapendo che li c’era un po’ di tutto, e si poteva trovare qualsiasi cosa di cui si potesse aver bisogno”.
Oggi quell’arteria Veneziana pur rimanendo ancora vitale è solo pallida immagine di quel che è stata un tempo, così come non esistono più “quei tanti Veneziani” che convenivano là per tanto tempo … per secoli.
Ne rimane però come il sapore nell’aria, una sorta di vaga possibilità mista a nostalgia del tanto che c’è stato, delle tante iniziative, arguzie, trovate e modi d’essere che un tempo caratterizzavano quella tipica Contrada Veneziana. Da un lato all’altro della stretta Calle c’era tutto un susseguirsi di negozietti d’alimentari per gli usi quotidiani, e poi i negozi di stoffe, quelli degli artigiani e delle manifatture d’ogni genere. C’erano le immancabili Osterie, le Locande, gli spazi per gli Artisti, e i luoghi che ospitavano le realtà straniere residenti stabilmente in città ormai da secoli. Incassati dentro al tessuto della Contrada c’erano le sedi delle Schole d’Arte e Mestiere: la Schola dei Calegheri Tedeschi con suo Ospizietto, e poco distante c’erano anche la Schola dei Mureri e molto altro ancora.
Fu proprio in quel contesto vispissimo che si collocò l’ennesima chiesetta e Monastero di Monache di Venezia, andando quasi a nasconderlo e incastonarlo fra calli, case, corti, campielli e callette.
Prima che esistesse il Monastero di San Rocco e Margherita la zona che non godeva affatto di gran bella fama, c’era solo un Oratorietto cadente e rovinoso dedicato a Santa Susanna. Buona parte della Contrada di San Samuel era, infatti, abitata notoriamente da prostitute, e potete immaginare quali erano le situazioni che si venivano a creare in quel contesto di giorno e di notte. Come confermano gli Atti dei Signori di Notte della Serenissima, in quella Contrada c’era tutto un andirivieni di ruffiani, gente “da tramacci”, approfittatori, personaggi lochi, usurai, violenti e uomini a caccia d’avventure ed espedienti. Un postaccio pieno di postriboli, insomma, da cui girare alla larga soprattutto di notte … (salvo che non si fosse interessati “all’argomento”).
Fu per questo che verso la fine del 1400 l’altisonante Scuola Grande di San Rocco, che era una delle realtà fra le più potenti e ricche di Venezia, decise di comprarsi tutti le casupole e i terreni della zona cacciando via le prostitute e provando a: “Nobilitare la Contrada rimuovendo quel vergognoso degrado morale.
Tanto per incominciare la Schola Grande piantò sul posto una specie di sua succursale: una Scoletta di Devozione dedicata a San Rocco così da dare un input, un’impronta diversa a quelle che erano state le abitudini tradizionali del posto. Quasi nello stesso tempo, la stessa Schola Grande di San Rocco prese un’ulteriore iniziativa offrendo in gestione parte della zona alle Monache Cistercensi del cadente Monastero di Santa Margherita di Torcello sperso in fondo alla Laguna. Costoro ormai da tempo mandavano in giro per Venezia una delle loro Converse in cerca di un nuovo sito più salubre in cui trasferirsi.
Ed ecco perciò spuntare il nome del nuovo posto: “San Rocco e Margherita” ... ma poi non se ne fece niente, perché le Monache di Torcello si ricredettero e preferirono restare dov’erano riattando il loro vecchio Convento preferendo la quiete discosta della Laguna al chiasso clamoroso della vispissima Contrada Veneziana di San Samuel.
Il progetto di “riciclo ambientale” pensato e voluto dalla Scuola Grande di San Rocco sembrò naufragare o perlomeno rallentare … perchè ci pensò una certa Stella vedova di Marco Balanzan ad accettare la proposta della Schola Grande mettendo a disposizione anche i suoi beni personali. Si avviò così nella Contrada di San Samuel una nuova esperienza Monacale “sotto la Regola di Sant’Agostino”… e la vedova Stella divenne la prima Badessa del nuovo Monastero di San Rocco e Margherita.
L’introduzione delle Monache nella Contrada si realizzò in maniera spettacolare e con grande concorso di popolo Veneziano. Le Cronache dell’epoca raccontano che ci fu un’inaugurazione in pompa magna, grandi celebrazioni, e si pensò che il Monastero doveva diventare un’iniziativa di grande successo.
Si dice che il giorno dell’inaugurazione del Monastero, che era un Venerdì Santo di Passione, il Padre Agostiniano Benedetto Signori originario di Genova mise in piedi un’azione eclatante nella vicina chiesa di Santo Stefano dove stava predicando. Improvvisamente a metà Messa, smise di predicare, scese i gradini dell’altare, imbracciò un gran Crocefisso sotto gli occhi meravigliati di tutti, e se ne uscì per strada “vestito da Messa e col Crocefisso in spalla”. Tutti i Frati e la gente che riempiva la chiesa gli corsero dietro sorpresi, e seguito da quella folla improvvisata il Frate portò tutti fino al luogo dove stava per essere insediato il nuovo Convento delle Monache … “Fu un grande spettacolo, e tanto grande fu l’approvazione e il consenso da parte di tutti i Veneziani”.

Ma come accade spesso nella Storia, “non tutte le ciambelle riescono sempre bene e con buco”, così che la vita e le attività del nuovo Monastero dopo l’entusiasmo iniziale si raffreddarono non poco … anzi: parecchio. A poco valse il sostegno e l’interesse dimostrato anche dall’autorità pubblica del Maggior Consiglio che anche nel luglio 1533 donò alle Monache una “galia grossa innavigabile da mazza” per il loro sostentamento e in segno d’apprezzamento.
Le Monache iniziarono a litigare con la Schola Grande di San Rocco e con la Scoletta che la rappresentava per la gestione delle elemosine e delle spese (chissà perché ci sono sempre i soldi di mezzo): “… per consuetudine et pato tra le Venerande Madri di questo Monasterio et la nostra Schola…loro Madri pagano le trombe de una delle nostre feste … mentre il Gastaldo e la Banca della Schola coprono quelle per “i concieri della festa”

Paga tu che non pago io e viceversa, oltre a questo le Cronache raccontano che la vita delle Monache del San Rocco e Margherita divenne sempre di più: “così così” ... ossia il Monastero divenne: “… uno fra i Monasteri di Venezia più libertini, scanzonati e indecorosi”.
A cavallo fra 1500 e 1600 il Monastero ospitava ben 52 Monache da Coro di cui una ventina erano figlie di Nobili e illustri Patrizi di Venezia ...Figuriamoci che stile di vita potevano avere ! … e che convinzioni ed entusiasmi spirituali, o predisposizioni a vita d’austera penitenza.
Le Monache ne combinavano “di cotte e di crude”… perciò nel gennaio 1572 il Patriarca di Venezia Giovanni Trevisan recatosi in Visita al Monastero ordinò: “… del mandato del Patriarca di Venezia sia commesso a tutte le Madri Abbadesse, Prioresse et Monache di cadaun Monasterio … che in virtu’ de Sancta Obbedienza et sotto pena de escomunicatione debbino obbedir al mandato del Patriarca del 11 genaro 1565 altre volte intimidatorio: di non ammetter né permetter che nelli Parlatori si habbi a disnàr, né mangiàr per alcuna persona sii di che condizion e grado si voglia, né padre, né madre, né fratelli, né sorelle, né admetter maschere, buffoni, cantori, sonadori et de simili sorte persone sotto niuno pretesto, né modo, che immaginar si possa, né permetter che in essi parlatori si balli, né si canti né si soni per alcuna persona sii che si voglia…”

Come reagirono le Monache ? … Se ne infischiarono del Patriarca, lo lasciarono dire e basta procedendo “alla loro maniera” ... La figura Ecclesiastica allora tornò alla carica per la seconda volta, e in quest’occasione fu il Patriarca Priuli ad ordinare alle Monache anziane di visitare ogni cella dopo il suono della campana della notte … “e che le Monache non condividano le celle, non mettano chiavistelli e serrature private … e che si debba tener tutta la notte accese le candele nei dormitori” ... Inoltre (lo immagino incazzatissimo) il Patriarca condannò duramente il fatto che le Monache trascurassero le devozioni personali per dedicarsi troppo a profitti personali:“… le Monache del San Rocco e Margherita facevano gran lavoro di cucito, ricamavano vestiti, fazzoletti e accessori che poi andavano a vendere fuori dal Monastero, ovunque in giro per tutta Venezia ... con grande scandalo della popolazione.”

Stavolta le Monache si adeguarono ? … Macchè ! … Niente di niente … Continuarono ancora alla loro maniera.

Alla fine fu il turno dell’Inquisizione di Venezia a intervenire. Andò a bussare alla porta del Monastero chiedendo conto, investigando, e portando buona parte delle Monache a processo. Finirono sotto inchiesta tutta una serie di “Usi e costumanze delle Muneghe … e financo le visite frequenti di un certo Frate troppo presente sia nel Monastero di San Rocco e Margherita che in quello di Santa Chiara della Zirada”.
Alla fine del processo il Patriarca fu determinatissimo, e dispose perfino che le Monache “troppo riluttanti anche al Capitolo delle Colpe” chiudessero anche i fori di ventilazione delle latrine del Monastero per evitare che si sporgessero a guardare nella Calle sottostante.
Le Monache “vennero così imbrigliate e s’acchetàrono alquanto”… La minaccia dell’Inquisizione di Venezia fu palese: “la volta seguente si useranno col Monastero modi e maniere alquanto diverse e più decise”.

E corse via così un altro secolo … Alla fine del 1700, “mentre andavano spegnendosi le sorti della Serenissima”, il Monastero di San Rocco e Margherita era ancora impegnatissimo spendendo più di 7.000 ducati in tutta una serie di spese e abbellimenti. Le “polize di restauro”pagate ai Mureri: Anastasio Albini, Costa Giovanni, Doni Daniele, Volpe Domenico, Visentin Antonio, Prestin Giovanni Maria, Pisto Giovanni Maria e Domenico e Bagattella Domenico, e ai Tagjapiera: Bettini Santo e ai fratelli Bon Domenico, Lorenzo e Piero parlano chiaro ricordando come a più riprese le Monache fecero:“metter man al Coro delle Monache, ai Dormitori, al Portal e sul Presbiterio della Ciesa …”
“Con una certa moderatezza”le Monache continuavano la loro vita: Furlanetto e Galuppi musicarono le cerimonie di vestizione di alcune nuove Monache Professe … nel Monastero vissero come “educande a spese” fino al matrimonio Lucrezia di Marin Badoer dell’Anzolo, Agnese Dieda Maria di Piero Alvise Barbaro della Maddalena, e Marsilia Acerbi di cui s’inventariarono accuratamente tutte le biancherie, gli ori, gli argenti e gli abiti ...  Nel San Rocco e Margherita c’era anche tutto un intenso movimento di ricerca e caccia di “grazie e vitalizi buoni per sposarsi o monacarsi”… le Monache andavano a chiedere denaro e a supplicare un po’ tutti: Cancellieri, Nobili, Schole, Cavalieri, Procuratori di San Marco e Senatori … così come si attivavano di continuo per vendere e comprare immobili e terreni in varie Contrade di Venezia e in Terraferma, gestire eredità, lasciti testamentari e rendite d’affitto come raccontano i loro “Libri dei Conti”.

Il Monastero era ricco d’opere d’Arte: la chiesetta aveva ben cinque altari di marmi fini, e dipinti di Girolamo Pilotti e Matteo Ingoli ... I pezzi forti della chiesetta che provocavano l’invidia degli altri Monasteri di Venezia erano: l’“Assunta con San Rocco e Santa Margherita” del Montemezzano collocata sull’Altare Maggiore, e “l’Immagine di Nostra Signora la Madonna Ortocosta” coperta d’argento dorato proveniente dalla Cattedrale di Laconia presso Sparta in Grecia … Oltre a questo, il Monastero piano piano aveva messo insieme un bel “impasto di Sante Reliquie” che ostentava a tutta Venezia. Le Monache del San Rocco e Margherita si vantavano d’essere le uniche a possedere: “alcuni Capelli della Madonna”, parte del “Legno della Vera Croce”, una “Spina della Corona di Gesù Cristo”, i “Precordi di San Filippo”, un’“Arteria di San Gregorio Barbarigo”, le “Ceneri di San Francesco di Sales e di San Lorenzo”… e numerose altre Reliquie di Sant’Annae di San Bartolomeo, e perfino gli interi “Corpi dei Santi di San Felice, Sant’Eugenio e San Faustino”… e chi più ne ha più ne metta. A noi di oggi queste cose forse faranno un po’ sorridere, ma in quei tempi come nei secoli precedenti i Veneziani ci tenevano tantissimo a quel genere di cose, e possederle era motivo di grande onore e grande prestigio … nonché fonte di grande interesse devozionale … e di cospicuo guadagno.

Ancora nel luglio 1751 i Notatori” del Gradenigo ricordavano di una grande processione annuale realizzata per tutta la Contrada di San Samuele e per tutto il Campo e fin dentro alla chiesa di Santo Stefano, e organizzata dalle Monache del San Rocco e Margherita: “… con gran concorso di Clero e Popolo”.

“Le Monache Agostiniane di San Rocco e Santa Margherita vestono e ricoprono la loro Madonna Annunziata di molte vesti, con parapetti di seta e argento, e con numerosi gioielli di notevole valore, manini, catenelle d’oro, granate, corone d’argento con fili di perle incastonate del valore di più di 15 ducati.”

E vennero i “guastafeste” Francesi con napoleone … contro i quali le Monache del San Rocco e Margherita provarono “ad alzare la cresta” resistendo sul posto e rifiutando di venire concentrate nei Monasteri di Sant’Andrea della Zirada e di Santa Giustina nel Sestiere di Castello. I Francesi non si scomposero affatto, e costrinsero allora le Monache del San Rocco e Margherita ad ospitare nel loro Monastero altre comunità di Monache una più indigente e sprovvista di mezzi dell’altra. Alla fine “le economie” di cui tanto si vantava il Monastero andarono giù a precipizio, e come tocco finale i Francesi trasferirono tutte le Monache senza alcun preavviso e in fretta e furia nel Monastero di San Girolamo a Cannaregio portandosi dietro solamente ciò che avevano addosso. L’ex Monastero di San Rocco e Margherita serviva al nuovo Governo di Venezia per aprire un nuovo Casino Filarmonico.
Fu questa la fine del Monastero di San Rocco e Margherita … che dopo qualche anno si ritrovò ad essere un luogo abbandonato … oltre che depredato e spogliato di tutto.

Solo dopo un bel po’ di anni, il Sacerdote Pietro Ciliotta riuscì a comperare e recuperare quanto restava dell’immobile convertendolo in “Casa d’Educazione Femminile”… Il buon Prete Ciliotta affidò l’ex Monastero alle Suore Minime del Sacro Cuore, che poi vennero sostituite dalle Suore Dorotee Maestre, e poi dalle Suore di Maria Bambina ossia “Gerosa e Capitanio” che fino a tempi recenti hanno gestito sul posto un Asilo-Scuola Materna-Educandato-Collegio e infine: Pensionato.
Moltissimi Veneziani e soprattutto Veneziane di mezza età residenti nella Contrada s’illuminano ancora oggi sentendo parlare dell’Istituto e Patronato Ciliota perché in tanti vi hanno trascorso dentro tante ore piacevoli e istruttive della loro infanzia e adolescenza in compagnia delle Suore.
In tempi ancora più recenti fin oltre il 2000, le Suore e la Parrocchia di Santo Stefano riciclando e mettendo insieme le risorse di tutta una serie d’appartamenti, “antichi Ospizietti per vedove e poveri” gestiti dai Frati Agostiniani e dalla Fabbriceria di Santo Stefano, e altre caxette abitate dalle Pizzocchere delle Contrade di Santo Stefano e di San Samuel, hanno dato vita alla “Casa e Residenza dello Studente: Domus Ciliota” dove si sono ospitate tranquille studentesse universitarie nelle ex celle delle Monache, negli spazi, nel cortile, nei luoghi del Monastero e nella ex  chiesetta delle Monache del San Rocco e Margherita.

“Si trattava di una proposta d’ospitalità educativa rivolta a ragazze per bene appartenenti in gran parte a un certo ceto sociale, e disposte anche a percorrere un qualche cammino interiore di tipo Cattolico. La proposta era catalizzata, coordinata e racchiusa nella Pastorale Universitaria del Patriarcato di Venezia che ha coinvolto in una specie di “Circuito Veneziano” una dozzina di Collegi, Case Studentesche e d’Accoglienza, Domus, Istituti, Foresterie e Pensionati Femminili e Maschili coinvolgendo gli studenti in un percorso d’esperienza e condivisione religiosa.”

Infine un ulteriore clic storico: il passaggio al servizio turistico più asettico, disimpegnato e informale di Bed & Breakfast “Domus Ciliota”: casa per ferie … e forse niente di più. Di tanta Storia sono rimasti solo “fantasmi e memorie” … ombre incerte che s’arrampicano e afflosciano salendo e correndo lungo i muri dell’antica Contrada e del Monastero che oggi non esistono più.



“L’ISOLA DI SAN GIORGIO IN ALGA: PORTA DELLA SERENISSIMA E CASA DEI CANONICI TURCHINI.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 128.

“L’ISOLA DI SAN GIORGIO IN ALGA: PORTA DELLA SERENISSIMA E CASA DEI CANONICI TURCHINI.”

Su certi posti di Venezia e certe isole della sua Laguna si è già detto tutto e molto di più … e anche bene … e forse troppo. Si è detto perfino che i Templari, il famoso Ordine Monastico Guerriero detto anche “Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo del Tempio di Gerusalemme”, sono andati a sotterrare un loro preziosissimo tesoro proprio lì nell’Isola di San Giorgio in Alga… E’una bufala ! Non è vero niente … Non andatelo a cercare !
Perciò lungi da me riferire per filo e per segno sulle vicende di certi luoghi di Venezia. A me basta raccogliere qualche briciola “del Passato”evidenziando ciò che ritengo più curioso. Ogni tanto poi, “trovo piacevole” raccontare e condividere aneddoti che mi riguardano ... e così “il gioco è fatto”… ed eccomi di nuovo qua a dire e a scrivere.
Nei primi anni 80 del 1900 insieme ai miei due “compari” Paolo e Walter con cui diventammo in seguito Preti, andammo a presentare a più riprese una nostra proposta a quelli che erano i Patriarchi di Venezia di allora: ossia prima Albino Luciani e poi Marco Ce. Potrà forse sorprendervi, ma chiedemmo di riattivare in qualche modo l’Isola di San Giorgio in Alganella Laguna Sud di Venezia che sapevamo essere ancora in gestione indiretta del Patriarcato di Venezia (in realtà già dal 1973 il Patriarcato di Venezia aveva regalato l’isola al Comune di Venezia), così come sapevamo più che bene che l’isola era ridotta a un cumulo di rovine in balia di coppiette occasionali, drogati, “scaricatori abusivi di scoàsse”, e perfino di terroristi che andavano lì a seppellire le loro armi.

Non eravamo né fanatici nè pazzi, ma in quella stagione satura del nostro entusiasmo giovanile avevamo appena letto, anzi divorato, gli scritti di Lorenzo Giustiniani con i suoi Canonici dagli abiti turchini che avevano a lungo soggiornato appunto nell’isola di San Giorgio in Alga segnando la Storia non solo di Venezia. I capolavori che avevamo letto sono ancora quelli: “L’Albero della vita”, “Lo sposalizio dell’anima”, “La passione di Cristo”, “La Disciplina e perfezione della Vita Monastica”, “Il capitolo dell’Amore”e “L’obbedienza e l’umiltà”. Ne eravamo rimasti così colpiti da vagheggiare addirittura una stagione di rinascita dell’isola ad imitazione d quell’esperienza così importante che era accaduta secoli prima in quel “romitaggio benedetto”nel cuore della Laguna di Venezia.

Come ben sapete, a San Giorgio in Alga s’è consumata una delle più splendide stagioni interiori, letterarie e culturali dell’intera epopea di Venezia Serenissima. Anche se di tale questione s’è discusso, scritto e detto sempre pochissimo, e ancora oggi quasi si tace sull’argomento, nell’Isola di San Giorgio in Alga si sono toccati livelli mistici e religiosi nonché culturali davvero singolari per non dire altissimi. Buona parte dell’elite della Nobiltà Veneziana s’era ridotta proprio lì tentando forti esperienze religiose di grande spessore e originalità. Costoro non erano mica gente qualsiasi, e il loro livello culturale, politico ed economico era davvero notevole, tanto che ben tre di loro dopo aver “mosso i primi passi” a San Giorgio in Alga divennero perfino Papi, ossia: Eugenio IV di nome Gabriele Condulmer nato a Venezia nel 1383 e morto a Roma nel 1447; Gregorio XII nato a Venezia nel 1335 circa col nome di Angelo Correr, e morto a Recanati nel 1417; e Paolo II nato a Venezia 1417 col nome di Pietro Barbo e morto a Roma come Papa nel 1471.

Un altro dei protagonisti in assoluto dei Canonici Turchini vissuto a lungo nell’isola di San Giorgio in Alga fu Lorenzo Giustiniani divenuto poi Vescovo di Olivolo ossia di Castello e di tutta Venezia, poi eletto primo Patriarca di Venezia condensando su di se anche i titoli di Patriarca di Grado, Aquileia e di Dalmazia, divenendo infine: San Lorenzo Giustiniani. Credo che la sua figura per lo più oggi anonima e dimenticata non abbia niente da invidiare a “personaggi più blasonati e famosi” come San Francesco d’Assisi, San Domenico e San Benedetto che hanno saputo influenzare l’Italia e l’Europa intera.


Presi da quella storia così avvincente, io e i miei “compagni” partimmo in direzione dell’isola appena ci fu possibile, ma ai nostri tempi l’approdo era talmente malridotto e pericoloso tanto da risultare quasi impossibile. Dal fondo fangoso della Laguna spuntavano a pelo d’acqua insidiosi mozziconi di pali aguzzi capaci di sfondare il fondo di qualsiasi barca che ci si avventurasse sopra. I lancioni che s’accostavano all’isola se ne stavano opportunamente al largo permettendo solo di guardarla da lontano, oppure chi s’avventurava a terra finiva più di qualche volta con le fiancate strisciate e rovinate o col fondo della barca abraso o bucato.
Desideravamo essere i fautori di un nuovo slancio interiore di stampo prettamente Veneziano … Non scherzavamo affatto, eravamo decisissimi … ma non se ne fece niente perché il Patriarca fu altrettanto deciso quanto laconico: “Intanto servirebbe una montagna di soldi che non abbiamo … E poi soprattutto non ho bisogno di giovani eremiti … A me servono giovani Preti entusiasti da mandare in mezzo alla gente.”E con queste parole chiuse definitivamente il discorso mettendoci non una pietra sopra ma un’intera montagna di pietre irremovibili e definitive.

Sono trascorsi oggi più di trentacinque anni da quegli “istinti giovanili”, e mi giunge l’eco che qualcuno stia ancora ipotizzando esperienze simili a quella che intendevamo noi quella volta ... e proprio nell’isola di San Giorgio in Alga. 

Accadrà mai qualcosa ? … Chissà ?

San Giorgio in Alga o Alegaè una delle isole della Laguna di Venezia a forma quadrangolare con una superficie di circa mq 15.113 affacciata sul Canale Vecchio di Fusina che da Venezia prosegue sino all'imbocco del Brenta. Sembra che il nome sia derivato dalle numerose alghe che circondavano l’isola e quella parte della Laguna di Venezia dovute forse alla mescolanza delle acque dolci della Brenta con quelle salmastre della Laguna.

San Giorgio in Alga era detto dai Veneziani: “San Zorzi verso Lizza Fusina”, e per secoli venne considerato un “luogo gloriosissimo e Porta della Serenissima” da dove a più riprese passarono: Dogi, Papi, Imperatori, Re e Ambasciatori salutati dalle bordate dei cannoni della Repubblica collocati sull’isola.

Recitano alcune Cronache antiche:“… il 21 de luglio 1574  Enrico III di Valois re di Francia se ne partì da Venezia per Fusina in barca coperta di soprarizzo d’oro assieme al Doge Mocenigo, e venne salutato al suo passaggio da salve d’artiglieria dell’isola de San Giorgio in Alega …”

Un primo insediamento con una prima chiesa titolata a San Giorgio si deve far risalire già all’anno 1000, e poi in isola fu tutto un susseguirsi praticamente senza interruzione di Monaci Benedettini, Agostiniani e Celestini di San Giorgio in Algache non furono affatto quelli di Pietro del Morrone ossia i Fratelli di Santo Spirito o Majellesi ma i Monaci Turchini della Congregazione Veneziana dei Canonici Secolari fondata come vi dicevo dal Nobile Veneziano Lorenzo Giustiniani.




Durante il corso del 1200 il Monastero di San Giorgio in Alga visse una prima stagione floridissima: fece ben 55 nuove acquisizioni e nuovi acquisti comprando terreni da Andrea de Laurencio e da Viviano de Mezo, e possedeva beni nel Padovano, nel Trevigiano, nei dintorni di Mestre, e a Carpenedo dove possedeva alcuni boschi. Una lista precedente al 1294 elencava“rendite in natura” provenienti da: Campolongo Maggiore e Mestre consistenti in: Frumento: 207 moggia e 1 staio padovani; Biade: 176 moggia 9 staio; Miglio: 18 moggia; Sorgo:11 moggia; Spelta: 2 moggia; Legumi: 6 moggia e 1 staio; Vino: 48 mastelli; Legna: 320 libbre veneziane; Galline: 67 paia; Polli: 55 paia; Spalle di maiale: 13; Uova: 1.091; Capretti: 21; e “Rendite in denaro” da Case e legati in Venezia: lire 5, 13.2; Beni a Sacco: lire 260; Beni di Gorgo: lire 75; Beni in Campolongo Maggiore: lire 118; Beni di Mestre: lire 69.

Nel 1216 proprio nell’isola di San Giorgio in Alga il Doge Pietro Ziani e gli Ambasciatori di Padova e Trevisofirmarono il trattato di pace dopo la guerra detta del “Castello d’amore” con la mediazione del Patriarca di Grado Volcherio.

Durante il 1300 il Monastero di San Giorgio in Alga escogitò mille maniere per ben 35 volte per acquistare ancora altri beni a Venezia, nel Mestrino, nel Padovanoe nella Bassa Padovana di Campolongo Maggiore, De Lectulis, Piove di Sacco, San Brusòn, Gurgo, Corte, Piovega, Vigonovo, Villa Moranzani e Altichiero.

Insomma, avete capito bene che il Monastero divenne floridissimo e possedeva un patrimonio davvero consistente.
Tuttavia, quasi inspiegabilmente, a metà del 1350 il Monastero rimase quasi privo di Monaci: c’era rimasto solo un eremita Agostiniano spagnolo Priore di se stesso e desideroso di fondare una nuova Congregazione. Bonifacio IX allora diede l’isola “in commenda” al Patrizio Veneziano Ludovico Barbo figlio di Marco sedicenne ma già tonsurato e agguerritissimo che diede vita a quel movimento insegne che rese famoso San Giorgio in Alga. Iniziò accogliendo nell’isola due giovani Nobili Patrizi di Venezia, e così facendo fondò la Congregazione dei Canonici Secolari di San Giorgio in Alga. A dire il vero la Serenissima voleva mettere in isola un suo uomo: Giacomo Priore dell’isola di San Clemente che però si tirò subito indietro di fronte alla nomina papale che risultò essere insuperabile.

All’inizio del 1400 Ludovico Barbo passò la mano al fratello Pietro, si provvide a recuperare la gestione di certi beni di cui si era perso il controllo a Montona e in Istria, si fornì al Monastero una dote di 2.000 ducati annui e parecchi libri per la Biblioteca, e iniziarono ad insediarsi in isola i vari Nobili: Gabriele Condulmer, Antonio Correr, Stefano Morosini, Lorenzo Giustiniani e Francesco Barbo fratello di Ludovico seguiti subito dopo da Narciso Guerrino, Michele e Marco Condulmer e Domenico Morosini tutti Veneziani. Fu un grandissimo successo, e l’isola divenne “il cuore” di tutta l’esperienza religiosa e culturale Veneziana godendo del diretto sostegno della Serenissima.

Le Cronache Veneziane raccontano: “Quando i canneti delle foci dei fiumi erano avanzati tantissimo vero l’interno della Laguna, e la bocca del Brenta si spingeva per qualche chilometro permettendo di arrivare con gli asini fino ad un luogo detto Croseta, e il canneto lagunare giungeva fino alla cavana di San Giorgio in Alga dove secondo Marco Corner cantavano le rane … in quegli anni: nacque la Congregazione di San Giorgio in Alga che rimase in vita fino alla soppressione voluta da Clemente IX nel dicembre 1668.”

A metà secolo il Monastero di San Giorgio in Alga risultava proprietario di quasi 1.000 campi nel Padovano come lo erano anche i Monasteri di San Cipriano di Murano, Santa Maria della Celestia, San Giovanni Evangelista di Torcello e San Nicolò del Lido. Inoltre San Giorgio in Alga continuava a vendere e comprare pezzi di terra a Carpenedo nel Mestrino dove si diedero a livello alcuni possedimenti alla Scuola dei Battuti di Mestre, e prima 1 ½  campo e poi l’intero possedimento detto “La Cesara” per 22 lire annue a “persona sicura et onesta” segnalata dal Podestà di Mestre …  Negli stessi anni Gabriele da Venezia(Condulmer ?) rappresentante dei Canonici Secolari di San Giorgio in Alga andò a batter cassa senza paura davanti al Podestà di Treviso pretendendo la restituzione di una ventina di libri del valore di almeno 220 ducati di proprietà dei Monaci prestati al Vescovo Marino Contarini che era poi deceduto lasciando tutto a Treviso ... e ancora: gli stessi Canonici di San Giorgio in Alga ottennero in gestione anche il Monastero con la chiesa di San Cristoforo di Venezia ossia la Madonna dell’Orto abbandonato dai Frati Umiliati che erano fuggiti da Venezia per sottrarsi alla riforma del loro Monastero pretesa dal Consiglio dei Dieci ... In quella stessa occasione, i Canonici Alghensi commissionarono a Tintoretto di dipingere la tela della “Presentazione al Tempio di Maria”da collocare nella stessa Madonna dell’Orto … e il Nobile Alvise Renier di Francesco, rimasto vedovo della moglie Contarini decise anch’esso di ritirarsi e aggregarsi al gruppo di San Giorgio in Alga.

Nel 1564: “… nell’isola di San Giorgio in Alga stavano 44 bocche fra Canonici Regolari, barcaroli, coghi, Gastaldi et servitori il cui mantenimento costava per spese per vivere, vestir ed altre cose necessarie: lire 155 ... Il Monastero pagava 25 ducati annui per l’organista e spendeva per feste, ricreazioni et altre Messe Nove altri 25 ducati … I Canonici di San Giorgio in Alga e della Madonna dell’Orto erano molto rispettati perchè vivevano religiosamente, senza dare scandalo ad alcuno …”

Trascorso tempo, e “non essendo tutto oro ciò che brilla”, nel 1631 dopo la grande peste, oltre “2.000 colli di robe” erano finiti chissà come a San Giorgio in Alga e giacevano inevasi malgrado i proclami fatti per il loro ritiro. Risultando senza proprietario, vennero inventariati e disinfettati dalla Serenissima, e non avendo i Monaci titolo per possederli vennero incamerati dallo Stato ... Due anni dopo, due sorelle da Vicenzasupplicarono la Signoria Serenissima per ottenere giustizia in una causa contro un loro fratello già Canonico Regolare a San Giorgio in Algache s’era fatto annullare la Professione Religiosa dalla Nunziatura per contendere loro l’eredità di famiglia … Del maggio 1638 è una supplica di un altro Canonico di San Giorgio in Alga  finito rinchiuso e dimenticato dal Collegio nella prigione di Palazzo Ducale detta “La Giustiniana”... mentre un’altra supplica del dicembre1646 riguardava un“Professo di San Giorgio in Alga” che chiedeva d’essere liberato dal carcere in cui era stato nuovamente rinchiuso dai Superiori dopo un tentativo di fuga ... Nello stesso anno  la Signoria fu costretta a interrogarsi sull’opportunità che 6 Canonici Alghensi condannati per gravi delitti dal Consiglio dei Dieci e in seguito liberati dietro esborso di denaro, avessero o meno diritto di voto per l’elezione dei nuovi superiori nel Capitolo Generale che si dove tenere a San Giorgio in Alga.
Non furono quindi sempre esemplari i Canonici di San Giorgio in Alga … “l’umana Natura è sempre fragile”commentava al riguardo un Nobile storico Veneziano.

Nello stesso periodo, San Giorgio in Alga fu anche sede di un episodio curiosissimo quanto crudele che credo vada collocata a cavallo fra Storia e Leggenda. E’ stato proprio nella melma che circondava l’isola che si buttò a capofitto da una finestra all’ora della bassa marea una Nobildonna Veneziana disperata relegata nell’isola da troppo tempo. La vicenda di quella lunga “ritenzione segreta” era risaputa e taciuta da tutti ed ebbe in quel modo il suo epilogo finale. Era stato l’altrettanto Nobile e ricchissimo marito che l’aveva fatta rinchiudere “nell’Isola deiFrati Turchini”accusandola di pazzia. La donna in realtà non era affatto pazza, ma doveva lasciare il posto e il palcoscenico sociale alla giovane amante del suo facoltoso nonché focoso marito, che non trovò modo migliore dopo aver provato ad avvelenarla di pagare i Frati perché la trattenessero saldamente in isola fra le loro mura sicure.

La segregazione della donna durò anni, così come si prolungarono per lo stesso tempo le privazioni e le umiliazioni a cui venne costretta e sottoposta, perciò fu giocoforza che alla fine cercasse scampo nell’unica maniera che le era consentita: si buttò ad annegare in Laguna. Le cronache riportarono perfino che i Frati si accorsero della fuga della donna, ma che la lasciarono lì incastrata dentro al fango finchè giunse la marea montante a mettere fine a quel suo misero vivere. Alla fine rimase solo una veste bianca a galleggiare sul pelo d’acqua, il camicione ruvido con cui era vestita la donna, mentre un barcarolo era già stato inviato prontamente al palazzo del Nobilhomo suo marito ad annunciare la fine di quella trista quanto scabrosa vicenda.

Il successo della Congregazione dei Canonici Turchini di Lorenzo Giustiniani li spinse ad espandersi nella Terraferma Veneta oltre Venezia e la Laguna, e fu così che Canonici Alghensi presero in gestione rinnovandolo del tutto il Monastero di San Giorgio in Braida di Verona fondato nel 1046 da Cadalo Vescovo di Parma futuro antipapa.

Adriano Grandi Canonico di San Giorgio in Alga e valente letterato cantò in versi originalissimi la sua esperienza monastica: “Scopri ove s'erge al Gran Guerriero il tempio, che dal serpe salvò regia donzella; e trasse una città dal demon empio, rendendola fedel d'altera e fella. Ivi scrivo talòr, penso, contemplo: mi lega amor del Cielo in breve cella, a me più grata che i palagi e l'oro, ove del cielo il gran Monarca adoro. lvi si stanno in santa pace i figli, de l'Alga, cara a me come la vita. Odo, ricevo, dò sani consigli, me questo e quello co' suoi pregi aita lo mostro a questo e quello i gran perigli c'hanno dal cielo l'anima sbandita. Aretro 'l piè dal serpe insidioso, che sta nel mele de' piaceri ascoso.
In quanto però può nostra natura, ch'è una nebbia terrena, un vetro frale, in questo nobil chiostro ogn'un procura da l'humil terra al ciel di spiegar l'ale. Obedisce a chi regge, ha somma cura di ricever il pan santo e vitale.
Canta di notte, e ai matutini albori le grandezze di Dio, gli alti favori."

All’atto della soppressione del 1668 il Monastero Veronese esclusa chiesa, campanile e sacre suppellettili di cui fu concesso solo l'uso, venne venduto e acquistato per 10.500 ducati dalle Monache di Santa Maria di Reggio che rimasero lì fino alla soppressione napoleonica quando il Monastero fu posto in vendita e acquistato da Giuseppe Caperle e poi abbattuto per costruire le nuove mura austriache di Verona.

Altre tre chiese appartenenti e rette dai Canonici di San Giorgio in Alga di Venezia fin dal 1437 furono quelle di San Pietro in Oliveto a Brescia, Sant’Agostino di Lonigo, e la chiesa di San Rocco di Vicenza data dopo la soppressione alle Carmelitane di Santa Teresa o Teresine che la trasformarono in sede dell’Istituto degli Esposti di Vicenza
Fu sotto la loro giurisdizione dei Canonici Alghensi anche il Convento di San Giacomo Maggiore Patrono dei Pellegrini a Monselice. L’Ospizio inizialmente accoglieva e sfamava poveri e pellegrini di passaggio, poi s’era trasformato in monastero e collegiata “doppio” in cui convivevano insieme Monaci e Monache Benedettineappartenenti alla Congregazione Padovana dei “Monaci Albi". Il convento fin dal 1200 era stato coinvolto nel conflitto tra Chiesa e Impero, con Monselice che parteggiava per Federico II di Svevia. La crisi generale intaccò in tutti i sensi il Convento che venne perciò dato dal Vescovo di Padova Pietro Marcello ai Canonici Veneziani di San Giorgio in Alga per essere riformato economicamente e Religiosamente.
Gli Alghensi fecero vivere al Monastero la stagione del suo massimo splendore ricostruendolo completamente con due splendidi chiostri a cisterna, e con un Refettorio dipinto dal Moretto da Brescia. Quando nel 1668 il Monastero venne soppresso e venduto dandone i beni alla Repubblica di Venezia per combattere i Turchi il Convento di San Giacomo di Monselice divenne proprietà del Pio Ospedale della Pietà di Venezia che lo comprò direttamente dalla Serenissima.

E non è tutto … perché i Canonici di San Giorgio in Alga furono proprietari anche dell’Abbadia di San Paolo di Valdiponte a Civitella Benazzone vicino a Perugia. L'Abbadia con 10 monaci esisteva fin dal 1109, godeva di vari diritti su altre chiese, e possedeva un vasto patrimonio fondiario nelle vicinanze e in diverse altre località della diocesi di Perugia e di Gubbio …. Ancora i Canonici Veneziani ottennero in gestione da Papa Paolo II l'Abbadia di San Paolo di Roma con la chiesa di San Salvatore in Lauro a Roma ... e Papa Eugenio IV concesse la chiesa di San Calogero a Naro che i Canonici tennero in gestione fino alla soppressione del 1672 quando tutto venne venduto ai Padri Minori Conventuali di San Francesco per 5.000 scudi con la condizione di mantenere attivo lo Studio di Filosofia e vegliare sul Culto del Protettore San Calogero.

Come avete ben capito, i Canonici di San Giorgio in Alga divennero quindi molto ricchi, floridissimi e influenti, e tutto questo durò fino a quando nel dicembre 1668 i Canonici Alghensi vennero soppressi da Clemente XI col Breve Papale “Agri Dominici Curae” per assicurare a Venezia i mezzi economici necessari per guerreggiare contro i Turchi anche a nome della Chiesa di Roma ricavandoli dalla vendita dei beni dei “Conventini”soppressi ... Un Ordine in più o in meno non faceva per la Chiesa alcuna differenza, ce n’erano talmente tanti e di talmente ricchi che non sarebbe cambiato proprio niente … Ai Canonici venne data facoltà di entrare in un altro Ordine di loro gradimento, o di vivere da Preti Secolari percependo una pensione annua a vita senza far niente in cambio … (beati loro !).

Nello stesso 1668 chiesa e Convento di San Cristoforo della Madonna dell’Orto vennero venduti ai Monaci Cistercensi, e l’isola di San Giorgio in Alga venne acquistata dai Frati di San Francesco di Paola detti Minimi che nel 1690 la passarono a loro volta ai Carmelitani delle Riforma di Santa Teresa detti Scalzi che apportarono grandi modifiche all’isola rimanendovi fino alla soppressione del 1800.

Nel 1717 chiesa, biblioteca e convento dell’isola vennero completamente distrutti da un ingovernabile incendio … La chiesa di San Giorgio in Alga arricchita da dipinti di Cima da Conegliano, Bartolomeo Santacroce, Litterini, Bambini, Giovanni Medi, e soprattutto di uno dei Bellini e di Antonio e Bartolomeo da Murano, era attraversata da un Coro pensile sostenuto da 6 colonne congiunto con l’organo e sfoggiava un pulpito sontuoso di finissimo marmo … Nel Refettorio c’era una “Crocefissione” di Donato Veneziano salvata fortunosamente dal fuoco dell’incendio.

Nel settembre 1737 i Provveditori inviarono una scrittura al Doge: “… circa il rifacimento del muro dell’orto verso sera del Monastero di San Zorzi in Alga necessario perché cadendo lo stesso avrebbe fatto precipiterebbe anche l’immagine della Vergine ivi situata, dove viene acceso di notte un fanale che serve oltre alla devozione di scorta a non pochi viandanti nel passaggio della Laguna … inoltre: perché il riversamento in acqua di una tale mole di detriti sarebbe stata di pregiudizio alla condizione del bacino lagunare in quel sito.”
Qualche tempo dopo il Proto Giovanni Scalfarotto rilasciò una scrittura per l’avvenuto restauro dei muri perimetrali del Monastero dell’isola per la somma di 500 ducati ... Nel 1782 Papa Pio VI di ritorno da Vienna scese a San Giorgio in Alga fermandosi a pregare prima di andare a sostare a Venezia … Fin dal 1799 l'isola venne utilizzata come Carcere Politico dove vennero in seguito rinchiusi anche: Teodoro Psalidi, Azzo Gianquinto Malaspina e Domenico Morosini della Contrada di Santa Maria Formosa che aveva osato scrivere un sonetto contro l’Imperatore Francesco II.

Si dice, ma chissà se è vero, che quando napoleone in persona s’affacciò per la prima volta in Laguna raggiungendo Venezia fosse una bruttissima giornata di vento, pioggia e acqua alta. Me lo immagino tutto corrucciato e immerso nell’umido e forse mezzo raffreddato … ma penso anche che quella situazione atmosferica sia stata intesa dai Veneziani come presagio di ciò che stava loro per capitare.

Con le soppressioni napoleoniche, infatti, i 15 Padri Carmelitani Scalzi che risiedevano ancora nell’isola di San Giorgio in Alga, usi ad assistere e ospitare gente di mare e Laguna facendo segnali per la navigazione di notte e in caso di nebbia, vennero concentrati a Santa Maria di Nazareth agli Scalzi(accanto alla Stazione Ferroviaria di oggi). Si disse ufficialmente:“… per svolgere accoglienza nei loro chiostri di giovani discoli onde ridurli al buon sistema.”
Chiesa e convento dell’isola vennero destinati a depositi per polveri … Secondo La Cute, fra novembre 1806 e marzo 1807, vennero inviati a Padova da Venezia: 17.363 volumi prelevati dalle biblioteche di San Giobbe, San Giorgio in Alga, San Domenico di Castello, San Nicoletto della Lattuga, San Francesco di Paola, San Giorgio Maggiore, Sant’Elena, San Secondo, Santa Maria dei Carmini, San Giacomo della Giudecca e San Pietro Martire di Murano. I libri vennero inizialmente concentrati e depositati presso l’ex Monastero dell’Umiltà alla Salutedove “il Direttore Morelli” scelse manoscritti e libri interessanti da destinare alla Biblioteca Marciana. Durante i vari passaggi molti libri vennero rubati, venduti o nascosti dagli stessi Frati prima ancora del sequestro, comunque alla fine: 1.093 libri in 2 casse fra cui 16 libri mediocri e 1077 di scarso valore appartenenti alla biblioteca dei Carmelitani Scalzi di San Giorgio in Algae prima ancora ai Canonici Turchini di San Lorenzo Giustiniani presero la strada di Padova senza più tornare.

Esiste una “stampa trista” di quegli anni d’inizio 1800 che mostra la scaletta dei manovali intenti a smantellare pezzo dopo pezzo il campanile dell’isola di San Giorgio in Alga ... Al tempo degli Austriaci l’isola divenne una delle principali Batterie-Capisaldo della linea fortificata endolagunare … e durante le due guerre mondiali l’isola bombardata nel 1945 era armata da 6 cannoni antiarereo da 102/35 costruiti dagli Stabilimenti Militari di Terni con gittata di 11.700 m.



Nel giugno 1945, subito dopo l’ultima guerra mondiale, l'Isola di San Giorgio in Alga collocata fra canali ancora frequentati dalle anguille fu sede di addestramento degli Uomini Gamma ossia gli Uomini Rana e Nuotatori d'Assalto della Regia Marina Militare impegnati nello sminamento del Porto di Venezia e nel recupero del naviglio residuo della guerra ... Nell’isola c’era ancora una sorgente d'acqua dolce poi impaludatasi e scomparsa … San Giorgio in Alga era uno dei tanti posti della Laguna retaggio di pescatori-contadini utilizzato come orto, deposito, e riparo di fortuna durante qualche burrasca.

Dalle memorie di un Veneziano ormai parecchio anziano si può evincere: “Fino agli anni Sessanta gli spazi liberi dell’isola ancora con gli edifici e la cinta muraria quasi intatti e vigilati da numerosi cani erano trattati a vigna, orto e frutteto e gitanti andavano a trascorrere scampagnate o a trattare cassette di frutta e pesce, o qualche gallina e coniglio che si allevava nell’isola … Sull'angolo di Nord-Est dell’isola c’era ancora la statua di una Madonnina del 1600, e un arco in pietra d'Istria dava accesso alla cavana in fondo alla darsena ancora integra dove spiccava un’antica croce in marmo policromo ... Nell’isola era attivo un piccolo squero coperto da travi e tegole, dove c’era ancora issato su uno scalo di alaggio il rottame di una grossa imbarcazione lagunare … La chiesa presentava già i primi danni al tetto, ma era ancora integra nelle sue strutture portanti ... e altrettanto integri e in parte abitati erano gli altri antichi edifici dell’isola giustapposti alla recente torretta in cemento dell'artiglieria militare che aveva lasciato l’isola invasa da residuati bellici ... A un certo punto i pescatori-contadini vennero mandati via in applicazione di qualche ordinanza e perché si diceva che l'isola era stata venduta per farne un grande albergo (in verità nel 1962 il Patriarcato di Venezia acquistò l’isola intera per 1.800.000 lire) … L’isola venne progressivamente invasa dai rovi e da piante ed edere selvatiche che soffocarono le viti e il frutteto, e anche i Veneziani non si recarono più per le scampagnate e per giocare a nascondino per via di certa gente losca, vandali e ladri che iniziarono a frequentare l’isola bruciando e asportando gli infissi, privandola delle pietre e di quanto era rimasto ... Di lì tutto andò velocemente in rovina: cominciarono a cedere archi, architravi e tetti, crollarono i muri e le pareti, e l'acqua di sotto e da sopra intaccò ogni cosa degradando e rovinando del tutto le volte, i sotterranei e gli edifici rimasti ... San Giorgio in Alga non esistette più.”

A metà degli anni 1970 sparì il bassorilievo proveniente da San Giorgio in Alga con “San Giorgio e il Drago”del 1522. Venne recuperato in seguito nei pressi di un antiquario in maniera tanto causale quanto sospetta … E questo è l’ultimo appunto circa San Giorgio in Alga: Porta della Serenissima e casa dei Canonici Turchini.


“LA POLENTA PORPORINA … NELLE PROVINCE VENETE NEL 1819.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 129.

“LA POLENTA PORPORINA … NELLE PROVINCE VENETE NEL 1819.”

L’episodio viene raccontato anche da Fabio Mutinelli nei suoi “Annali delle Province Venete dall’anno 1801 al 1840” pubblicati presso la Tipografia di G.B.Merlo a Venezia nel 1843: “L'avvenimento di cui ora imprendo a narrare la storia, siccome è stato il suggetto di grandissima curiosità, così avvenne eziandio che più persone ci furono, le quali si diedero a studiarlo, procacciando di conoscere onde traesse origine la singolarità di quel fenomeno …”

Tutto accadde nella calda estate del 1819, precisamente all’inizio di agosto, quando si diffuse la notizia che a Legnaro nella campagna della “Bassa Padovana”, paesetto di poco più di 3.000 persone, era accaduto “un fatto miracoloso quanto inquietante”.

L’Ispettore di Sanità e Medico condotto, poi Provinciale, e poi Regio: Vincenzo Sette da Saonaraautore in seguito di autorevoli studi sulla Pellagra e sul Vaiolo, nel 1823, appena dopo i fatti, descriveva in una sua “Memoria storico naturale …” le campagne del borgo agricolo di Legnaro: “… sono coltivate per otto decimi a Frumenti, Frumentone e Fagioli, e gli altri due ad Avena, Miglio, Melliga e Panico, tutte popolate di Noci, Aceri, Olmi e Viti disposte a filari … Le abitazioni rurali sono per due terzi formate d’argilla cott’al sole e coperte di cannucce, il resto di mattoni con tetti in tegole … poco avvertite si tengono le cure di politezza, e generalmente il bestiame e i letamai giacciono in vicinanza colle camere degli uomini …”

Nella vecchia casa del contadino Antonio Pittarello nel centro del paese erano comparse misteriosamente delle “macchie di sangue” sopra la solita polenta preparata con Frumentone, acqua e sale … Da gialla s’era trasformata in polenta rosso vermiglio porporino ... “Rosso sangue !” dissero tutti … e la notizia della “Polenta Porporina” si diffuse ovunque in un attimo parlando quasi subito di “contagio” perché nei giorni seguenti iniziò ad apparire anche nelle abitazioni vicine … La sorpresa quindi si trasformò in inquietudine.

Come sempre l‘animo dei “popolani semplici” cercò a suo modo di dare una giustificazione plausibile a quel fenomeno, e non trovò di meglio, viste le radici ataviche della loro cultura, di attribuire il fenomeno a un’azione demoniaca. Ovunque nel paese si parlava di quel fenomeno ingigantendolo: in piazza, in osteria, al mercato, per la strada e nei campi non si parlava d’altro: i Pittarello dovevano aver per forza compiuto qualcosa di gravemente peccaminoso e losco se era apparsa in casa loro quella “polenta diabolica di natura infernale”.

E sapete com’è … la fantasia non ha confini, perciò sui Pittarello si finì col dire e sospettare di tutto e di più ... anche perché venne fuori un’altra storia: “… di un pollo mezzo cotto e mezzo crudo trovato grondante di sangue chiuso dentro a una madia …” La “cosa” insomma andava crescendo.

I Pittarello erano contadini benestanti un po’ più degli altri perché possedevano più di 40 campi sparsi nelle varie frazioni di Legnaro: Ronchi, San Fidenzio, Scarane, Abbà e Vescovo. Perciò probabilmente l’invidia del “volgo locale” nei loro confronti era alta e si pensò subito che quello strano fenomeno della “Polenta Rossa Satanica” doveva essere la punizione divina per il Frumentone che i Pittarello avevano occultato e non dato ai contadini affamati durante la recente carestia del 1817.

“Le malelingue non hanno briglie né finimenti …” obiettò il Piovano del paese, ma intanto in giro si finì per supporre di tutto ... e ci fu chi non perse l’occasione per iniziare a vendersi “sottobanco” alcune fette di “Polenta Rossa” a ricordo di quello strano fenomeno storico imbarazzante quanto singolare.

“… lo schiamazzo fu levato grandissimo in casa di Pittarello di Legnaro dove fu osservato la prima volta (il fenomeno),e non tardò troppo a vedersi l'arrossamento spontaneo in più altri luoghi … Sicchè essendo questo lo sragionare del popolo, avvenne che del Pittarello furono dette cose non buone nè lodevoli: il perchè oltre il romore ch'era levato grandissimo, lo spargere che era fatto di queste ingiuriose dicerie, mosse le pubbliche autorità a indagare l'origine di quel fatto, potendosi anche sospettare che ci fosse nascosta l'opera studiata di qualche torbido ingegno.”

Come avete bene intuito, in quegli anni si era ben lontani dall’abitudine odierna di cercare, trovare e dare una spiegazione scientifica ai fenomeni fisici e naturali che accadono dentro e intorno al nostro vivere quotidiano. Diciamo che “i tempi non erano ancora maturi”, e si cercò ciascuno a proprio modo di giungere a dare una plausibile spiegazione al “Miracolo della Polenta Porporina”.

Vista la situazione e temendo il peggio, si allertò subito l'Autorità Religiosa provvedendo “… a strappare la larva della superstizione e del fanatismo popolare”, anche perché nei giorni seguenti oltre alla “Polenta Sanguigna” anche la minestra di Riso e il pane bollito iniziarono a presentare lo stesso colore. Oltre al Piovano di Legnaro che corse subito a benedire la casa e tutto il resto, s’inviò prontamente sul posto anche l’Abate Padre Pietro Melo esimio Botanico e Giardiniere che indagò in profondità su quella possibile "infestazione diabolica".
Fosse stato un secolo prima, più di qualcuno sarebbe finito “col farsi male” andando a cadere di certo dentro alle “ampie spire indagatorie” della Santa Inquisizione … ma i tempi erano ormai cambiati.

“Quel Pittarello dovrà almeno confessarsi e sottoporsi a una notevole dose di penitenza …” si continuava intanto a dire in giro per il paese e tutta la campagna.

L’Abate Melo “disse e non disse” spiegando che secondo lui quel fenomeno era dovuto all'aria calda e umida, a una “grande svaporazione con esalamento di putridi vapori”, e alla particolare abbondanza capitata in quell’anno che avrebbe potuto influire su quella particolare manifestazione della Polenta.
Spiegò inoltre che quel fenomeno non doveva essere stato causato: “né da un bissus polveroso sconosciuto, nè da mucor, nè d'aegerita crustacea …”, e che non c’era nulla di “sovra naturale, e nessun operamento diabolico” tale da dover ricorrere paurosi e tremanti “agli auspizj de' sacerdoti e delle preci loro”.  Bisognava, invece, stare attenti a tutti quei pettegolezzi messi inutilmente in giro dalla gente ignorante delle campagne: “ …la scoperta di quel fatto era servata all'ignoranza del volgo; ed è propriamente da dirsi all'ignoranza: perchè se una vana superstizione, se un ridicolo timore non avesse scosso l'animo e turbata la fantasia della popolare credulità, per cui fu levato un turbamento e un romore grandissimo, la manifestazione più cospicua di quel fenomeno saria restata sepolta nell'oscurità popolare: e forse in modo incerto e dubbioso non si sarebbe, se non molto tempo appresso, udita la narrazione di quel caso, alla quale si sarebbe prestata quella credenza ch'è usato prestarsi alle novellette del popolo...”

In ogni caso Padre Melo fece vincere il buon senso, e concluse pur senza sapere spiegare il fenomeno che quello non doveva essere riconosciuto come “Sangue malefico e satanico”, ma più semplicemente come l'effetto di una qualche fermentazione.
In un certo senso aveva intuito giusto … e la sua conclusione fu più che sufficiente per acquietare i semplici contadini lasciando ai “Fisici e ai Dotti” l’impegno di provare a dare una spiegazione chiara e plausibile che mettesse definitivamente tranquilli gli animi di tutti.

Infatti, accanto all’Autorità Religiosa si attivò subito dopo anche l’Autorità Pubblica“che veglia pel quieto reggimento de' popoli adoperando ogni cura e diligenza per venir in chiaro dei fatti …”.
Si chiamò per studiare il fenomeno: Domenico Martinati “Uomo di scienze” di Pontecasale, e s’inviò dai Pittarello il Medico Condotto di Piove: Vincenzo Sette che mise subito sotto chiave la “Polenta Rossa” e l’intera credenza che la conteneva. (Il Medico in seguito studiò per cinque anni il caso al microscopio chiamando il microrganismo: Zoogalactina inetrofa, concludendo che si trattava di una “muffa buona per tinture” che si sviluppava di norma in ambienti caldi ed umidi).

Risultato: tutti gli alimenti contenuti nella credenza divennero “Rossi” anch’essi, … “e le voci in paese s’accrebbero ancora di più” ... anche perché la “Polenta Porporina” aveva iniziato a comparire anche in casa dei Brunazzo a Pontelongo, e poi dei Podrecca ad Abano… e anche a Corezzolanel palazzo dei ricchi Melzi d’Eril… ormai quella della “Polenta Porporina” era diventata un’epidemia !

Il 15 agosto seguente s’inviarono altri illustri Professori della Regia Università di Padova: “… acciocchè la mercè degli esami fatti nel luogo stesso e di alcuni sperimenti che fossero operati, venisse anche veduto se la cosa fosse stata veramente spontanea e naturale, come avea già assicurato il dott. Sette; e non ci fosse quindi da temere l'opera nascosta di qualche turbatore della quiete pubblica o peculiare malevolo della tribolata famiglia ...”
Sopra la Polenta Porporina s’iniziò a produrre tutta una seria di esperimenti e osservazioni che vennero in seguito pubblicati nel numero 190 della“Gazzetta Privilegiata di Venezia” dell'anno 1819.
Si provò a collocare un pezzetto di “Polenta Rossa” dentro a una campana di vetro appoggiata su un piatto ricolmo d’acqua: “… la quale posai sovra un piatto, nel quale c'era dell'acqua, e ciò fatto in modo, che il pezzetto di polenta fosse lontano dall'acqua per lo spazio di circa un pollice e mezzo. Ora nel dìvegnente alle undici prima del mezzogiorno ho cominciato a vedere che quel pezzetto di polenta rosseggiava qua e là in alcuni punti; i quali allargandosi a mano a mano e tingendo sempre più la superficie dell'alimento, come fu in sulla sera il rosseggiare era veduto esteso e notabile; cotalchè non valicarono quarantott'ore che tutto quel pezzetto era tinto di bellissimo color porporino…”

E ancora: “Ho preso, come dianzi, un pezzo di polenta, e la ho sospesa in luogo dov'era aria umida (un cesso), e mettevano anche continuamente putride esalazioni: ma avendo io osservato, che l'aria comechè fosse ivi umida assai, nondimeno il rinnovarsi della medesima che si faceva continuo, portava un notabile asciugamento alla superficie della polenta, così di tempo in tempo andava umettandola con acqua di cisterna, acciocchè fosse impedito l'asciugamento. Operando in questo modo, non tardarono troppo a manifestarsi i primi punti o macchiette porporine sulla superficie, le quali dilatandosi con molta rapidità, si vide tingersi di bellissimo e vivace porpora tutta la superficie dell'alimento sperimentato ...”

Si giunse così a diverse conclusioni e ipotesi sulla spiegazione del fenomeno: forse era colpa “dell’aria infetta e cattiva” e delle “esalazioni putride”: “Qui adunque ci sembra abbastanza chiarita la cagione di quel singolare arrossamento, la quale vuol essere certamente un'aria umida e calda, e via meglio se infetta da putride esalazioni; le quali paiono essere una circostanza efficacissima per la produzione del fenomeno. Anzi pensando io che nell'aria ci sono sempre esalazioni organiche mi sembra di poter credere, ch'esse vogliano essere una cagione essenziale per dar origine a quel curioso arrossamento: e tanto sono fermo in questa idea, che oserei promettermi, che in un'aria secca e purissima (nella quale se ci sono vapori organici, non sono certamente di putrida qualità) non seguirebbe il fenomeno…”

Si provò a ripetere l’esperimento anche a Gazzo, piccola terra umidissima della Bassa Vicentina circondata da ampie risaie: “… quivi l'effetto seguì con tale prontezza e vivacità di coloramento da potersi uguagliare a quello che mi tornò l'anno prima la Quando furono fatte queste sperienze la temperatura era a 21 gradi circa del termometro di Reaumur ... mercè delle putride esalazioni: sicchè la condizione di un'aria cattiva sembra necessaria per la buona produzione del fenomeno. Cotalchè io credo, che se in que' luoghi nei quali esso si manifestò spontaneamente, si fosse badato bene alle qualità peculiari delle abitazioni, e alle circostanze in cui erano, si avrebbe trovato da per tutto la condizione di un'aria ... “

Ma c’era ancora qualche dubbio su quelle spiegazioni che non convincevano tutti: “… mi restava il dubbio, che quel facile e pronto arrossamento che seguì mettendo la polenta in umida atmosfera, e all'influsso di putride esalazioni, non fosse così da attribuirsi alle circostanze menzionate, quanto e via più alla cosa di aver avuto poco prima nelle mani e in propria casa di quella polenta arrossata. Conciossiachè quando quel color porporino fosse stato opera di una muffa, è già noto di quale sterminata e indicibile fecondità sieno dotati quei minimi esseri; sicchè un nugolo di quelle esilissime sementi potea essersi diffuso per l'aria, e quindi appiccandosi all'alimento, sovra il quale ho  sperimentato, dar origine al fenomeno, per ciò solo che furono portati i semi nell'aria: d'onde ne tornava dubbio e incertezza sovra la sincerità delle cagioni che mi erano parute le produttrici di quell'effetto ... Per cavarmi adunque nella dubbiezza, ho scritto incontanente a un mio amico di Mestre, certo signor Agostino Manocchj, giovane di lucido intelletto, pregandolo, che volesse quivi ripetere le mie sperienze; sicchè avendo egli fatto di presente tutto quello, di cui io lo chiedeva, l'effetto seguì in quel modo che fu prodotto qui con le sperienze più sopra descritte: d'onde fu ribadita la conclusione, che quell'arrossamento della polenta era veramente l'opera di un'aria non solo umida e calda, ma altresì infetta come chessia da putride esalazioni ...”

Per capire meglio quello “strampalato fenomeno” si provò un po’ di tutto: si sottopose la “Polenta Rossa” a temperature di 120 °, a suffumigazioni con vapori di canfora, vapori di olio di trementina, e fumo di tabacco per provare ad uccidere eventuali “animaluzzi infusori” che potevano trovarsi dentro all’alimento porporino. Col vapore del zolfo scomparve finalmente ogni “arrossato” decomponendo la materia porporina proveniente forse da un essere vegetabile (per forza ! Si bruciò tutto … qualsiasi cosa vivente avesse potuto contenere la polenta.) ... ma non si giunse a una successiva spiegazione del tutto plausibile.

Ci pensò infine Bartolomeo BizioDocente dell’Università di Padova a chiarire ogni cosa e far luce finalmente sullo strano fenomeno della “Polenta Porporina”. Fu lui a ricercare “sapientemente e con successo” la causa di quella colorazione sanguigna della “Polenta Rossa” giungendo a darle una completa e chiara spiegazione scientifica.

“Sperienze mostrano che la sostanza porporina è un essere organico ... mettendo un briciolo di polenta rossa in contatto con di quella preparata di fresco, questa comincia prestissimo a porporeggiare in più punti; sicchè essendo brevissimo il tempo che bisogna per aver questo effetto, mostra che non sia opera della fermentazione, ma anzi lo sprigionamento di un essere organico …”

Dopo aver coltivato “il batterio” su di un terreno solido di coltura, lo trasportò da un terreno all'altro descrivendone la formazione e lo svilupparsi delle colonie. Dimostrò che “il batterio” resisteva all'essiccamento, e che riusciva a vegetare per anni ripresentandosi quando s’avveravano le stesse condizioni favorevoli a suo sviluppo. Bartolomeo Bizio osservò anche che alcune muffe riuscivano ad impedire la crescita delle colonie di “Serratia Marcescens” producendo così un’efficace reazione antibiotica sulla “Polenta Rossa”, perciò nel 1823 pubblicò una "Lettera al chiarissimo Canonico Angelo Bellani sopra il fenomeno della Polenta Porporina" spiegando che la causa non era “una materia bruta figlia della fermentazione”, ma “un essere vegetale e organico solubile in alcool” che produceva il fenomeno d’origine parassitaria e batterica. 

Battezzò l’agente del fenomeno come "Serratia Marcescens"in onore di Serafino SerratiFisico Fiorentino che non era affatto un Biologo ma un Capitano di Marina (il primo a brevettare un battello con propulsione a vapore). Serafino Serrati studiando il fenomeno aveva trasferito la polenta in un recipiente chiuso umido e caldo notando che dopo 24 ore la superficie si ricopriva di un colore rossastro. Aveva perciò concluso che il fenomeno era dovuto all’azione di un microrganismo “Marcescens”che giungendo a maturazione produceva il pigmento rosso, decomponendosi velocemente in seguito in massa viscosa, mucillaginosa e fluida fino a scomparire.

Bartolomeo Bizio era nato nel 1791 a Costozza di Longare sui Monti Berici di Vicenza da famiglia modesta in cui suo padre Giovanni faceva il sarto. Bartolomeo, invece che delle forbici, del cucito e delle stoffe era affascinato dalla Chimica, perciò andò a studiare a Padova prima presso la Farmacia Zanichelli e in seguito all’Università dove divenne Assistente del Fisico e insegnante Abate Cicuto diplomandosi e laureandosi in Farmacia.
Pur essendosi comprata la Farmacia “Ai Santissimi Gervasio e Protasio” in Contrada di San Trovaso a Venezia, Bizio continuò a studiare, ricercare e scrivere opuscoli e libri. Analizzò prodotti naturali come alcuni tipi di cereali, la corteccia del Melograno e la Noce Americana, e andò a caccia in particolare dei segreti della “Fisica dei Colori” divenendo membro di diverse Accademie e Società Scientifiche Italiane e Internazionali, e anche Presidente dell’Ateneo Veneto di Venezia. Fu lui a scoprire che dal Caffè si poteva trarre una sostanza colorante, una “Lacca verde” resistente adatta ad essere usata come colorante nella tintura dei tessuti … e fu ancora lui a scoprire che “il rosso” della Porpora degli antichi era dovuto alla produzione dei Molluschi Murici… e che la colorazione “verde” di alcune parti dei molluschi non era dovuta a coloranti organici come alghe o prodotti assimilati da altri esseri viventi, ma dalla presenza dentro agli animali del Rame intaccato dall’Ammoniaca … e molto altro ancora.

Grande scienziato quindi Bartolomeo Bizio !

Peccato che il fenomeno della “Polenta Rossa o Porporina” venne studiato anche fuori dall’Italia … Vennero alla mente di molti anche le varie storie di Ostie Eucaristiche che avevano “sanguinato” in successione lungo i secoli a: Parigi, Berlino, Sternberg, Wilsnach, Bolsena e Bruxelles… così come si ricordò che anche Alessandro Magno durante l’assedio di Tiro del 332 a.C. aveva visto comparire “sangue” sul pane dei suoi soldati … In ogni caso s’indagò ulteriormente sull’effetto di quello strano “Germe Rosso” che Julius Friedrich Cohnheim s’affrettò a identificare col nome di: Micrococcus Prodigiosus, mentre Gonfried Ehrenberg lo classificò come: Monas Prodigiosa. Da meno non volle essereCarl Georg Friedrich Wilhelm Flügge che classificò l’agente della “Polenta Porporina” come: Bacillus Prodigiosus togliendo in ogni caso a Bartolomeo Bizioil merito della sua originale scopertache avocarono a se stessi.

Così andarono le cose nelle Province Venete nel 1819 … e anche altrove.



“SCHOLE, SOVVEGNI e SUFFRAGI DE MORTI E ANEME PURGANTI NEI SESTIERI DI VENEZIA, NELLE ISOLE DELLA LAGUNA E NELLA TERRAFERMA VENEZIANA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 130/A

“SCHOLE, SOVVEGNI e SUFFRAGI DE MORTI E ANEME PURGANTI NEI SESTIERI DI VENEZIA, NELLE ISOLE DELLA LAGUNA E NELLA TERRAFERMA VENEZIANA.”

Le collocazioni di un “Grido” secolare sparso un po’ ovunque per Venezia, e anche altrove nella Terraferma Veneta.

***

SESTIERE di CANNAREGIO a VENEZIA

_Monastero e chiesa della Madonna dell’Orto e San Cristoforo dei Padri Umiliati e poi dei Canonici Cistercensi:
_____Schola Sovvegno delle Anime del Purgatorio (1743).

_Monastero e chiesa del Corpus Domini delle Monache Agostiniane:
_____Sovvegno di San Giuseppe (1705).
_____Schola di Santa Veneranda del Traghetto del Corpus Domini (1613).

_Monastero e chiesa di San Bonaventura dei Frati Riformati Minori e Mendicanti:
_____Schola di San Giuseppe dei Lasagneri (1631).

_Chiesa e Contrada dei Santi Apostoli:
_____Schola e Pia Unione e Devozione dell’Addolorata.
_____Confraternita e Devozione del Cristo di Poveglia.

_Monastero e chiesa di Sant’Alvise o San Ludovico e San Giuseppe delle Monache Agostiniane:
_____Compagnia del Suffragio dei Defunti(1743).
_____Schola e Sovvegno dell’Incoronazione di Spine o della Santa Spina (1573).
_____Schola dell’Addolorata dei 7 dolori(1636).
_____Compagnia di donne della Corona del Salvatore (1573).

_Chiesa e Contrada di San Cancian:
_____Compagnia e Suffragio dei Morti o del “Sollievo delle Anime del Purgatorio”(1730-1904).
_____Compagnia di Sant’Antonio e San Giuseppe (1732).
_____Compagnia di San Vincenzo Ferreri (notizie del 1785).
_____Confraternita del Santo Crocefisso e del Santo Sepolcro.
_____Schola della Beata Vergine di Pietà o dell’Addolorata o di Santa Maria Assunta (1597).

_Chiesa e Contrada di San Felice:
_____Compagnia e Suffragio dei Sacerdoti delle Anime del Purgatorio o Pio Aggregato a sollievo delle povere Anime del Purgatorio derelitte (1752).
_____Pia Unione della Buona Morte.
_____Compagnia dei Devoti di San Giuseppe Protettore degli Agonizzanti (1740).
_____Schola della Beata Vergine Addolorata.
_____Schola di Santa Maria della Consolazione (1654).

_Chiesa e Contrada di Santa Fosca:
_____Pio Aggregato per il Sollievo delle Anime del Purgatorio Derelitte (1755).
_____Schola di San Giuseppe (1642).
_____Schola della Beata Vergine Maria della Consolazione.

_Chiesa e Contrada di San Geremia:
_____Schola e Suffragio dei Morti e di Santa Veneranda.
_____Confraternita di San Giuseppe.
_____Confraternita della Sacra Spina (1755).
_____Suffrafio del Crocefisso (1642).

_Convento e chiesa di San Giobbe o San Joppo dei Frati Minori Osservanti e Mendicanti:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1786).
_____Schola della Beata Vergine di Pietà (1580).

_Chiesa e contrada di San Giovanni Crisostomo e Sant’Onofrio:
_____Compagnia e Suffragio dei Morti (1784).

_Monastero e chiesa e Contrada di San Girolamo delle Monache Gerolimine:
_____Schola dei Morti(1780).
_____Compagnia di San Giuseppe (1744).

_Chiesa e Contrada di San Lunardo o Leonardo:
_____Sovvegno del Gesù, Giuseppe e Maria (1699).

_Monastero e chiesa di Santa Lucia delle Monache Agostiniane:
_____Schola dell’Addolorata (1682).
_____Sovvegno della Beata Vergine di Pietà (1686).

_Chiesa e Contrada della Maddalena:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1764).
_____Devozione dei Defunti (1761).

_Chiesa e Contrada di San Marcuola ossia San Ermagora e San Fortunato:
_____Compagnia dell’Agonia, dell’Oratorio e delle Anime dei Morti (notizie del 1764).
_____Compagnia dei 150 devoti del Crocefisso (1765).
_____Schola del Cristo o del Santissimo Crocifisso (1627).
_____Schola della Beata Vergine Addolorata.

_Monastero di Santa Maria dei Crociferi o dei Gesuiti:
_____Congregazione della Buona Morte (notizie del 1672).

_Monastero di Santa Maria dei Servi dei Padri Serviti:
_____Schola e Compagnia delle Nobildonne dell’Addolorata (1715).

_Chiesa e Contrada di Santa Maria Nova:
_____Compagnia di Sant’Ariàn o Sant’Adriano (notizie del 1785).
_____Schola di Santa Maria della Pietà (1512).

_Chiesa e Contrada di San Marcilian:
_____Compagnia e Suffragio dei Morti e di San Giuseppe.
_____Pia Unione dell'Addolorata.

_Chiesa e Contrada di Santa Sofia:
_____Compagnia dei Morti.
_____Schola di San Giuseppe.

SESTIERE di SAN POLO a VENEZIA

_Chiesa e Contrada di Sant’Agostin e Santa Monica:
_____Devozione di San Vincenzo Ferreri (1766).
_____Schola di San Giuseppe.

_Chiesa e Contrada di Sant’Aponal:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano e Sant’Eufemia di Mazzorbo (notizie del 1786).
_____Schola della Santissima Croce (1560).
_____Suffragio dei Morti del Carmine (1710).

_Chiesa e Contrada di San Boldo e Sant’Agata:
_____Schola e Suffragio dei Sette Dolori.

_Chiesa e Contrada di San Cassian:
_____Confraternita dei Morti.
_____Schola dell’Addolorata.
_____Schola e Sovvegno di Santa Elisabetta e di San Giuseppe.

_Chiesa e Contrada di San Giovanni Elemosinario di Rialto:
_____Compagnia di San Giuseppe della Buona Morte (1766).
_____Pia Unione dell'Addolorata.
_____Schola della Beata Vergine di Pietà (1517).
_____Schola di Santa Croce dell’Arte dei Telaroli (1496).

_Convento e chiesa di Santa Maria Graziosa dei Frari dei Frati Minori Conventuali:
_____Schola della Beata Vergine del Pianto.
_____Schola di San Giuseppe.
_____Schola della Passione (1537).
_____Suffragio degli Agonizzanti del Santo Nome di Gesù (1666).

_Chiesa e Contrada di San Mattio di Rialto:
_____Schola di San Giuseppe e San Mattio dell’Arte dei Pestrineri (1656).
_____Sacra lega di San Giuseppe.
_____Suffragio dei Morti sotto il titolo di Gesù Cristo Crocefisso (1675).

_Convento e chiesa di San Nicolò della Lattuga dei Frati Minori Conventuali:
_____Compagnia Laicale del miracoloso Crocefisso di Poveglia (1797).

_Chiesa e Contrada di San Polo:
_____Schola e Fraterna di Gesù Crocifisso e di San Polo dei Nobili benestanti (1721).
_____Sovvegno e Suffragio dei Morti.

_Chiesa e Contrada di San Silvestro:
_____Schola della Santa Croce dei Mercanti da Vin (1565).
_____Compagnia e Suffragio e Pia Unione della Buona Morte (1707).
_____Schola della Beata Vergine di Pietà (1621).
_____Schola di San Giuseppe (1500).
_____Sovvegno dell’Addolorata.

_Chiesa e Contrada di San Stin:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1785).
_____Compagnia dei Sacerdoti Predicatori sotto il Patrocinio di San Giuseppe per la Buona Morte (1729).
_____Devozione del Rosario intitolato “Triduo dei Morti e degli Agonizzanti” (1766).
_____Sovvegno e Suffragio dell’Addolorata dei Sette Dolori (1709).

_Chiesa e Contrada di San Tomà:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1785).
_____Sovvegno e Suffragio del Crocefisso (1706).

SESTIERE di SANTA CROCE a VENEZIA

_Convento e chiesa del Gesù e Maria:
_____Compagnia de Sant’Arian o Sant’Adriano (1747).

_Monastero e chiesa di Sant’Andrea della Zirada delle Monache Agostiniane:
_____Schola dei Morti del Cristo.
_____Suffragio della Santa Croce (1705).

_Monastero e chiesa di Santa Croce Granda o di San Francesco della Croce:
_____Schola della Santa Croce (1359).
_____Schola e Sovvegno del Crocifisso Centurato detto del Centuròn (1634).

_Chiesa e Contrada di San Giacomo dell’Orio:
_____Compagnia di San Giuseppe, ossia della Sacra Famiglie detta della Buona Morte (1738).
_____Compagnia e Suffragio dei Morti (1783).
_____Schola della Croce.

_Convento e chiesa di Santa Maria Maggiore delle Suore Francescane Clarisse:
_____Sovvegno del Crocefisso (1707).

_Chiesa e Contrada di Santa Maria Materdomini:
_____Schola e Suffragio dei Morti.
_____Schola e Suffragio della Santissima Croce (1581).

_Monastero e chiesa di San Nicola da Tolentini dei Padri Teatini:
_____Confraternita dei Morti di San Cristoforo e del Crocifisso.
_____Devozione dell’Addolorata.

_Chiesa e Contrada di San Simeon Grando:
_____Compagnia della Santissima Croce (1734).
_____Pia Unione dell'Addolorata.
_____Suffragio dei Morti di Santa Maria Elisabetta.

_Chiesa e Contrada di San Simeon Piccolo:
_____Confraternita della Santa Croce (1722).
_____Compagnia degli Agonizzanti (circa 1760).
_____Compagnia dei Devoti dell’Addolorata (1722).
_____Sovvegno della Beata Vergine e di San Giuseppe (1705).
_____Suffragio dei Morti di San Gaetano da Thiene e Sant’Andrea Avellino.

_Chiesa e Contrada di San Stae:
_____Compagnia della Buona Morte e di San Giuseppe (1733).

_Chiesa e Contrada di San Zan Degolà o San Giovanni Decollato:
_____Compagnia della Buona Morte (1760).
_____Schola e Suffragio dei Morti annesso alla Schola della Natività (1685).
_____Schola o Pia Unione di San Vincenzo Ferreri.

SESTIERE di DORSODURO a VENEZIA

_Chiesa e Contrada dell’Anzolo Raffael:
_____Confraternita dell’Addolorata.
_____Confraternita e Schola e Suffragio degli Agonizzanti e dei Morti (1730).
_____Schola e Sovvegno della Santa Croce o Cristo dei Barcaroli (1552).

_Chiesa e Monastero dei Carmini o dell’Assunta dei Padri Carmelitani Calzati:
_____Confraternita del Carmine per le Anime Purganti.
_____Devozione di San Giuseppe.
_____Pia Unione dell'Addolorata.

_Monastero e Chiesa di Santa Maria del Rosario dei Padri Domenicani Osservanti o Gesuati:
_____Devozione di San Giuseppe Sposo.
_____Suffragio dei Morti.
_____Confraternita di San Vincenzo Ferreri.

_Chiesa e contrada di Sant’Agnese:
_____Schola e Suffragio dei Morti dedicato alla Madonna e a San Secondino (1656).

_Chiesa e Contrada di San Barnaba:
_____Confraternita e Suffragio dei Morti (1712).

_Chiesa e Contrada di San Basilio o San Basegio:
_____Scuola dei Morti.
_____Suffragio e Sovvegno di San Giuseppe Agonizzante (1707).
_____ Suffragio del Crocefisso.

_Chiesa e Contrada di San Gregorio, Sant’Ilario e San Benedetto:
_____Devozione di San Giuseppe (1766).
_____Suffragio del Crocefisso (1681).

_Chiesa e Contrada di Santa Margherita e San Vettore:
_____Schola e Sovvegno dell’Assunta o Suffragio e Devozione dei Morti (1785).

_Chiesa e Monastero di Santa Marta delle Monache Benedettine poi Agostiniane:
_____Compagnia della Beata Vergine Addolorata (1745).

_Chiesa e Contrada di San Nicolò dei Mendicoli:
_____Confraternita e Devozione dell’Addolorata.
_____Devozione e Suffragio dei Morti (1764).
_____Schola della Santissima Croce (1581).

_Chiesa e Contrada di San Pantalon:
_____Pia Unione e Devozione al Santo Chiodo di Nostro Signor Gesù Cristo.
_____Pia Unione e Devozione di San Vincenzo Ferreri.

_Chiesa e Monastero di San Sebastiano dei Padri Gerolimini:
_____Compagnia della Buona Morte (1709).
_____Confraternita della Beata Vergine del Suffragio o Suffragio dei Defunti.

_Chiesa e Contrada di San Trovaso ossia San Gervasio e Protasio:
_____Compagnia dell’Addolorata o della Vergine dei Sette Dolori (1731).
_____Compagnia dei Morti (1780).
_____Pia Compagnia di San Gabriele dell’Addolorata.
_____Compagnia di San Pietro Alcantara e di San Pasquale Baylon.

_Chiesa e Contrada di San Vio o San Vito e San Modesto:
_____Schola e Suffragio dei Morti (1661).

_Chiesa e Monastero dello Spirito Santo delle Monache Agostiniane:
_____Schola della Beata Vergine Addolorata.

_Chiesa e Monastero dell’Orfanatrofio Femminile delle Terese:
_____Suffragio dell’Ottavario dei Morti (1735).
_____Compagnia del Crocefisso (1704).

SESTIERE di SAN MARCO a VENEZIA

_Chiesa della Pietà o degli Esposti:
_____Suffragio dei Morti o di San Antonio Abate.

_Chiesa e Contrada di Sant’Anzolo:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (1760).
_____Sovvegno della Santissima Croce (1701).
_____Suffragio delle Cinque Piaghe (1654).

_Chiesa e Contrada di San Bartolomeo e San Demetrio di Rialto:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1786).
_____Compagnia della Carità del Crocefisso e Fraterna dei Prigioni (1593).
_____Confraternita dei Sacerdoti della Beata Vergine del Pianto (1732).
_____Schola della Santa Croce dei Fustagneri e Coltreri (1503).

_Chiesa e Contrada di San Basso:
_____Schola della Beata Vergine della Buona Morte (1660).
_____Schola e Suffragio dei Morti.

_Chiesa e Contrada di San Beneto e Santa Scolastica:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1764).

_Chiesa e Contrada di San Fantin o San Faustino o Santa Maria delle Grazie:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1754).
_____Schola e Sovvegno della Santissima Croce e di San Giacomo (1657).

_Chiesa e Contrada dei Santi Filippo e Giacomo:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1785).
_____Schola dei Morti (1647).

_Chiesa e Contrada di San Gallo:
____Compagnia dei Morti detta “da Verona” (1781).
____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1744).
____Suffragio dei Morti di Santa Veneranda (1786).
____Suffragio del Transito di San Giuseppe (1694).

_Chiesa e Contrada di San Giminiano da Modena:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1764).
_____Suffragio della Buona Morte (1706).

_Monastero e Chiesa di San Giorgio Maggiore dei Monaci Benedettini:
_____Devozione di San Giuseppe.

_Chiesa e Contrada di San Giovanni Novo in Oleo:
_____Compagnia dei Morti (1784).
_____Compagnia di Sant’Arian (1786).
_____Suffragio del Santissimo Crocifisso (1657).

_Chiesa e Contrada di San Luca:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1764).
_____Schola e Compagnia di San Giuseppe (1726).
_____Devozione di San Vincenzo Ferreri.

_Chiesa e Contrada di Santa Maria Zobenigo o del Giglio:
_____Schola della Buona Morte e di San Giuseppe.
_____Schola o Compagnia di San Vincenzo Ferreri (1785).

_Chiesa e Contrada di San Moisè e San Vettore:
_____Pia Unione e Devozione dell'Addolorata.
_____Schola e Sovvegno dell’Invenzione della Croce (1619).

_Chiesa e Contrada di San Paternian:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1764).
_____Schola di San Liberale e della Beata Vergine dei Sette Dolori (1618).
_____Fraterna del Crocefisso e di San Paternian (1723).

_Chiesa e Contrada di San Provolo o San Procolo:
_____Devozione del Transito di San Giuseppe (1737).

_Monastero e chiesa di San Salvador dei Canonici Lateranensi:
_____Compagnia di Sant’Arian o di Sant’Adriano e dei Morti (notizie del 1777).
_____Confraternita dell'Addolorata.
_____Suffragio dei Morti.
_____Schola e Suffragio della Santa Croce (1502).

_Chiesa e Contrada di San Samuel e San Matteo:
_____Compagnia degli Agonizzanti (notizie del 1764).
_____Schola di San Giuseppe (1695).
_____Sovvegno dei Sacerdoti della Santissima Croce (1680).

_Chiesa e Contrada di San Severo:
_____Compagnia di Sant’Arian di Santa Maria degli Angeli sotto la protezione di San Pietro Orseolo (1744).

_Monastero e chiesa di Santo Stefano dei Monaci Agostiniani:
_____Compagnia del Crocefisso e della Santa Spina (1712).
_____Suffragio dell’Immagine del Cristo e delle Anime Purganti (1704).

_Chiesa e Contrada di San Vidal:
_____Compagnia di Sant’Arian (notizie del 1750).
_____Sovvegno della Santa Trinità e delle Anime del Purgatorio (1697).
_____Sovvegno della Beata Vergine Annunziata per il Suffragio dei Morti (1679).
_____Suffragio della Misericordia di Dio (1713).

_Chiesa e Contrada di San Zulian:
_____Compagnia di Sant’Arian o di Sant’Adriano della Valverde (1737).
_____Compagnia di San Giuseppe (1785).
_____Schola della Beata Vergine Addolorata.
_____Schola della Passione (1537).

SESTIERE di CASTELLO a VENEZIA

_Monastero e chiesa de Le Vergini delle Monache Agostiniane:
_____Schola del Transito di San Giuseppe (1762).

_Chiesa di Sant’Antonio Abate
_____Sovvegno di San Giuseppe e Sant’Antonio dei Marangoni dell’Arsenale (1692).

_Chiesa e Contrada di Sant’Antonin:
_____Sovvegno e Suffragio dell’Addolorata e delle Anime Purganti (1717).
_____Suffragio della Buonamorte, della Beata Vergine, di San Giuseppe e San Francesco Saverio (1713).

_Chiesa e Contrada di San Biagio dei Forni:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano e della Beata Vergine delle Grazie (1750).
_____Schola della Beata Vergine dei Sette Dolori (1714).
_____Sovvegno della Santissima Croce dei Cardatori della Tana (1694).

_Monastero e chiesa di San Domenico dei Padri Domenicani:
_____Compagnia dei Devoti di San Vincenzo Ferreri (prima del 1785).

_Convento e chiesa di San Francesco della Vigna dei Frati Minori Osservanti e Mendicanti:
_____Schola di San Pasquale Baylon e Suffragio dei Morti (1669).

_Chiesa e Contrada di San Giovanni Battista in Bragora:
_____Devozione dell’Agonia (1748).
_____Schola, Suffragio e Compagnia dei Morti (1764).
_____Sovvegno del Santissimo Crocifisso (1725).
_____Suffragio della Beata Vergine di Pietà (1662).

_Monastero e chiesa dei Santi Giovanni e Paolo dei Padri Domenicani:
_____Devozione e Suffragio dei Morti.
_____Pia Unione e Devozione dell’Addolorata.
_____Schola di San Giuseppe.
_____Schola, Sovvegno, Confraternita e Pia Unione di San Pietro e San Vincenzo Ferreri (1450).

_Monastero e chiesa di San Giovanni in Laterano delle Monache Nere Benedettine:
_____Devozione dei Morti (1764).

_Monastero e chiesa di San Iseppo di Castello o di San Giuseppe delle Monache Agostiniane:
_____Schola di San Giuseppe (1531).

_Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti nel Civico Ospedale pubblico:
_____Confraternita della Santa Croce.

_Chiesa e Contrada di San Lio o San Leone IX:
_____Compagnia di San Arian e Suffragio dei Morti (1785).
_____Compagnia di San Giuseppe (1743).
_____Devozione dell’Addolorata.

_Monastero e chiesa di Santa Maria del Pianto delle Eremite dei Servi o Cappuccine delle Fondamente Nove:un’intera chiesa dedicata a questo concetto.

_Monastero e Chiesa di Santa Maria della Fava o della Consolazione dei Filippini di San Filippo Neri:un’intera chiesa dedicata a questo concetto.

_Chiesa e Contrada di Santa Maria Formosa:
_____Schola di San Giuseppe e della Beata Vergine della Purificazione dei Casselleri (1311).
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1785).
_____Congregazione della Beata Vergine dei Sette Dolori e dei Poveri della Contrada (1708).
_____Pia Unione del Cuore Addolorato di Maria Vergine.
_____Schola della Beata Vergine Addolorata.
_____Suffragio dei Morti e della Madonna del Rosario.
_____Schola della Beata Vergine di Pietà (1650).

_Chiesa e Contrada di Santa Marina:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1785).
_____Suffragio dei Morti o del Crocefisso.
_____Sovvegno dei Sacerdoti della Beata Vergine, della Madonna della Neve e della Consolazione (1692).
_____Sovvegno di San Vincenzo Ferreri, San Pietro e Santa Caterina.

_Chiesa e Contrada di San Martin di Castello:
_____Compagnia dei Morti.
_____Compagnia del Crocefisso e degli Agonizzanti (1662).
_____Pia Unione e Devozione di San Giuseppe.
_____Sovvegno dei Sacerdoti dell’Addolorata (1733).

_Chiesa Cattedrale di San Pietro di Castello:
_____Devozione dell’Addolorata.
_____Suffragio del Suffragio dei Morti della Santissima Croce (1660).
_____Schola e Suffragio della Santa Croce dei Piloti per l’Istria (1450).

_Chiesa e Contrada di Santa Ternita:
_____Compagnia di Sant’Arian o Sant’Adriano (notizie del 1750).
_____Confraternita del Santissimo Crocefisso, Suffragio dei Morti e della Buona Morte (1654).
_____Schola di San Giuseppe.
_____Suffragio e Compagnia dei Morti (1784).

_Monastero e chiesa di San Zaccaria, Sant’Anastasio e San Pancrazio delle Monache Benedettine:
_____Pia Unione e Devozione di San Giuseppe.
_____Schola, Confraternita e Pia Unione dell'Addolorata.
_____Schola, Suffragio e Pia Unione dei Morti (1800).
_____Schola del Santo Crocefisso.

ISOLA della GIUDECCA a VENEZIA nel SESTIERE di DORSODURO

_Chiesa e Contrada di Sant’Eufemia o Santa Femia:
_____Povera Compagnia di carità del Crocefisso e della Buona Morte forse Schola e Suffragio dei Morti, dell’Addolorata e del Pianto (1591).
_____Schola e Sovegno della Madonna o Morte Christi (1604).
_____Suffragio dei Morti della Beata Vergine del Pianto o Morte Christi (1661).

_Monastero della Santa Croce della Giudecca delle Monache Benedettine:
_____Schola del Cristo.

_Monastero e chiesa di San Giacomo di Galizia o Santa Maria Novella dei Serviti:
_____Schola del Crocefisso (1400).
_____Sovvegno dei Fratelli Serventi della Schola del Crocefisso (1707).

_Monastero e chiesa di Santa Maria Maddalena delle Convertite:
_____Devozione della Croce (1760).

ISOLE della LAGUNA di VENEZIA, CHIOGGIA e TERRAFERMA

_Nella chiesa di San Martino nell’Isola di Burano:
_____Schola delle Anime del Purgatorio (1735).
_____Veneranda Schola di Sant’Andrea e San Giuseppe (1653).
_____Schola e Suffragio dei Morti (1688).

_Nella chiesa di San Salvatore nell’Isola di Murano:
_____Sovvegno della Beata Vergine Maria e della Buona Morte (1727-1753).

_In Santa Maria Assunta di Malamocco al Lido di Venezia:
_____Fraglia Pro Agonizzantibus o Schola degli Agonizzanti (ancora attiva nel 1717).
_____Schola del Suffragio dei Morti (ancora attiva nel 1717, era la Schola più antica e preminente di tutta Malamocco).

_Nella chiesa di Ognissanti di Pellestrina:
_____Schola della Santa Croce (fine 1600 a oltre il 1750).
_____Schola e Suffragio delle Anime (dal 1693 a oltre il 1750).

_Nel Duomo dell’Isola di Chioggia:
_____Congregazione dell’Agonia di Santa Maria Assunta (1810).

_Nella chiesa di Sant’Andrea dell’Isola di Chioggia:
_____Congregazione dell’Addolorata.
_____Congregazione di San Giuseppe.

_Nella chiesa della Santa Croce delle Monache Benedettine dell’Isola di Chioggia:
_____Scuola del Suffragio della Beata Vergine.

_Nella chiesa di San Domenico dell’Isola di Chioggia:
_____Schola della Santa Croce o dei Bianchi o dei Disciplini della Santa Croce.

_Nella chiesa di San Giacomo e Santuario della Madonna della Navicella dell’Isola di Chioggia:
_____Congregazione dell'Agonia e di San Giuseppe (1800).
_____Schola delle Anime del Purgatorio (1599).
_____Schola di San Marco e San Giuseppe (già presente nel 1580).

_Nella chiesa di San Martino fuori alle mura dell’Isola di Chioggia (Sottomarina):
_____Schola del Suffragio Anime (1768).

_Nella chiesa Arcipretale di Loreo:
_____Schola della Santa Croce e Suffragio dei Morti del Gesù Crocefisso (1753).

_Nella chiesa di Rosolina di Loreo:
_____Schola di San Giuseppe.

_Nella chiesa di Santa Maria di Rottanova:
_____Schola e Suffragio delle Anime.

_Nella chiesa di Villaregia di Loreo o Ca’ Coreggio:
_____Schola della Beata Vergine della Consolazione o dei Centurati (attiva nel 1700).
_____Fraglia degli Assisi (attiva nel 1700).
_____Schola del Suffragio(attiva nel 1700).

_Nella chiesa di Cavarzere:
_____Congregazione del Suffragio (1772).

_Nella chiesa di Fasana di Cavarzere:
_____Confraternita delle Anime (1778).

_Nella chiesa di Foresto di Loreo:
_____Scuola del Santissimo Crocefisso.
_____Suffragio delle Anime.

_A Caorle
_____Scuola delle Anime del Purgatorio a Santo Stefano di Caorle (1791).

_A Mestre
_____Scuola e Suffragio dei Morti in San Lorenzo di Mestre (1782-1939).


PS: Questa lista è necessariamente incompleta e può contenere delle approssimazioni e inesattezze soprattutto circa alcune date segnate. Non dimenticate che non sono né uno studioso, né uno storico, né un ricercatore, né un archivista o cose del genere. Sono solo un appassionato curioso di “Venezianità” come tanti altri, quindi quanto vado scrivendo necessita d’integrazione e di “beneficio d’inventario” circa la precisione, la citazione delle fonti, e lo “spessore” dei contenuti. I miei sono solo appunti e accenni che mi piace condividere. Chi volesse o dovesse aver bisogno di note e contenuti “più vigorosi” ed esaustivi dovrà necessariamente sobbarcarsi la fatica di andare a “frugare” dentro a “lavori seri” e nei ricchissimi Archivi di cui dispone la nostra Venezia.



“UN GRIDO DISPERATO LUNGO SECOLI … ANZI: UNA VITA INTERA … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 130.

“UN GRIDO DISPERATO LUNGO SECOLI … ANZI: UNA VITA INTERA … A VENEZIA.”

Come sapete, ormai da lungo tempo per mestiere faccio l’Infermiere d’ospedale, perciò ritengo di saperne qualcosa, almeno un pochino, circa il significato del Male, della malattia, del dolore e quindi della Morte. Sono argomenti ostici e indigesti, lo so … pensieri da cui si vorrebbe il più possibile girare alla larga ed evitare.
Ma morir bisogna, c’è poco da fare, non si scappa, è il nostro destino ... anche se speriamo accada per tutti non solo più tardi possibile, ma anche nella maniera più indolore e meno fastidiosa possibile per noi e per gli altri.
Quel che voglio dire però, è che oggi si muore in maniera diversa da ieri. Adesso “si va” in maniera asettica e a volte anonima, spesso dietro a una porta chiusa d’ospedale davanti a Infermieri, Medici e “addetti ai lavori” perfettamente sconosciuti, mentre familiari e congiunti sono indotti ad aspettar fuori … come quando si nasce … (strana coincidenza).

Fino a qualche tempo fa, invece, si nasceva e moriva nel proprio letto e a casa propria, accanto a moglie, figli, parenti, amici e conoscenti, e in mezzo a tutte le proprie cose … magari nello stesso posto in cui si era stati anche concepiti, o dov’erano vissuti e transitati tutti quelli di famiglia. Tutto era diverso insomma, di certo più personale e partecipato. C’era maggior coinvolgimento degli altri, tanto che in certe stagioni storiche “lo star male”, l’essere infermo, l’agonizzare e il morire diventava un fatto condiviso e pubblico … Si moriva in un certo senso “in compagnia”. Il morire, “l’andarsene” non era solo “affar tuo” ma anche degli altri. Si moriva faccia a faccia, davanti a tutti, e col debito accompagnamento “prima, durante e dopo” dell’intera comunità sociale. Il grande balzo nell’Oltre buio e misterioso del “dopo” invisibile era condiviso ... Per noi di oggi, invece, “l’appuntamento” rimane lo stesso, ma abbiamo cambiato molto il nostro modo d’affrontarlo, di “sentirlo” e di viverlo.

In ogni caso rimane invariato per tutti quel che uno scrittore moderno ha descritto così: “… Ciascuno di noi è un pacco anonimo che un postino invisibile s’affretta a trasportare dall’ostetrica al becchino …”

Immagine un po’ squallida … E’ vero … ma esprime forse in maniera giusta il nostro modo attuale di concepire l’esistenza senza tanti fronzoli e in maniera un po’ cinica ed essenziale ... e solitaria. Qualche tempo fa si era forse un po’ più interiori e riflessivi, forse più romantici e fantasiosi, e un po’ più propensi a stare insieme … Chissà ?

A parte le battute, se andrete in giro per l’Italia, ma anche qui da noi a Venezia non farete fatica a vedere interpretato artisticamente in maniere diverse una sorta di “Grande Grido” che riassume bene il nostro stato di persone costrette ad affacciarci allo “spettacolo” del nostro declino personale e della nostra Morte. (Avrete visto di certo i “Gruppi del Compianto” in Lombardia, Umbria, Toscana ed Emilia Romagna. A Bologna per esempio, ce n’è più di qualcuno. Sono opere d’Arte esemplari che rendono visibile quello stato d’animo, quel dramma finale che vive ogni persona davanti al Dolore e la Morte. E’ un grido ultimo, disperato, tragico, che scaturisce dagli animi di tutti quando siamo costretti a guardare in faccia la tragedia della Morte. Non è un comune pianterello, ma un “sentire profondo” che spesso finisce per segnare la nostra esistenza. La foto in alto mostra un dettaglio del “Compianto” di Santa Maria della vita in Bologna.)

Comunque c’è poco da spiegare e da dire: soffrire e morire non piace a nessuno, è l’antivita, l’anti noi stessi, è quella condizione che tutti vorremmo non solo negare ma anche evitare, ne proviamo un immane senso di ripulsa … Ma non si può. Ce la dobbiamo tenere e prima o poi la dobbiamo affrontare … che ci piaccia o no.

Per questo il nostro non poter essere esonerati da questa esperienza ultima si traduce in un immane “Urlo secolare” che è lunghissimo … tanto quanto è lunga l’esistenza dell’intera umanità. La Morte ci sta stretta anche se a volte la inseguiamo, e a volte siamo noi a procurarla insulsamente. Ricordate il “Grido”di Munch … Ecco: quello è soltanto uno dei tanti possibili “urli”, ma ne esistono tanti quanto è il numero delle persone viventi, e anche di più.

Venezia Serenissima lungo la sua Storia ha curiosamente considerato moltissimo questo aspetto significativo del vivere. Lungo tutto il corso dei secoli è stata quasi maestra nell’intendere, interpretare ed esprimere quel “Grido maiuscolo”. Diciamo che ha saputo porsi di fronte al mistero del dolore e della Morte in maniera del tutto singolare e intensissimo, e l’ha fatto modulando quel suo interesse soprattutto nell’incarnato del suo vivere quotidiano.

Come sapete, a Venezia si viveva gomito a gomito col pensiero della Morte perché per secoli c’è stato un’infinità di cimiteri e cimiterietti sparsi ovunque per ogni Contrada della città. Ciascuno aveva i Morti appena fuori dalla porta di casa sua, sempre sotto agli occhi, per cui era costretto a pensarci non dico sempre ma di certo spesso. Nei tempi andati i Veneziani si recavano in chiesa spesso, di certo molto più di oggi, diciamo che più di qualcuno lo faceva un giorno si e un altro giorno anche. Per far questo si doveva attraversare ogni volta il cimitero della Contrada dovendo per forza considerare quello “status futuro” che sarebbe capitato a se stessi e già accaduto ai propri cari Morti. Venezia fino a napoleone è stata un “colossale deposito di Morti”dovuti a guerre, pestilenze e morti comuni di persone decedute negli Ospedali, negli Ospizi e soprattutto nel proprio letto.

Santa Maria Formosa, San Giovanni in Bragora, Anzolo Raffael, San Trovaso, San Giovanni e Paolo, Santa Maria Materdoni, San Silvestro, Sant’Anzolo, San Francesco della Vigna, San Giacomo dell’Orio, i Frari… erano tanti i cimiteri cittadini inframezzati alle case di Venezia, la lista sarebbe lunghissima. E si faceva a gara, in proporzione delle proprie finanze, a farsi seppellire nelle chiese, nei chiostri dei Monasteri o in qualche “posto Santo” per essere in qualche maniera “più vicini a Dio”, o perlomeno “a tiro, o a ridosso”delle orazioni dei vari Preti, Frati e Monache ... “che male non facevano ai Morti … anzi ! … Ce ne fossero di più !”

A Venezia ci conviveva con un accatastamento immane di tombe, arche, sepolcri, monumenti funebri e mausolei di famiglia, perciò quel “Grido”a cui accennavo era avvertito più che mai, era come nell’aria, respirato da tutti quasi in maniera ossessiva e quotidiana, onnipresente. Un “Grido”, non dimentichiamolo, sempre insopportabile, drammatico, terribile, doloroso, mai digerito e assimilato a sufficienza. Un “Grido” di ripulsa, di rifiuto, d’angoscia, incomprensione, protesta, disperazione … e anche di speranza, rassegnazione e conforto … ma sempre un “Grido” allucinato e doloroso da provare a esorcizzare, contenere, superare … ma non allontanare e ignorare (a differenza di noi di oggi).

Quando entrate nelle chiese di Venezia, oltre ad ammirare le architetture e le splendide opere d’Arte, provate a guardarvi meglio intorno osservando certi particolari. Noterete che sotto ai vostri piedi ci saranno spesso tombe, arche e lapidi, così come potrete vedere in qualche angolo un Altare Nero dei Morti o un altrettanto Nero Crocifisso, o un intero apparato di marmi neri, paraste buie, simboli di teschi e di Morti, o segnali lignei intarsiati e dipinti con Anime Purganti avvolte da fiammeappartenute a Schole della Buona Morte o a Schole delle Anime del Purgatorio.

Per i Veneziani di sempre, come per noi di oggi, la Morte è stata e rimarrà sempre un totale salto nel buio ignoto. Fino ad oggi, che io sappia, nessuno mai è tornato a dirci con chiarezza ciò che ci aspetterà oltre quell’immensa e ineludibile “Porta socchiusa”. (Che ci piaccia o no, siamo fatti così, perché paradossalmente anche quando siamo usciti dal grembo materno non ne sapevamo nulla. Del “prima e del poi” di noi stessi non sappiamo niente, non ci appartiene … Quindi Morte e Vita, fine e inizio, in un certo senso s’assomigliano … Chissà … forse ci sarà un senso in tutto questo).

Tornando a Venezia … Intendevo dire che a differenza di noi di oggi, i Veneziani di ieri guardavano maggiormente in faccia il fenomeno del declino fisico e della Morte. Non che non ne avessero paura, ma forse erano più coraggiosi di noi di oggi, perché in ogni momento preferivano celebrarlo, sottolinearlo e ricordarlo come se ne volessero prendere le contromisure, e volessero gestirlo un po’ per volta e in maniera meno traumatica … e più speranzosa.

Direte che era una pia illusione … E’ vero … Però i Veneziani di ieri hanno avuto quell’interesse e quell’attenzione per secoli, il che significava che ne percepivano una certa utilità, e che in qualche maniera ne provavano beneficio.

Per questo allora, Venezia ha avuto per secoli un tripudio d’iniziative associative che prendevano in considerazione di continuo il declino personale e la Morte. Forse non si è mai considerato abbastanza questo fenomeno culturale, ma in Venezia e in tutta la Laguna, e poi ovunque anche nella Terraferma, esisteva un concentrato di realtà che consideravano e celebravano di continuo questi temi così ostici, macabri e terminali.

Tutte le Scuole Grandi di Venezia, ma anche quasi tutte le Scuole Piccole d’Arte e Mestiere, di Devozione e Nazionalitàsi sono occupate sempre dei “Corpi” ossia del “problema” del soffrire, agonizzare, morire, essere seppelliti, del suffragio e aiuto economico post mortem ai rimasti. E’ sorprendente il numero delle Schole che si sono dedicate a questo scopo in maniera specifica ... Per farvene una vaga idea provate a cliccare la lista che ho provato a stendere qui sotto.


Vi sorprenderà il numero delle Schole di Venezia dedicate in maniera specifica alle agonie, al trapasso, alla Morte e alle sepolture, nonché il numero dei Suffragi dei Defunti, le Schole dei Morti, e le Associazioni di conseguenza dedite all’accompagnamento delle vedove, degli orfani e dei sopravvissuti.
Venezia si è impegnata, quasi spremuta per secoli in una continua, assidua ritualità che prendeva in considerazione senza sosta il trapasso dall’esistenza e quanto derivava da quell’evento. Venezia quindi non era solo evasione, Carnevale, goliardia, mangia e bevi, mercanti, lavoro, guadagni, guerre e libertinaggio ... i Veneziani avevano testa, e pensavano anche a molto altro.
Agonizzare, vivere le stagioni del dolore e Morire se non erano una festa, erano di certo un Rito, “qualcosa” da celebrare e guardare in faccia insieme senza scappare. Per i Veneziani era importante “Morire Bene, far una Buona Morte”… Ecco perché sorsero numerose Confraternite con quel nome e soprattutto con quell’intento.

Migliaia di Veneziani di ogni estrazione sociale si sono iscritti e hanno appartenuto per secoli a Schole Nere e a Fraterne dei Morti diffuse e radicate un po’ ovunque in giro per Venezia e la sua Laguna. Quelle Schole a volte erano realtà un po’ gotiche, talvolta buie e legate ad austere pratiche penitenziali di Suffragio anche notturne, o ipogee e sotterranee collocate in luoghi privi anche della luce del sole. Erano un mondo saturo di “catafalchi da Morto”, luminarie, teschi e ossa, sepolcri e sepolcreti, cordogli, e già che c’erano i Veneziani non omisero di aggiungere anche una buona dose di speranze cabalistiche e contenuti superstiziosi. 
Ne venne fuori un intero mondo di Compagnie dedite a inanellare di continuo tutta una serie di: “preci da Morto, Esequie, Ottavari, Anniversari buoni per ogni tipo di tasca”. E come sempre, a Venezia si mescolò “Sacro e Profano”, e il suffragio e il dolore per la perdita dei congiunti divennero occasione anche per guadagnarci sopra qualcosa, e per risollevare a volte ampiamente le sorti di quelli che“rimanevano di qua”

Tutto questo è durato a lungo, fino ad oltre metà del secolo scorso, e ancora nel secondo dopoguerra non era difficile trovare in mezzo ai campi o ai crocicchi delle strade dei Capitelli con dipinti di fattura popolare in cui sotto ad “Anime di Morti Purganti” avvampate da lingue di fuoco si poteva leggere detti simili a questo: “O viandante che passi di quaggiù, io era come sei tu … Tu sarai come son io … Leggi questo e vai con Dio.”

“Ricordati che c’hai da morì !” si diceva bussando ogni mattina sulle porte dei Monaci per svegliarli dal sonno che era in fondo “una piccola Morte transitoria”… e chissà quante volte si sono toccati in tanti, e fatto gli scongiuri per allontanare quel momento così indesiderato.

Quello di Venezia è stato quindi un “Grido” enorme, non un urlo qualsiasi, ma un’esclamazione potente e prolungata, quotidiana, straziante, durata fin quasi a noi di oggi ... che forse abbiamo dimenticato un po’ come si fa a “gridare”certe cose e situazioni.

Ricordo personalmente che ancora negli anni ‘60 e ’70 del 1900 nella mia isoletta di Burano spersa in fondo alla Laguna, il vecchio Piovano mi portava con se a “far visita” alle persone che stavano accompagnando in casa l’agonia di qualche moribondo o moribonda. Essendo “fuori mano” ed isolati, si usava ancora morire in casa (come nascere). Ricordo che alcune case erano piene di gente che letteralmente circondava la persona “in partenza”, era tutto un andirivieni in punta di piedi fatto di cortesia, gesti e parole sommesse di consolazione, preghiere, sguardi e grandi silenzi. Era proprio “un accompagnare” efficace e condiviso … anche se poteva sembrare un far da spettatori a una morte “in diretta”. Quella volta l’ho percepito come una cosa bella e molto viva e giusta, mentre viceversa nell’ospedale in cui lavoro oggi il “fatto del trapasso”è a volte un momento per davvero squallido e solitario, quasi vuoto. Si fatica a riconoscere la giusta dignità a quel momento e a quella persona ... o perlomeno non viene spontaneo.

C’era inoltre anche un altro aspetto curioso e secondo me positivo che ho vissuto e visto nella mia isoletta di Burano. L’ho poi ritrovato a lungo anche quando ho vissuto a Venezia. In alcuni Buranelli e Veneziani c’era la convinzione molto condivisa che i Morti dopo il decesso rimanessero ancora “per un certo tempo” presenti fra noi, come in una specie di“Limbo d’attesa”. I Morti venivano considerati come “in transito e stazionamento”prima della loro “partenza definitiva” che avveniva solo in seguito. C’era chi affermava che i loro cari defunti “C’erano ancora nelle vicinanze pur non essendoci più” almeno per un altro intero mese, o forse due, o di più … Quella sensazione aveva forse un intento consolatorio per rendere il distacco meno drammatico, una rottura più soft e un po’ rinviata rispetto a quella che era la realtà nella sua crudezza dura da assimilare.
Non sto qui ad elencare i gesti e le attenzioni che derivavano da quelle convinzioni (servirebbe un libro apposito al riguardo). Era comunque un’abitudine, un modo di porsi condivisi da tanti … In quasi tutte le case c’era, ad esempio, il “cantonàl”: una specie di angolo speciale dove si conservavano “gli agganci, i ricordi, e le memorie efficaci” per richiamare coloro che erano Morti (c’erano: foto, medaglie, oggetti che erano appartenuti ai defunti capaci in qualche maniera misteriosa non solo d’identificarli, ma anche di evocarli … e contattarli). Era un mondo a parte, davvero speciale ... che non c’è più, o quasi.

Le donne anziane del paese mi spiegavano esternando una specie di loro “Sotereologia spicciola” da Contrada: “I Morti subito dopo il decesso assumono la condizione di “Aneme Purganti” … Rimangono in “Un luogo” dell’aldilà in qualche modo a nostra “portata di mano”, o almeno a “portata delle nostre preghiere e dei nostri pensieri”… Si può continuare a convivere con i Morti, parlare con loro, confidarsi e raccontare del nostro vivere … E loro ci sono vicini, ci ascoltano, condividono e proteggono le nostre sorti … Anche intercedono, propiziano per noi (come non si sa).”

Ascoltavo sempre molto interessato questo genere di discorsi … Li ho sentiti a lungo sulle bocca di tante persone molto convinte … Suggestioni ? …. Non lo so. Di certo maniera diverse d’affrontare e vivere e gestire quel famoso “Grande Grido” che provoca inevitabilmente ogni Morte.

E c’era ancora dell’altro nei Veneziani di ieri, come pure nei miei Buranelli. Erano convinti che “il Divino, l’Eterno” fosse coinvolto in prima persone, “direttamente presente” nel grande dramma del distacco e della sofferenza umana. Anzi, pensavano che i Santi e la Madonna, e Dio-Gesù Cristo in persona fossero come i protagonisti, gli antesignani, i battistrada, i precursori, gli esempi del “come” affrontare in maniera “giusta”e forse più indolore il “Grande Grido” della fine dell’Esistenza e dell’inizio della Morte.

Ecco perché sono sorte in Venezia e in Laguna numerose Schole dedicate a San Giuseppe, ad esempio.

San Giuseppe oltre ad essere stato il famoso “Falegname e Padre Putativo del Cristo Divino” era considerato anche il “Patrono della Morte e dell’Agonia”, il “Signore del Transito”, il maggiore interprete, il “buon esempio” del come vivere la “Tragedia del Trapasso della Morte”. Forse perché aveva “accompagnato” il Cristo durante la sua esistenza, così forse era stato e poteva essere “Bravo e capace” ad accompagnare chiunque nel momento della Morte … Lui stesso aveva vissuto e affrontato in maniera “esemplare” il proprio trapasso.

La diffusione in Occidente nel 1522 del culto del “Transito di San Giuseppe”è dovuta al Frate Domenicano di Milano Isidoro Isolano, che in un certo senso ne codificò i contenuti in una sua “Summa de donis St.Joseph” stampata a Pavia. Lì menzionava e faceva riferimento a una leggendaria “Vita di San Giuseppe” di origine ebraica risalente al 1340.
A partire dall’azione del Frate Domenicano la “Devozione a San Giuseppe Rifugio e modello degli Agonizzanti, Speranza dei malati, Patrono dei morenti, Terrore dei Demoni” si diffuse rapidamente in tutta l’Italia: prima a Bolognanel 1557, a Toffia di Rieti nel 1673, a Ferrara nel 1677, a Casto di Vercelli nel 1721, a Carpi di Modena nel l805 … e in precedenza anche a Venezia con numerosi esempi di Schole e aggregazioni specifiche (osservate la lista allegata).


Nella Leggenda di San Giuseppe si raccontava che “Il Transito di San Giuseppe fu fortunato”. Fu lo stesso Gesù a descriverlo perché fosse d’esempio per tutti: “… Giuseppe invecchiò e si portò avanti negli anni. Tuttavia il suo corpo non ebbe indebolite le sue forze, né gli si offuscò la vista degli occhi, né gli cadde alcun dente dalla sua bocca, né la sua mente divenne decrepita in qualcosa … Ed io mi comportai con lui in ogni cosa come fossi figlio suo ... Chiamavo Giuseppe: Padre, ed egli mi chiamava: “Figlio suo” ... e obbedivo in tutto a mia Madre e a Giuseppe … Amavo molto Giuseppe come fosse la pupilla dei miei occhi. Ma si avvicinavano i giorni della morte di Giuseppe. Gli apparve l’Angelo del Signore e gli disse che presto avrebbe dovuto lasciare questo mondo per raggiungere i suoi padri. Egli ebbe paura, si alzò e andò a Gerusalemme. Entrò nel tempio e a lungo pregò Dio che gli fosse propizio nell’ora della sua morte … Dopo aver pregato, ritornò a Nazaret; entrò in casa e non reggendosi più in piedi cadde sul suo lettino e la sua infermità si aggravò di molto. Allora io entrai da lui e gli dissi: Salute, padre mio, Giuseppe. Cosa c’è che fa turbare così un uomo santo e benedetto? …  Egli, avendo udito la mia voce, così rispose: “O figlio mio diletto, Gesù mio, tu che salverai molte volte. Figlio mio, il dolore e la paura della morte mi hanno circondato, ma appena ho sentito la tua voce l’anima mia si è ripresa. Infatti, tu, o Gesù, sei il Salvatore e il Liberatore della mia Anima. Tu sei il velo che nasconde i miei peccati … E avendo detto questo, prevalse l’infermità e non poté più parlare ... Il vecchio girò dunque la sua faccia verso di me e con grandi sospiri ansimava verso di me ... Io mi chinai verso di lui, toccai e accarezzai i suoi piedi, e tenni la sua mano tra le mie mani per una lunga ora. Giuseppe mi faceva segno come meglio poteva di non lasciarlo e fissava i suoi occhi su di me. E vennero Michele e Gabriele da mio padre, Giuseppe. Così spirò in pazienza e letizia. Io con le mie mani chiusi gli occhi e la bocca, ricomponendo il suo volto … Tutta la città, apprendendo della morte di Giuseppe, venne a fargli visita. Parenti e amici suoi lavarono il corpo di Giuseppe e lo unsero con ottimi unguenti. Io nel frattempo pregai il Padre mio. Finita la preghiera, venne una moltitudine di Angeli. E comandai a due di loro di vestire il corpo di Giuseppe. E gli stessi Angeli rivestirono con una veste candida il corpo del vecchio benedetto, Giuseppe. Io benedissi il suo corpo affinché non andasse in putrefazione ...  E dissi anche: ‘Io benedirò e aiuterò ogni uomo della Chiesa dei giusti che nel giorno della tua memoria, o Giuseppe, offra un sacrificio a Dio ... E chi mediterà sulla tua vita, sulle tue fatiche, sul tuo transito da questo mondo, quando l’Anima di costui uscirà dal corpo, io cancellerò dal Libro i suoi peccati onde non vengano mai puniti nel giorno del Giudizio. Nella casa dove ci sarà il ricordo di te, non entrerà né la pestilenza, né la morte improvvisa’…”

In poche parole: sulla scia di questi contenuti a Venezia fiorirono diverse Schole dedicate all’Agonia affidate alla “protezione” di San Giuseppe: “l’uomo capace della Pia Morte”… un modello da imitare anche nella comune vita delle Contrade di Venezia fra ponti, calli, corti, fondamente, canali e campielli. Quello che era capitato a Giuseppe poteva capitare ad ogni Veneziano.

Oltre a San Giuseppe, anche la Madonna a sua volta e molto di più, è stata intesa dai Veneziani come modello e come versione femminile protettiva e utile da imitare. La Madonna era “la Donna” con una sensibilità più raffinata rispetto a quella di San Giuseppe (maschio), e più potente nell’intervento e nella protezione essendo “La Madre del Signore”.

La Beata Maria Vergineè stata accostata “alla grande” alla gestione della Morte, del Dolore e del Trapasso. Maria avendo preso fra le braccia “il figlio morto di Croce”, era “la Madre Addolorata e del Pianto” per eccellenza, il prototipo da imitare, e un “totem potentissimo” a cui rivolgersi per implorare “aiuto e forza” in quei momenti difficili e d’estrema tensione emotiva esistenziale. A Venezia perciò sono fiorite a grappoli le Schole dell’Addolorata, della Donna di Pietà, e della Madonna dei Sette Dolori. La Madonna legata e coinvolta alla Passione e alla Morte del Cristo era sinonimo del “percorso umano dolente” e dell’esperienza luttuosa che capita nella vita di ogni persona. Il dramma della Madre Dolorosa celebrato di continuo in chiesa era l’archetipo, il modello, la rappresentazione di ciò che capitava in ogni casa e in ogni famiglia di Venezia e della Laguna.

Il culto e la venerazione della “Maria dei Sette Dolori e dell’Addolorata”è antichissimo: risale circa al 1221. Sembra sia nato nel Monastero di Schönau in Germaniadove pare si sia stato costruito il primo altare dedicato alla “Mater Dolorosa”. Subito dopo il culto dell’Addolorata è giunto in Italia e fu fatto proprio dalla Compagnia dei Laudesi Fiorentini detta dei “Servi di Maria” che ogni mattina cantavano le loro “Laudi della Madonna” davanti alle immagini “vestite a lutto e visibilmente addolorate” poste nelle vie di Firenze, vestendosi a lutto come Lei, e ritirandosi a vita di penitenza e preghiera sul Monte Montesanario da dove scendevano per fare “opera missionaria”, predicare pace e fare proseliti.

Di lì il culto si espanse a macchia d’olio: nel secolo seguente la devozione “dell’Angoscia e dei Dolori di Maria Dolores della Soledad (solitudine triste dopo la morte), dell’Entierro(la sepoltura), del Pianto e della Compassione di Maria ai piedi della Croce” si diffuse ovunque per l’Europa e per tutta l’Italia ... e quindi anche a Venezia con numerosissime liturgie, Schole dedicate, uso degli “Scapolari neri” da indossare e portarsi sempre appresso, processioni, recite della “Corona dei Sette dolori della Beata Vergine Maria Addolorata e del Pianto”, e la celebrazione della “Via Matris” in parallelo e integrazione della “Via Crucis” utilizzando il famosissimo canto dello “Stabat Mater” che ha attraversato i secoli nella Letteratura Ecclesiastica e Musicale.

I Veneziani aderenti e iscritti alle varie Schole dell’Addolorata o della Vergine di Pietà o in quelle della Vergine diConsolazione o delPianto vedevano riflessa nella “Madre consumata dalle tribolazioni e da ogni amarezza … trafitta dalla spada del dolore … privata del Figlio … Tortora gemente ... Fonte delle lacrime, Campo delle tribolazioni, Fiume di sofferenze, Modello di pazienza, Rupe di costanza, Ristoro nelle pene, Gaudio degli afflitti, Ara dei desolati, Rifugio dei derelitti, Scudo degli oppressi, Vincitrice degli increduli, Consolazione dei miseri, Sollievo degli infermi, Medicina dei sofferenti, Forza dei deboli, Patrona dei perseguitati, Porto dei naufraghi, Refrigerio nelle tempeste, Compagna di chi soffre, Terrore del Maligno …” la condizione di ogni donna, madre, sposa, vedova e orfano di Venezia.

Ricordo sempre nella mia Burano, che molte vedove o madri di figli caduti in guerra portavano al collo medaglioni con su una parte la foto del figlio morto, e dall’altro lato un’immagine della “Madonna Addolorata e Afflitta”.
Un passo ulteriore, sempre legato a questa dimensione della Fede e della Devozione tipica di gran parte del Veneziano e del Veneto fino alla fine dell’altro secolo, era quella di vedere più di tutti nel Cristo Crocefisso, Morto, Deposto e Sepolto (e poi Risorto) la raffigurazione di tutto quanto accade nel destino della vita di ciascuno di noi.

Insomma si pensava e credeva che il Crocefisso Morto fosse il riassunto di ogni vita, la rappresentazione del nostro destino finale e conclusivo vissuto tramite il dolore e la sofferenza psicofisica. Il Crocefisso era l’esempio, un essere martoriato, come lo era ed è chiunque finisce per morire passando attraverso la malattia, l’infermità e i drammi dell’esistenza. Ecco che anche in questo caso Venezia si è riempita di Schole del Crocefisso o della Croce… immagine e contenuto che per fra l’altro è uno dei cardini dell’intero Credo Cristiano.

A Sant’Eufemia della Giudecca, ad esempio, dove gli stessi 81 uomini e donne appartenenti al Suffragio dei Morti della Beata Vergine del Pianto che“Facevano mensilmente questue per le Anime, e celebravano ogni primo sabato del mese “messe in terzo” per ogni confratello defunto che accompagnava fin sulla barca sulla Riva della Zuecca con la cappa e la “mazza nera profilata d’oro con l’immagine della Vergine del Pianto”, e andavano a celebrare esequie presso i Monasteri delle Monache per dimostrare celebravano per davvero le Messe promesse e già pagate; passarono nel 1685 per scarsità  d’entrate e pagamenti non in regola degli iscritti a formare e iscriversi alla nuova Compagnia del Crocefisso della Bona Morte che portò i propri aderenti ufficialmente a 100 regolarmente paganti e abusivamente a 200 iscritti fra cui diversi poveri ... in ogni caso capaci di finanziare un giro di Messe ed Esequie da celebrare per 31 ducati e 18 grossi annui…”

I Veneziani hanno come concentrato e sintetizzato in quel Crocifisso, ridotto per secoli in maniera plastica, quasi riassunto in quell’emblema se stessi e la propria “condizione dolente e morente”. Ecco perché molti Veneziano amavano portare spesso al collo un piccolo Crocifisso.

Partecipare quindi, essere iscritti a una Schola del genere significava dare una precisa connotazione alla propria Morte oltre che alla propria esistenza, e anche decidere di condividerla e spartirla con gli altri. Il Crocifisso veniva inteso oltre che come simbolo, anche come “fotocopia”del proprio stato di viventi, trasposizione, amplificazione portata al massimo della propria fine, e sublimazione del comune vivere transitorio … nonché speranza recondita di poter subire lo stesso destino di Rinascita Salvifica.

Voglio dire insomma che nell’arcipelago Veneziano si è sviluppato per secoli l’intenso fenomeno delle Schole del Compianto, del Dolore e della Morte. E’ stato un fenomeno Sociale oltre che Religioso che innescato fin dal primo Medioevo si è protratto fino al 1800 e alle devastazioni e soppressioni napoleoniche, e sopravvissuto anche a quelle si è prolungato oltre fin quasi ai giorni nostri.

Di alcune di queste piccole realtà sono rimaste solo poche tracce, in qualche altro caso, invece, sono rimaste notizie e memorie ben più corpose e visibili. Potremmo dire che il fenomeno delle “Schole dei Morti e delle Aneme Purganti” di Venezia ormai si è spento o perlomeno in gran parte assopito e quasi scomparso, però credo rimanga ancora in alcuni  Veneziani la “propensione” a questo particolare “sentire” di fronte alla Morte.

All’inizio del 1800 napoleone provò a cancellare tutta quella realtà Veneziana in un colpo solo. Si è premurato di far scempio di tombe, svuotare monumenti e mausolei funebri, arche appese nelle chiese, sepolcri e cimiteri raccogliendo e buttando ogni tipo di ossa alla rinfusa nell’isoletta di Sant’Arian dietro a Torcello in fondo alla Laguna senza curarsi di distinguere fra Dogi e comuni popolani. Ha fatto di tutto e tutti un gran mucchio d’ossa e resti anonimo.

I Veneziani distrutti nelle loro abitudini ebbero un breve periodo di smarrimento e sbandamento, poi si ripresero immediatamente e si riorganizzarono inventandosi le Compagnie di Sant’Adriano o Sant’Arianche si diffusero ovunque in città supplendo al tanto che era stato cancellato e vilipeso. (vedi ancora la lista).



Queste nuove realtà associative di Suffragio per i Morticoltivarono a lungo la tradizione di recarsi a turno ogni anno in pellegrinaggio con barche fino all’isoletta Ossario di Sant’Arianquasi a prolungamento di quel Culto per i Morti che si era celebrato per secoli a Venezia. Ad ogni Compagnia potevano essere iscritte 33 persone come il numero degli anni di Cristo … e ci si recava ogni volta all’isola dove un Prete celebrava una o più Messe e poi si processionava in tondo cantando, pregando e benedicendo ad ogni angolo e direzione a ricordo dei Morti di ogni tempo accaduti nella Venezia Serenissima.

Nel gennaio 1785 anche tutto quel movimento finì: “… abolite 22 compagnie di Sant’Adriano, il Magistrato non permetta ad esse l’accesso a quest’isola…”  Vennero soppresse tutte le Compagnie di Sant’Ariàn perché quelle spedizioni in Laguna erano divenute troppe volte occasioni da gita fuori porta con eccessi, bagolate,“bisbocce e garanghelli”, canti e qualche sregolatezza strada facendo che facevano passare troppo in secondo piano il ricordo e il Suffragio dei Morti.  Oggi negli anni 2000 è rimasta un’unica Arciconfraternitaquasi anonima e dallo stile un po’ conservatore e nostalgico che sopravvive un po’ a modo suo conservando le memorie e quello “stile e interesse per i Morti”che un tempo ha riempito Venezia ma che ormai è andato perso e superato del tutto.

Infine un ultimo paio di curiosità …

Già in altre occasioni l’ho accennato, e mi sembra giusto riproporlo in questo contesto. I Veneziani erano anche molto devoti a San Vincenzo Ferreri … e non a caso. Non vi dirà quasi niente il nome di questo Santo … Vero ?

San Vincenzo Ferreri era un Santo molto amato dai Veneziani perché veniva chiamato “Il Santo dell’Impossibile … in quanto riesce ad arrivare dove gli altri Santi non riescono … o non osano”. Al di là di quello che il Santo aveva per davvero vissuto nella sua esperienza, a Venezia si era fatto un alone particolare, una sorta di particolare “dote e capacità di Protezione e Patrocinio”.Il motivo dei Veneziani era curiosissimo, se non semplice. Quando durante l’esistenza capitano “certe Croci pesanti”, come ad esempio un malato degente in casa da molto tempo che ha coinvolto e impegnato a lungo i familiari in un’assistenza lunghissima (anni) fino a renderla intollerabile, impossibile da sopportare e prolungare ulteriormente; ebbene … in questo caso era lecito quanto doveroso rivolgersi a Dio e ai Santi dicendo qualcosa come: “Basta ! Abbiamo già dato fin troppo … Più del necessario … Liberate quindi questo malato da tutte le sue sofferenze eccessive facendolo morire … ma liberate anche noi da questa pena e da questo pesante fardello assistenziale senza fine ... Lasciateci vivere, insomma !”

San Vincenzo Ferreri veniva allora chiamato a Venezia: “Il Santo destrigaletti”(ossia il Santo capace di svuotare un letto occupato). Era cioè il Santo deputato all’inverosimile, perché non essendo giusto chiedere la Morte di nessuno, tantomeno a Dio, però a lui si poteva rivolgersi con quel specifico intento. Insomma, San Vincenzo Ferreri era un Santo in un certo senso connivente con la sorte umana, uno disponibile che ne capiva di più ragionando secondo una logica “più bassa, terrena e popolare”. Era un tipo di Santo che sapeva stare compiutamente a cavallo fra Divino e Terreno, fra Sacro e Profano, e fra giusto e opportuno.

A farla breve, ci si doveva rivolgere a lui nelle situazioni difficili che si protraevano “troppo”,si dovevano chiedere a lui certe grazie di “morti liberanti che tardavano a sopraggiungere”. Ricordo distintamente un anziano Prete di Venezia che ai disperati che si rivolgevano a lui in Confessione chiedendo aiuto e consiglio perché non ce la facevano più a supportare certi infermità troppo durevoli o situazioni simili, lui con la massima disinvoltura consigliava: “Ascoltate me … Serve una bella Novena a San Vincenzo il Destrigaletti … Nove giorni di Messe ben dette, un bel cero al suo altare, un po’ di preghiere sincere ben dette a San Vincenzo, una buona elemosina … e vedrete che si sistemerà tutto …”

Forse non mi crederete … C’era chi tornava riconoscente perché “aveva funzionato”.

Nel marzo 1676, invece, nei pressi di Cattolica naufragò la nave “Redentor del Mondo” del Patron Angelo Baffo detto Cavallotto. Trasportava una cassetta contenente 10.000 Zecchini appartenente alla Serenissima Repubblica. Il Patron promise alla Schola del Crocifisso di San Giacomo di Galizia della Giudecca che se avesse recuperato la cassetta le avrebbe donato 100 Zecchini. La Schola “ci mise del suo con le orationi”, e il Baffo recuperato fortunatamente la scatola preziosa ottenne 2.000 Zecchini in premio dalla Serenissima donando alla Schola del Cristo della Giudecca due candelieri e una croce d’argento commissionati a “Benedetto Orefice a Rialto all’insegna del San Giovanni Battista” del valore di 100 Zecchini.

Ho ricordato questo episodio per mostrare “l’altro aspetto della medaglia”, ossia e per dire che le Schole di Venezia erano luoghi di Devozione dove ci si curava del “Grande Grido della Morte”, ma anche posti e associazioni dove ci s’interessava di questioni ben più basse e pratiche inerenti a quelli che erano interessi terreni “meno ultimi e finali”. L’umanità insomma non si è mai smentita lungo il corso dei secoli … neanche a Venezia.Intorno all’Eternità e per avere un “buon passaporto” per essa, anche a Venezia si sono pagate per secoli cifre esorbitanti. Per approssimarsi alla “Salvezza Eterna” soprattutto chi poteva permetterselo spendeva una fortuna per “gridare più forte degli altri verso il Cielo”.

In definitiva c’era anche un grande commercio, e “l’accesso all’Aldilà” era condizionato anche da lasciti, testamenti, indulgenze, suffragi e molto altro ancora. Qualche Nobile e Mercante di Venezia ha compiuto autentiche follie per garantirsi una sepoltura dove ci fosse qualcuno che per secoli passasse o sostasse di continuo davanti ricordando il suo nome a suon di lumini, preghiere ed elemosine. Dico questo perché durante la mia giovinezza è toccato anche a me percorrere e girare mille volte e mille sere intorno a un chiostro per continuare a suffragare, e pregare recitando “requiem” a ricordo e in suffragio di Benefattori Defunti deceduti decenni e talvolta secoli prima.

Venezia era, è stata anche questo ... Una città che ha interpretato per secoli “Il Grande Grido umano”…  E i Veneziani di ieri non erano affatto stupidi e banali … Anzi … Forse erano più lungimiranti e sensibili e pensatori di noi di oggi.

Il popolo dei Veneziani e questa città sospesa fra acqua e Cielo si sono dimostrati ancora una volta essere una realtà davvero singolare e molto interessante.




“CON I TEDESCHI IN CASA PER SECOLI … IL FONDACO DEI TEDESCHI A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 131.

“CON I TEDESCHI IN CASA PER SECOLI … IL FONDACO DEI TEDESCHI A VENEZIA.”

“L’altro giorno sono andato a vedere a Venezia il “Fondaco delle Firme” … Quello nuovo che hanno appena riaperto.”

“Il Fondaco dei Tedeschi !”

“Sì … Proprio quello … Dove oggi vendono cose di produzione cinese ai Cinesi … E’ un bel posto, anche se mi ha un po’ deluso perché speravo di trovare qualche museetto che spiegasse cos’era quel gran palazzo dicendo quel che è accaduto lì dentro nei secoli … Invece niente … Per fortuna che in alto c’è quella bella terrazza panoramica … Ho fatto una lunga fila per accedervi con i miei bimbi, ma ne è valsa la pena: uno spettacolo stupendo. Ho visto Venezia, il Canal Grande e Rialto distesa davanti ai miei occhi … E tutto gratis … L’unica cosa gratuita lì dentro … perché il Fondaco è diventato un posto da svuotare tasche … Un Fondaco da schèi, da lusso e firme … da spendere e basta.”

“A proposito di firme … Le hai viste le firme dei Mercanti Tedeschi incise sulle colonne interne del chiostro ? … Ce ne sono parecchie, e sono molto interessanti …”

“No … Ho visto solo le firme dentro ai negozi … ma di quelle dei Mercanti antichi: nemmeno l’ombra … Se me lo dicevi, forse … Sarà per la prossima volta ... ma ci abitavano per davvero i Tedeschi lì dentro ? … Cos’era ? Una specie di mega Locanda ?” ha considerato un mio collega Infermiere straniero sempre affascinato da Venezia.

Era la fine di novembre del 1383 quando il Priore Francesco Venier degli Agostiniani dello Studius del Convento di Santo Stefano di Venezia accolse Conrado de Boemia della Contrada di Sant’Aponal, Henrico da Norimbergo, Petrus de Boemia e Georgio de Ulmo della Contrada di San Paternian insieme a Friedericus de Bavariadella Contrada di San Silvestro, e Nicolao de Fraybourch della Contrada di San Cassian … Erano tutti: “Homines Todeschi o (Theotonicorum)”di professione Artieri Calzolai ossia Calegheri o “Cerdònes” cioè:“conciapelli”provenienti dalla Germania Meridionale ma residenti ormai da diverso tempo a Venezia. Si trovarono insieme per stipulare un contratto-patto davanti a Nicolai de FerantibusPrete di San Vidal e Notaio Veneziano.

Il gruppetto dei Calegheri Tedeschi rappresentavano un nutritissimo gruppo di “Foresti” di Nazionalità Allemannainsediatisi ormai stabilmente in Laguna e fermamente decisi a conservare le loro usanze e tradizioni, così come a conservare “lo spirito e il modus tipico di vivere, contrattare, credere e lavorare” della loro Nazionalità Teutonica e Nordica che avevano lasciato “per affari” recandosi in Laguna. 

Il nostro Priore Venier di Santo Stefano Frate Agostiniano, faceva parte a sua volta di una lunghissima tradizione Religiosa, interiore e frateresca cresciuta e molto affermata e stimata “su” in Germania, e poi cresciuta e scesa “giù” fino in Italia e nel cuore della Laguna di Venezia. I Tedeschi che si rivolsero a lui chiesero e ottennero un pezzo di terra accanto alla porta del Convento di Santo Stefano per poter seppellire il loro morti, e già che c’erano chiesero e ottennero anche un altarolo dentro al grande chiesone degli Agostiniani per poter celebrare le loro funzioni ... che non significava affatto come ci verrebbe da pensare oggi: “dir quattro Messe”.
In un clima specialissimo oggi del tutto scomparso dove le grandi chiese di Venezia come quella di Santo Stefano erano anche “grandi Piazze e posti d’aggregazione”, si andava in chiesa anche per incontrarsi, sostare, far affari, e stare insieme oltre che per celebrare Messe, Funzioni, Sacramenti e Processioni. Dentro alle chiese di Venezia, infatti, ne succedevano un po’ “di tutti i colori”: si discuteva, si contrattava, si rideva e litigava giungendo perfino alle mani … Proprio in Santo Stefano lungo il corso degli anni erano accaduti ben cinque omicidi sanguinolenti ... e forse di più.

I Tedeschi presenti a Venezia stavano perciò cercando: “un luogo adatto e sontuoso” dove andare a collocare “al sicuro e in maniera degna” le loro radici e ciò che li caratterizzava di più della loro identità socio-culturale e religiosa originale. Quella Tedesca tradizionale era una Religiosità complessa che imponeva loro anche di celebrare e festeggiare adeguatamente: “… le Feste Mariane della Natività, della Visitazione (festa solenne della Schola) e dell’Assunzione della Madonna, e il 2 di novembre, la prima domenica dopo la festa di San Nicolò, e il primo lunedì dopo la festa di San Giacomo il 25 di luglio ... e molto altro ancora.”

Il complesso dello “Studium Agostiniano di Campo Santo Stefano”d’ascendenza Germanica col suo ricco Convento carico di chiostri e cultura, si presentava quindi come il luogo di certo più adatto per i Todeschi Veneziani. Quello di Santo Stefano di Venezia era considerato un posto prestigioso e di successo, uno dei maggiori centri d’ingegno, sapienza e industriosità politico-spirituale dell’Europa, e forse dell’intero bacino Mediterraneo e oltre … il massimo appoggio ottenibile “il topsul mercato Veneziano”.

Ma anche i Tedeschi residenti in Venezia avevano ormai un loro “valore”e peso socio-economico … Infatti il Frate Prior Venier non se lo fece chiedere e ripetere due volte, e in cambio di un contributo annuo di 16 lire concesse subito al gruppetto dei Tedeschi quanto avevano richiesto mettendo “bianco su nero”, e “inchiostro su carta” che gli Agostiniani avrebbero garantito la “Cura Animarum” dei Teutonici celebrando in esclusiva per loro una cinquantina di Messe annue per lo più domenicali, fra le quali una cinquina “Cantate Solennemente” nelle Feste della Vergine di febbraio, marzo, maggio e settembre … e nella festa d’Ognissanti.

E la questione non finì affatto lì, perché extra e oltre l’ufficialità di quell’atto notarile di natura prettamente Religiosa e spirituale, il connubio fra Agostiniani e Calzolai Todeschicrebbe ulteriormente per via di quella ormai consolidata amicizia nata con i Frati. Gli Agostiniani giunsero a concedere al gruppo dei Tedeschi anche una serie di terreni nella stessa zona adiacente al Convento dove poter aprire botteghe, creare magazzini per“pelli e curame”, e anche un Ospiziettoriservato ai Confratelli invalidi della professione, e naturalmente per i numerosi viaggiatori e Pellegrini Tedeschidi passaggio per Venezia diretti in Terrasanta (potevano essere ospitati a 12 soldi al giorno per tre giornate consecutive e non di più … salvo motivate eccezioni che non mancavano mai, anzi erano la regola costante).

Fu così che nella zona dell’attuale ancora vispissima Calle delle Botteghe a Venezia adiacente a Campo Santo Stefano, parte integrante della Contrada di San Samuel, s’insediò con abitazioni, magazzini e botteghe quel nucleo di Artieri e Lavoranti Tedeschi che faceva parte di un numero ben più largo di Allemanni che si erano insediati in massa in giro per Venezia.
I Calegheri Tedeschi misero su la loro Schola giungendo a compilare e stendere una Mariegola-Matricola con Regole e Statuti che divennero modello ed esempio da adottare, imitare e copiare per gran parte delle Schole di Calegheri Tedeschi sparse in giro per tutta l’Italia: Firenze, Treviso, Udine come a Trento e altrove.

La Schola dell’Annunziatacon le botteghe dei Calegheri Tedeschi, la Corte della Pelle col deposito del cuoio, e l’annesso Ospizio-Ospedaletto erano sottoposti al controllo dei Provedadori sora Ospedali, Lochi Pii e Riscatto de li Schiavi. I Calegheri Tedeschi erano abili oltre a costruire calzari, scarpe e stivali nuovi anche come: Zocholàri, Patitàri (costruttori di pattini di legno adattati ai piedi con striscie di cuoio), Zavatèriche riparavano scarpe usate, e Solàri che tagliavano suole su pezze di cuoio da inserire sotto alle calze al posto delle scarpe, per cui erano apprezzatissimi dai Veneziani per la loro abilità, e molto contrastati dalla concorrenza autoctona.


Nel 1482 l'Ospizio dei Todeschi venne ampliato grazie a una donazione di Enrico quondam Corrado Caleghèr d'Alemagna che mise a disposizione un immobile contiguo all’edificio originario. Fu forse in quell’occasione che si provvide a “marchiare”il territorio dell’attività dei Tedeschi apponendo sui muri della Calle delle Botteghe il “Logo della Categoria dei Calegheri”(ossia una scarpa). Infatti sugli stipiti e sui pilastri d’angolo della Calle verso Calle degli Orbi e verso la Salizàda di San Samuel si possono vedere dei bei modelli di “belle scarpe d’epoca”. Sulla facciata dell’edificio divenuto sede della Schola campeggia ed è visibile ancora oggi un’“Annunciazione” in mezzo a un gruppo di Devoti Tedeschi inginocchiati. Un’iscrizione collocata sotto spiega:

“QUESTA FRATELIDADE SIE DA PAVORENTI TODESCHI CALEGHERI”.

Fin dal 1550 il Governo della Serenissima s’interessò più intensamente dell'attività dei Calegheri Tedeschi: il Senato nel 1561 ordinò l'elezione di tre Nobili col compito di rivedere le Regole che gestivano la loro presenza e il loro lavoro. Tre anni dopo, i Proveditori da Comun su mandato del Minor Consiglio provvidero a difendere gli Artieri Todeschi dall’eccessiva intraprendenza dei Calegheri Veneziani che erano giunti a danneggiarli … Nella stessa occasione i Proveditori ordinarono anche la stesura di un inventario dei beni della Schola invitando i Compagni a recuperare una Croce e le loro cose depositate presso i Bombaseri del Fontego dei Tedeschi.

Ovviamente alla fine napoleone disfò tutto, e cancellò ogni cosa della presenza assidua dei Tedeschi: Schola, botteghe, magazzini e Ospizio vennero incamerati dal Demanio, e gli edifici vennero rivenduti a privati che ne fecero negozi e abitazioni. Nel gennaio 1815 il Locale dell’Arte in Calle dei Santi Rocco e Margherita appartenente all’Arte dei Calegheri Tedeschi era iscritto nella “Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi o vendersi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti”.

Tutto questo per dirvi che nei secoli passati i Tedeschi con i loro Mercanti e Artieri hanno letteralmente colonizzato la nostra Venezia venendo a viverci qui non dico in massa ma quasi. Il Fondaco dei Tedeschiè stato quindi la punta emergente di un iceberg, l’apice di una realtà Nazionale Allemanna ben più ampia insediata a Venezia, e capillarmente diffusa nelle Contrade fungendo da protagonista indiscussa nelle economie dei Veneziani. Diciamo che abbiamo avuto i Tedeschi come ospiti fissi in casa per secoli... ma non sono stati quel tipo di ospiti che il terzo giorno “puzzano” perciò non vedi l’ora di liberartene, ma di quelli che non vorresti più che se ne andassero via tanto è stata gradita, utile e preziosa la loro presenza in Laguna.

Scriveva GirolamoPriulinei suoi celebri “Diari”:“… i Tedeschi che vivono a Venezia sono tutti sposati con figli e sono destinati a morire a Venezia … essi amano la città di Venezia più della propria terra natia …”

Mi azzardo a dire che quella fra Tedeschi e Serenissima, è stato per secoli quasi una sorta d’Amore e condivisione d’intenti, e il Fondaco è stato il punto di convergenza, d’arrivo e partenza di tutto un intensissimo commercio e scambio culturale, economico e sociale … oltre che spirituale, che ha interessato grandemente i Veneziani fino all’arrivo di napoleone il “guastafeste”.

Per farvi intendere meglio e dirvi di più, c’erano Tedeschi Manifatturieri, Lavoranti e Mercanti che risiedevano e vivevano in tutte le Contrade prossime al Fontego collocate accanto all’iperattivo Emporio di Rialto. Ce n’erano altri che stavano via via lungo tutta l’attuale direttiva della “Strada Nuova” fino a San Giovanni Crisostomo, Santi Apostoli, San Marcuola, e in fondo fino a San Giobbe, alla Misericordia e San Girolamo: zone di telerie, telai, e luoghi di concia dove anche i Todeschi avevano i loro laboratori e magazzini utilizzando le famose “Chiovere e Chioverette” presenti in fondo al Sestiere di Cannaregio usate per stendere e asciugare lane e tessuti lavorati e colorati.

Sappiamo inoltre che: “… c’era un Oste Todesco a tenìr locanda in San Mattio di Rialto”, e c’erano numerosi Tedeschi nella stessa Contrada di San Samuel verso San Marco, poco distanti dai Calegheri di cui vi dicevo. Quest’altri Tedeschi lavoravano da Pistori o Prestinai(panettieri che cucinavano il pane “alla Tedesca”) ... Ancora oggi “i Nizioletti” dipinti sui muri li ricordano.

C’erano ancora: Lavoranti Pistori Tedeschi residenti dall’altra parte della città verso Castello, in Contrada di Sant’Antonin(provenienti in realtà da Livinallongo e Santa Lucia d’Agordo o dalla Lombardia. Si consideravano "Todeschi"a Venezia non solo quelli provenienti dal Nord dell’Europa: Boemi, Polacchi e Ungheresi, o dalla Baviera e dalla Sassonia, ma anche gli abitanti di Gradisca d'Isonzo, e tutti coloro che provenivano dal Trentino e dall’Allemagna, ossia dalle zone che in qualche maniera erano state soggette al dominio Asburgico e Imperiale o perlomeno coinvolte e interessate dal passaggio dei loro commerci lungo le “Vie di Terra e delle Alpi”). I Lavoranti Pistori Tedeschi abitanti a Sant’Antonin avevano fin dal 1422 una loro Schola attivissima in San Filippo e Giacomo o nella vicina (stupenda) Sant’Apollonia: la “Schola della Natività di Maria o della Concezione dei Lavoranti Pistori o Prestinai de la Nathion dei Todeschii”. A Venezia si diceva che i Prestinai Tedeschi erano confluiti in massa in Laguna con una particolare ricetta segreta per cuocere il “Panbiscotto” per le milizie e i marinai delle Galee Veneziane nell'isola di Santa Lena(Sant’Elena) dove nel 1433 la Serenissima aveva fatto costruire degli appositi nuovi forni accanto al Convento per incrementare la produzione di quell’alimento utile da portare a bordo e in viaggio.


In Laguna erano attivi Pistori Veneti, Pistori Lombardi e Pistori Todeschi che cucinavano il pane ciascuno alla propria maniera. Nel 1422 si provò a unificare le varie Arti del Pane dei Fornéri o Pancogoli o Panicuocoli, ma si dovette ben presto disgiungerle e desistere perché erano troppo diverse per il modo di lavorare, per via del culto, delle tradizioni, della Nazionalità, per la lingua e per il tipo di cultura.

Nel 1688 i Tedeschi erano così bene integrati a Venezia che il Senato decretò che i Pistori Todeschi, qualora avessero esercitato la professione in Laguna per almeno dieci anni dovevano essere considerati normali "Sudditi Veneziani" e non più "Foresti".

E questo non è ancora tutto … perché c’erano Peltreri e Stagneri Tedeschi insediati nelle Contrade di San Bartolomeo e San Salvador lungo le Mercerie e verso San Marco. Anche costoro avevano una loro Schola specifica d’Arte, Mestiere e Devozione con Mariegola approvata dalla Serenissima fin dal 1432. Si trattava della Schola di San Giovanni Evangelista dei Peltreri e Stagneri Todeschi ospitata prima nella chiesa dei Canonici di San Salvador con i quali litigarono parecchio per l’uso dell’altare e per la loro pala con l’insegna dell’Arte che era: "un bocàl de stagno da galìa", e poi nella chiesa del Capitolo di San Bartolomio dal quale ebbero in uso: “l'area del pèrgolo de pièra nel Coro della chiesa” che provvidero a demolire per farne un posto consono alla loro Arte con arca di sepoltura per i Confratelli, e luogo atto a conservare: “le robe delle loro devotioni”.

Non ancora contenti, nel 1692, gli stessi Peltreri Tedeschi che “… fabbricavano e vendevano oggetti in stagno e peltro: scodelle, piadene, vassoi da portata e calici … e riparavano pentole, lucidavano posate, lavoravano metalli apponendo sui loro prodotti il bollo-sigillo di San Marco a garanzia di qualità della loro merce …”,si spostarono nella chiesa diSan Mattio di Rialto dopo aver litigato col Patriarca di Grado(Piovano Pro Tempore di San Bartolomeo)che subito dopo provvide a demolire il loro altare troppo pomposo e utilizzato da troppe funzioni e riti tanto da oscurare il vicino Altare Maggiore della chiesa.
A San Mattio i Peltrineri Tedeschi trovarono il modo di litigare anche lì con gli Strazzaroliche recuperavano vecchi oggetti rotti restaurandoli di nascosto e rivendendoli per “buoni”… erano la concorrenza ... Non erano perciò sempre tranquillissimi e arrendevoli “quei Todeschipiovuti a Venezia”.

Un’altra Schola di Bastazi o Facchini Ligadori e Segadori del Fondaco dei Tedeschi si riuniva sotto la protezione di San Nicolò di Mira “provvisoriamente” in San Bartolomio di Rialto, dove dal 1413 in cambio del versamento annuo di sei ducati il Capitolo della chiesa concesse l'uso del primo altare a sinistra entrando dalla porta maggiore, a patto che i Bastazi s'impegnassero anche a fornirlo di tutti gli arredi sacri necessari … Due secoli dopo erano ancora là.
Nel 1625, siccome la Schola con 60 iscritti “era puntuale, quieta e pagadora”, l’esoso Capitolo di San Bartolomeo concesse loro (sempre a pagamento s’intende) di costruirsi in chiesa anche un paio d’arche per le sepolture dei Confratelli che lavoravano nel Fontego come: Bastazi, Segadori de legname, Magazzinieri, Custodi del Fondaco e Stivadori de biade e fieno.

Ancora nel 1785 verso “lo spirare” della Repubblica, i Bastazi rimasti nel Fontego dei Tedeschi erano cinque, tutti regolarmente iscritti alla loro Schola di cui il più anziano di loro fungeva da Gastaldo organizzando ogni anno una dignitosa “Festa del Patrono” molto partecipata dai Tedeschi di tutta Venezia.

Altri gruppi di Tedeschi provenienti dalla Germania del Nord lavoravano e risiedevano in Contrada di Santa Margherita nel Sestiere di Dorsoduro dove avevano la loro Schola di Santa Maria della Speranza dei Tessitori di Fustagno Tedeschi sotto la Protezione della Santissima Croce e della Beata Vergine Maria della Visitazione poi divenuta Madonna del Carmelo.
Nelle prime pagine della loro Mariegola del 1424 si legge: "Questo è lo principio de la Mariegola della Schola de Tesseri d'Alemagna Alta nella giesa di Carmini ad honor de Madonna Santa Maria Madre del Nostro Signor Gesù Christo".
Esattamente nell’agosto di vent’anni dopo, con un atto notarile redatto da Francesco Bonivenne stretto un accordo fra la Schola dei Tessitori di Fustagno Tedeschi e i Frati dei Carminiper avere “in uso” l'altare di Sant’Albertoin chiesa dimostrandosi disponibili a versare al Monastero un censo annuo di 25 lire. I Tedeschi s’obbligarono a pagare anche altre 26 lire annue per le cere che rimanevano accese sull’altare della Schola, per “i doppieri consumati in onore dell’Eucarestia”, e per i “cesendelli” utilizzati durante i funerali dei Confratelli. Promisero inoltre di dare “oblazioni ed eque elemosine secondo coscienza” nei giorni in cui si sarebbero celebrate le 5 Messe Solenni previste, e s’impegnarono, infine, a pagare nel giorno dell’Assunzione “… tubicines et picaro qui cum suis instrumentis pulsent et pulsare debeant ad celebrationem Misse et Offitiorum in dicto die fiendorum…” (i trombettieri e il pifferaio che con i loro strumenti devono per forza suonare durante le celebrazioni della Messa e degli Offizi in detti giorni di festa).

Nel 1480 al Consiglio dei Dieci risultava che ai Carmini erano confluiti i Testori dell’Allemagna Alta, mentre quelli dell’Allemagna Bassa lavoravano e si concentravano nella loro “Schola in Contrada de San Simeon Picolo nel Sestiere di Santa Croxe” dove possedevano un Ospiezietto e Hospeàl al Gesù e Maria”nello stesso Sestiere. Lo stesso Consiglio dei Dieci deliberò “per quieto vivere” di annullare l'ordine di fusione delle due fazioni dei Testori Tedeschi emesso dai Provveditori da Comun dando indicazione a Dodici Savi di studiare la vertenza aperta in merito sul pagamento unitario della tassa della Luminaria presso la Schola dei Santi Simon e Taddeo.

Nel 1502 si pervenne a un accordo tra Frati Carmelitani e Giorgio da Brena  Gastaldo dei Testori de Panilani, e Giusto Pietro da Castronuovo Gastaldo dei Testori de Fustagneri Todeschi:“… i Confratelli daranno 6 ducati annui e 40 parvorum pro quadam pietantiam (una qualche pietanza) ai Religiosi che s’impegnano a cantare una Messa Solenne nelle Feste dell’Assunta, della Natività dell’8 settembre, della Purificazione, dell’Annunciazione e nell’Ottava di Pasqua, e una Messa per ogni Confratello morto compresi quelli che moriranno fuori Venezia ... Chi morirà a Venezia, invece, fossero anche pueros vel puellas (bambini o bambine) verranno sepolti nelle arche della Schola in chiesa.”
Ancora nel 1773 sugli elenchi degli iscritti alla Schola dei Tessitori di Fustagno Tedeschi dei Carmini si contavano: 98 Capimastri, 49 Lavoranti e 36 Garzoni attivi in 65 botteghe con 200 telai da lavoro … inoltre esistevano a Venezia anche altro 60 Fustagneri disoccupati in attesa di lavoro o quiescenti perché troppo anziani.

Nella Contrada di San Lio(poco distante da Rialto) esisteva ancora fin dal 1581 con Mariegola e Statuti approvati dal Consiglio dei Dieci, la Schola d’Arte e Mestiere e Nazionalità di Santa Barbara dei Battioro Allemanni che fabbricavano e vendevano: “stagnole da colori e foglie d’oro” per decorare mobili, cornici, opere d’Arte e suppellettili. Si distinguevano dai Battioro Veneziani per metodi e tipologia di lavorazione: collocavano il metallo di valore dentro a una doppia guaina protettiva di pelle, che poi battevano con martelli di vario peso sino a ricavarne lamine di dimensione diversa conservate poi dentro a copertine di legno da commerciare.

Poco prima della peste del 1630 i Battiloro Todeschi presenti e attivi a Venezia erano una cinquantina fra Mastri, Lavoranti e Garzoni, e una disposizione cittadina obbligava l’Arte a non dare lavoro a donne che non fossero mogli e figlie degli Battiloro Allemanni. Vista la pesante congiuntura economica negativa gravante sul mercato veneziano, i Battiloro chiesero ma non ottennero di potersene tornare in patria. La proibizione in un certo senso fu un bene, perché dopo la Peste i Battiloro Tedeschi iscritti all’Arte e dichiarati abili al lavoro dopo specifica “Proba” giunsero ad essere 109, accanto ad altri 50 quiescenti o in attesa d’occupazione ... Un bel giro d’affari, insomma.
Ancora nel 1797, i 25 iscritti rimasti della Schola erano attivi in 6 botteghe di Venezia, e festeggiavano il 4 dicembre Santa Barbara pagando regolarmente al Capitolo di San Lio il compenso pattuito per l'utilizzo dell’altare a lei dedicato e per celebrare le “Messe obbligate”.

Infine, altre notizie generiche riferiscono che c’erano anche imprenditori Tedeschi residenti nell’isola di Murano dove s’intendevano e s’occupavano di vetri e specchi da inviare e commerciare oltre le Alpi e in tutto il Nord Europa.

Niente male quindi quella “Presenza”assidua e diffusa delle genti Tedesche in Venezia.

E veniamo finalmente a dire del Fondaco dei Tedeschi… che era l’epicentro, il clou dell’enclave Todesca a Venezia, il posto che in un certo senso coagulava e riassumeva quel che era l’intera attività dei Mercanti e della Nathione Todesca calamitandone e organizzandone “sinergie e commerci” in diretto contatto con le Magistrature della Serenissima(che coordinavano a parte anche l’operato dei numerosissimi Mercanti Veneziani).

Il Fondaco era “Animo e Simbolo” dei Tedeschi residenti in Laguna, era una specie di Germania in miniatura ... un luogo storico di riferimento per tutte le genti Allemanne di ogni provenienza, e un punto di forza commerciale ed economico della stessa Serenissima.
Nel novembre 1189 Federico Barbarossa per finanziare la terza Crociata fece ricorso ai Banchieri di Rialto affidandosi a “Bernardus hospes noster imperiale”.Probabilmente era Bernardus Teotonicus ricco Mercante di metalli e argento residente in una casa in Campo San Bartolomeo di Rialto, membro della Schola Aurificum di Venezia,e in stretto rapporto con tutti i Mercanti della Laguna. Proveniva da una famiglia di Ministeriali di Monaco, era parte del seguito del Patriarca di Aquileia, e commerciava rame con Genova, Milano, Como e Verona. Nel suo testamento del 1215 risultò essere uno dei più ricchi Mercanti residenti e attivi a Venezia, tanto che riuscì a prestare 15.000 libre d’argento al Comune di Venezia, e a diversi Principi Germanici.

Già nel 1228 si accennava alla presenza presso l’Emporio di Rialto di un: “Fonticum Comunis Veneciarum ubi Teitonici hospitantur”. Fin dal settembre 1222, infatti, il Comune di Venezia aveva acquistato dalla Nobile famiglia Zusto il terreno presso Rivoalto dove aveva fatto sorgere un Fontego destinato ad abitazione dei Mercanti di Nazionalità Allemannae a deposito-dogana del traffico delle loro merci ... Già l’anno seguente un tedesco: Bernhard abitante a Venezia, venne aggredito insieme a un socio, mentre tornava da un commercio a Ferrara ... e nell’aprile 1228 Walter da Aquileia e complici aggredirono sulla strada Mercanti Todeschi diretti a Venezia dando luogo a tutta una lunga serie di controversie diplomatiche che si trascinarono per lungo tempo ...

“I Mercanti Tedeschi avevano a Treviso i loro magazzini per le merci che scendevano giù sia dalla direttrice Ampezzana-Belluno-Feltre che dalla Valle dell’Adige per Trento e Primolano ... Rimanevano lì in attesa di scendere all’Emporio del Fondaco di Rialto ...”

I Tedeschi scendevano fino alla Laguna di Venezia sul bordo del Mare Adriatico seguendo di solito la Via d’Allemagna che partiva da Innsbruck e oltrepassava: Sterzino, Brunico, Dobbiaco, Ampezzo, San Martino, Ospitale, Santa Croce, Serravalle, Conegliano, Treviso e quindi Mestre e Venezia. Oppure seguivano la Via di Tarvisio che andava ad Aquileia e Palmanova provenendo dalla Croaziae dall’area Balcanica.

Alle Dogane di Treviso i Mercanti Tedeschi di passaggio diretti a Venezia dichiaravano le loro merci: Rigo Todescho importava: “… ancone et crocifixi et sei chavi di piuma et un carro et mezzo di venchi, chavezi uno de tela bianca.” ...Rasmo Todescho importava, invece: “… in t’un sacheto erabe et radixe.”Stefano chogo del Fontegode Venexia portava: “… porzeletti quattro morti.”Zan Todescho importava farina, Nicolò Todescho importava 2 botti e 12 spade, Rigo de Piero Todescho Marserpassò la Dogana con: “… chase una de latòn, barila una de spechi et un ligàzo de màneghe … dixnove chavèzi de fil et libbra quatordese de lin.”Renaldo Todescho portava con se: “… un letexèlo, un par de nixuòli vechi per so uxo … con alcune figure e stampi di nostra Dama de pièra.”… Un messo di Anzelin Todescho portava: “… un lèto fornìdo et altre sue vestimenta de lana et de lin per una sua novìsa …”

Treviso era un nodo commerciale dove si effettuava il trasbordo dalle navi e dalle chiatte provenienti dalla Laguna sugli animali da soma e i carri diretti ai Paesi d’Oltralpe seguendo anche la Via Atesina così come da Treviso si poteva giungere fino a Bolzano seguendo un’antica via fluviale.
Fin dal 1313 i Mercanti Tedeschi avevano in San Francesco di Treviso una loro Schola Theotonicorum dedicata a Sant’Antonio da Padova ... la “Merchadantia Tedesca” diretta a Venezia si gestiva in città utilizzando: “… chavi o pacchi, balle, carateli o botti, chavezi o rotoli, some o fardelli, ligazi o involti, chase o casse.” … In città era proibito acquistare cavalcature per venderle ai Tedeschi o a chi parlava Tedesco, salvo non avessero ottenuto la cittadinanza Trevigiana che si otteneva solo dopo 25 anni di residenza in città o nel suo Distretto ... e i mediatori linguistici bilingui che avevano a che fare con i Mercanti Tedeschi dovevano essere per forza notificati all’autorità del Comune.

Era tutto così, un continuo andirivieni mercantile ininterrotto da e per la Laguna di Veneziaimportando: oro, argento, ferro, rame, piombo, zinco dall’Austria; pellicce, cuoio e oggetti di corna dal Nord Europa fino alla Russia; manifatture e stoffe di cotone, lana e tela dalla Germania. Viceversa a Venezia si compravano ed esportavano spezie come: Cannella, Cocciniglia, Pepe, Rabarbaro, Verzino, Zafferano e Zenzero; e poi: profumi, Mandorle, Fichi, Uva passa, Carrube, Zucchero, cera, olio, sapone, salnitro, pesce salato e vino; e sete, lane, fustagni e lini lavorati; e infine: oreficerie, perle, armi e pelli conciate ... e moneta contante.

La prima conduzione del Fondaco venne data in affitto per 1.360 libbre di denaro veneto annue a Marco Albarengo o Alberti o il 1 aprile 1225. Gli Alberti erano Nobili e ricchi Mercanti di metalli già in stretto contatto con la Germania … Nella stessa estate il Maggior Consiglio proibì ai Veneziani, pena un’ammenda fino a 100 lire, di commerciare in pelli con Padova e Treviso, in quanto quel commercio era diventato prerogativa riservata ai Mercanti Tedeschi del Fontegodi Venezia … affittato poco dopo, nel 1229, ad Abilinus Teotonicus: primo affittuario Tedesco.
Il commercio Tedesco-Veneziano occupava il primo posto nel Mercato estero della Repubblica di Venezia, ed era sorvegliato e gestito da un’apposita Magistratura dei Visdomini del Fondaco composta ovviamente da tre Nobili Patrizi Veneziani coadiuvati da due Scrivani. (I primi due Visdomini al Fontego dei Tedeschi nominati nel 1231 furono: Pietro Contarini e Marco Corner citati nel Liber Plegiorum.)
I Mercanti Tedeschi a loro volta si elessero due Cottimieri in seguito chiamati Consoli che li rappresentavano nei rapporti con la Repubblica Serenissima.

Il Fondaco dei Tedeschi di Rialto aveva due torricelle laterali, e possedeva più di 200 vani sovrapposti in tre logge, 56 magazzini interni, e 22 botteghe con porta e mostra collocate sui muri esterni ma senza comunicazione con l’interno affittate di solito a Mercanti Veneziani … In una delle torri c’era la campanella della “mensa d’invernocon la stùa” che stava al primo piano, dove c’era anche la grande Sala del Capitolo e una “mensa estiva” che guardava il Canalasso con le pareti quasi completamente ricoperte da affreschi e dipinti di pregevole fattura. Nel mezzo del chiostro del Fontego c’era un pozzo con un meccanismo che portava l’acqua fino al secondo piano … nelle soffitte si salava il pesce, e poi c’erano anche: l’osteria, uffici, l’Archivio, e camere con 80 posti letto disponibili per i Mercanti.

I Mercanti Tedeschi o Imperiali giunti nel Fontego si dividevano spesso in due gruppi con tavola e cucina separate: c’era i Tedeschi da Norimberga e dalla Germania Alta provenienti da: Norimberga, Basilea, Strasburgo, Spira, Worms, Magonza, Francoforte, Lubecca e città limitrofe, e quelli della Germania Bassa provenienti da: Colonia, Ratisbona, Augusta, Ulma, Costanza, Vienna, Linz, Gmunden, Salisburgo e Lubiana ... Per questo nel Fontego c’erano due “Fattori” distinti che assegnavano magazzini, volte e stanze, e i Mercanti di Norimberga e Colonia pagavano a mesi alterni il servizio del Canevèr o Tavernier del Fontego.



A prima del 1472 si quantificava il giro d’affari esercitato nel Fontego dei Todeschi in un milione di ducati annui ... Nel 1499 Arnolfo di Harff da Colonia riferiva che la Repubblica di Venezia ricavava giornalmente dal Fondaco: 100 ducati fra Dazi e Gabelle … Come potete immaginare, il Fontego subì parecchi incendi: il primo nel 1318, e poi bruciò di nuovo nel 1478 stimando la perdita di quanto conteneva superiore al valore dell’intera città di Anversa.
Secondo il Diarista Marin Sanudo: “Andarono distrutte: camere d’oro ossia ornatissime et alcuni Veneziani soccorritori rimasero uccisi … I Mercanti Tedeschi vennero collocati provvisoriamente nelle case dei Lippomano a Santa Fosca.”

Dopo un altro “gravosissimo incendio”del 1505, l'edificio del Fondaco venne completamente rifabbricato seguendo un progetto di Girolamo Todesco: “… come piccola città nel corpo di questa nostra dal quale se ne trahe molto utile.”... Giorgione da Castefrancoaffrescò la facciata principale del Fontego che guardava il Canal Grande affiggendovi nelle pareti interne i suoi dipinti: “Filosofi che misurano un globo”, “Mercurio in aria con le Virtù e ai piedi Ignoranza e Armonia circondata da strumenti musicali”, e “Marte e Venere sotto i segni zodiacali del Leone e della Vergine” ...  a Tiziano venne commissionata l’affrescatura della facciata del Fondaco rivolta in Calle ... mentre nella “Sala dei Conviti” con le pareti ricoperte da preziosi cuoridorocon gli stemmi di Anversa con l’aquila imperiale stemma degli Asburgo, e di Norimberga, Augusta, Stasburgo e Ulma, c’era un bassorilievo col “Leone di San Marco con Fede, Speranza e Carità”. Completavano l’arredo della sala: “Due figure della Giustizia e della Prudenza”, un “Salvatore” dipinto da Tizianonel 1551, una “Diana sul carro seguita dalle Ore Vespertine” dipinta da Jacopo Tintoretto ... e tutta una serie di “Favole e Storie” dipinte su cuoi dorati da Paolo Veronese: “Giudizio di Paride”, “Ratto delle Sabine”, “Incantesimi di Medea”, “Il Bagno di Diana sorpresa da Atteone”, lo “Sposalizio di Antioco con Strattonice”,“Ulisse che uccide Circe”, e  “Giove, Giunone, Fortuna ed altri Dei e Dee col segno zodiacale dei Gemelli e del Cancro posti sotto il pianeta Giove” collocato alla sinistra della porta d’ingresso. Nella stessa sala c’erano anche dipinte: “Storie di Muzio Scevola e della Fortezza”, e la “Storia di Curzio che si gettava dalla voragine con la Temperanza”, e una “Fenice”, e “Saturno con Religione e Mendicità umana con i segni zodiacali dell’Ariete e del Toro”, e “Venere sopra il carro d’oro trainato da due colombe e scortato dalle Grazie col segno del Sagittario” forse realizzati da Palma il Vecchio.

Che ve ne pare ? … I Tedeschi avevano una Sala da pranzo che era una vera e propria Galleria d’Arte … Oggi ne faremmo un intero museo solo con quella.

Fra 1556 e 1557 Franco Semolei pittor e Alvise Donato depentor della bottega di Tizianocompletarono il soffitto della “Sala d’Estate”, e Giovanni Maria applicò delle dorature su commissione dei Consoli dei Todeschi. Vennero eseguiti anche 48 riquadri “in chiaroscuro” con figure delle: “Virtu’ Cardinali, Morali e Teologali e varie Deità”, e il tutto venne filettato d’oro per una spesa di 90 ducati d’argento continuando i lavori fino al 1580 quando: “si costatò che i cuori d’oro della sala dipinti dal Veronese erano ormai quasi tutti stracciati e necessitavano d’esser rinnovati”.

Nel 1571 le Cronache Veneziane raccontano delle feste che i Tedeschi del Fontego organizzarono per solennizzare la vittoria di Lepanto contro i Turchi: “… i Tedeschi per tre sere continue acconciarono il Fontego di razzi, e accomodarono di dentro e di fuori per diversi gradi, lumiere, dal primo corridore fino alla sommità del tetto, che rendevano dalla lunga una veduta quasi di un cielo stellato. La prima sera fino alle 5 hore di notte, si udì di continuo suono di tamburi, di pifferi e di trombe squarciate, e sopra i pergoli del Fontego si fecero diversi e rari concerti di musica, con spessi tiri d’artiglierie. Et attorno a tutte le fabbriche nuove della piazza di Rialto, cominciandosi dal ponte fino alla ruga predetta, furono tirati panni finissimi di scarlatto: e vi si attaccarono di sopra con uguali distantie, bellissimi quadri di pitture, d’imprese, di ritratti, e d’altre diverse historie … quadri meravigliosi del Giambellino, di Giorgione da Castelfranco, di Bastiano del Piombo e d’altri eccellenti pittori. La prima mattina si cantò la Messa Solenne sopra un palco dinanzi alla chiesa di San Giacomo con musiche meravigliose ... Dopo terza si fece la Procession col Crocefisso innanzi, precedendo piffari, trombe squarciate e tamburi. Dopo mangiare si dissero i Vespri con le musiche medesime e cominciatisi tardi finirono alle due hore di notte. Il restante del tempo si consumò in harmonie con variati concerti…”

Alla fine della Calle del Fontego accanto al Traghetto del Buso esisteva una passerella da dove “i miseri di Venezia” si recavano in fila a prendere “una panada” ossia un’elemosina giornaliera di zuppa distribuita gratuitamente da una finestrella sotto il portico della Riva del Fontego ... Il Fondaco dei Tedeschi veniva ufficialmente e solennemente visitato ogni anno, nella vigilia di Natale e nell'ultimo giorno dell'anno dal Clero di San Bartolomeo.  Inoltre si tenevano tre processioni tedesche da San Bartolomeo fino al Fondaco: la vigilia di Natale, la vigilia dell’Epifania e nella vigilia della Circoncisione. I Sacerdoti di San Bartolomeo venivano attesi dai Tedeschi nella “Sala d’inverno” del Fontego dove veniva solennemente incensato il Crocefisso li presente. Sempre nel Fontego si tenevano molte feste descritte dal Diarista Marin Sanudo, e fra 1500 e 1600 esisteva l’usanza a Venezia di celebrare: “… pubblici balli mascherati nel Fontego dei Tedeschi nei tre giorni e nelle tre notti antecedenti all'apertura del Carnovale.” organizzando addirittura dentro al Fontego una “Caccia al porco unto” eseguita ad occhi bendati (forse ripetuta anche dopo l’incendio del 1505 per festeggiare la rifabbrica del Fontego).

Verso la fine del 1500 e all’inizio del 1600, al Fondaco dei Tedeschi si riunivano Andrea e Giovanni Gabriellicon l’amico Gruber per il quale Giovanni scrisse il mottetto “Alleluia, quando iam emersit” in occasione delle nozze ... Nel 1609, Adriano ossia Tommaso Banchieri, celebre Musicista, Monaco, Poeta e Compositore Bolognese scriveva nel suo “Conclusioni del suono dell’organo”: “…un altro organo ho veduto in Venezia entro un Fondico di Mercanti Thedeschi, venuto da gli suoi paesi il quale sta ferrato entro un bellissimo studiolo, con le canne di bosso. Vedasi ancora questo mirabile strumento ornato con le tastature in diverse fazzioni cioè d’oro, d’argento, di bosso e di ebano, di avorio, et però tinto, et infine di madre perle et canna d’india, le quali per esse note in molti luoghi si tralasciano … inoltre et è verissimo che pochi anni orsono in Venetia fu praticato un organo con le canne di vetro …”


I figli dei Mercanti Tedeschi più ricchi e Nobili venivano a “Scuola di Mercato e di Partita Doppia”al Fontego di Venezia, dove fin dal 1300 si usarono veri e propri prontuari di “Veneziano-Tedesco-Italiano”. Molto spesso i Mercanti Tedeschi occupavano parti del Fontego per generazioni intere, e l’esperienza nel Fontego di Venezia veniva considerata dai Mercanti Tedeschi come tappa d’obbligo di una seria formazione Mercantile. Ancora nel 1604 Max Crostoph Welserquindicenne di Ulma venne mandato per restare 5 anni nel Fondaco di Venezia considerandolo tirocinio utile per poter entrare a pieno titolo nel mondo della “Mercandia Tedesca”d’alto livello.

“Si deve esser stati a Venezia se a casa si vuole valer qualche cosa.” dicevano i Tedeschi fra loro.

Viceversa, i Mercanti privi di grandi disponibilità economiche venivano chiamati a Venezia: “Grisolòtti”. Non erano ammessi né al Fontego né alla Comunità Nazionale Thodesca, e dovevano sistemarsi come potevano nelle Osterie e nelle Locande di Venezia e di Rialto. Di solito venivano considerati “Grisolotti” anche i Fiamminghi, gli Inglesi, i Francesie soprattutto i Bergamaschi che dovevano perciò accontentarsi di comprare e vendere solo direttamente trattando con le Galee Veneziane attraccate sui Moli di San Marco venendo esclusi dai“Giri di Mercato che contavano”.

Il Fontego di fatto era considerato come “Punto franco”, era tenuto chiuso, e per entrare bisognava suonare: “una campanella del Portièr”. Si controllava chi entrava e chi usciva, nel Fontego non si poteva tenere armi, né si poteva giocare in alcun modo, e non erano ammessi: strepiti, rumori molesti, contese, litigi, parole oscene, bestemmie e ingiurie pena multe molto severe e l’espulsione. Dentro al Fontego si voleva anche un certo ordine, e una qualche “polizia igienica” garantita dall’opera di un apposito Scovadòr, e per controllare ed eseguire tutto questo c’era un Governator del Fontego o Sovrastante che dirigeva il Fondaco aiutato da un Fonteghèr o Massèr coadiuvato da un Economo o Spendidòr che si occupavano delle pratiche burocratiche, ritiravano le armi, cambiavano denaro, assegnavano stanze e magazzini, tenevano le chiavi e provvedevano a cambi (saltuari) della biancheria. 

Per i Mercanti Tedeschi che usufruivano del Fontego erano previste riduzioni dei dazi, ritardi dei pagamenti, fornitura di viveri per il viaggio di ritorno, e la possibilità di spedizioni da Venezia per ogni destinazione sia dell’Italia, che per il Levante e Ponente. Molto spesso il Fondaco funzionava anche il tempo di guerra e nonostante gli embarghi ufficiali degli Stati, e più di qualche volta era lo stesso Imperatore a raccomandare questo o quell’altro Mercante o affare.

I Mercanti ospitati con la famiglia dovevano mandare i figli nelle scuole cittadine … non potevano sballare ed imballare merci al cui compito specifico erano addetti i Bastazi del Fontego ...  Ai Tedeschi era consentito commerciare solo con i Veneziani e non con altri Foresti, e ogni operazione doveva essere svolta alla presenza di Ufficiali Giurati ... I Tedeschi, inoltre, non potevano commerciare direttamente con la Terraferma né potevano destinare ad altre parti d’Italia merci rimaste invendute nel Fontego che venivano messe “all’incanto”dopo un certo termine e rivendute ancora e solo a Mercanti Veneziani ... Il ricavato delle vendite fatte ai Mercanti Veneziani non lo non si potevano portare via, ma doveva essere obbligatoriamente reinvestito comprando merci importate o prodotte da Venezia di cui era fornitissimo il vicino Emporio di Rialto in ogni momento.

I Mercanti Veneziani a loro volta erano guidati e comandati da due Cottimieri coadiuvati da numerosi Messeti o Sensali nominati dalla Quarantia con Doge e Consiglieripresenti, e assegnati di volta in volta dai Magistrati Visdomini del Fontego che li traevano a sorte da una terna proposta tenendo conto di ogni contrattazione, e segnandola in appositi registri ... Intorno e nei pressi del Fontego ruotava e pullulava una vera e propria folla, una“task force” d’Incantadori per le Aste, Scrivania tariffa, Pesadori, Bolladori, Fattorini, e un gran numero di Bastazi o Facchini che si passavano di mano in mano i lavori e le occasioni d’affari con i Tedeschi, spesso rivendendoli in subappalto e in funzione dell’amplissimo “portafoglio” dei clienti.

Parlando del Fontego non si può non parlare dei grandi Mercanti e Banchieri Tedeschi: i Fugger, la cui intensa attività ha di fatto caratterizzato una grossa fetta dell’intera Storia dei Tedeschi a Venezia. A cavallo fra 1400 e 1500 erano loro i protagonisti, i migliori, le eccellenze del Rinascimento Tedesco considerati non a torto: “i Principi dei Commercianti”. Per i Tedeschi e l’Europa erano un po’ l’equivalente della famiglia Medici di Firenze.

I Fugger erano ricchi imprenditori di Augusta dediti alla Mercandia inport-export, alla produzione dei tessili, e all’estrazione ed elaborazione mineraria con una rete commerciale vastissime e organizzatissima attiva in tutta Europa. Fra loro, precursore assoluto nello sfruttamento e nell’industria mineraria fu il ricco banchiere Jakob Fugger detto appunto “Il Ricco”, forse il membro più famoso dell’intera famiglia.
Potrà sembrarvi quasi impossibile, ma l’Azienda dei Fugger all’apice del suo successo leggendario commerciava interagendo con le grandi realtà mercantili dell’epoca come Firenze e la stessa Venezia, ma anche con le Indie, il Sudamerica e l’Africaservendo e coinvolgendo nei propri affari e guadagni Re e Imperatori, i Medici di Firenze, Venezia e i Papi per i quali gestirono la Zecca Romana coniandone le monete fino al Sacco di Roma del 1527, e finanziando perfino l’istituzione della Guardia Svizzera.
Tanto ricca e potente quanto munifica, la famiglia dei Fugger lasciò ovunque segno di se fin dal 1367 costruendo chiese, santuari, castelli, palazzi e case popolari in diversi paesi Europei e anche in Italia dove esiste ancora oggi il "Palazzo del Diavolo"dei Fugger o Villa Margone a Galasso di Trento, e le “Case Fugger” a Vipiteno e Bolzano. Ancora in questi nostri anni 150 persone vivono in Germania nella Domus Fuggerei di Augusta in cambio di un affitto annuo simbolico di 88 centesimi di euro e tre preghiere al giorno per il fondatore e per la sua famiglia che costruì le caxette popolari più antiche del mondo nel 1521.

Il fratello minore di Ulrich Fugger, Jakob nacque ad Augusta nel 1459 dal padre Jacob il Vecchio, dodicesimo uomo più ricco di Augusta nel 1461. Dopo la sua formazione a Venezia avvenuta circa fra 1473 3 1478 frequentando il Fondaco dei Tedeschi, divenne l'imprenditore di maggior successo dell’intera Europa con un impero commerciale e immobiliare che andava dall'Ungheria alla Spagna, dai Paesi Bassi e fino a Roma capace di durare fino al 1657 senza mai andare in bancarotta neanche una sola volta.

Venezia è stata per davvero un palcoscenico privilegiato dell’intero Mondo d’allora …

Nel 1522 imperversava ancora per l’Europa intera la Sifilide ossia il “Mal Franzoso Venereo”… C’era abbondantemente anche a Venezia importata da soldati, stranieri e avventurieri, e sparsa a piene mani … e non solo … da una folla di prostitute e “prostituiti” appartenenti a ogni ceto sociale. Una delle poche cure al riguardo che si praticava in quegli anni s’impartiva anche nell’Ospedale degli Incurabili a Venezia, ed era a base di Guaiaco Americano, detta anche: “Cura dell’Acqua e del Legno Santo”, che era molto raro e costosissimo. Dall’erba importata dalle “Nuove Terre” si creava una specie di sciroppo o unguento “… che si somministrava sotto varie forme per due ore e due volte al giorno, e per trenta giorni consecutivi che venivano prolungati spesso fino a mesi tre”. “La terapia” considerata quasi miracolosa, si somministrava in un luogo molto caldo ed essudativo, una specie di sauna, associata a diete ferree insieme a diuretici, salassi e potenti lassativi.

Indovinate chi aveva quasi il monopolio dell’importazione e della vendita di quel famoso Guaiaco miracoloso ?
Facile no … Il Guaiaco era una delle voci più importanti del lucroso commercio dei Mercanti Fugger di Augustae di Venezia.

Ad essere sincero, il Papa di Roma, che più di una volta era Veneziano d’origine, “ciccàva non poco” di tutto quel successo commerciale ed economico di Venezia con i suoi partner Europei ed Allemanni … Nel 1529 il Papa si scagliò velenoso e impermalosito contro le “Conventicole pagane” che si tenevano nel Fontego dei Todeschi a Venezia contro le quali la Repubblica sembrava non fare e intervenire abbastanza … Infatti la Serenissima non intendeva affatto andar a molestare e toccare quel bel equilibrio coi Tedeschi così ben funzionante e redditizio … Che dicesse pure il Pontefice Romano ! … Gli affari erano affari … Venezia rispettava la Religione … e anche le culture diverse … Quel che contava era “la Ragion di Stato e le economie”.

I tempi e i mercati stavano cambiando … Sarà stato un caso, ma l’anno precedente all’intervento del Papa a Venezia era fallita la Banca dei Nobili Pisani che erano i maggiori acquirenti dell’argento dei Mercanti Fugger Tedeschi ... e sarà stato ancora un caso, ma da quando erano cambiate le Rotte del Pepe i Fugger s’erano stancati di supportare la Zecca del Papa, e invece d’inviare il loro argento a Venezia per spedirlo a comprar Spezie in Levante, ora lo mandavano direttamente a Lisbona dai Portoghesi padroni delle“Nuove Vie commerciali”.
La moneta che circolava in Italia perse di valore per scarsità di metallo disponibile ... Insomma, quei Fugger e i ricchi Tedeschi in genere erano davvero scomodi, oltre che ostici … Come non bastasse, durante la Guerra di Venezia col Turco del 1537-1540, alcuni Mercanti Tedeschi cominciarono a servirsi dei Ragusei per il commercio delle spezie col Levante intaccando il monopolio dei Veneziani, e altri Tedeschi si recarono direttamente al mercato d’Alessandria d’Egitto rinunciando al costosissimo ed esclusivo servizio delle Galee della Muda di Venezia.

L’Ambasciatore Portoghese Piresscriveva da Roma: “… l’anno passato ai Fugger di Augusta inviarono un loro fattore ad Alessandria per acquistare pepe e per sperimentare quella rotta. Cominciando con soli 10.000 crusados ne acquistò un quantitativo che fu caricato su navi di Ragusa e di li su barche lunghe fino ad un luogo dell’Imperatore chiamato Fiume. E’ ritornato in settembre con una somma maggiore e dovrebbe fare buoni acquisti su questa rotta e sarà male che un acquirente o offerente sifatto manchi ai contratti e agli acquisti in Portogallo, ma poiché questi affari dei Fugger vanno a scapito delle esportazioni veneziane e passano per una rotta sul loro mare, confido che faranno in modo di fermarli…”

E corse il tempo … All’inizio del 1700 il giro d’affari legato al Fontego dei Tedeschi era considerato di 280.000 ducati annui ... Nel Fontego si rinnovarono e abbellirono le “Sale d’Inverno e d’Estate” ... Fra 1718 e 1728 ben 92 Mercanti di Venezia facevano passare i loro traffici per il Fontego dei Tedeschi aggirando così i Dazi e sfruttando i privilegi della Nazione Allemanna che era rimasta con soli 35 Mercanti, ma la Nazione Allemanna cercò d’assoggettare i Veneziani al “cottimo”ossia alla contribuzione obbligatoria all’Arte del Fondaco, e tutto finì in una contesa senza fine davanti ai Savi alla Mercanzia della Serenissima.

E anche per il Fondaco dei Todeschi giunse napoleone … che la trasformò in Dogana da Terra o Fondaco Nuovomandando i “Praticanti Evangelici” nella Schola dell’Angelo Custode ai Santi Apostoli ... 16 quadri delle sale del Fondaco finirono a casa del Console Tedesco Riesch, che ne vendette 14 a Luigi Sivrij Parigino residente a Venezia … che a sua volta li rivendette a Toedoro Lechi che se li portò a Milano ... Da lì passarono a Brescia e poi a Berlino.

Durante la dominazione Austriaca quello che rimase del Fondaco dei Tedeschi venne trasformato in Uffici Fiscali e Militari ... In seguito si demolirono le torricelle e diversi camini ... e si costruì sul tetto la merlatura visibile ancora adesso ... Ancora nel 1834, fra i Preti Confessori afferenti alla Parrocchia di San Salvador c’era Don Unterbacher Giuseppe la cui nomina era di “Cappellano Concionatore della Nazione Teutonica”.

Esiste infine un ultimo aspetto secondo me molto curioso e interessante riguardante la “presenza” dei Tedeschi a Venezia. I Tedeschi possedevano una propria Cappella nella chiesa di San Bartolomeo poco distante dal Fontego presso i gradini del Ponte di Rialto, dove avevano la loro Schola della Zoia Restada dei Tedeschi del Rosario, un sepolcro comune, e un Quaresimalista pagato da loro celebrava i Riti predicando in Tedesco … Fin dal 1657 due stanze superiori del Fontego erano riservate ad abitazione del Pastore Tedesco e agli Uffici della Confessione Evangelica Tedesca.


Nel 1493 Albrecht Durerventitreenne, affermato pittore e incisore in patria, partì per l'Italia per un viaggio di studio che durò due anni passando per Padova, Mantova e soprattutto Venezia. Poi tornò a Norimberga dove produsse le incisioni che lo resero celebre in tutta Europa. Nel 1505-1507 ritornò di nuovo a Venezia dove dipinse per la Cappella dei Tedeschi del Fontego sita in San Bartolomeo una stupenda pala d’altare: “La Madonna del Rosario di Zoia Restada”.
Nel 1518, un anno dopo l'affissione delle famose 95 tesi di Lutero a Wittenberg, Durer assistette alle riunioni della Dieta di Augusta ritraendo alcuni dei partecipanti. La frattura religioso-culturale però rimase incolmabile, senza ripensamenti, rientri né ritorni divenendo la cronica e Storica Riforma.
Gli artisti che dimostrarono simpatie verso la Riforma vennero ostracizzati e perseguitati: Grünewald venne licenziato dall'Arcivescovo di Magonza e Tilman Riemenschneider venne addirittura torturato e incarcerato. Fu vita difficile per gli artisti … Durer compreso.

Quel che però spesso sfugge ai più, è stato l’originale movimento culturale e interiore che accadde a Venezia intorno all’attività e alle ispirazioni di quella Schola di Zoia Restada… Lì fra i Tedeschi del Fontego e di Venezia maturò una sintesi spirituale che riassumeva tutta una sensibilità prettamente Nordica e mistica legata anche ai culti Michaelici che percorrevano l’Europa lungo la Via dell’Angelo, la Via Francigena verso Roma, le Vie di San Giacomo per Santiago di Compostela fino a sfociare nel Mediterraneo e fino alla Terrasanta … Si trattava di visioni contemplative e misteriose, ricche di fascino e di sentimenti arcani correlati a culti ed economie antiche … Modi alternativi d’intendere il fatto aggregativo Religioso che dava addito anche a risvolti di natura sociale ed economica.

Economica ! … parola magica per Venezia !  … perché significava in un modo o nell’altro sempre guadagni e interessi … Perciò la Serenissima rimase a guardare e lasciò fare a quel nuovo fenomeno … e quel particolare input di Zoia Restada crebbe affascinando anche i Veneziani.
Il “movimento”, l’ispirazione della Schola di Zoia Restada è stato ben di più di quanto ha saputo proporre una qualsiasi delle numerosissime Schole Piccole Venezianed’Arte, Mestiere e Devozione perché ha immesso in Venezia e nei Veneziani un concetto del tutto originale per non dire singolare. Autorizzata fin dal 1504 dal Consiglio dei Dieci non poteva avere più di 100 membri, ma ha saputo irradiare per prima su tutta Venezia la neonata corrente religiosa e spirituale “del Rosario”d’ascendenza Nordica fino ad allora sconosciuta in Laguna ... nonchè in Italia.

La prima esperienza autoctona e del tutto Veneziana di Schola del Rosario, infatti, sarà presente a San Domenico di Castello solo in seguito e in derivazione dalle novità portate dalla “Zoia Restada di San Bortolomio” la cui presenza e attività è stata autorevolmente confermata e riconosciuta dalla Visita Apostolica del 1581.

Al riguardo è importante precisare come nella nostra mentalità moderna e attuale “il fatto del Rosario” viene inteso spesso come una serie “tediosa” di grani da tirare fra le dita sparando a raffica Ave Marie pregate. A dire di tanti: “… una pratica melanconica e ripetitiva a cui sono dedite solo Monache e vecchiette di stampo alquanto bigotto.”
Non è affatto così. Questa è solo la considerazione di chi non sa, o più verosimilmente “ha perso il bandolo della matassa” circa il significato profondo di certi contenuti e di certe gestualità antiche. Il Rosario, anche se in se potrà esteriormente sembrare solo quel “tira e srotola grani senza fine”, è, invece, un gesto contemplativo di notevole spessore. Nel suo intento originale s’ispira ad alti contenuti, e passa in rassegna quelli che sono i principi più tipici della Fede Cristiana dedicando loro grande attenzione (non è questo però il momento d’allargarsi su certi temi e contenuti).

Intendo dire che l’esperienza dei Tedeschi di “Zoia Restada” suggerì ai Veneziani qualcosa d’innovativo, un “modo diverso d’essere” che andava a porsi come alternativa alle ormai stantie pratiche devozionali tradizionali troppo legate ad ottenere “merito per l’Anima sia in questa vita che nell’Aldilà”. Il pregare Cristiano era diventato una chiave d’accesso alla Salvezza “a suon di palanche ed elemosine …”, mentre il gesto del Rosario “aperto, puro e raffinato”, gratuito e contemplativo, ridava una verve nuova a certi contenuti primari finiti fin troppo assopiti: “… L’esperienza del Rosario è stata una ventata di novità, uno “Sostare diverso” davanti a tante “Classiche Verità” che ha prodotto una sorta di piccolo risveglio delle coscienze “ipnotizzando” e coinvolgendo positivamente molti credenti.”

A dirla tutta però, non è che inizialmente i Veneziani avessero colto subito lo spessore e la valenza culturale e innovativa di quell’esperienza interiore. Lo fecero gradualmente, sulla scia delle sensazioni entusiaste raccontate dai Tedeschi diventati Veneziani. Piano piano, insomma nacque a Venezia una nuova moda spirituale ... che si mise in netta contrapposizione al tradizionale cammino Cristiano troppo intasato e macchiato di regole, canoni da rispettare, peccati da espiare, Indulgenze Papali da inseguire, guerre sante da combattere, ed elemosine da pagare.

Quella del Rosario era una sensazione, una progressione diversa, un cammino più libero e appetibile: era una“Zoia Restada”, un “qualcosa” che restava vivo dentro ... “una festa gioiosa, allegra”… come era stata abilmente interpretata, resa visibile e ritratta da Albrecht Durer nella sua “Festa del Rosario” collocata nella chiesa di San Bartolomeo di Rialto.
(Albrecht Durer: "La Festa del Rosario" del 1506)

“Basta con una Fede tutta dedita a mazzarsi tristemente e a pentimenti costosi ! … Ora è tempo di grandi visioni luminose e serene …” si sussurrava prudentemente in giro per Venezia.

“L’idea” coltivata dai Tedeschi residenti a Venezia, che non fecero grandi proclami né proselitismi seguendo i loro riti e le loro scadenze vivendo tranquillamente con quello “spirito diverso”, ebbe notevolissimo successo. Quel modo più “spigliato e ripaganted’intendere la Religione” s’allargò progressivamente nelle libertine e disinibite Contrade di Venezia, della Laguna e della Terraferma dedita alle “Smanie della Villeggiatura”dando vita a un “sentir diffuso” la cui risonanza si perpetuò per secoli … almeno fino alla fine del 1800, e al dopoguerra del 1900.

Le Schole del Rosario si diffusero a macchia d’olio in tutta Venezia e nella Laguna … In un certo senso una certa “Zoia era restàda” per davvero impigliata nelle pieghe di Venezia e fra i Veneziani. Al posto e in parallelo alle tradizionali devozioni della Madonna della Cintura o dei Centureri, del Cingolo, del Cordone e degli Scapolaripromosse e sostenute dagli stessi Frati Agostiniani di Santo Stefano di Venezia insieme a quella antichissima verso la Madonna della Concezione, del Parto, del Latte e della Speranza, s’impose il nuovo Culto delle Madonne del Rosario, caratterizzato spesso dalla cura e interesse per simulacri lignei popolarissimi e veneratissimi di Madonne del Rosario Vestitedi legno, che attrasse gran parte dei Veneziani come Api sui fiori.

Conti e dati alla mano … “Cogliendo quel nuovo spirito che aleggiava già nell’aria Veneziana”, nel 1480 a San Domenico di Castello(sede dei Domenicani dell’Inquisizione) era nata già la prima Scuola del Rosario con i suoi Statuti(anche se venne riconosciuta formalmente come Schola solo nel 1508)quando la Zoia Restada di San Bortolo era ancora “in fieri” ufficialmente, ma balbettava già i suoi “preziosi suggerimenti”. A conferma di questo comune sentire che si stava diffondendo, lontano e fuori di Venezia, aveva iniziato la sua attività la Schola del Santissimo Rosario a Santo Stefano di Caorle nel 1425. Di lì a poco, ci fu il “bum” un po’ ovunque: Confraternita della Beata Vergine del Rosario in Contrada di San Simeon Grando nel 1535, Compagnia delle Consorelle del Rosario a San Zan Degolà nel 1571, a San Giovanni e Paolo: la Schola Granda del Rosario nel 1575, a Sant’Eufemia della Giudecca nel 1581, Schola della Beata Vergine delle 12 Stelle ai Santi Apostoli nel1589(era Contrada residenziale di molti Tedeschi lungo la direttiva di Cannaregio: Santa Sofia, San Marcuola, San Girolamo, San Alvise e Schola Grande della Misericordia che in un certo senso aggregò un po’ tutta la gente della Seta e delle Telerie)… e poi ancora: in Laguna: Schola della Beata Vergine del Rosario in Santa Maria Assunta di Torcello nel 1591. Poi come in discesa, allargandosi e diffondendosi sempre di più lungo gli anni: Compagnia del Rosario a Santa Croce Grande nel 1607, Schola del Santissimo Rosario a San Martin di Burano e Schola del Santo Rosario a San Girolamo di Mestre nel 1621, Schola della Beata Vergine del Rosario all’Anzolo Raffael nel 1648, Compagnia delle Donne del Rosario a San Cassian nel 1650, Schola del Rosario a San Mattio nel 1654, Schola dell’Unione del Santissimo Stellario a San Francesco della Vignanel 1663, Pia Unione e Compagnia delle donne del Rosario a Santa Maria Materdomini nel 1687, Schola e Suffragio del Rosario a Santa Caterina e a Santa Maria del Giglio nel 1689, Schola e Sovvegno del Rosario a Santa Margherita nel 1691, all’Umiltà nel 1695, a San Paterniàn nel 1698 … e Santa Maria Assunta di Malamocco, ai Gesuati sulle Zattere, a San Polo, a San Pietro Martire di Murano, e a San Stin sull’inizio del 1700.
E poi ancora un’altra ventina di Schole del Rosariodurante tutto il secolo, e un’altra decina nel 1800 rimaste vive e attive fino alle Guerre Mondiali e qualche volta anche oltre.

A differenza di tutte le altre solite Schole tradizionali, la partecipazione a questo nuovo tipo di Schole era gratuita: niente tasse di Benintrada e Luminaria da pagare …  “senza alcun premio o pagamento”… niente: balzelli, debiti, multe e imposizioni pena sospensioni o espulsione dai “benefici salvifici della Schola”.

Le nuove Schole del Rosario proponevano un’intensa vita di contemplazione e preghiera: lettura-recita settimanale dell’intero Salterio della Madonna, oppure la recita dell’intero Rosario per chi non sapeva leggere e scrivere. Lo stesso Salterio della Madonna si poteva recitare anche a favore dei Morti. E anche questa fu un’altra grossa novità importantissima: non servivano più per forza le Indulgenze, i Suffragi e le Mansionerie di Messe a pagamento a favore dei Defunti … Anche il “Soccorso ai Morti” poteva essere garantito al credente in maniera del tutto gratuita !

La Chiesa si preoccupò non poco di tutte quelle novità troppo liberali e solo contemplative … Rischiavano di ridursi, scemare, se non crollare i soliti guadagni frutto delle tradizionali pratiche devozionali … Perciò intervenne e provò e riuscì a “ricucire lo strapporiconducendo il “Fenomeno del Rosario” nell’alveo solido della sua comprovata e certa(e redditizia)Tradizione Ecclesiastica”.
“Tutti quei Rosari faranno tremare le porte del Purgatorio e dell’Infermo che rimarranno sguarnite …” si diceva in giro per Venezia,“La Chiesa perderà un’infinità di clienti …” commentavano i più maliziosi.

Papa Sisto IV Della Rovere riuscì a far fare un passo indietro al movimento ancorandolo e riconciliandolo con le certezze, i modi, e le concessioni di sempre di stampo prettamente Ecclesiastico:“… a chi leggerà il Salterio verrà concesso da quindici anni a quindici quarantene di “vera Indulgenza”, cioè cinque anni e cinque quarantene per cadauna cinquantena del dicto psalterio …”

Il Vescovo di Forlì Monsignor Alexandro Legato Apostolico per tutta l’Allemagna ci aggiunse a sua volta del suo in perfetto stile Ecclesiastico concedendo: “… a cadauna persona 40 dì de Indulgenza per ogni volta che la dirà 50 Ave Marie e 5 Pater noster; item sarà concesso a cadauna persona 100 dì d’Indulgenza per ogni volta che la dirà 50 Ave Marie e 5 Pater Noster ne la Festa dell’Anunciatione, Visitatione, Assumptione, Nativitate, Purificatione della Vergene Maria …”

Alla comitiva s’aggregò anche il Patriarca di Venezia Missier Maffio Girardo che promise a sua volta:“… a cadauno di questa Fraternitade che dirà el predicto Psalterio: per ogni cinquantina 40 giorni d’Indulgentia … item per cadauno che dirà la predicta oratione davanti all’immagine de la Gloriosa Vergene la quale è posta in la Capella de la dicta Fraternitade in la chiesa de San Dominico de Venetia: 40 zorni de Indulgentia …”

Venne ricordato che al riguardo già Urbano IV (1195-1264) confermato da Giovanni XXII aveva detto: “… a chi dirà la Salutatione Angelica cioè l’Ave Maria: per ogni volta 30 giorni d’Indulgenza … e a chi nominerà il Nome de Jesu: similmente 30 dì de Indulgentia …” Quindi si diceva e concludeva che secondo le indicazioni dei due Papi chiunque recitava il “pacchetto” di “5 Pater Noster + 50 Ave Marie”aveva diritto per ogni volta a: 6.000 giorni d’Indulgenza.

Si ricordò a tutti che la somma di tutte le Indulgenze sommate promesse a chi recitava ogni volta il Salterio della VergineMaria o il Santissimo Rosario era di: 67 anni e 140 giorni d’Indulgenza … Un bottino di Grazia da acquisire insomma !

In conclusione, si riuscì ad imbrigliare e annullare l’originalità del Movimento dei Rosari, che subì un’involuzione dal suo stesso interno. Si fece un passo indietro come i Gamberi, e quell’idea contemplativa iniziale finì un po’ col naufragare sfociando nel solito intricato meccanismo del “Mercato per procurar Salvezza”… Ma i tempi ormai erano maturi … Mancava pochissimo, anzi erano già gli anni di Lutero e della Riforma con le sue 95 tesi sulla “sola Fide”, gli anni delle scomuniche, e della nuova lotta Religiosa che aprì nuovi capitoli di contrapposizioni storiche dolorosissime sullo scenario Europeo e Mondiale.

Per confermarvi come le Schole del Rosario presero una direzione diversa, basti accennare che nel 1667 la Madonna del Rosario di San Domenico di Castello era stata ricoperta dai Veneziani di oro, argenti, numerosi gioielli e 56 abiti pregiati che si continuò ad utilizzare fino al 1800 … Altro che contemplazione gratuita avulsa dal denaro !

In certe Feste e circostanze il Nonzolo di San Domenico dormiva in chiesa a guardia dei gioielli che indossava la Madonna, e il Guardiano della Scholadel Rosario di San Domenico di Castellonel 1683 s’impegnò davanti al Giudice a restituire a Zanetta Polatti l’abito prezioso che sua madre Apollonia le aveva lasciato in eredità, ma che in realtà aveva regalato alla Schola della Madonna… Tutto era tornato come prima, nell’alveo della solita maniera “classica” di far Religione.

Fra i Pellegrini di passaggio a Venezia passava di bocca in bocca l’esistenza di un “antico Oratorio di San Bortolo al Ponte de Rialtobuono per recepìr tanta Indulgenza a poca spesa”. Nei suggerimenti che si fornivano a Venezia ai Pellegrini si leggeva: “… Indulgenze Plenarie “in articulo mortis” invocando il nome di Gesù con la bocca, se si possa, altrimenti col cuore … Dai primi Vespri al tramonto del sole della festa dell’Assunzione di Maria Vergine … Nelle sei domeniche precedenti la festa di San Luigi … L’altare dell’Oratorio è Privilegiato qualunque volta un Sacerdote tanto secolare che Regolare celebra la Messa dei Defunti a sollievo dell’Anima di un Confratello, pel quale a maniera di Suffragio è accordata l’Indulgenza …. E Indulgenze Parziali di sette anni ed altrettante quarantene nelle Feste della Purificazione e Presentazione di Maria Vergine, la prima domenica d’Ottobre ed ogni volta che i Confratelli si uniscono ai Santi Esercizii ... Di quaranta giorni per qualunque Opera Pia fatta dai Confratelli si in pubblico che in privato …”

Di “Zoia Restàda” era rimasto ben poco … anzi: proprio niente.

Concludo finalmente … La presenza dei Tedeschi “in casa” a Venezia lungo i secoli fu vivissima, capace di produrre grande lavorio e interesse economico insieme a grandi stimoli interiori e culturali. Direi che Venezia con le sue Lagune e la Terraferma Veneta hanno tratto gran fermento e grande beneficio dall’incontro coi Todeschi Allemanni e Germanici.



“UN SPARPAGION, UNO “STROLEGO DIABOLICUS” IN GIRO PER VENEZIA … NEL 1633.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 132

“UN SPARPAGION, UNO “STROLEGO DIABOLICUS” IN GIRO PER VENEZIA … NEL 1633.”

A detta di tutti quell’uomo sembrava proprio un “Sparpagiòn”, uno “Stròlego Diabolicus” che andava in giro per le strade e le Contrade di Venezia negli anni dopo il 1630. Erano ancora una volta anni difficili di carestia e pestilenza, anni in cui non si andava tanto per il sottile perché si era un po’ esasperati da tutta quell’atroce buriàna che accadeva dentro alle case, ovunque nelle Contrade e nelle isole di Venezia, e soprattutto dentro alla vita di tutte le persone della Serenissima “precipitate” da quell’orribile quanto micidiale contagio.

E se da una parte c’era gente credulona che si fidava dei primi rimedi esotici e un po’ improvvisati che trovava proposti per strada, dall’altra parte non si era molto teneri con gli imbroglioni, i ciarlatani e gli impostori che cercavano di gabbare la gente sprovveduta. In certe circostanze si rischiavano veri e propri linciaggi a furor di popolo, o pene esemplari che venivano impartite pubblicamente in maniera spettacolare.
Nello stesso tempo, il Santo Uffizio dell’Inquisizione di Veneziadi certo non si crogiolava in attendismi e inutili incertezze, ma vigilava attentamente intervenendo energicamente ogni volta che se ne presentava la giusta occasione ... Giustizia della Serenissimapermettendo, perché la Repubblica “arrivava di sovente a legar impunemente le mani all’azione purificatrice della Santa Inquisizione”.

Ed ecco come andarono i fatti …

C’era sempre stato in giro per il mondo e anche per Venezia(ieri come oggi), chi se ne andava in giro alla ricerca di speciali performance ad effetto,“provando a dar la caccia alla bendata Dea Fortuna”, e finendo per vivere d’espedienti … e se l’Audaciaera sempre stata considerata “Virtù dei Forti” capace di procurare ambiti premi a chi sapeva osare, così s’era dimostrato altrettanto vero che chi andava in cerca di gabbare il prossimo molte volte finiva con l’essere gabbato e incastrato malamente sua volta.

Sapete com’era Venezia … certe volte assomigliava a certi piccoli paesetti dove la gente è abituata a spettegolare e mormorare senza sosta. Le voci e le chiacchiere volavano e si spargevano e propagavano in un attimo in ogni angolo delle Contrade fra Calli e Campielli, e in un battibaleno si veniva a sapere tutto di tutti con l’aiuto di lingue svelte e alquanto bene informate.

Si era perciò nel 1633, e si venne a sapere che c’era in giro per le Contrade un tale: “uno nuovo, un foresto che girava come uno sparpagiòn, uno spaventapasseri malmesso … uno stròlego che sapeva far mille magie e malìe …”

In parallelo allo spargersi di quelle voci si attivò una vera e propria squadra di loschi e incogniti figuri prezzolati da una parte dalla Serenissima, e dall’altra dagli Ecclesiastici del Santo Uffizio… Costoro, a prescindere da chi li scatenava, erano tutta gente abilissima a: “ascoltàr, intrallazzàr, furegàr, squacquararàr, intrigàr, rumegàr e spionàr …”, e s’adoperavano ovunque si trovavano con grande efficacia e prontezza … Erano dappertutto.

“Eccellenza e Siorìa Illustrissima …” esordì davanti all’Inquisitor Grando di Venezia uno di quegli uomini vestito ordinario, un po’ arruffato e col cappello in mano. “I ghà el Dimònio in casa !”aggiunse sottovoce ma chiaramente.
L’effetto fu immediato: l’Inquisitore saltò per aria dal suo seggiolone come se fosse stato morso da una bestia velenosa. Subito dopo l’austero uomo del Santo Tribunale inviò un messaggio al Nunzio del Papa che abitava nel palazzo a San Francesco della Vigna, e allo stesso tempo mise in moto quello che era il suo uomo più scaltro e furbo perché si recasse sul posto e iniziasse a indagare sul serio su quella strana e pericolosa faccenda.

La Verità di solito finiva sempre con lo spuntare fuori e venire a galla … Era sufficiente saper usare le “maniere giuste”… non importava se gli altri le avessero considerate “buone o cattive”… Il risultato era quello che contava. Perciò anche quella volta la Verità venne fuori del tutto … e fu davvero sorprendente, degna di nota, tanto che il Tribunale Inquisitorio si mise in moto con grande attenzione.

La “Verità scoperta” rivelava che a San Giobbe, in fondo a Venezia verso la Laguna aperta, esisteva una “stanza segreta con dei grandi Circoli neri tracciati col carbone sopra al pavimento bianco … Lì c’era anche una grande tavola imbandita dove si presentava a cenàr e disnàr “un Amico” ossia il Diavolo in persona …

Non trattasi di cosa da poco, e di faccenda da restàr tanto tranquilli …” commentò l’Inquisitore accerbato.

La casa con un portico davanti si trovava in Campo delle Beccarie a San Joppo ossia San Giobbe, una Contrada periferica nel Sestiere di Cannaregio occupata da popolani e artigiani, e da molte Chiovere di Tintori e Tessitori.
Gli spioni rivelarono che la storia era iniziata tempo prima, e che fra i protagonisti c’erano alcuni Ebrei, ossia: Monte Maestro e Isac Zacuto… uomini utili per via della lingua da tradurre e delle parole simboliche usate “nei Riti”… da interpretare perché legate all’alfabeto Ebraico … I due uomini, inoltre, non erano perfettamente onesti, erano piuttosto loschi e alquanto ambigui, perchè erano già stati sottoposti in precedenza a diversi arresti e a diversi provvedimenti da parte degli Esecutori sopra alla Bestemmia, dai Cattaveri, e addirittura dal temibilissimo Consiglio dei Dieci.

In quella nuova circostanza i due Ebrei frequentavano con molta assiduità un certo Pietro Rinaldi sarto Padovano residente a Venezia, e si riunivano spesso a casa del Veneziano Francesco Viola, sarto pure lui. A casa sua, e in sua compagnia, escogitavano modi sempre nuovi per fare scommesse e procacciarsi vincite al gioco. “E per far questo non disdegnano di servirsi d’evocazioni e apparizioni del Diavolo in persona … perché pure gli Spiriti per quanto misteriosi e dannati, possono tornare utili per una buona causa di guadagno.” così terminò di riferire in dettaglio lo spione desideroso di congrua remunerazione.

Si sapeva già che il sarto Pietro Rinaldi era notoriamente: “uomo avido di Magia”. Si raccontava di lui che con l’aiuto di una certa vedova Antonia della Contrada di San Barnaba s’era procurato una testa di morto sulla quale aveva fatto celebrare: “36 messe del Venerdì” nella chiesa di San Fantin poco lontana da San Marco nascondendola sotto a un fazzoletto di un’altra donna che durante la Messa aveva recitato: “1.000 De Profundis per i Morti”. Da parte sua lo stesso Pietro aveva incrementato “la cosa” recandosi in giro per Venezia a Santa Maria dei Servi, San Zanipolo, San Fantin e alla Croce Granda recitando per lo stessi scopo altri 100 Pater e 100 Ave” in ciascuna chiesa. Alla fine “la testa” avrebbe dovuto parlare e rivelare dei “nomi buoni” di Nobili utili per vincere al gioco della Pizia … ma non era accaduto niente.

A tal proposito serve ricordare che i Veneziani di ogni ordine sociale hanno avuto per secoli una vera e propria mania patologica, incoercibile e insanabile per il gioco e le scommesse. Si diceva che scommettevano di continuo e ovunque, su tutto e tutti: per le strade, nei campielli, sulle rive, nelle barche e sulle vetrine delle botteghe … Dovevano essere parecchio annoiati del vivere, perché scommettevano sulle cose più strane, incredibili e inverosimili: sull’elezione dei Cardinali, sulle investiture dei Nobili delle nuove cariche dello Stato, su colui che erano candidato a divenire Doge … ma anche vedendo passare per strada una qualsiasi donna incinta: scommettevano sul fatto che avrebbe partorito un maschio o una femmina, oppure sul giorno in cui l’avrebbe fatto … E perché no ? I Veneziani scommettevano perfino su quando sarebbe morta una o l’altra persona ... In fondo, che male c’era ? … Le manie erano manie insomma.

Un altro dei componenti della “combriccola” scoperto dagli spioni dell’Inquisizione e della Serenissima era Francesco Viola: un altro che lavorava da sarto nella sua bottega in Contrada di San Giovanni Crisostomopoco distante dall’Emporio di Rialto. Col lui abitava a San Giobbe anche una donna considerata da molto tempo la sua futura moglie: Maddalena, che era una vedova inferma e ammalata che rimaneva sempre chiusa in casa. A detta di tutti era una donna bellicosa: “che gridava e biastemàva di continuo” ... un donnone tremendissimo.

Viola era giunto a Venezia da Napoli nel 1631 dopo che suo padre aveva fatto fallimento, e sempre a Napoli aveva conosciuto Marco Corradi di professione: Conciapelli lavorante in casa, col quale andò ad abitare a San Giobbe una volta ritrovatolo a Venezia. All’inizio tutto era sembrato andare per il meglio e secondo il verso giusto: Marco Corradi lavorava con profitto riuscendo addirittura a dar lavoro ad altri dipendenti: Vincenzo Caravazzo, Innocente Ceola, Zuanne Cagnello e Andrea Rubino. Fu però in seguito che lo stesso Marco perse parecchi soldi al gioco indebitandosi con Francesco Viola per più di 150 ducati. Ne era scaturita una lite furibonda dopo la quale finirono a “sbaruffare” davanti al tribunale, senza tuttavia perdere l’amicizia e l’intesa fra loro. Paradossalmente il giorno in cui Francesco Viola venne carcerato dagli uomini del Santo Uffizio a causa della vicenda che vi sto ora raccontando, si trovava proprio fuori della porta di casa di MarcoCorradi in attesa che i Fanti dell’Esaminador gli pignorassero e sequestrassero i beni per assolvere al debito che aveva ancora con lui.

Vedi il destino e la sorte quanto a volte possono essere strani ! … Viola in un attimo si ritrovò a passare da denunciatore a denunciato, e da creditore a debitore, da inquisitore a inquisito … e infine: carcerato e processato.

E giungiamo a Lunardo Longo, forse il vero primo attore e protagonista di tutta quell’insolita storia intricata.Longo era nativo forse di Rodi, ma … fatalità … era giunto a Venezia nell’inverno 1633 provenendo anche lui da Napoli. Appena messo piede nella Laguna di Venezia si era presentato ormeggiando una barca carica di Vino sulle Rive di Rialto. Sembrava un agguerrito Mercante, e aveva subito contattato MarcoCorradichiedendogli di convincere Francesco Viola a comprare il suo vino e a ospitarlo a casa sua per qualche giorno. Viola non comprò il vino, ma se lo tenne in casa per mesi: fino al Giovedì Grasso di Carnevaledell’anno successivo.

Lunardo Longo in realtà era un personaggio insolito e stranissimo: forse era stato anche Frate Domenicano, appassionato di Chirurgia, Astrologia, Negromanziae molto altro ancora. Si definiva soprattutto: “abile Guaritore”, e aveva un aspetto singolare per non dire inquietante: “pareva uno sparpagiòn arruffato che girava per Venezia armato di due vistosissime pistole … vestiva “alla Spagnola”, suonando la chitarra, e passando il tempo “strologàndo”, copiando libri di Magia, ed evocando Demoni proficuamente …”

Per far tutto questo Lunardo si serviva di alcuni suoi Libri come l’“Occultissimorum Liber” da cui non si separava mai, e ne possedeva molti altri di “notomìa” che utilizzava quando doveva guarire qualcuno … Si diceva in giro che era abile a levar sangue alle donne togliendolo dalla “vena Salvatella”, e soprattutto che aveva guarito dal “mal della pietra”(ossia dalla calcolosi renale e vescicale) l’Ambasciatore di Spagna in persona.  Conservava inoltre con grande cura un altro libretto rilegato in pelle su cui segnava tutti i “nomi buoni” dei Nobili di Venezia consultandolo di continuo per fornire “bòni suggerimenti da impegnar nel gioco della Pizia”.

Marco Corradi e Francesco Viola subodorando come quell’uomo poteva far loro comodo con le sue attività, non solo lo ospitarono mettendogli a disposizione una stanza in casa propria dove “poter esercitar da Negromante e Stròlogo”,ma si offrirono anche di procurargli raccattandoli in giro per Venezia tutti i “materiali speciali” con cui doveva compiere le sue “particolari operazioni nella sua “Stanza dei Circoli”.
Infatti, seguendo alcune indicazioni contenute in un “Manual da Stròlogo” e nella “Clavìcula Salomònis”, Viola e Corradi gli avevano procurato incensi ed erbe, e avevano ordinato presso Antonio Gianolla Fabbro a San Giovanni e Paolo degli stampi d’acciaio a forma di “coltello e falce” dove far colare dentro “candele di cera vergine” che ordinavano a un vicino di casa.
Lunardo a sua volta, dopo aver temperato gli stampi d’acciaio con del “sangue di Gatto e di Colombini”, aveva tracciato col carbone, dello spago e un coltello torto da Caleghèr e girando intorno alla sua stanza delle “strane linee, e tre cerchi grandi e piccoli” ... Dentro ai cerchi aveva scritto sempre col carbone delle lettere dell’alfabeto Ebraico ossia dei “segni Salomonici”, e infine aveva fatto colare la cera dentro ai suoi preziosi stampi. Era questo il “rito”di Lunardo per “Evocàr il Dimònio”, e per far questo s’era anche abbigliato con un “camisòto da Messa da Prete” che Viola e Corrado s’era procurati dal Sacrestano della Madonna dell’Orto con la scusa di volerlo copiare per una commissione sartoriale ordinata dall’Ambasciatore di Spagna.
In seguito, quando avevano restituito in chiesa l’abito tutto sporco, uno dei Preti della Madonna dell’Orto s’era risentito e arrabbiato non poco, perché temeva che l’avessero usato per travestirsi da Prete durante i giorni di Carnevale.

Intanto, “abbigliatosi da Rito”, Lunardo s’era messo ad usare uno dei suoi libri di nome: “Almanach” compiendo diverse “Magie”. Di solito Viola e Corradi lo vedevano: “Leggere di giorno … e guardar le Stelle di notte … scrivendo “natività” (oroscopi) in gran quantità per molti Nobili e persone che giravano per casa, compreso il Macellaio Angelo Targa, che ne aveva ordinata una senza poi andare a ritirarla e pagarla …”

Nella sua stanza Lunardo faceva “comparir Spiriti”(a pagamento) nelle mani unte con olio di“Garzoni e bambini Vergini che gli venivano presentati”. A volte “la Magia” riusciva e gli Spiriti suggerivano numeri e “preziosi consigli”utili per andar a scommettere e giocare. Altre volte, invece, il “Rito” non funzionava: “perché i bimbi non erano abbastanza puri come dicevano d’essere …”

Inoltre, lo stesso Lunardo conosceva “l’arte d’intrugliàr e impiastricciàr efficaci mantècche”, sapeva leggere dentro alle mani quale sarebbe stato il nome del nuovo Doge di Venezia scegliendolo fra i 38 candidati che correvano sulle bocche di tutti … e sapeva anche svelare “il futuro fortunato” di quale “ricco moròso” avrebbe sposato qualche ragazzina che gli presentavano.

Il connubio e l’intesa con Corradi e Viola funzionava a meraviglia, tanto che i tre si recavano spesso in giro per la Terraferma Veneziana “a caccia di tesori nascosti” spingendosi fino a Verona, Treviso e Mestre“ma senza mai ottener successo”.
Viola, Corradi e un altro amico: un certo Pietro Rinaldi andavano spesso a giocare alla “Bassetta” utilizzando gli “accorgimenti magici ed efficaci” forniti da Lunardo. Una volta erano andati a giocare in diversi Ridotti di San Moisè e di San Barnaba indossando un polsino che conteneva una foglia intinta e scritta con “sangue di Nottola” … Erano andati a giocare anche a casa dell’Ambasciatore di Francia… e la cosa aveva funzionato a dovere tanto che avevano vinto diverse volte ... C’era stato inoltre anche un Nobile Ambrogio Bembo detto Bembetto che avendo vinto tantissimo utilizzando “i modi” suggeriti da Lunardo e compari, era tornato indietro riconoscente donando al sarto ben 200 Reali.

Guarda, indaga, sbircia, cerca e ascolta … Gli spioni della Serenissima e dell’Inquisizione Veneziana scoprirono insomma che esisteva una nascosta ma efficiente attività di commercio e guadagno che ruotava intorno all’attività di Viola, Corradi, Rinaldi e alcuni Ebrei ispirati dallo “stròlogo”Lunardo Longo.

Scoprirono anche in parallelo che c’era un fiorente giro di scommesse clandestine svolte nel Ghetto. Si sapeva che la mania per il gioco, compreso quello d’azzardo, era per i Veneziani una costante deleteria che coinvolgeva ampiamente ogni ceto sociale ormai da secoli … donne comprese … ma quella volta c’era di mezzo anche “la Magia”… ed era questo che rendeva il tutto alquanto sospetto, degno di considerazione e pericoloso.
La Santa Inquisizione sapeva già che gli Ebrei del Ghetto oltre ad essere abili rivendugoli, straccivendoli e prestatori di soldi, erano anche scommettitori incalliti e procacciatori di ogni tipo di gioco anche d’azzardo. Sapeva anche che erano disposti ad alimentare a pagamento ogni tipo “d’intrallazzo e contaminazione della Giustizia” intrufolandosi dov’era possibile dentro a ogni tipo di cause, e “oliando a dovere” pratiche e persone forensi riuscendo perfino a “indirizzàr sentenze”. Sapeva ancora che a scopo di gioco e lucro gli Ebreicreavano e rivendevano a caro prezzo: da 5 a 10 ducati l’una, certe “descritte particolari” che facevano vincere ad ogni tipo di gioco con l’aiuto di: “Spiriti Dimoniali che apparivano dall’invisibile sopra ai balconi suggerendo gesti, numeri e soffiate utili”.

Stavolta però c’era di mezzo “il Diavolo Belzebùl, Satàn in persona”… e questo aveva fatto la differenza creando una situazione incresciosissima. Era perciò necessario intervenire prontamente … cosa che l’Inquisizione Venezianafece subito.

Verso Natale del 1633 si concluse tutto, e “la pentola dell’oscuro imbroglio venne scoperchiata”. Emerse la notizia delle notizie, ossia il fatto che in alcune“cene notturne nella Stanza dei Circoli a San Giobbe” si presentava “l’Amico” ossia niente meno che il Diavolo-Satana in persona che sostava a cenare lasciando gli avanzi sul pavimento. Per predisporsi equamente a quell’equivoco evento la combriccola intraprendeva ben 40 giorni di digiuno … e alla fine dopo “l’apparizione e la visita diabolica”si sedevano a loro volta a tavola spartendosi il succulento banchetto nonché “i suggerimenti buoni pel il gioco” lasciati dal Diavolo. Era emerso anche che in quella stessa circostanza Lunardo non aveva perso l’occasione per raccontare a tutti che il Diavolo l’aveva schiaffeggiato rivelandogli “i nomi buoni” di certi Nobili su cui si poteva scommettere in sicurezza al “gioco della Pizia”.

Poi in maniera del tutto imprevista era accaduto dell’inverosimile quasi precedendo l’azione della Santa Inquisizione. La compagnia “era scoppiata da se” perché  Lunardo Longo aveva fatto infilare tutti in una serie di perdite al gioco ingentissime che mandarono ciascuno in rovina indebitandosi fino al collo. Erano incappati tutti in una perdita di ben 2.000 lire, una somma troppo grossa per le loro limitate finanze, e il fatto li aveva inaspriti e fatti litigare grandemente fino a giungere a prendersi a coltellate. Viola aveva ferito Lunardoa un braccio cacciandolo fuori di casa … e qualche giorno dopo Lunardoera tornato“con la sua chitarrella e con certi suoi loschi amici” per litigare di nuovo e vendicarsi dello stesso Viola minacciandolo in casa sua.

Anche in questa seconda occasione baruffarono a lungo e non poco fra loro, e volarono di nuovo i coltelli da Caleghèr che andarono a ferire alcuni al petto, alle mani e pure alla testa … Francesco Viola in seguito finì con litigare pesantemente anche con Marco Corradi, e la faccenda suscitò grande clamore per la Contrada, e si concluse con denunce e querele davanti alle autorità pubbliche. All’Inquisizione non rimase che “raccogliere i cocci” di quella strana combriccola “andata in pàppe”, e mettere tutti uno dopo l’altro dentro alle sue carceri in Contrada di San Giovanni Novo o in Oleo nei pressi di Piazza San Marco.

Il resto fu ancora più rovinoso: furono tutti costretti a “chiudere bottega” licenziando i Lavoranti, e per assolvere “ai debiti pressanti” vennero sfrattati anche dalla casa di San Giobbe che venne affittata ad altri.

I nuovi inquilini,“a scanso d’ulteriori complicazioni ed equivoci”, rivelarono all’Inquisizione che avevano trovato entrando in casa quella “macabra Stanza dei cerchi” con ancora sul pavimento quei “segni neri” che s’erano affrettati a cancellare ottenendo il plauso dell’Inquisitor Grando.

Intanto per Viola, Corradi, Rinaldi e gli Ebreitutti carcerati, iniziò un lungo periodo d’attesa del processo, ma anche un’altra fase di quella strana vicenda perché dall’interno delle prigioni dell’Inquisizione ciascuno iniziò a pensare “a modo proprio” su come riuscire a farsi rilasciare e uscirne fuori “guastandosi il meno possibile”. Alcuni minacciarono gli altri cercando di non farli parlare e inducendoli a ritrattare o almeno ridurre le accuse. Gli Ebrei, che possedevano maggiori conoscenze e agganci, maneggiarono riuscendo a defilarsi, deviare le indagini, e ridurre il loro coinvolgimento con le relative possibili accuse e pene.

Viola per procurarsi testimoni a suo favore s’impegnò perfino: “… il letto di casa, il materasso con le biancherie da letto … e con la futura moglie malata ancora sopra”, usufruendo dei servigi di un losco e violento “Ebreo Catecumeno neoconvertito”.

Ancora gli Ebrei, prezzolarono il Capitano della Guardiedell’Inquisizione attraverso sua moglie ottenendo di contattare e visitare Corradi e Rinaldi minacciandoli fin dentro alle stesse prigioni. Alla fine emerse agli occhi dell’Inquisizione anche tutta quella “burrascosa faccenda” che accadeva impunemente dentro alle loro carceri, perciò venne carcerato pure il Capitano delle Guardie insieme alla moglie.

Corradi meno fornito di risorse economiche finì col tacere e basta … in attesa degli eventi e del processo che alla fine si celebrò concludendo quella “strana e demoniaca vicenda”, edemettendo “equa e provvidenziale sentenza”. All’atto del verdetto finale:

FrancescoViola venne descritto dall’Inquisizione come: “vehemente sospetto d’eresia”, e perciò condannato a:“un’ora di berlina in Piazza San Marco, e a cinque anni di prigione “chiusa e sicura” con possibilità di chiedere grazia solo dopo due anni.” Dopo un certo tempo gli venne concesso l’arresto domiciliare con la possibilità di tornare a lavorare nella sua bottega di San Giovanni Crisostomo.

Anche Pietro Rinaldi venne considerato dall’Inquisizione:“vehemente sospetto d’eresia”, perciò gli furono comminati: “un’ora di berlina sopra la Porta principale di San Marco, e sette anni di carcere “chiuso e sicuro” senza la possibilità di “chieder grazia” prima di tre anni.” In seguito venne trasferito dalle carceri di San Marco a quelle di Rialto permettendogli di lavorare per sfamare la sua famiglia di quattro figli che dormivano sulla nuda paglia, mentre la moglie era costretta ad elemosinare carità per strada.

Gli Ebrei, non si sa bene né perché né come (o meglio, si sapeva benissimo)riuscirono in una certa maniera a “farla franca”. Vennero solamente richiamati “a buon vivere” e lasciati andare minacciandoli delle pene più severe qualora fossero stati nuovamente coinvolti “in oscure faccende simili”... cosa che probabilmente fecero in seguito, come erano avezzi a fare da chissà quando, forse da sempre.

A Marco Corradi, l’Inquisizione fece: … non si sa, perché gli atti del processo stranamente tacciono al suo riguardo. Di certo non la passò liscia, ma il suo nome finì con lo scomparire nell’anonimo nulla della Storia Veneziana.

E Lunardo ? … lo “sparpagiòn e stròlego” mente e fautore di tutto ?

Lunardo Longo fu forse il più furbo di tutti, perché sentendo “odore di bruciato” fece fagotto e fuggì da Venezia prendendo la via di Ferrara. Se ne volò via, volatilizzandosi e svaporandosi come uno dei suoi Spiriti Magici e Demoniaci che sapeva evocare facendoli “comparìr e scomparìr dal niente”.

Giunto a Ferrara pensò bene d’iniziare da capo il suo abile e proficuo giochetto esistenziale. Ma non s’era accorto, né aveva tenuto in debito conto che altrove era ancora peggio che a Venezia … perché il Duca di Ferrara, ad esempio, ci mise solo un attimo a decidere per una soluzione chiara e definitiva che risolveva per sempre tutta quella “nuova quaestio” sollevata dalla presenza in città di quello strano individuo.

In un colpo d’impeto il Duca pensò bene con i suoi Consiglieri di spiccare la testa dal collo a Lunardo Longopresentatosi in giro per Ferrara: “… armato delle due pistole e vestito “alla Spagnola”, suonando la chitarra, e passando il tempo “strologando”, copiando libri di Magia, ed evocando Demoni …”

Così infatti avvenne ... e Lunardo Longo venne probabilmente impiccato … “e buonanotte a tutti ! … e a ogni proficua magia diabolica … buona o fasulla che fosse stata.”


“L’HOSPEAL DE SAN ZUAN DE BATTUDI DE MURAN.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” - n° 133.

“L’HOSPEAL DE SAN ZUAN DE BATTUDI DE MURAN.”

I “Battuti o Flagellanti” sono stati una delle espressioni penitenziali più antiche della Devozione popolare e Fraternale. Sono state forme d’aggregazione sorte già sul principio del Medioevo sulla scia delle esperienze dei Bianchi dell’Umbria, delle Marche e della Toscana che via via si sono allargati fino ad interessare l’Italia e anche l’Europa intera.
Scordatevi però l’immagine spettacolare coi scenari sanguinolenti dei Flagellanti ciondolanti, dolenti e imbrattati di sangue dalla testa ai piedi. Quelle sono scene da film e da ricostruzioni storiche un po’ forzate per non dire fasulle, o casi rari interpretati dai soliti fanatici che nella Storia non mancano mai.
C’è stato sì qualche gruppo esagitato e truculento, ma sono stati l’eccezione, poca cosa, perché in realtà i Battuti o Flagellanti portavano spesso sulla loro veste rozza una specie di portellino che si apriva quando serviva sulle “carni nude” per percuotersi simbolicamente a ricordo e condivisione dei “patimenti della Passione di Cristo”, e in espiazione dei propri peccati. I Battuti non erano affatto persone colte saltuariamente da raptus persecutorio e autolesionistico … Il più delle volte erano persone credenti normali che sceglievano quella via d’intensa partecipazione interiore e di coinvolgimento pratico rituale e liturgico.
Gente ispirata quindi, disposta a vivere esperienze di pietà, orazione, povertà, digiuni, riti e processioni ed elemosine … Niente bagni di sangue, carni martoriate da flagelli uncinati, e pelle strappata, ridotta a brandelli a suon di staffilate e scudisciate terribili e schioccanti. Dispiace per lo spettacolo … ma non è andata affatto così. Niente persone sadomasochiste … ma solo Penitenti che ci tenevano alla loro pelle e anche a quella degli altri.



Il movimento dei Battuti Flagellanti comunque giunse anche nel Veneto, un po’ ovunque: ce n’erano a Treviso, Conegliano, Belluno e perfino in piccoli paesetti di montagna come Vigo di Cadore, solo per citarne alcuni … e c’erano anche in Laguna e a Venezia, dove ad esempio la famosa Scuola Grande di San Rocco e di Santa Maria della Carità prima di cambiare stile e “far carriera”erano sorte appunto come Fraterne di Battuti. Si dice che tutte le Scuole Grandi di Venezia siano state all’inizio Fraterne di Battuti e Flagellanti, e che sostanzialmente i Battuti si distinguessero in due categorie: i Battuti di San Giovanni Battista il famoso profeta ruvido ed eremita penitenziale del deserto, e i Battuti della Vergine o di Santa Mariaispirati ovviamente alla Beata Vergine Maria, ossia la Madonna: la donna penitenziale per eccellenza, il modello orante di ogni penitenza e virtù efficace davanti a Dio.
Di Battuti quindi ce ne furono parecchi, e s’insediarono anche nell’Isola di Murano dove c’erano appunto i Flagellanti della Schola di San Giovanni Battista ... in veneziano: San Zan o Zuàn Battista.

Circa l’Ospedaletto, non si conosce bene il motivo per cui lo fece, ma in previsione della sua morte e col testamento del giugno 1337, fu il Mercante Fiorentino Orsolino o Chersolìn degli Ubbriachi o Ubriati figlio del defunto Giovanni a lasciare diecimila lire “… de piccoli veneti…” perché si erigesse in Murano: “un Hospeàl pe’ poveri dedito a San Giovanni Battista”.
La Devozione dei Fiorentiniverso San Giovanni Battista era un “classico”perché ovunque andavano a mercanteggiare o a vivere e lavorare “in trasferta” istituivano Schole dedicate proprio a quel Santo. Ne sia conferma il fatto che a Venezia prima a San Zanipolonel Sestiere di Castello, e poi in Santa Maria Graziosa dei Frari nel Sestiere di San Polo esisteva fin dal 1409 una Schola di San Giovanni Battista dei Fiorentini committente fra le altre cose della famosissima statua lignea di “San Giovanni Battista” realizzata da Donatello (capolavoro ancora oggi godibile).
C’è da ricordare inoltre che la presenza dei Banchieri di moneta e argento, dei Mercanti, degli Artieri e dei Lavoranti Fiorentini è stata per secoli molto significativa e considerata a Venezia, tanto che la Serenissima ha ospitato, riconosciuto e trattato “con Privilegio” la Nazione Foresta dei Fiorentiniconcedendole la “Cittadinanza de Intus” che prevedeva speciali favori e precedenze, nonché significative esenzioni daziarie e fiscali.
Fra 1330 e 1430 ai Toscani residenti in Venezia vennero concessi 672 “Privilegi” mercantili e socio-economici, di cui 281 a soli Fiorentini. Venezia dopo l’ascesa dei Medici a Firenze divenne rifugio di molti espatriati ed esuli Fiorentini, così come in diverse occasione i conflitti politici fra Venezia e Firenze segnarono l’espulsione da Venezia di Assicuratori, Cambisti, Mercanti, Artigiani e Commercianti Toscani destinati poco dopo a ritornare in Laguna. Nel 1450, ad esempio, la famiglia Giunti di Firenze si trasferì a Venezia integrandosi perfettamente. Luca Antonio Giunti spediva casse di libri in tutta Europa e trafficava in panni, zuccheri, pepe, olio e stagno reinvestendo i propri guadagni in possedimenti fondiari nella Marca Trevigiana dove dai 180 campi che possedeva la famiglia nel 1564, passarono ad averne più di 400 nel 1601.

Tornando ai Battuti e ai Flagellanti, il solito puntuale diarista Marin Sanudoricordava: “… secondo gli ordini della Compagnia del 1503 nella Confraternita dei Fiorentini si praticava la Disciplina … cioè Ministri e Cerimonieri doveva imporre il Sermone, il Capitolo, le Preci, la Lauda … e tutto quel che fusse giudicato a proposito per la consolazione dei Fratelli …”
Nel capitolo XXVII della Mariegola dei Fiorentini dei Frari si può leggere: “de le Correzioni”, ossia: “… debbiano esser corretti da’ Padri Governatori, ad arbitrio e discrezione loro per la prima, seconda e terza correzione; agravando e alleggerendo secondo la qualità dell’eccesso e circostanze d’essa o con l’Orazione, o col Digiuno, o con l’Elemosina, o col mandarlo perciò a qualche devozione o flagellazione per Penitenza dove e come lor parrà conveniente …”



Orsolìn degli Ubbriachi, il fondatore benemerito dell’Hospeàl de Batudi de Muran, abitava a Venezia, in Contrada di Santa Maria Formosa, e dopo aver comprato un terreno nei pressi del “Lago di San Basilio de Murano”(attuale zona del Faro, Bressagio e Fondamenta dei Battuti), d proprietà della chiesa di Santa Maria e Donato, ma sotto la giurisdizione della Pieve di Santo Stefano chiese e ottenne che il Juspatronato del costruendo Ospedale venisse concesso alla sua famiglia e ai suoi parenti prossimi. S’iniziò così l’anno seguente a costruire l’edificio secondo le volontà del testamento, e fin da subito l’Ospizio venne gestito dal Priore Massimo Belligotti o Belligratis o Belligatti, che era parente stretto del defunto Orsolìn, coadiuvato da dei “Pii Rettori” confermati dal Vescovo di Torcello.
Tre anni dopo, lo stesso Priore Belligotti chiese a Giovanni Morosini Vescovo di Torcellodi poter erigere in quel “caritatevole albergo” un altare dedicato a San Demetrio per consentire “agli ospiti impossibilitati di udir Messa ogni giorno”.

A Murano esisteva già da tempo una Fragia dei Battuti” residente ed“esercitante”nell’“Oratorietto di San Vittore Martire” poco distante dall’Ospedale, perciò fu giocoforza che costoro chiedessero e ottenessero tramite il loro GuardianNicoletto Carrer di entrare a far parte e presenziare nell’Ospedaletto per esercitare la loro Carità. I nuovi iscritti dei Battuti venivano accolti dal Guardian con “l’abbraccio di pace” e il “bacio Santo” associati alla formula: "Pax tibi frater". In seguito potevano indossare l’abito nero della Fraterna con l'immagine di San Giovanni Battista sulle spalle, e ottenere in caso di malattia: “… medico et medicine et 30 soldi la settimana” che "humilmente poteano restituire segretamente” collocandoli in un’apposita cassetta delle elemosine della Fraterna.
L’Hospeàl e la Fragia perciò divennero un tutt’uno inscindibile posto sotto la protezione di San Giovanni Battista e riconoscendo la Pieve di Santo Stefano di Murano come Mater etJurisdicente”, e anche all’altarolo dell’Ospedale si cambiò nome dedicandolo aSan Vittore.
Visto il successo dell’iniziativa, la Confraternita pensò ben presto d’ingrandire e allargare l’Ospedale a proprie spese acquisendo i terreni circostanti dell’isola. Fatto questo, si costruì un nuovo edificio con una grande sala, un Ospizio per ospitare Poveri e Pellegrini a pianterreno, e tre camere “in solàro” da adibire ad abitazione dei Priori e per i Capitoli e gli usi dei Battuti.
Già nel 1357 l’Ospedàl di San Giovanni Battista dei Battuti risultava ultimato e attivo anche come Ospizio per Pellegrini che potevano essere alloggiati per almeno due giorni … e meno di dieci anni dopo, la Schola potè usufruire anche di “…tre arche per la sepoltura dei Confratelli”, e usava la Sacrestia dell’Ospedaletto per svolgere il ricorrente Capitolodei Battuti di Murano.

Tre anni dopo, Lucia moglie del Cittadino Nicoletto Alberti residente nella Contrada di Sant’Agnese di Venezia comperò dai Canonici di Torcello un terreno di 6 campi “… confinante a mane con Ser Nicoletto Alberti, a meridie con la Scomenzera per la qual si va al Lido del Mar; a sera col Monasterio di Sant’Arian; a monte col Monasterio de San Marco de Amiani.” Nel 1385 le stesse terre in Lio Piccolo cedute alla Nobildonna Simona moglie di Zaccaria Contarinidel Ramo di San Cassian che aveva partecipato alla realizzazione dell’Ospedale dei Battuti di San Giovanni Battista di Murano, vennero donate allo stesso Ospedale l’anno seguente ingrandendone il patrimonio.

Nel 1436 cessò del tutto la gestione dell’Ospedale affidata ai Fiorentini discendenti di Orsolino degli Ubbriachi, e il Consiglio dei Dieci della Serenissima, vista l’opera meritevole che compiva l’Ospedale offrendo anche “dote” alle fanciulle Muranesi per maritarsi o monacarsi, fece unire la Confraternitadei Battuti di Murano con apposito decreto del 1466, ed equiparare con tutti i diritti e privilegi alle Scuole Grandidi Venezia, dispensandola solo dallo sfilare in Piazza San Marco durante le solennità previste a causa degli “...accidenti e pericoli a cui essa si esponeva a cagione della instabilitàde’ tempi nell’andata e nel ritorno da Venezia”.

Luciano Dataledi professione Mastro Pellicciaio fu Priore dell’Ospedale di San Zuàn de Muran … Fra il primo e il secondo decennio del 1500 la Schola-Hospitiodotata ormai di considerevoli risorse si allargò ulteriormente ricostruendo Ospizio, Oratorio e Schola su due piani: con notevole spesa ed eleganza stilistica a imitazione delle altre Schole Grandi cittadine di Venezia. Ancora nel 1589-1590 Simone di Bartolomeo tagiapiera della Contrada de San Felise e Angiolo tagiapiera della Contrada de San Marcuola lavoravano al completamento dell’opera.
Come costume dell’epoca, la Schola si dotò di numerose e preziose Reliquie, al piano superiore realizzò la Sala dell’Albergoabbellita da un soffitto prospettico di Faustino Moretti da Brenna in Valcamonica,e la Sala delCapitolorivestita da preziosissime dossali in legno intagliato realizzati da Pietro Morando, e decorata da numerosi teleri che raccontavano la vita di San Giovanni Battista ritraendo anche i Confratelli committenti.
L’Abate Muranese Zanetti ricordava la speciale Sala del Capitolo nelle sue memorie: “… ove i fratelli tengono la loro riduzione è tutta dal mezzo in giù circondata da intaglio raro e di sommo pregio formato da semplice noce in cui rappresentarsi al vivo in lavoro di rilievo tutta la vita di San Giovanni Battista; e i più rinomati personaggi dell’antichità greca e romana ed altre simboliche figure vedonsi al naturale scolpite in mezza figura fra i colonnami d’intorno posti per la separazione dei fatti del Santo …  opera che in ogni tempo servì d’ammirazione ai più celebri artefici d’Italia e d’altri parti d’Europa … tanto che i maestri mandavano i loro discepoli a trarne disegni …”                                                               

E non era tutto, perché il nuovo Oratorio-Chiesetta possedeva ben tre Altari: l’Altar Maggiore decorato con un Battesimo di Cristo” dipinto forse dal Tintoretto, mentre gli altri due Altari erano stati arredati con tele di Bartolomeo Letterini:Annunciazione”e San Rocco”. Sopra alla porta maggiore si pose un Politticodel Vivarini a diversi scomparti, e sulle pareti dell’Oratorio c’erano altre opere andate in gran parte disperse e perdute di Palma il Giovane, Matteo Ponzone, Stefano Pauluzzi, Filippo Abbiati, Marco Angelo detto il Moro, opere della Scuola dei Tiziano e delMalombra che rappresentò le Indulgenze concesse ai Confratelli.

Si dice che trascorsa la metà del 1600, quando la Schola de San Zuàni Battista de Muranpossedeva una rendita annuale di 499 ducati da beni immobili posseduti in Venezia, il sodalizio annoverasse più di 700 iscritti, (altri ipotizzano fino a 800), che pian piano scemarono fino a divenire 300 verso la fine della Repubblica quando l’Ospedale riuscì a sopravvivere a fatica per qualche anno alla devastazione napoleonica.

Nel febbraio 1697 Nicolò Contarini affittò con contratto rinnovabile di 29 anni a Giovanni Domenico Cottini, subentrante a Francesco Zonelli Mercante Veneziano, il godimento dei beni dell’Ospedale di San Giovanni Battista di Murano siti in Lio Piccolo: “… trattasi di campi arativi, prativi, videgadi, fabbriche, pradi, paludi, canali, valli, barene tutte e cadaune raggioni … nelle acque di Torcello eccentuata la giurisdizione di piantar grisiole e pali che rimane riservata a comodo dei Contarini … per i quali 40 campi Domenico Cottini dovrà sborsare 70 ducati annui in due rate al primo giugno  ed 11 novembre”. In seguito Cottini bonificò il paludoso in coltivo e attivò alcune peschiere per l’Itticoltura che gli fruttavano da sole 100 ducati annui. Rinnovò anche“una gran casa dominical in piazza a Lio Piccolo del valore di 2.000 ducati” corrispondente alla zona dove sorge ancora oggi il Palazzo Boldù.

Nel 1711 per un terreno sito in Murano avvenne una lite che finì a processo fra il Monastero di San Girolamo di Venezia e la Schola di San Giovanni Battista di Murano... Nel 1725 morì lasciando un “congruo lascito” alla Pieve di Santo Stefano di Murano: Bortolo Dalla Motta detto Morattoche era Guardian Grando della Schola di San Zuanne dei Battuti di Murano… e nel 1738 quando la Schola de Muran possedeva una rendita annuale di 595 ducati proveniente dai suoi beni immobili siti in Venezia, due fratelli Mazzolà fecero restaurare a loro spese la pala di Marco Angiolo detto Moro rappresentante la “Deposizione dalla Croce” collocata nella Cappella della Confraternita nell’Ospedal de Muran… Secondo Michele Cicogna autore della celebre raccolta delle “Iscrizioni Veneziane”, nel 1797 a Murano esistevano 4 organi costruiti dal Sacerdote Muranese Antonio Barbini allievo di Osvaldo Carloni. L’organo più celebre era quello della Pieve di Santo Stefano, ma era opera sua anche quello dell’Ospitale della Confraternita di San Giovanni Battista di Murano.


Nell’ottobre del 1813 anche per quello che fu l’Hospeàl dei Battùi de Muran arrivò la triste fine. I francesi, come era loro solito, fecero man bassa di tutta l’isola Muranese destinando: “... Santa Maria degli Angeli, San Maffio, San Pietro Martire, le Terese, e la Schola di San Giovanni Battista de’ Battuti situati nella Comune di Murano per la custodia dei buoi vivi, e per riporvi altri generi d’approvvigionamento in caso d’assedio...”
Alla fine di gennaio 1815 nella “Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia” nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti”c’erano segnati: “ … una casa con orto al n° 13 in Campo San Giovanni Battista a Murano affittata a Ravanello Angelo per 114:207, e una casa n° 14 nello stesso posto … una casetta con orticello al n° 15 affittata a Marchioni Niccolò per 63:448; una casetta ed orticello al n° 16 … una casa a pian terreno con orticello al n° 17 affittata a Doro Vincenzo per 50:758; un appartamento superiore alla casa al n°18 … una casa a pian terreno con orto al n° 18 affittata a Fuga Pietro per 95:172; casette con orticello al n° 19 affittate a Fantin Francesco per 76:158; una casa a pian terreno con orticello al n° 21 affittata a Santini Francesco per 63:448; una casa in primo piano al n°21 affittata a Serena Giuseppe per 57:103; una casa a pian terreno al n° 22; una casa al n° 23 affittata a Carniello Tommaso per 31:724; una casa al n° 27 affittata a Gaggio Andrea per 50: 758; una casa al n° 28 affittata a Ravanella Secondo per 82:482; una casa al n° 29 affittata a Morato Giovanni per 76:138; una casa al n° 30; una casa al n° 523 in Fondamenta de’ Vetriari affittata a Dorigo D.Daniele per 99:777; un prato in Sacca di Murano affittato a Seguso Andrea per 102:00; una casa e orticello al n° 693 in Fondamenta degli Angeli affittato a Rubini Domenico per 101:518 appartenenti tutti alla Scuola dei Battuti in Murano …”



In quel contesto disfattista e tragico, fu gran merito di Stefano Tosi Parroco di San Pietro di Murano e Canonico di Torcello aiutato dai Muranesi acquistare dal Demanio nel 1813 e salvare dai francesi marmi e opere delle chiese distrutte di Murano. In quegli anni l’isola era allo sbando e lasciata parecchio a se stessa. Lo stesso Don Stefano Tosi dichiarava: “… i ragazzi abbandonati di San Pietro di Murano sono almeno 21 di età fra 6 e 17 anni … tutti figli di dissoluti, viziosi, bestemmiatori ed immersi in ogni sorta d’iniquità…”

Erano tempi magri, difficili, in cui l’isola sopravviveva come poteva. Nell’aprile 1819firmarono per presa visione circa il nuovo regolamento d’apertura delle botteghe dell’isola: 5 fra venditori di Lino, Seta e Canape, 2 venditori di Tabacco, 4 Barbitonsori, 6 Salsamentari e venditori di carni cotte, 6 venditori di ceste, 3 Macellai, 5 Acquavitai, 13 Fruttaroli, 2 Pizzicagnoli, 2 Prestinai e Forneri.
I Muranesi con le loro fornaci e il vetro si sono sempre e comunque dimostrati “tosti”e sono andati avanti, sebbene nel 1845 su 4.450 abitanti della Contrada di San Pietro ci fossero 397 famiglie povere, mentre in quella di San Donato ce ne fossero 143.


Infine nel 1837 l’Austriaordinò la demolizione degli edifici eccetto il solo Oratoriodei Battuti cancellando di fatto quel che era stata un’intera vivissima Contrada Muranese … Rimase un bassorilievo della Schola risalente al 1361 finito prima in San Cipriano di Murano e poi trasferito nel Seminario Patriarcale della Madonna della Salute di Venezia (ora restituito al Museo di Murano)… Sembra, invece, che il pavimento a intarsi bianchi e neri dell’Oratorio-chiesetta di San Zuanne dei Battuti sia stato trasposto nella Cappella maggiore di San Pietro Martire dove Don Tosi benemerito salvò miracolosamente nella Sacrestia dalla devastazione e dispersione napoleonica le diverse opere, compresi i dossali di San Giovanni Battista… Infine, alcuni registri, documenti, attestati d’Indulgenze, inventari e fascicoli della Schola dei Battuti di San Giovanni di Murano finirono nell’Archivio di Stato di Veneziadove forse si custodisce ancora anche l’antica Mariegola dei Battuti dalla sovracoperta borchiata d’argento (?).

Anche Murano emana Storia Serenissima … parte integrante della nostra amabile Venezia.

“UN SAN MARTINO VENEZIANO … SEXY.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 134.

“UN SAN MARTINO VENEZIANO … SEXY.”

La chiesa dedicata a San Martin della mia isoletta colorata di Burano spersa in fondo alla Laguna di Venezia, era cupa, davvero tetra il giorno della festa della sua dedicazione. Era per gran parte della giornata priva di gente, austerissima, quasi spettrale con alcune lunghe candele appese e accese sulle pareti segnate dalle antiche croci in pietra della consacrazione della chiesa … Sarà stata forse colpa della stagione autunnale ormai avanzata, saranno state forse le nebbie che si rincorrevano come fantasmi sopra la Laguna, ma quello che a me sembrava un chiesone, era avvolto nel buio, uno stanzone silenzioso, senza nessuno, che m’incuteva un certo timore … Se poi passandoci dentro con i sensi tesi scricchiolava una panca, o cigolava una vecchia porta … era un po’ come un Halloween anzitempo, che mi faceva per davvero paura … Perciò con i miei amici ce ne uscivamo fuori “in piazza” appena possibile scampando da quella sensazione. Però mi è rimasto nella mente quello strano sentore che in quei momenti stesse accadendo e “passando e rinnovando” qualcosa di speciale … Era “l’aria della stagione de San Martin” che ogni anno ritornava puntuale.

Per fortuna fuori della chiesa, e dappertutto nell’isola il clima era del tutto diverso. C’erano i gustosissimi San Martin Buraenelli fatti “de bussolà”… Erano buoni, buonissimi, grandissimi … senza paragoni, il top a confronto con quelli “da quattro soldi che sapevano di gomma”fatti ormai dai primi Cinesi spiaggiati in Laguna. Quelli di Burano, invece, erano “SantiMartini veri”… fatti come si deve, e siccome eravamo bambini, e per di più anche golosi: 1+1 faceva due e qualche volta anche tre, perciò … era sempre una gran festa !

Si andava in giro per tutta l’isola a “festisàr” e “bàtter San Martin”… Si andava in tanti, a frotte ! … In quegli anni non è che in molti si possedesse tanto altro … Erano quelli i nostri eventi, i nostri grandi e piccoli divertimenti.  Si sottraeva alla nonna un paio di coperchi e una delle sue preziose pentolacce vecchie di anni (sfidando le sue ire quando al ritorno gliele ritornavamo malconce), e si partiva e andava ovunque “a sbattacchiàr, sonàr, cantàr, ciamàr e domandàr San Martin”.

Halloween di oggi “ci avrebbe fatto un baffo” a confronto con noi !

I bottegai dell’isola non ce la facevano più alla fine delle lunghe giornate prossime alla ricorrenza di San Martino perché s’iniziava già due tre giorni prima a “bàtterlo” per ogni strada dell’isola per rubare l’iniziativa e “la piazza” agli altri bimbi che s’attivavano all’ultimo momento. A suon di vedere il loro negozio invaso da bimbi intruppati sempre più numerosi, chiassosi ed esagitati, i bottegai erano sempre più stressati e stanchi d’affrontarli, riceverli e rimandarli in strada ricchi delle loro offerte e regali … che altro non erano che pochi “bagìgi, sème e carobe” e qualche rarissimo dolcetto … ma proprio raro. Soldi e monetine ? … Nemmeno l’ombra !

Ma noi neanche ce le aspettavamo, anzi, l’unica cosa spregiudicata e azzardata in cui incorrevamo era quella di provare nella gran confusione che si produceva dentro ai negozi di allungare la mano sopra ai mitici vasi di vetro dei “bomboni” rigorosamente chiusi dal coperchio avvitato. Stavano quasi tutti allineati e colorati in un angolo del bancone della bottega, ed era giocoforza provare a rimbambire il proprietario con coperchi, urla, canti e sbattacchi vari mentre un paio di noi più ardimentosi provava a mimetizzarsi nella confusione e “attaccare” i preziosi vasi con i “bottoni di cioccolato”, gli “essi”, le “more”, “i pessetti”, le “mente”, i “gessi” o i “ciuciòni”e altro ben di Dio … C’era però in agguato la mamma ferocissima del bottegaio, che appostata sulla sua seggiola impagliata nella penombra dietro al bancone ci piazzava certe randellate sulle mani appena arrivavamo troppo vicini ai “dolci vasi” in questione. 
Il giorno seguente alcuni comparivamo a scuola con le mani gonfie e con certi ematomi: “Eccolo là il ladroncello ! … Il ladruncolo … il monello …” scherzava divertito il maestro … noi scherzavamo un po’ meno.

Poi si sciamava fuori da scuola sul mezzogiorno … un pasto caldo e via di nuovo a “Festisàr San Martin” un’altra volta.
“E San Martin xe andà in soffita a cercàr a so novìza … A so novìza no ghe gièra … San Martin con el cueo par tèra … E col nostro sacchettìn … Cari Signori xe San Martìn … dron dron !” e giù a ripeterlo e ripeterlo, e straripeterlo ancora finchè faceva notte e anche molto dopo … finchè faceva tardi … ma proprio tardi e forse di più.

A pensarci bene però … ma l’ho fatto soltanto dopo, parecchio dopo quando ero diventato più grande, perché un tempo eravamo davvero acerbi e parecchio semplici … “Ma che ci andava a fare San Martin in soffitta ? … Perché mai una novìza, una moròsa, una fidanzata andava mai a nascondersi in soffitta ?” mi sono chiesto più volte.

Non serve che ve lo spieghi … Nella fantasia popolare San Martìn era uno di loro, uno qualunque come gli altri … un Santo Martin sexy che andava a caccia della sua donna … di amoreggiare e spassarsela come fanno in tanti riducendosi in luoghi un po’ fuori mano quando non ne hanno altri a disposizione … magari su in soffitta.

San Martin quindi, non era soltanto quel che ci raccontava l’altrettanto “mitica” Suor Teodorica all’Asilo dei bimbi di Burano. Non era solo un combattente, un soldato romano della Pannonia figlio a sua volta di soldato … Sotto al suo felpato e grosso e grande mantello a volte ospitava anche qualche bella donna … Era un soldato coraggioso e intrepido, come raccontava la Suora, e noi furbetti e vispi amavamo imitarlo con le nostre spade di cartone … ma era anche un amante generoso … e chissà … forse focoso e intrigante per la fantasia popolare … Visto che andava perfino a nascondersi nelle soffitte.

Ma non era stato fortunatissimo “in amore”… perché “a so novìza non ghe gèra” … e perciò si è trovato: “col culo per terra”, ossia gli è andata male, è andato “in bianco”, non ebbe successo con le donne … Ed ecco emergere il resto della storia di San Martino nel sentire popolare: forse deluso d’amore, decise di donarsi ai poveri, di spartire il suo prezioso mantello, e tutto quel che era con i poveri … e con Dio, facendosi Monaco … visto che il poverello della leggenda coperto con mezzo mantello tagliato risultò essere alla fine il Christo in persona.

San Martino, infatti, fu non solo Monaco, ma pure Vescovo di Tour… e un grande Santo che ha segnato l’Europa intera tempestata ancora oggi da mille chiese dedicate a San Martino ... E tanto si diffuse quel culto per San Martino che giunse fino a Venezia, e fino in fondo alla sua Laguna … ossia nell’isoletta di Burano.

Guarda te … quante cose a volte rivela indirettamente una semplice filastrocca e canzone popolare !

Era denso di significati quindi quel nostro piacevole “Festisàr San Martin”… Era di fatto un evocazione indiretta della sua Leggenda Aurea … seppure “tradotta” in chiave popolare … e lagunare, e messa in bocca a semplici bambini.

L’anziano Piovan di San Martino di Burano“mitico” pure lui quasi quanto San Martino … ogni anno offriva a tutti i chierichetti della Parrocchia e dell’isola un bel dolce di “San Martin a cavallo” per festeggiare degnamente il titolare della nostra chiesa. Figuratevi noi bambini ! … Per l’occasione rispuntavano sull’altare in “veste nera e cotta bianca”anche certi ragazzini che non si presentavano a servire Messa e a far da chierichetto da mesi su mesi … Alcuni nel frattempo erano così cresciuti di statura che l’abito da cerimonia faceva “acqua alta” ossia era troppo corto, tirato su, quasi ridicolo, con gambe lunghe che spuntavano di sotto, maniche corte, e certi bottoni chiusi allo spasimo che sembravano proiettili pronti ad esplodere … C’era in ballo un bel “SanMartìn a cavaeo”… Non era mica poco, e non si poteva quindi mancare.

Pensate: io ero il chierichetto n° 103 dei Chierichetti-Zaghetti di Burano ! … Mica pochi vero ? … Ed ero anche il più piccolo: neanche sei anni ancora … Beata gioventù spensierata … e già curiosa fin da allora !

Sempre lo stesso buon Piovano don Marco Polo(esatto: proprio omonimo del Mercante viaggiatore Veneziano) era generoso, e offriva “San Martini” a tutti i chierichetti presenti a prescindere dalla loro frequenza … E li offriva anche agli assenti mandandoli a volte direttamente a casa … o più semplicemente appendendoli sull’attaccapanni dove si conservava la “veste e cotta” d’ordinanza chierichettale. Immaginatevi tutti quei bei “SanMartini” appiccicati e appuntati lì in aria e in attesa … appartenevano a chi forse non si sarebbe presentato più neanche per ritirarli …
Li tenevamo d’occhio … e andavamo avanti più di un mese a mangiarceli pezzo dopo pezzo, e giorno dopo giorno … in gran segreto. E ogni volta che il Piovano notava che scemavano di numero spiegavamo: “Ah … è passato Luigi a ritirarlo … Ah … sono passati Mario e suo fratello Saulo a prenderli …” oppure: “Ah … Sì … Ho visto ieri Davide e Otello che se li sono portati via … L’hai visto anche tu vero ?”

E quando non ce n’erano più, il Piovano ci chiedeva: “Ma almeno erano buoni ? … Vi sono piaciuti tutti ? … Io quando sono stato battezzato mi hanno affibbiato ben dieci nomi … Mi sembra che voi a volte ne possediate molti di più.”

La chiesa di San Martin nell’isola di Burano in fondo alla Laguna … sembra che inizialmente fosse un Priorato sottoposto al vicino Monastero di San Vito sempre nella stessa Burano. Quando ? … Boh … Chissà ? … Qualcuno spara una data antichissima per il primo insediamento di fuggiaschi Altinati… o dei primi pescatori lagunari: 430 d.C ? … Ma forse è un azzardo … o magari è successo ancora prima.

San Martin a Venezia, invece, è tutt’ora una delle più caratteristiche Contrade nel Sestiere di Castello a Venezia … La chiesa è una delle più antiche di Venezia, collocata proprio a due passi dall’insigne e memorabile Arsenale dei Veneziani. Non si sa neanche quando fu fondata, le sue origini sono oscure, perse nelle ombre padane in cui si fuggiva rincorsi dai Longobardi, o si conviveva insieme a loro … forse si era trecento anni prima dell’anno 1000 in una delle isolette Gemini della primitiva Venezia. Erano i tempi in cui Venezia “abitava” ancora a Malamocco, prima che ci fosse l’Emporio di Rialto. In ogni caso si scelse San Martino Vescovo di Tour“campione della Fede”,come Sant’Ilario e Sant’Ambrogio … e molti altri.

A San Martin un tempo si chiudeva definitivamente la stagione del lavoro dei campi e nelle stalle … Terminava la buona stagione, e iniziava quella cruda invernale priva di risorse “e con la morte sui campi”… C’era bisogno per tutti del tepore protettivo del mantello confortevole e ospitale di San Martin …A San Martin” si rinnovavano le affittanze, si pagavano i noli, si offrivano le “onoranze” obbligatorie a chi era il padrone di tutto … ossia i soliti Nobili, e i Preti, Frati e Suore … Curioso è il racconto del Libro Verde di Monselice in cui si elencano tutti i contadini, i vignaioli, e gli allevatori della piccola cittadina … tutti in fila a presentare o saldare le loro “pendenze” con i rappresentanti, i Fattori delle Monache del Monastero di San Zaccaria di Venezia… che era padrone di tutto … montagna compresa. Sul librone uno Scrivano attentissimo segnava: “ … questo offre una spalla di maiale … quell’altro del vino, l’altro ancora delle uova, l’altro ancora due galline e un sacco di farina … Tizio salda parte del debito, Caio ne attiva un altro …” e così via … e su tutti vigilava benigno San Martino ... che in un certo senso con la sua vicenda umana e spirituale ispirava fiducia un po’ a tutti.

E oggi ? … Sono rimasti solo pallidi ricordi di quel che c’era e si faceva e provava un tempo … Oggi è rimasto il dolce di pastafrolla o di “Bussolà”che fino a qualche anno fa si usava scambiare come omaggio e segno d’affetto fra i fidanzati Veneziani … poi è accaduto che a volte non si faceva a tempo ad entrare nel negozio e acquistare il San Martin che già il fidanzato o la fidanzata se n’erano andati via o cambiati con altri … per cui si rimaneva con “il pacco-regalo” confezionato in mano … come se il San Martino si ritrovasse a spezzare il suo mantello per un povero che non c’è più.

Seppure trascorsi molti anni dalla mia infanzia, a volte mi da ancora da pensare quell’emblematica “noviza” della canzone: “che non ghe gèra”… Ma dove sarà andata ?  O meglio … con chi sarà andata altrove ?
“Povero San Martino !”… mi dicevo … “Un uomo un po’ sfigàto … caduto col culo per tèra” come abbiamo cantato mille volte. Ma mi piaceva molto quella figura … perché in qualche maniera assomigliava a noi e alle nostre umane vicende qualsiasi.


Corsi e ricorsi storici … I nostri bimbi di oggi non conoscono tanto San Martin … ne è rimasto quasi solo il dolcetto caratteristico a cavallo … (e a caro prezzo). Ma spero anche un poco di quella fisionomia atavica di Santo-personaggio buono e generoso rimasto impigliato a lungo nelle pieghe della storia di Venezia e dei Veneziani. Un personaggio “amabile” che di certo ispira un certo tepore interiore … quello dell’effimera “estate di San Martin”.

“UNA “FACCIA AGGIUNTA” DELLA MADONNA DELLA SALUTE … UNA FESTA GRANDA DI VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 135.

“UNA “FACCIA AGGIUNTA” DELLA MADONNA DELLA SALUTE … UNA FESTA GRANDA DI VENEZIA.”

Ogni anno da secoli si ripete ancora “il miracolo” di migliaia di persone Veneziane che convergono nello stesso luogo, qui da noi, a Venezia nella famosa Basilica della Salute per la Festa della Madonna della Salute. E’ forse questo il fatto più eclatante di oggi, più che la ricorrenza e la memoria di quel gesto del Voto antico dei Venezianiaccaduto nel lontanissimo 1630. E’ questo “tornare e ritornare” ininterrotto di persone di oggi che fa ed è la preziosa news di ogni anno … anche se per molti Veneziani sembrerà un fatto ovvio e quasi del tutto normale, se non “dovuto”.

Più di qualcuno mi ha detto: “Forse è per il fatto che la “salute” in se è una cosa preziosa per tutti … che a tutti interessa “star bene”, e si brama giorni felici per se e per tutti i propri cari … oltre che magari per la società, per Venezia e il Mondo intero … Probabilmente è un bisogno inconscio di benessere e di protezione che spinge ogni anno tanti Veneziani a ritornare alla Madonna della Salute … In ogni caso resta un bel fenomeno che non accenna ad interrompersi e si rinnova puntualmente ogni anno.”

“Tradizione ?”

“Sì e no … perché forse c’è qualcosa di più del banale ripetersi di una semplice ricorrenza Veneziana … A Venezia e dentro ai Veneziani certe sensazioni si amplificano, quasi si tramandano nel sangue a chi viene dopo … Infatti alla Salute non convergono solo vecchi bacucchi o bigotti, ma c’è di tutto: giovani, anziani, persone di ogni età e situazione sociale … E’ proprio una Festa di tutti i Veneziani … Anche se forse non ha più i numeri grandissimi e strepitosi di un tempo …”

Io ho avuto modo per diversi anni di osservare da vicino, anzi da dentro, quel “fenomeno tutto Veneziano” che non ha mai smesso di stupirmi. Mi ha sempre fatto impressione la fiumana di persone eterogenee che ogni anno accorrono e si ripresentano puntuali a questa specie di appuntamento cittadino. Non credo sia solo una faccenda di Religione e Devozione, di Tradizione e ripetitività automatica e scontata. Ho visto presentarsi persone di ogni genere: rosse, bianche, verdi, nere e di ogni tendenza politica, ceto sociale, razza, e disposizione interiore e culturale … Ho visto “passare per la Salute”: atei, agnostici, credenti di ogni tipo … e gli immancabili turisti … e quelli che accorrono solo per il fatto che si tratta di una Festa della nostra Venezia, quindi “qualcosa” che non si può mancare come Veneziano.

“Non so spiegare bene che cosa accada dentro alla testa di tante persone …. Sarà forse lo stesso bisogno di benessere e star bene che sentivano più che mai i Veneziani ai tempi della Pestilenza … o sarà forse per chissà quale altro impulso interiore …” osservava di recente un Medico Veneziano mio conoscente, “Sta di fatto che li vedo ancora accorrere in tanti e in massa … ogni anno a migliaia ... E’ peggio di una di quelle partite a calcio importanti, una finale che calamita e muove migliaia di persone …”.
“C’è perfino chi non entra neanche in chiesa … Si spinge fin nei dintorni della Basilica e s’accontenta di gironzolarci attorno o nei paraggi … Magari va a comperarsi la ciambella, il croccante, la frittella o il dolcetto e basta … o il palloncino colorato per il bambino … La Salute è anche un’occasione per incontrarsi e guardare … anche se c’è quello, che si reca lì in vero e proprio pellegrinaggio interiore.”

“Lungo il corso degli anni ho notato anche che non esiste condizione atmosferica che tenga, perché con nebbia, pioggia, vento, freddo e acqua alta è sempre uguale … ogni anno: la stessa cosa … Si ripete sempre immancabilmente quel grande e incredibile affluire e accorrere di gente, che a certe ore sembra non avere mai fine.”

Intorno a questa Festa Veneziana “maiuscola” si dicono e riassumono sempre più o meno le stesse cose: si passa dal ricordare la saporita “castradina”specialità gastronomica tipica della Festa, alle immancabili notizie sul Votoe la Pestilenzadel 1630. Quella volta Venezia Serenissima con tutto il popolo dei Veneziani e Doge e Senato in testa previdero di spendere più di 155.000 ducati d’oro, e diedero inizio a quella specie di preghiera senza fine che è “La Salute”dove ancora oggi, quattro secoli dopo, si torna a rivolgersi alla “Madonna Nera”, la Mesopanditissaoggi tutta ingioiellata, portata un tempo a Venezia da Candia dall’Ammiraglio Morosini come trofeo di guerra dopo aver fatto pace col Turco. Oltre a tutto questo si ricorda sempre la storia-leggenda della foresta del milione e 657.000 pali infissi nel fango per due anni (il famoso “Zatteròn dei pali”)utili per far da basamento alla chiesa. Si dice fossero infissi in acqua fino a metà del Bacino di San Marco (in realtà se ne utilizzarono … solo … 110.772 … un’inezia, e la fornitura dei pali e dei tavolati venne commissionata ai Mercanti di Legname: Giacomo Polvero e Giacomo Gaio).
Sopra al “Zatteròn dei pali” venne posta in seguito “una bùgna in pietra viva” sopra la quale venne costruita la grande Basilica che vediamo ancora oggi. Ogni buon Veneziano ha di certo ben chiara in mente la visione plastica ed efficace della “malefica e macabra vecchia racchia(la Peste)cacciata dall’Angiolo con la fiaccola accesa mandato dalla Madonna della Salute con inginocchiata ai piedi la “bella donna adornata e pomposa” (Venezia Serenissima) col cappello dogale (il camauro) posto ai suoi piedi.” E’ la mirabilmente scena in pietra del 1674 creata dal Fiammingo Jouste Le Cour e collocata in cima all’Altare Maggiore della Salute … Credo non esista maestra di Scuola Elementare di Venezia che ogni anno non faccia amabilmente riferimento ai suoi “docili e attenti bimbetti” di quella “mitica scena” che in un certo senso riassume tutta la nostra tradizionale “Storia della Madonna della Salute”.
Sono convinto che sapete di certo che fino al luglio 1630 c’erano stati in tutto a Venezia soli 48 Morti, mentre nell’ottobre 1631 erano diventati in tutto: 43.656 … ai quali bisognò aggiungerne gli altri 35.639 di Murano, Malamocco e Chioggia, per cui il totale fu di: 82.175 ! … 

Un bel macello storico !

Fra costoro si contarono: 11.486 donne da parto, 5.043 donzelle fra i 14 e i 25 anni, 9.306 putti, 29.336 donne mature, 1.229 fra Preti e Frati, 25.208 fra Mercanti e Artigiani, 217 Nobili e 450 Ebrei. Totale sempre e ancora: 82.175 … un bel massacro, ben peggio di una delle “guerre grosse” di quei tempi.


Tornando al “chiesone della Salute”, sapete anche come a conti fatti nel 1679, la spesa finale al termine di tutti lavori di costruzione del Tempio ammontò a: 381.838 ducati e 8 soldi, ossia a ben più del doppio di quanto s’era previsto all’inizio. Bisogna dire che Venezia Serenissima e i Veneziani non si sono affatto trattenuti dallo “spendere e spandere” per realizzare “quell’idea”.

Detto questo, mi viene da aggiungere che intorno alla Basilica e alla Festa della Salute ci sarebbero tante altre cose da dire e scrivere. Non che non sia stato già detto e fatto … Anzi: come sempre su certi “argomenti Veneziani” esiste una vera e propria letteratura di cose e notizie ben dette e ben presentate … ma esistono anche “altre cose piccole e grandi” che per un buon Veneziano è bene conoscere e condividere … o perlomeno ricordare un pochetto insieme.
Esiste, insomma, un altro risvolto curioso, un’altra faccia di questa nobilissima Festa Veneziana. Un volto desueto, e forse meno pomposo e più pallido che provo a riassumervi un poco a modo mio.

Innanzitutto il gran chiesone l’ha costruito il trentaquatrenne architetto Baldassare Longhena vincendo il concorso fra 11 progetti che vennero presentati alla Serenissima. Non ha impiegato solo due anni a edificarlo, ma fra altri e bassi, tira e molla, e interruzioni per vari motivi, la Basilica della Saluteè stata terminata del tutto compreso l’interno solo verso il 1681 ! … ossia cinquant’anni dopo il famoso Voto di Stato impegnando una vasta folla di scalpellini, marangoni, tagiapiera e lavoranti di Venezia e “da fuori”. Nel 1660 mancava ancora la Cupola Piccola, ossia la “cupola minore” retrostante con i due campaniletti laterali … e all’interno solo fra 1667 e 1674 il pittore Luca Giordano collocò le sue tele sopra gli altari laterali appena costruiti … Fu nel 1670, quando ancora non erano terminati i pavimenti, che si pose sopra all’Altare Maggiore la Madonna Nera di San Tito proveniente da Candia: la Mesopanditissa(significa: Procuratrice di Grazie e Miracoli). Esternamente il cantiere del chiesone era in funzione ancora nel 1683, quando Giustiniano Martinioni elencava una folla di ben 125 statue di marmo poste a coronamento della Basilica frutto di una spesa di ben ½ milione d’oro !

Alla stessa data, s’erano appena completate le gradinate delle rive che davano sul Canal Grande e sull’adiacente Rio di San Gregorio, e si era appena lastricato il Campo antistante la chiesa … La consacrazione conclusiva e definitiva del famoso “Edificio del Voto” accadde, invece, solo nel 1687 … A dire il vero e ad essere precisini, la Basilica non era ancora terminata del tutto al suo interno perché numerosi nicchioni collocati in parete sotto alla Cupola Minore sono rimasti vuoti e privi di statue ancora oggi ... Però “il più” a quella data era stato fatto, e fatto bene … perché, pensate, il mastodonte della Basilica della Salute dopo tutti i secoli trascorsi fino ad oggi, si è spostato dal suo posto in alto, in basso, a destra e verso sinistra: di non più di 1 cm !

1 cm ! … vi rendete conto ? Come sapevano lavorare bene quella volta … Non voglio pensare a come e a quanto tempo e risorse avremmo bisogno noi di oggi per inventarci qualcosa che assomigli anche solo vagamente al monumento della Salute… Visti i nostri “capolavori”odierni: come il Ponte della Costituzione, ad esempio, o le ultime innovazioni tecnologiche Veneziane, tipo il Mose, (a caso), penso non saremmo affatto capaci di uguagliare e imitare neanche lontanamente certi capolavori di ieri realizzati a Venezia.

Ma lasciamo stare le osservazioni polemiche e raccontiamo ancora dell’altro …

“Il Manto della Dogaressa ! … “Vi ammazzo ! … Vi mando via ! … F. dove ti sei nascosto ? … Ma come hai potuto dare il Manto della Dogaressa a quello lì ?” gridava inferocito e imbufalito l’indimenticabile Rettore Don Giuliano Bertoli, che per una vita intera ha gestito sapientemente, e amato assiduamente i luoghi e tutto quanto ruotava intorno alla Madonna della Salute e il suo Seminario. Per lui quelli della Salute erano ogni anno: “i giorni dei giorni”, il clou dell’anno intero, e lo vedevi, infatti, fibrillare avanti e indietro instancabile “da màne a sera” dentro al suo tonacone nero, e rabbovolato dentro al suo sciarpone scuro e sotto al suo immancabile baschetto in testa dal picciolo irto per aria.
Quella volta l’avevamo fatta grossa, lo ammetto, perché avevamo fatto indossare (per simpatia)quell’abito preziosissimo e fragilissimo (un vero cimelio storico, unico: il manto dorato della Dogaressa donato alla Salute)a un nostro esimio professore Prete tanto genialoide, quando umile e distratto. Costui senza neanche accorgersene e pensarci sopra, preso tutto dai suoi pensieri, e forse preoccupato di che cosa dire “di semplice” alla gente che gremiva la chiesa il giorno della Festa, trascinava l’abito rituale preziosissimo strusciandolo e raspandolo sui muri di uno stretto corridoio laterale. E chi passava, fatalità, proprio per quel posto e in quel momento ? … Proprio lui, proprio il Rettore in persona, che non credendo quasi a quello che vedevano i suoi occhi (non faceva mai indossare a nessuno quella “preziosità”… quasi neanche al Patriarca in persona se lo avesse giudicato poco attento nell’indossarlo).

Figuratevi e immaginatevi la scena ! Ricordate “L’urlo”di Edvard Munch ?

Ecco … qualcosa del genere: “Chi è stato ? … Siete dei disgraziati ! … Incoscienti ! … Un manufatto prezioso del genere trattato così ! … Vi mando via tutti ! … Qui deve venir fuori un responsabile, un colpevole ! … Stavolta …” gridò avanti e indietro furibondo e incontenibile, e per un bel pezzo, con tutti che facevano a gara per volatilizzarsi e scomparire. I “colpevoli”alla fine vennero fuori … eravamo stati io e il mio amico Paolo, e di rimbalzo l’inconsapevole altro amico Valter che c’entrava sempre anche se magari non c’era e non aveva fatto nulla.

“Vi mando via ! … Non voglio più vedervi ! … il Manto della Dogaressa ! … Siete degli incoscienti !” lo sento ancora adesso distintamente dentro alla mia memoria. Così come rivedo le nostre teste basse, e il nostro sorrisetto … soddisfatto e non pentito. L’avremmo rifatto volentieri anche il giorno dopo, se fosse stato il caso … Eravamo convinti che quel nostro professore meritava “un omaggio” del genere. Ma vallo a spiegare al Rettore !


Se osservate con attenzione e un po’ di fantasia la stessa Basilica della Salute potrà sembrarvi proprio “una grande nave antica”, un galeone col cassero di poppa che naviga onirico sul Canal Grande col suo abile “nocchiero”collocato sopra che la guida verso Piazza San Marco, la Laguna, e il Mare aperto. Non è un’immagine mia, né è del tutto illusoria e fiabesca, perché la chiesa della Madonna della Saluteè stata ideata e raffigurata proprio con questo intento e significato. La statua della Madonna collocata in cima è stata pensata e realizzata da Baldassarre Longhena come una Capitana da Mar, una singolare Ammiraglia Veneziana con in mano “il bastone del comando dell’Armata”e al timone della nave principale della flotta Serenissima. Provate ad osservare nel dettaglio la statua che sta sulla cuspide terminale della Basilica: la Madonna ha proprio in mano“il bastone del comando”. (io lo so bene perché negli anni 70-80 salivo quasi ogni pomeriggio fin lassù in cima per leggere e studiare seduto a rosolarmi al sole con davanti il panorama superbo, unico di Venezia col Canal Grande e il Bacino di San Marco, e all’ombra di tutti quei contenuti Veneziani così stupendi e ammiccanti … ma questa è un’altra storia che vi racconterò un’altra volta … anzi: molto presto).

Lo spazio intorno alla Cupola Grande con i suoi caratteristici 15 “medaglioni o modiglioni o orecchi di pietra” intagliati a spirale (utili per la controspinta statica della cupola)è stato progressivamente coperto da una folla di statue di personaggi che “annunciano” con la loro “vicenda biblica” la storia della Madonna e del Messia. Erano molto acuti un tempo nell’interpretare e realizzare questo genere di accostamenti simbolici. Sopra ai timpani delle controfacciate marmoree hanno collocato, ad esempio: Eva, Rebecca, Ester, Ruth e Giaele, e perfino: Eritrea e Cumana,Sibilledi significato pagano, ma poste ugualmente sopra al portone principale d’ingresso della chiesa interpretandole anche loro in funzione “anticipatrice e profetica”dell’evento Maria Madonna.

A completare l’azione simbolica, la Serenissima ha collocato sopra alla stessa porta centrale del Tempiodella Salute anche un suo superbissimo “Leone di San Marco” di cui se andate a guardare è rimasta solo l’ombra e l’impronta perché è stato spazzato via e frantumato dal solito napoleone minuscolo non solo fisicamente.

In cima alla Cupola Piccola, anch’essa contornata come “la grande” da otto obelischi simbolo del potere e del comando, è collocato, invece, un curiosissimo “San Marco” con lo sguardo rivolto in direzione di Palazzo Ducale. S’intendeva quindi lanciare ai Veneziani un messaggio inequivocabile: “a guidare la “grande barca” di Venezia stanno “dall’alto” la Madonna e San Marco”… C’è poco da dire: erano davvero arguti un tempo, o perlomeno molto riflessivi e ingegnosi.

L’intera chiesa poi, è stata pensata e realizzata da Baldassarre Longhena come un esemplare “canto architettonico” realizzato attorno al concetto del “Rosario Mariano”. Cosa impensabile oggi, ma normalissima in quei secoli in cui erano molto più devoti di noi di adesso. Se osservate i giochi policromi dello stupendo pavimento soggiacente alla Cupola Grande, anche se è difficile apprezzarlo solo calpestandolo da sotto, vedrete rappresentato un gigantesco Rosario formato da 32 cerchi di cui 16 con la Stella Mariana al centro. E’ un’opera unica, davvero singolare … con al centro di tutto, collocata in mezzo a “5 Rose” contornate da una fascia di altre “32 Rose”(indicanti i singoli “misteri” del Rosario) la formula esplicativa di tutta quella grande ideazione voluta dai Veneziani: “Unde Origo inde Salus” cioè: “dallo stesso posto in cui Venezia ha avuto origine, sempre da lì è scaturita la sua Salvezza o Salute”… L’iscrizione ovviamente si riferiva alla Serenissima e ai Veneziani che nel giorno della Festa della Sensa celebravano: “la nascita di Venezia e del suo Sposalizio col Mare” . La Madonna era quindi ricordate come “generatrice e protettrice”delle sorti fortunate e non della Serenissima.

Quel che mi fa più impressione, è che parole e concezioni come: “Unde Origo inde Salus” erano sulla bocca di Dogie Senatori, uomini potentissimi e ricchissimi, capaci spesso di tutto. Non si trattava di vecchierelli bigotti e tenerini, ma di personaggi capaci di tenere a bada e gestire le sorti politico-economiche di gran parte del Bacino Mediterraneo e non solo … A volte, come ben sapete, erano uomini che sapevano esprimere ferocia e grande determinazione, uomini avezzi a innescare eventi bellici di portata “mondiale”, e a spingersi come Mercanti coraggiosi e intrepidi fino al “Caput Mondi” di allora … e anche ben oltre. Non era cosa da nulla vederli piegarsi e inginocchiarsi riverenti davanti a una Madonna … Non si trattava dell’ennesimo “giochino politico” che la Serenissima esercitava sullo scenario Europeo. Credere nell’“Unde Origo inde Salus” aveva una valenza incredibile, strepitosa … e a Venezia lo si faceva.

Dentro a quella grande “rappresentazione” mistica oltre che artistica, era sorto, quindi, il nuovo “SuperTempio cittadino della Salute”, i cui “numeri Mariani” vennero ripetutamente richiamati e interpretati inserendoli dentro alla costruzione dell’edificio-santuario: “otto”erano le colonne che sostenevano la “cupola ottagonale”, sempre “otto”, ossia il “Numero dell’Infinito” erano le “stelle a otto punte della Stella della Madonna o Stella del Carmelo” collocate sui timpani esterni che fasciano la chiesa; ancora “otto” erano gli “obelischi col globo sopra” posti attorno alla cima delle due cupole della chiesa accanto ai lucernari (segni d’edificio nobiliare o da Capitano da Mar), così come erano sempre “otto”  le “statue dei Profeti con i loro cartigli”(di legno dipinto e non di marmo, per non appesantire ulteriormente la struttura!) posti sul primo anello superiore della Cupola Granda per richiamare frasi bibliche inerenti la Salvezza dal Male e dalla Peste.


I “Cartigli dei Profeti” rifatti nel 1800 sono curiosi, anche se non leggibili dal basso. (Leggendoli ruotando dal centro verso destra) recitano:
__“Camminate nei miei precetti”(statua del Profeta Ezechiele).
__“Volgi lo sguardo, o Signore, dalla tua casa” (statua del Profeta Baruc).
__ “Ci percuoterà e risanerà” (statua del Profeta Osea).
__“Mia Speranza nel dì dell’abbandono” (statua del Profeta Geremia, uno dei “Grandi” della Profezia anticotestamentaria biblica).
__“I miei occhi videro la tua Salvezza” (statua del Profeta Simeone, che non era neanche riconosciuto ufficialmente nel numero dei Profeti antichi).
__“Porgi, o Dio, il tuo orecchio”(statua del Profeta Daniele, un altro “Profeta maiuscolo”).
__“Dio aspetta per avere pietà di voi” (statua di Isaia: Profeta dei Profeti, il “numero uno” della Profezia).
__“Ti darò Gloria, in una chiesa grandiosa” (statua del Re Davide, altro personaggio biblico “Profeta non Profeta”).

Sapevate poi che sono esistite alcune Schole dedicata alla Madonna della Salute nella zone e Contrade adiacenti alla Punta della Dogana e alla Basilica della Madonna della Salute ? … Una di queste esisteva probabilmente già ben due secoli prima che accadesse la deleteria e sciagurata Pestilenza che portò alla carneficina dei Veneziani e al Voto del Tempio della Salute ... Era la Schola della Beata Vergine della Salute traslata dall’antica Abbazia di San Cipriano di Murano dov’era nata forse prima del 1493. Fu portata nei luoghi della nuova chiesa di Venezia insieme ad un “Pugno di Devozioni Marianeanaloghe: Devozione all’Annunciazione, all’Assunta, alla Presentazione di Maria, Purificazione, Madonna della Neve… e a diverse altre che trovarono in parte riscontro e continuazione nei nuovi altari costruiti dentro alla nuova chiesa della Salute.

Oltre a quella Schola vetusta, a breve distanza di tempo dalla costruzione del Tempio della Salutes’attivò anche un’altra Schola della Madonna della Salutenella Contrada di San Vio (trasferitasi un anno dopo la sua fondazione, nel 1637, nella chiesa delle Monache Agostiniane dello Spirito Santo sulle Zattere a causa di pesanti contrasti col Piovano di San Vio). I devoti della Scholetta della Salute se ne andarono via dalla chiesa della piccola Contrada dei Santi Vito e Modesto portandosi dietro “armi e bagagli” e andando a rifugiarsi “profuga” dalle Monache. Fa quasi tenerezza andare a leggere l’inventario delle “cose della Schola” che si portarono appresso: “… una Corona d’argento (della Madonna) alta più di un palmo con la picciola per Gesù fatta all’Imperial … un Mondo d’argento per il Bambin … un paro di scarpoline d’argento pel medesimo … una mez luna d’argento per la medesima … Due corone di rame dorato per la Beata Vergine e Giesù … un cinto di rame dorato per la Beata Vergine … Dodeci stelle d’argento con pietre sopra un cherubin dorato con circolo di rame … un Scetro d’argento longo quarte tre in circa …un Stellario d’argento di dodeci Stelle con Cape e cerchio d’argento … un cinto di rame dorato per la Beata Vergine … un ramo di fiori d’argento e una dita di fiori di latòn …”

La Schola della Salute con Mariegolae aperta a chiunque sia Nobili che Popolani, in realtà era un Suffragioi cui devoti erano vestiti di cappa e cappuccio bianchi con fori per la vista e un teschio metallico cucito all’altezza della faccia … Sulle spalle portavano una mantellina nera a bottoni azzurri come fascia, cordone e fiocchi azzurri penduli lungo i fianchi. Sul petto portavano ricamate da una parte le iniziali dellaSchola della Salute, e dall’altra un’immagine simbolica della Peste … Attorno al braccio portavano una grande Corona del Rosario, pure quello abbinato a un grosso teschio ... Anche le scarpe erano azzurre, quindi il costume della Confraternita nel suo insieme era bianco e azzurro, ossia i colori “tipici” di tutte le tradizionali Devozioni Mariane.

Ci fu pure una terza Schola di Santa Maria della Salute, ma fu più tardiva, e segnalata ancora presente e attiva nel 1830 presso la vicina chiesa dei Gesuati, ossia Santa Maria del Rosario sulle Zattere sempre nello stesso Sestiere di Dorsoduro.


Il Tempio della Salute, quindi, non è un’espressione soltanto religioso-devozionale scontata e quasi banale.

Il Tempio Veneziano della Salutefu fatto sorgere in anni di grande tensione politica e dialettica fra il Papa di Roma e la Serenissima. Venezia esigeva una sua autonomia dal Pontefice Romano, e un suo riconoscimento formale che secondo il Papato era fin troppo azzardato e sfacciato. A inizio secolo, infatti, proprio a causa di quel suo comportamento: “troppo forte e averso alla Chiesa”,Venezia era incappata nell’Interdetto del 1604 ... col quale di fatto il Papa aveva “tagliato fuori” la Serenissima da tutto il resto del mondo dei Cattolici-Cristiani di allora, che in quei secoli era praticamente l’intero scenario Europeo. Non era un’esclusione da poco … Venezia tuttavia non si scompose affatto, incassò “il colpo” e passò al contrattacco nei riguardi del Papa. Nell’occasione della Pestilenza e dell’edificazione del “Tempio della Salute” credo si possa dire che la Serenissima si sia “giocata le sue carte”, e abbia ribadito ancora una volta la propria immagine esprimendo convinzioni e intenti politico-socio-religiosi ben precisi ... e anche coraggiosi oltre che singolari.

Venezia voleva avere ed esprimere una sua Chiesa Nazionale autonoma e dai modi e contenuti originali.

Storicamente intanto, dopo gli anni dell’ “Interdetto Papale”, erano giunti anche gli anni delle complicazioni per la successione del Ducato di Mantova. Si trattava di un conflitto scabroso che portò con sé anche la Peste giunta a Venezia tra luglio e agosto del 1630. Fatalità … ieri come oggi … c’era in giro chi gridava a gran voce che la Peste dilagante in tutta la Laguna era un “Castigo divino” buttato addosso alla Serenissima da Dio in persona. Una specie di “Guerra Divina”, un “Bellum Divinum” da parte di Dio alleato col Papa contro Venezia.

Quindi: “niente di nuovo sotto al sole” certi recenti exploit odierni … Certi uomini erano assurdi ieri quanto oggi !
Forti del potere religioso sulle coscienze e sul popolo dei credenti in generale, la Chiesa inscenò una specie di “lotta titanica e mitica” di Dio contro Venezia nel tentativo di scalzare la Repubblica dallo scenario del potere Europeo, e dalla “lista” degli Stati che contavano sullo scacchiere politico.

Squallido l’atteggiamento della “Religione Ufficiale”dell’epoca ! … (così come lo è a volte ancora oggi).

Il Doge e la Signoria Serenissina, allora, proposero ai Veneziani di affidarsi, contro quel presunto “Bellum Divinum”alla protezione-intercezione della Madonna nella quale Venezia identificava da sempre la propria “Origo”(origine). La “Salus” dei Veneziani non era quindi solo una questione di Fede e di benessere fisico, ma anche un fatto pubblico, una sorta di questione politica fondamentale. Il Tempio della Salute sorse quindi come espressione della Nazione Veneziana, e sotto il Giuspatronato diretto del Doge e non del Patriarca di Venezia espressione del “potere Papale”.
Infatti il 1 aprile 1631, fu Monsignor Gasparo Lonigo Vicario della Basilica Dogale di San Marco e “dipendente dello Stato Serenissimo”nel suo Ufficio dei Consultori in Iure, e non il Patriarca-Vescovo di Veneziaad officiare la “Messa Bassa (non solenne) della Beatissima Vergine” il giorno della pubblica cerimonia della “posa della prima pietra” del nuovo Tempio della Salute. A posta non lo vollero chiamare “chiesa della Salute” ma “Tempio”, quasi con un“sapore” più laico e distante, alternativo al solito vocabolario tradizionale.
Tra le righe emergeva quindi quella raffinata polemica in corso tra Chiesa di Roma Papalina e Chiesa Nazionale Veneziana che rivendicava autonomia ed esprimeva una sua libera fisionomia.

A dimostrazione e conferma di tutto questo, non fu mera coincidenza il fatto che l’Ordine Religioso a cui si affidò la cura e l’officiatura del nuovo Tempio Cittadino della Salute, fu l’Ordine più inviso al Papa e per questo più valorizzato da Venezia: la Congregazione dei Padri Somaschi, scelta mettendo da parte i Padri Gesuiti sfacciatamente “creature del Papa di Roma”dalle quali la Serenissima voleva apertamente tenersi distante.



Il Senato di Venezia, inoltre, scegliendo i Padri Somaschi preferì un Ordine Religioso Regolare al posto dei Preti Secolari guidati dal Patriarca, il rappresentante ufficiale della Cristianità Ecclesiastica in Laguna. E sempre agli stessi Padri Somaschi, da quel momento in poi la Serenissima affidò la cura e la formazione dei propri figli, e perfino dei futuri Sacerdoti del Seminario Dogale estromettendo da quel compito ancora gli stessi Padri Gesuiti che fino ad allora erano considerati “una garanzia”. La Serenissima, insomma, voleva agire lavorando “di fino” ... era permalosa e suscettibile, per non dire vendicativa nei confronti del Papa di Roma … e non aveva alcun problema ad ammetterlo pubblicamente.

E non fu tutto … perché nell’intenzione della Serenissima il Tempio della Salute doveva diventare anche il Pantheon Cittadino della Religione Nazionale Veneziana. Non è stato un caso, ad esempio, se per adornare la Basilica si è scelto di collocare tutta una serie di statue di “Santi prettamente e solamente Veneziani”.

Sono quei dettagli che a volte non si notano non essendole a conoscenza … ma ai lati dell’Altare Maggioredella Salute dove si collocò nel 1670 la Madonna Nera Odigitria proveniente dalla cattedrale di San Tito di Candiao Creta(frutto d’impresa e razzia guerresca, e di Vittoria della Serenissima), ci posero i due possenti San Marco Evangelista e San Lorenzo Giustiniani ossia “due Veneziani d.o.c.”: il “Santo dei Santi” tutto Veneziano, l’Evangelista del Leone Marcianoraffigurante Venezia stessa, e il primo Patriarca di Venezia: un’autorità Religiosa di gran prestigio che in pochi potevano esibire al mondo (i Patriarchi in tutto il mondo sono solo 5).

Seguendo la stessa linea di pensiero, in giro per il Tempio della Salute, oltre alle statue “un po’ dovute” di San Rocco, San Gregorio Taumaturgo e San Sebastiano: Santi Protettori tradizionali contro la Peste, i Veneziani fecero collocare la statua di San Teodoro Protettore della Libertà Adriatica e antico Primo Protettore di Venezia(prima che la Serenissima adottasse San Marco). San Teodoro poi era un Santo Bizzantino-Ravennate … fisionomia “indipendente”dall’influsso Romano. Si posero inoltre nella Salute le statue di San Gregorio Magno e San Carlo Borromeo: Santi importanti per la loro volontà di rinnovamento e riforma, e aperti contestatori del “modo classico” d’interpretare lo Status Ecclesiastico. Sul timpano della facciata principale si posero statue di tre Nobili Santi Veneti: ancora il Beato Lorenzo Giustiniani, e San Gerardo Sagredo con Gerolamo Emiliani fondatore dell’Ordine dei Padri Somaschi di cui vi dicevo prima, ossia “l’alternativa ai Gesuiti Papali”.

Nel 1644 a causa della Guerra contro il Turco per il possesso dell’isola di Candia avvenne un tiepido riavvicinamento col Papato, utile a rimpolpare con le sue navi e i suoi soldi la flottiglia Veneta … Ogni cosa però ha un suo prezzo.
Nel gennaio 1657, dopo un significativo “caldeggiamento Papale”, con “pubblico decreto Serenissimo” i Padri Gesuiti rientrarono a Venezia dopo la loro espulsione degli anni dell’Interdetto … e si misero momentaneamente da parte le diatribe teologico-politiche ... Infatti, i lavori per la costruzione del “rivoluzionario” Tempio della Salute subirono una lunga interruzione fino al 1656 … ma sarà stato un caso, una mera coincidenza.

I Veneziani inizialmente intendevano mantenere “libero”il Tempio della Salute di Venezia da tutte le solite connivenze e “Privilegia Papali”. I “Consultori in Iure” della Serenissima avevano vietato l’utilizzo e l’applicazione delle solite Indulgenze Papali dentro al Tempio Pubblico Cittadino. Ma in quel clima di“rasserenamento politico”, lo Stato ritenne più utile rivedere le proprie posizioni mettendo momentaneamente da parte alcune sue“convinzioni dottrinali troppo spinte”… Fu di certo un errore.
Infatti nel 1657, i “Deputati sopra la Fabrica della Salute”fecero presente che la “chiesa” era completamente sguarnita di “Privilegi Spirituali Romani” perchè “nel Tempio s’eccitata la pura Devotione del Popolo”.I tradizionalisti Cattolici e tutta la schiera dei Nobili filo Papali affermarono apertamente che era un peccato essere privi di tutti quei “meriti salvifici concedibili dal Pontefice”. Perciò fecero intendere e suggerirono di “chiedere a Roma” che la “Chiesa della Salute”(non il “Tempio Pubblico della Salute”) fosse dotata di almeno tre tipi d’Indulgenze irrinunciabili.
Serviva almeno una “buona Indulgenza Perpetua per i Defunti”da collocare presso l’Altare di Sant’Antonio… Serviva anche un altrettanto buona “Aggregazione ai Sette Altari della chiesa della Salute alle Sette Chiese di Roma” in modo che avessero gli stessi Privilegi … Occorreva anche almeno un’altra “Indulgenza Plenaria Perpetua”da lucrare nelle Festività Mariane da parte di chi visitava devotamente e con i dovuti gesti “la chiesa della Madonna della Salute in Venezia”.

Roma non si fece affatto pregare, e prendendo volentieri il “controllo della situazione della chiesa della Salute in Venezia” concesse presto appositi “Brevi Pontifici” con le tante agognate e implorate e preziose Indulgenze.
Non tutti i Veneziani furono felici di quella scelta “pro Roma” che accantonava di fatto l’Idea Religiosa Veneziana che accompagnava la nascita del Tempio della Salute. Nel dicembre 1657, infatti, il Nobile Consultore Francesco Emo parecchio agitato e “senza peli sulla lingua” avvertì che i “Brevi Pontifici” non erano affatto conformi ai Decreti del Senato Serenissimo: “… la Corte di Roma mai tralascia o aggiunge clausole nei suoi Brevi che non sii per qualche suo avantaggio o per qualche suo fine ...”. Non andava giù a tutti la scelta fatta dalla Serenissima Repubblica di raccordarsi col Pontefice di Roma … Ma c’era un’altra corrente di Nobili, che viceversa, era entusiasta di quel nuovo stretto legame intercorso col Papa. Nel gennaio seguente, infatti, i Nobili: Gasparo Lonigo, Alvise Valle e Giovanni Pietro Bortoletti si espressero contro il Nobile Emo producendo alla Serenissima un “controconsulto” dal tono del tutto opposto. Praticamente dissero e conclusero: “… pur laudando il molto zelo di Francesco Emo verso la Pubblica Dignità, non crediamo che per li detti motivi debba restar dall’admission di detti Brevi Papali” ...Il Senato, visti i numeri, alla fine approvò le Indulgenze collegate alla chiesa della Salute e alla celebrazione dei riti in essa. E con quella decisione tramontò del tutto “Il sogno Veneziano di una chiesa Nazionale”autonoma da Roma.

Come sempre a Venezia “l’utilità Pubblica” finiva col prevalere sul sentimento privato … L’animo commerciale, mercantile ed economico dei Veneziani legato all’opportunità sapeva vincere sempre … costasse quel che costasse.

Comunque, in quello che doveva essere il Tempio della Salute di tutti i Veneziani, impelagato, invece, nelle “solite manie e gestioni dello stile romano” ci fu un ultimo “squillo d’orgoglio dello Stato Serenissimo”rappresentato sui marmi interni della Basilica. Su ciascuno dei sei altari laterali interni che sostituirono l’iniziale Tempio spoglio e nudo, vennero rappresentate, elencate e scolpite elegantemente: tutte le “Virtù del Buon Governo” ossia quelle che si riteneva dover essere “le Doti della Serenissima Repubblica”,quasi si volesse imprimere indelebilmente sui muri e sulla pietra “il volto”che possedeva e sapeva mostrare Venezia.
A poco valeva la spiegazione che dava una buona parte dei Veneziani dicendo che quelle realizzate sulla pietra erano “Le doti della Madonna”… Lì, invece, s’intendeva parlare di Venezia e del suo Governo Serenissimo. Ma era forse come “un ultimo canto del cigno”.

Entrando da destra in chiesa si può ancora oggi osservare:
__ Sull’altare della “Natività della Vergine”: le allegorie della “Castità”, “Secretezza”, “Sapienza” e “Carità”.
__ Sull’altare dell’ “Assunzione della Vergine”: le allegorie della “Misericordia clemente”, “Giustizia”, “Speranza” e “Salute”.
__Sull’altare della “Presentazione al Tempio della Vergine”: le allegorie della “Provvidenza e Abbondanza”, “Meditazione”, “Salubrità dell’aria” e “Speranza nelle fatiche”.

 (osservando, invece, a sinistra entrando):
__Sull’altare dell’ “Annunciazione della Vergine”: le allegorie della “Gloria”, “Innocenza”, “Benignità” e “Vittoria sul Male”.
__Sull’altare di “Sant’Antonio da Padova”: le allegorie della “Clemenza”, “Fede nascosta”, “Pudicizia” e “Fede manifesta”.
__Sull’altare della “Discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e sulla Vergine”: le allegorie della “Scienza”, “Intelletto”, “Consiglio”e “Fortezza”.

Mettendo però da parte la contrapposizione fra Venezia e il Papa, ascoltate, al di là di tutte le diatribe e di tutto l’arido discutere meramente cerebrale, quale fu il sentimento del Doge Nicolò Contarini al momento della necessità dei Veneziani, al culmine della gravissima crisi causata dall’inesorabile realtà della Peste, e al momento d’esprimere il coraggioso Voto Pubblico rivolto alla Madonna:
Esistono alcune bellissime descrizioni che raccontano nel dettaglio il clima che si era creato nella Basilica di San Marco in prossimità della pronuncia solenne di quel “Voto”della Serenissima verso la Madonna della Salute nel tentativo ultimo di far cessare la Peste. Ne scelgo una: “Alla fine di ottobre 1630, la Basilica era stipata all’inverosimile, ma non era un giorno di festa: lo dicevano i tanti volti stanchi ed emaciati, gli occhi rossi e gli sguardi tristi e perduti. No, non era un giorno di festa: nemmeno l’antico profumo d’incenso riusciva a coprire l’odore che stagnava per le strade, un odore orribile, odore di morte, l’odore della Peste. “Il Gran Contagio” aveva steso il suo manto nero sulla città di Venezia e l’aveva messa in ginocchio: se cinquant’anni prima la gente aveva cercato di lottare con le unghie e con i denti per sopravvivere, questa volta era subentrato un senso d’impotenza, una triste rassegnazione che, al pari del morbo, aveva contagiato tutti. La medicina aveva fallito e, allora, non era rimasto che rifugiarsi nelle preghiere e nelle processioni. Eppure, nonostante ciò, le barche dei Pizzegamorti partivano ogni sera colme all’inverosimile, per portare il loro triste carico al Lido. 
Il senso di impotenza era giunto fino in Palazzo Ducale, dove il Senato aveva deciso d’intervenire annunciando un voto solenne alla Madonna per implorarla di fermare un tale flagello; e ora il Doge sarebbe venuto lì, a San Marco davanti al Popolo nel luogo più sacro di Venezia, per impegnarsi a costruire e dedicare alla Vergine Maria della Salute un Tempio degno e grandioso qualora avesse ascoltato la loro supplica e avesse fatto cessare il morbo.
Quel giorno di fine ottobre la temperatura era ancora mite, eppure dentro la Basilica c’era il gelo, un gelo che penetrava nelle ossa, come capita a chi non sa se riuscirà a vedere il giorno successivo. 
Il lontano rullio di tamburi fu accolto da un generale brusio: era il segno che il Doge stava arrivando ma, a mano a mano che il suono si faceva più forte, come per uno strano contrappasso la folla si zittiva, finché non tacque del tutto ... Nicolò Contarini, seguito dalla Signoria, entrò in Basilica e dall’alto delle cantorie si levò un coro soave che pareva rimbalzare tra l’oro dei mosaici ma, nonostante il rilucere di mille candele, l’atmosfera restava mesta.
Il Serenissimo camminava lento, con passo malfermo, anche se cercava di mantenere alta la propria dignità. Per chi lo conosceva, in quegli ultimi mesi pareva invecchiato di cent’anni. 
Quando il corteo raggiunse l’Altare Maggiore, il Patriarca li accolse e ciascuno prese il proprio posto. In quel momento i canti cessarono e la chiesa piombò nel silenzio più totale. Con uno sforzo evidente il Doge si alzò e, dopo essersi inginocchiato, si levò il corno ducale e lo posò ai piedi della Croce. Cercò di alzarsi ma sentì che le gambe gli cedevano; subito uno dei Consiglieri fece l’atto di avvicinarsi per aiutarlo, ma gli bastò uno sguardo per fermarlo. Infine riuscì a risollevarsi e, con passo lento, salì i gradini della tribuna di porfido. Giunto alla sommità, tentò di parlare ma l’emozione gli fece morire le parole in gola; allora rimase così, immobile, con gli occhi serrati sui suoi pensieri, chinando il capo. Quando infine li riaprì, il suo sguardo era limpido, anche se gli occhi erano arrossati. Diede un profondo respiro e poi, alzando gli occhi al Cielo, cominciò a recitare il solenne voto:


Ed ecco il commovente testo originale del voto pronunciato quella volta dal Doge: Ave stella del mare, donna delle vittorie, mediatrice di salute e di grazia. Vedi ai tuoi piedi prostrato un afflitto popolo fatto bersaglio al flagello della divina giustizia. La guerra, la pestilenza, la fame, con orribile lotta si disputano a vicenda fra loro le vittime e tutte su noi vogliono trionfo di desolazione, di morte. Mira come i nostri aspetti sparuti dal disagio, lividi dalla malattia, consunti dalle afflizioni, sporgono sotto la pelle le ossa spogliate: vedi come i nostri passi vacillano, come si dilegua il coraggio della nazione estinguendosi il rampollo di tante illustri famiglie. Saran dunque perduti i monumenti delle nostre imprese? saranno inutili le conquiste fatte in tuo nome? diverranno deserti, solinghi questi edifizi, magnifici testimoni del consiglio e del valore dei nostri padri? Quei nemici, che a noi son tali, perché son tuoi nemici, esulteranno del nostro pianto, sovrasteranno alla nostra debolezza, e i nostri petti, non più riscaldati col sangue di tanti prodi, deboli scudi diverranno per opporsi ai progressi dei loro attentati? Vergine Madre se nel tuo nome venne fondata questa patria, se i nostri cuori furono sempre a te devoti, se tante prove ci desti di patrocinio, di protezione, deh! esaudisci le nostre preci, ricevi le supplicazioni di un popolo sofferente. Siamo peccatori, è vero, e perciò a Te ricorriamo, come a nostro rifugio; prega per noi il Divin tuo Figliuolo, faccia salvi gli eletti suoi, scacci, allontani, annìchili, estirpi la tremenda lue, che contamina le nostre vene, che miete tante vite, che desola i servi tuoi: al lampo benefico della tua grazia l’anima nostra commossa intonerà l’inno di laudazione, e col coro de’ celesti confesseremo le glorie Tue ed il santo nome di Dio. Ricevi l’umile offerta di un tempio, sulle vaste pareti del quale vogliamo che i secoli avvenire scorgano impressi i tratti della nostra religione, e dove i successori nostri ed i posteri perpetuamente tributeranno annui rendimenti di grazie a Te ausiliatrice ed avvocata di questa repubblica.

Miracolo o no che sia stato … Il morbo della Peste nel 1631 si dileguò, e i Veneziani vollero mantenere e adempiere fino in fondo alla loro promessa. S’iniziò col fabbricare innanzitutto una grande chiesa provvisoria di legno, poi si atterrò il Monastero e la chiesa della Santissima Trinità, e su disegno del Longhena s’iniziò a costruire il magnifico Tempio che ben conosciamo. Baldassare Longhena pensò l’Altare Maggiore come una specie di grande palcoscenico sopraelevato dove si celebrava sotto a un “Arco Trionfale” la “Gloria della Madonna e della Serenissima liberata dalla Peste”. Per far questo si portarono dentro alla chiesa dall’Anfiteatro Romano di Pola quattro possenti colonne (talmente grosse da non riuscire ad abbracciarle). La balaustra a colonnine in marmo che lo racchiude oggi all’inizio non c’era: l’altare era come oggi il giorno della Festa: uno spazio aperto e accessibile a tutti. Solo in occasione dell’ennesima Peste del 1831 si è posto come ex voto il cancelletto in ferro battuto visibile oggi.

Esistono altre curiosità sulla Madonna della Salute… e vado avanti a raccontarvele contando sulla vostra pazienza e curiosità … L’icona della Madonna Nera posta sull’Altare Maggiore è un po’ “double face”, perché vista nelle sue diverse versioni chiara e scura è molto diversa, anche se in realtà è sempre la stessa. E’ come una donna col trucco o senza trucco: acqua e sapone e con uno sguardo penetrante e misterioso quando si considera l’originale … E’, invece, addobbata, ricca e splendida, truccatissima come una pomposa Nobile Matrona Veneziana quando è tutta ricoperta d’argento e soprattutto degli “Ori” e dalle “Corone”del giorno della Festa.
Più di qualche volta è toccato proprio a me per qualche anno salire fino in faccia alla Madonna Nera per abbellirla e ingioiellarla nella Vigilia della Festa della Salute. Ho sovrapposto diverse volte io con le mie mani: i gioielli e le corone voluti e donati da generazioni e generazioni di Veneziani ricchi e poveri, e rimessi insieme nel recente 1922 raccogliendo i pochi resti lasciati dall’avido napoleon deturpatore. Sarò forse nostalgico e sentimentale … ma per me è stato un grande onore.

Infine arrivava finalmente e di nuovo il tanto atteso e preparato “Giorno della Festa” ... S’iniziava ai miei tempi con l’aprire il chiesone già alle cinque del mattino: “per andare incontro a chi deve recarsi a lavorare” mi spiegava il solito Rettore Don Giuliano… Di conseguenza per far questo ci si doveva alzare allora alle tre della notte per poter preparare tutto e aprire “i battenti” a quell’ora così mattutina. Per anni sono stato il primo ad aprire il grande portone della Basilica il giorno della Festa, e l’ultimo a richiuderlo alla sera, alla fine della stessa intensa giornata ... con un vago senso di soddisfazione dentro.
Quando andavo ad aprire sferragliando e col mazzo di grosse chiavi tintinnanti “come quelle di San Piero”, fuori in strada dietro al portone ancora chiuso c’erano già alcuni Veneziani in attesa. Ogni anno quando aprivo, accadeva una curiosissima scena: una specie di vera e propria e insolita “gara” per vedere chi arrivava prima di tutta la città ad offrire la prima candela, il primo omaggio alla Madonna.
Non ci crederete forse, ma per molti anni “vinse” sempre lo stesso grosso Fornaio che arrancando sempre più di anno in anno sopra i suoi esuberanti chili precedeva sempre tutti quasi correndo lungo la chiesa per offrire il suo prezioso “mòccolo per la Madonna”. Ricordo ancora come fosse ieri, il suo sorriso sdentato di soddisfazione quando giungeva “primo” davanti all’altare, e vedeva la sua candela venire accesa “per prima”.

“Anche quest’anno sèmo qua …” ripeteva, “Ghe a gavèmo fatta anca sta volta a venìr dàea Madonna …” quasi mi commuove ancora dopo tanti anni la visione di quel personaggio che s’affaccia nella mia mente in tutta la sua genuina semplicità. Chissà se vive ancora ?
A poco serviva sempre la “rincorsa e l’inseguimento” che per diversi anni metteva in atto una vecchierella smilza e consumata vestita ordinariamente e con un grosso fazzolettone fiorito in testa. Non c’era storia: vinceva sempre lui e di un gran bel pezzo di chiesa in sopravanzo. Mi faceva tenerezza anche quella vecchierella ansimante che inevitabilmente ogni anno arrivava seconda o terza o quarta. Qualche minuto dopo aver raggiunto l’altare della Madonna, si apriva ogni volta in un contenuto pianto silenzioso dopo aver mormorato chissà quali sue pene segrete.
Anno dopo anno osservavo sempre quei personaggi, ormai quasi li conoscevo di persona perchè erano quasi sempre gli stessi … Mi dispiacque non poco qualche anno dopo, quando con meraviglia non ho più visto presentarsi “ai blocchi di partenza” la vecchierella ... Forse lì dov’era non serviva più correre “per raggiungere” la sua Madonna con cui confidarsi.

Poi partiva la fiumana progressiva della gente, sempre più numerosa e riempente con una vera e propria valanga di omaggi, offerte di ceri, preghiere, elemosine, confessioni, acquisti e tanto altro … Mi servirebbe un libro intero per raccontare tutto … Davanti all’altare via via s’accendeva una vera e propria montagna di candele votive, che occupava per tutto il giorno una truppa di giovanissimi Seminaristi e volontari nel gestirla e “domarla” cercando ogni volta di evitare le possibilità d’incendio … (più di qualche volta è accaduto che “la rosticceria” davanti all’altare, come la chiamavamo noi scherzando, andasse a fuoco. Ma si è sempre riusciti prontamente a “domarla” prima che accadessero veri e propri danni). Non si sapeva mai … C’era sempre qualche sprovveduto che nella calca accendeva in qualche angolo delle candele accanto a cose infiammabili, tovaglie d’altari, panche e cose del genere … andandosene poi via. Per fortuna dentro o nei pressi della chiesa c’era sempre “in agguato” una provvidenziale squadra dei vispi e attenti Pompieri Veneziani.

Dovete sapere ancora, che le candele comprate dalle bancarelle in strada, a volte anche a caro prezzo, erano sempre di pessima qualità. Appena s’accendevano si piegavano, frigolavano puzzose e fumose, e a volte si scioglievano malamente “per lungo” prima ancora di consumarsi ... Era un casino, con tutto che sgocciolava malamente, si contorceva e scioglieva colando da una parte e dell’altra e scottandoti le mani.

“E’ cera scadente da quattro soldi” commentava il Rettore, “Neanche degna della Madonna”brontolava.
“Per la Madonna servirebbero sempre candele di cera finissima … non questi ceri ordinari di bassa specie come “le candele gialle dei soldati coi baffi “di copecchio” che le mettevano sugli altari Lombardi ai tempi della Peste …”chiosava un vecchio Monsignore nostalgico e acculturatissimo. I Preti nel loro mondo e a loro modo, hanno sempre avuto una certa “raffinatezza”.
Fuori in strada infatti, c’erano personaggi pittoreschi che vendevano quelle candelette “a tre per un soldo” gridando fin dall’antichità di un tempo alla folla dei fedeli che accorrevano al Tempio della Salute“Tre candelette mille lire” gridava, invece, ogni anno una stessa donna infagottata dentro a mille stracci con un passamontagna consunto in testa tre taglie più grandi del necessario, un paio di guanti dalle dita tagliate, e un grembiulone addosso con una tasca davanti traboccante di monetine.

“Candelette per la Madonna !”urlava quasi come un’ossessa.
“Candelette per la Madonna !”urlava arringando la folla e cercando di battere in velocità e intraprendenza la concorrenza delle altre “bancarelle candelore”. E siccome a volte secondo lei il suo tono perentorio non era sufficiente, allora si azzardava ad avvicinare i passanti a volte prendendoli anche vigorosamente per un braccio: “Giovane ! … Vien da mì ! .. Guarda qua ! … Una candeletta per la Madonna ! … Compra la candela da mi … che la Madonna te benedirà i studi !”

“Paròna ! … Paròna … Siòra bella … A vègna qua ! … Ghe fasso un bon prèssso … La candeletta par la Madonna che a ghe daga una bona gràssia !”… e avanti così per tutte e tre le giornate della Festa. Niente da invidiare a quel che succedeva ogni giorno nel febbrile Mercato o nella Pescheria ed Erbaria di Rialto.

“ ‘na cannn – deeeetta !” gridava, invece, facendole spietata concorrenza un giovane alto e smilzo, allampanato, dritto e secco come un palo, anteponendosi alla donna sui gradini del Ponte della Salute per provare a “fregarle i clienti”. Non posso riferirvi che cosa la donna gli gridava addosso quando al giovane riusciva d’accalappiarle i clienti.
Posso aggiungere che i Preti della Salute da parte loro erano dei “buongustai”.“Non posso mettere tutto l’anno sull’altare della Madonna queste candelacce unte e storte …” mi spiegava il solito Rettore, “Per la Madonna serve sempre il meglio del meglio.” ribadiva più e più volte il concetto.

Perciò durante tutta la Festa gran parte delle candele offerte venivano accese solo qualche attimo, o neanche, e poi infilate dentro a rozzi cassoni trascinati faticosamente e pesantemente a braccia fin sotto alla chiesa della Salute, dove c’era e c’è un “magazzino delle Candele” che si riempiva ogni anno fino al soffitto. Per dare concretezza al “buongusto liturgico dei Preti” ogni anno serviva qualcuno che per ore su ore, giorni su giorni, dopo i giorni della Festa rimanesse lì, sotto terra, a tagliare, sminuzzare e insaccare quella “montagna di cera” che veniva poi spedita a una cereria di Marghera o Udine in cambio di una fornitura di “cera buona e candida di prima qualità” che finiva puntualmente con l’ardere sull’altare della Madonna. Il “mondo Preteresco” aveva le sue sensibilità estetiche che forse oggi non esistono più. I Preti di oggi, infatti, s’accontentano d’accendere più comodi lumini elettrici davanti ai loro Santi, Santissimi e Madonne di sempre ... è “un sapore” del tutto diverso… Ve lo dice uno che ha insaccato centinaia di quintali di candele dopo averle minuziosamente tagliate e frantumate (che fatica eterna !).

Il clou della giornata della Festa della Salute accadeva a metà mattinata, quando c’era il così detto “Pontificale”, ossia convenivano alla Salute le autorità cittadine insieme al Patriarca. Arrivavano solennemente tutti insieme in una lunga Processione che partiva dalla chiesa della Madonna del Giglio al di là del Canal Grande. Attraversavano sfilando, pregando e cantando il Ponte Votivo fino a San Gregorio, poi sfociavano nel Campo della Salute ed entravano solennemente in chiesa con una fila lunghissima che giungeva fin dentro al Tempio Votivo in mezzo a un doppio muro di fedeli parte per parte, dove si celebrava un “Solennissimo Messone”. Noi “addetti ai lavori”facevamo acrobazie, magie, e quasi piccoli miracoli per riuscire ad allestire in pochi minuti tutti gli addobbi e i posti necessari ad ospitare tutta quelle persone illustri che giungevano tutti bardati e “in pompa magna”.

A caratterizzare bellamente quel lungo corteo votivo c’era la presenza dei Preti delle antichissime IX Congregazioni del Clero Cittadinocon le loro preziosissime stole colorate e ricamate, così come c’erano le rappresentanze di tutte le antiche Schole Grandi con relativi gonfaloni e Guardianie Confratelli al seguito. In mezzo alle file gremite da fedeli e Religiosi di ogni sorta, e davanti al Patriarca sfilava anche il Sindaco di Venezia, anche lui col vestito buono e la fascia tricolore, anticipato dal sontuoso Gonfalone di San Marco portato solennissimamente e con gran sussiego da due Vigili Urbani vestiti in divisa d’onore … Si ripeteva in un certo senso quell’omaggio di Venezia alla Madonna iniziato nel lontano 1630 ... e il corteo entrava nella Basilica intasata dai Veneziani che altro non erano che i discendenti di quelli appestati d’allora, affetti oggi forse da “pesti e desideri diversi”, che spesso venivano rigorosamente tenuti celati dentro al cuore di ciascuno ... Sapeste quante ne ho sentite … “di tutti i colori”… soffermandomi in seguito a “confessare” i Veneziani presenti alla Salute.

La “Salute” di ciascuno, infatti, possiede significati e sfumature che neanche immaginiamo.

Però dovete sapere ancora, che la Festa della Salute era per noi, per me, il capolinea di un lungo e faticoso mese di lavoro di preparazione. Già ai primi di novembre di ogni anno, mettendo da parte quasi del tutto l’impegno dello studio, (in quel mese prendevo di quei votacci a scuola perché non studiavo a sufficienza, né riuscivo a completare i compiti e gli esercizi dati per casa. Mi serviva l’intero mezzo anno scolastico seguente per porvi rimedio). S’iniziava a lucidare lampade, rivestire le colonne degli altari, lucidare i pavimenti, e spolverare e ripulire tutto … In cima a lunghe scale vecchie e traballanti, ci s’arrampicava a pulire le due serie di 5 lampade votivependule di cristallo colorato azzurro-violaceo poste a semicerchio parte per parte dell’Altare Maggiore create da Renato Renosto e offerte dai Veneziani nel 1945 insieme alle quattro lampade di bronzo come ringraziamento della Protezione sulla città della Madonna durante le due Guerre Mondiali … Erano difficilissime da pulire dal fumo delle sottostanti candele che le abbrunivano del tutto … Ho ancora vivo il ricordo di quando rimanevo ore su ore appollaiato a cavalcioni in cima a quelle scale “aperte a libro” con quelle lampadone sguscianti, bisunte, appiccicose e ondeggianti sul loro lungo filo metallico lunghissimo che saliva in alto fino al ballatoio della Cupola Piccola, e non volevano saperne di tornare a luccicare pulite.


Come un ragno o un gatto m’arrampicavo per pomeriggi interi fino in cima alle colonne degli altari per collocare addobbi, issare candelotti, e rivestire marmi e paraste.

“Ma dove sei finito ? Non ti si vede più in giro … neanche a giocare al pallone …”mi redarguivano i miei fidi amici-compagni. “Trascorri pomeriggi interi a traffegàr con ste stràsse ... invece di star su a studiare e poi venire a giocare ... Non c’è nessun altro che faccia queste cose al posto tuo ?”aggiungevano. Non c’era nessuno, infatti, e io mi sentivo nell’obbligo di farlo … anche perché c’era di mezzo la mia riconoscenza per chi mi pagava la retta scolastica degli studi nel Seminario. Servire nella chiesa della Salute, era un modo di contraccambiare … e il Rettore questo lo sapeva bene.

“Venite ad aiutarmi invece !”rispondevo … e qualche volta succedeva che s’aggregassero brevemente aiutandomi nelle mie “grandi manovre polverose” ... Fra tutti gli altari che lavavo, pulivo, e infiocchettavo (che faticaccia lavare un altare di marmo: non si è mai finito), ce n’era uno che mi era più simpatico degli altri, e ogni volta mi faceva sorridere quando posavo lo sguardo sopra la sua pala dipinta da Tiziano. Era quello della “Discesa dello Spirito Santo”(quello vicino all’Altare Maggiore sulla sinistra).
Ridevo ogni volta ripensando alla storia curiosa di quel dipinto ... Come vi dicevo, inizialmente il Tempio della Salute era spoglio, con pochi arredi e senza dipinti né opere d’arte alle pareti … Lo Stato lo voleva così, così come voleva decidere e provvedere a tutto lui in assoluta esclusiva … Solo che erano trascorsi anni e la grande chiesa era ancora a mura disadorne e vuote. 

Accadde perciò a un certo punto storico, che dopo le continue proteste al riguardo dei Padri Somaschi e del Clero Veneziano, la Serenissima si decidesse finalmente a provare in qualche modo ad arricchire maggiormente di arredi il grande Tempio della Salute. Lo fece destinando alla Basilica tutti gli arredi e i dipinti appartenenti al Monastero dei Canonici Regolari di Santo Spirito in isola che erano stati di recente soppressi e sfrattati. Un tempo i Canonici Regolari erano stati ricchi e potenti, e la loro isola con chiesa e Convento erano rimasti addobbatissimi e decoratissimi, anche se l’isola era ormai da tempo quasi deserta e lasciata a se stessa, ridotta a pochi e vecchi Canonici … Era un vero peccato … Perciò il Senatodecretò che tutto venisse spostato e traslocato nella chiesa della Salute.

Al Tempio della Salutequindi pervenne d’un colpo solo una dovizia d’opere d’Arte e oggetti preziosi che riuscirono a rifornirla adeguatamente di tutto quanto ancora le mancava. Dalla remota Isola di Santo Spirito arrivò, ad esempio, il bellissimo Coro ligneo intarsiato con 25 stalli superiori e 15 inferiori che occupa ancora oggi il retro dell’Altare Maggiore: un capolavoro stupendo, bellissimo !

“Dove andate a fanulloneggiare in giro ? … Andate piuttosto a spolverare gli stalli del Coro.”ci ripeteva spesso il solito RettoreDon Giuliano notandoci secondo lui “non sufficientemente operosi”(sapeste quante ore su ore ho trascorso a spolverare e lucidare pezzo per pezzo, scanno dopo scanno quel benedetto Coro … con infinita santa pazienza … che spesso non possedevo).

Se andrete a leggere l’ “Inventario delle argenterie e suppellettili sacre, erano dilla chiesa di Santo Spirito, consignati alli Padri Somaschi in esecuzione della parte dell’Eccelentissimo Senato … per servitio dilla chiesa dilla Maria dilla Salute”(redatto il 25 ginnario 1657 more veneto),troverete che oltre al Coro“col suo littorìn grando di noghera per il servizio del Coro …e due libri grandi di cartapecora, servono per gli Uffici e il canto nel Coro”  pervennero alla chiesa della Salute: “… una ditta piccola da once d’argento 52 … un catino d’argento con una brocca da once 76,2 … quattro calici d’argento con sui piatini da once 68 … un cembalo d’argento con sui manicillo da once 63 … una pisside dorata … un vaso con sui bassillo … due candelieri di bronzo bassi … un campanil triamgolare di bronzo …un candeliere piccolo chiamato “la bugia” … una patina di rame dorato con un piede di calice … tre Reliquiari piccoli … un bicchiere con un coperchio di cristallo … un sepolcro dorato con la sua cassa … sei candelieri di bronzo grandi lavorati … un dito di bronzo grande con figure, con suo piedistal di marmo fino nero … un tabernacolo di latòn dorato con cristalli di montagna et altri pietre con la sua Croce sempre del medesimo cristallo … una campana piccola serviva per il Refettorio … una cassilla serrata con cristalli con Reliquie, dilli quali non si trovò alcune notizie … fra cui “una birrittina e una manega di color paonazzo tarmada con bollittino che sia questa la manega del Beato Lorenzo Giustiniani Primo Patriarca di Vinezia”… e sei candelieri d’argento grandi, e due piccoli … una lampada d’argento … e un’altra Croce d’argento dorato con figuri e cristalli con sua cassa … e tovaglie e tovagliette e biancherie da chiesa, camici, cotte, tele per coprir altari … un’ombrella paonazza con oro … un orologio con sua campana e sei piezzi di bronzo … quattro angeli di bronzo, due mezzani e due piccoli … due armeri di circa 10 braccia in circa … un ditto di braccia 5 per tenere argenti … tre campane del campanil con sue corde e tamagoni la maggior parte delle quali è rotta … una pila dell’acqua santa di marmo fino, col “Mosè” di mano del Sansovino … due tavolini ottagono e quadrato di marmo bianco e rosso di Verona …”

L’Inventario degli oggetti continuerebbe lunghissimo: una quarantina di abiti e paramenti liturgici lavoratissimi, e piviali di tutti i colori “di tabìn, velluto, cambelotto, ormesin, seta e razzetto d’oro”, “cossìni”(cuscini) e finimenti, cordoni e fiocchi “per cataletto”, “razzi di seta”, “soprarizzi d’oro”, preziosi damaschi, “firandine nere”, “copertini in lametta d’arsento”… e infine: le opere d’Arte, i 13 dipinti preziosi: “… Una pala piccola con “San Marco nel mezzo, San Sebastiano e San Rocco da una parte et San Cosmo et Damian dall’altra di mano del Tiziano (la pala eseguita nel 1510 da Tiziano ha fatto tutto il giro degli altari della chiesa della Salute prima d’essere collocata definitivamente sull’altarolo della Sacrestia) … Quatto quadri erano nella Sacrestia dei Canonici, cioè: un “San Sebastian” di mano antica, una Madonna in quadro piccolo col Beato Santo Iseppo e Santi di quattro quarti incirca … un “San Paolo” in mezza figura in quadro di quarti tri d’altezza in circa … una “testa di Santo” in quadro … undici quadri, erano nel soffitto dilla chiesa di mano di Tiziano, cioè: un “Davide col gigante Golia”, uno col “Sacrificio d’Abramo” … quattro quadri di tela longhi, cioè: “delli Profeti: Sanson, Giona, Melchisedech et Giosuè” …(e tutti gli altri: la lista è lunga e dettagliata)… tutti di mano del Salviati …” ripartiti tutti in Sacrestia … Inoltre furono consignate tutte le tavole di noghera, barili e botti, erano nel ditto Refettorio …”

Seguì all’inventario la ricevuta in data 21 maggio 1660 firmata dal Padre Enrico Passi Preposito dei Padri Somaschi.

Fra tutto questo “ben di Dio”, non l’ho ommesso, ma c’era anche: “… una pala dil Spirito Santo, era nell’Altar Maggiore, di mano del Tiziano”. Era a questo dipinto posto sull’altare dello Spirito Santo della Salute che mi riferivo prima …
Dovete sapere che quella pala d’altare dipinta dal Tiziano ha una sua storia curiosissima. Sembra che il già famoso pittore avesse inizialmente dipinto una tela commissionata dai Canonici dell’isola per l’altare principale della loro chiesa. Pare anche, che dopo essersi fatto pagare molto bene e averli fatti attendere parecchio, una volta collocata l’opera finita sull’altare, forse a causa della forte umidità dell’isola, e dell’aria salmastra della Laguna, l’opera si fosse inarcata tutta e riempita di bolle e crepe fino a scrostarsi perdendo i pezzi del disegno. Ne venne fuori una denuncia alla Serenissima, e un processo contro lo stesso Tiziano con tanto di sentenza finale: nonostante il pittore avesse chiesto di giungere a un compromesso economico, venne obbligato, invece, a ridipingere “gratis” una nuova opera per i Canonici.

Le cronache Veneziane raccontano che Tiziano era furibondo, anche perché i Canonici se la ridevano soddisfatti per aver vinto la causa contro di lui … Per vendicarsi allora Tizianofece una furbata: ossia dipinse se stesso e i tutti i suoi amici pittori nei volti degli Apostoli contenuti nel nuovo dipinto che dovette realizzare per i Canonici di Santo Spirito. Immaginatevi la sorpresa dei Canonici quando scoprendo e inaugurando il nuovo quadro posto in cima al loro principale altare … furono costretti “in eterno” ad aver davanti quando celebravano supplici le loro Messe e devozioni il volto sorridente e provocatorio del pittore Tiziano. Il“Santo Apostolo Tiziano” sarebbe stato ogni mattina davanti ai loro occhi come esemplare “Modello di Santità”… e stavolta fu Tiziano a ridersela di gusto ... mentre ai Canonici a loro volta toccò d’essere di nuovo furibondi.

Ora una confidenza personale … corsi e ricorsi storici … Sapete dove ha trascorso l’intera giornata mio figlio giovedì scorso ? Indovinate un po’ ? … A lucidare le lampade della chiesa della Madonna della Salute… Credo che quel chiesone in qualche maniera sia radicato ineludibilmente dentro al mio destino e a quello della mia famiglia.

Tornando “ai tempi andati”, giunta l’imminenza della Festa, c’era un’altra “operazione di fiducia” che il Rettore della Salute mi affibbiava ogni anno da compiere. A cavallo degli anni ‘70 e ‘80 del 1900 andavo, una settimana prima della Festa, a ordinare 10.000 particole, ostie per la Comunione, presso “il laboratorio di taglio e cucito liturgico e di abiti pretereschi e suoreschi”delle Suore Giuseppine della Contrada di San Marcuola nel Sestiere di Cannaregio. Era più o meno quello il “fabbisogno” per le Comunioni che s’amministravano annualmente nella chiesa della Salute, e ogni volta accadeva che dovevamo chiedere “d’urgenza”un’integrazione di “particole” che le Suore preparavano e portavano in fretta e furia sfornando “di notte” altre 2.000-3.000 ostie che però non bastavano mai.

Nei giorni subito precedenti alla Festa si ripeteva sempre anche un appuntamento annuale con la Madonna della Salute riservato a tutte le Suore e Monache di Venezia ... (così come ce n’era un altro con tanto di Processione lungo tutta la riva delle Zattere riservato ai Parrocchiani della vicina chiesa e Parrocchia di Santa Maria del Rosario dei Gesuati di cui la Basilica stessa faceva parte giuridicamente).

Quello delle Suore di Venezia era un convergere suggestivo, variopinto e curiosissimo che si ripeteva ogni anno all’alba riempendo letteralmente gran parte della “Rotonda Piccola” del chiesone della Salute. Negli anni ‘60-‘80 del 1900 le Suore e le Monache ancora presenti a Venezia erano numerosissime. Erano una folla, una massa immensa distribuita ovunque dentro ad ogni genere di “Ente Assistenziale Veneziano”. C’erano quasi Suore a gestire ovunque per Venezia: Ospedali, Orfanatrofi, Case di Riposo per anziani o d’accoglienza per trovatelli, Asili e Scuole per l’infanzia, Carceri, Manicomi, Seminario. C’erano perfino Suore in sevizio 24 h su 2 nella casa del Patriarca.

Mi piaceva un sacco osservare di lontano quel “mondo di donne un po’ speciali”… con quel loro “modo fiero, deciso e insieme mieloso e gentile” d’essere e servire … Alla Salute ne spuntavano “di ogni sorta e di tutti i colori”… In quella ricorrenza c’era l’intero Campionario delle Suore di Venezia… ed era un “Catalogo” davvero variegato e particolare.

A volte mi sembravano tante lumache e funghi diversi fra loro usciti in un bosco dopo un temporale ... Ce n’erano di giovanissime, carine e sorridenti … e c’erano quelle vecchie e decrepite, austere, traballanti e quasi “imballate” nei loro vestitoni medioevali fuori moda, qualche volta accompagnate a braccetto … o talvolta trascinate “a braccia” dalle consorelle in maggior forma e forza fisica … 

Alcune Suore erano “un po’ roste e malandate”, però non volevano mancare a quell’appuntamento con la Madonna della Salute riservato proprio a loro. Era bella quella schiera di donne, mi piaceva ogni anno rivedere quella specie di “esercito di Monache”… donne in fondo … che però come ripeteva sempre l’indimenticabile Albino Luciani: “… le Suore sono donne due volte … Assomigliano alle Api … Sanno essere generose e dolcissime, producono il Miele … Se piaci loro: ti adorano, ti coccolano, e non ti faranno mancare nulla … Ma se le disturbi o non vai loro a genio: ti pungeranno e ti detesteranno diventando assatanate e rendendoti la vita difficile !”

Aveva ragione … io posso dirlo.

Ogni anno, il giorno della Vigilia della Festa della Salutesi presentava, ormai da molti anni, una signora, o un uomo appartenente sempre a una stessa famiglia che aveva anni addietro ricevuto “una grazia” dalla Madonna della Salute. In segno di riconoscenza la famiglia s’offriva d’addobbare di fiori: rose rosa belle e profumate, l’intero “prato marmoreo” del “Gruppo della Peste” scolpito sopra l’Altare Maggiore della Salute. Quel gesto era diventato una tradizione irrinunciabile di famiglia, e generazione dopo generazione, ogni anno puntualmente arrivava quel bel omaggio che mi affrettavo a collocare in appositi vasi d’ottone lucentissimi che avevo lucidato per ore uno ad uno. Poi m’arrampicavo sopra all’altare, e andavo a porre ai piedi della Madonna, della Peste, e della Serenissima” quel gradevole omaggio floreale ... A proposito di ex voto e gesti di riconoscenza: gli spazi fra le colonne e sulle pareti della “Rotonda Piccola” della chiesa, sono stati per secoli letteralmente coperti da un’infinità di ex voto offerti dai Veneziani … Vi sembrerà strano, ma ancora oggi i Veneziani continuano a portarne altri seppure in quantità del tutto minore (lo so per certo in quanto mio fratello lavora proprio nella chiesa della Salute).

Sotto alla Cupola Piccola sono rimasti infissi per moltissimo tempo anche certo ex voto stranissimi. C’erano, ad esempio, collocati dentro a certe cornici polverose e scure collocate in muro (fino a qualche anno fa) perfino “le code dei cavalli” che i Veneziani avevano razziato e vinto rubandoli ai Turchi portandole a Venezia insieme alla propria pelle “sana e salva” ... e offrendole poi “come cimelio votivo”alla Madonna della Salute ... ce n’erano di stranezze in giro !
Anche sull’altare laterale di Sant’Antonio da Padova, a metà della “Rotonda Grande”, c’erano altri ex voto strani e curiosi offerti dai Veneziani.

Dovete sapere che una delle poche statue “non Veneziane” ammesse in chiesa era proprio quella di Sant’Antonio da Padova, un Santo molto simpatico alla Serenissima, una specie di Santo Veneziano d’adozione; così come nell’ottobre 1751 si era permesso come eccezione a Giovanni Maria Morlaiter d’eseguire un'altra statua rappresentante Girolamo Miani a ricordo del fondatore della Congregazione dei Padri Somaschi che officiavano la chiesa della Salute a nome dello Stato Veneziano.

A lato dello stesso altare di Sant’Antonio, in una teca di vetro la Serenissima ha voluto deporre anche un gonfalone-bandiera della galea Ammiraglia Veneziana vittoriosa nella Battaglia di Lepanto... L’altare di Sant’Antonio da Padova dentro al Tempio della Salute fu voluto dalla Serenissima, quindi anche stavolta dallo Stato della Repubblica e non dalla Chiesa, con un altro Voto di Stato del 1652 durante la Guerra di Candia contro i Turchi ... e in un secondo momento anche per la liberazione della flotta Veneziana da un morbo contagioso presso Castelnuovonel 1687. Venezia volle che il giorno della ricorrenza di Sant’Antonio da Padova: il 13 giugno, a Venezia fosse: “solenne Festa cittadina”.  Nella chiesa della Salute ci celebravano Vespri Solenni alla Vigilia, si esponeva la Reliquia del braccio di Sant’Antonio fatta venire dal Senato appositamente da Padova (dove il resto del corpo del Santo è veneratissimo), e il giorno seguente Doge e la Signoria attraversavano il Canal Grande sul ponte di barche appositamente allestito per compiere insieme alle IX Congregazioni del Clero, il Patriarca, e ai Veneziani festanti una grande Processione e un Messone Solennissimo

Questa devozione-festa tipicamente Veneziana era ancora molto sentita e celebrata da molti Veneziani fino a circa il 1954 … Ora, invece, la ricorrenza e la festa languono, anzi sono defunte e dimenticate praticamente quasi del tutto: dimenticate di certo dall’autorità pubblica, e disertate perfino dalla maggioranza dei Preti. E’ tristissimo e “miserioso” il giorno di Sant’Antonio vedere la “Processione del Santo” alla Salute partecipata da soli “quattro gatti”… perfino il Patriarca non vi partecipa quasi più … Per diversi secoli sull’Altare di Sant’Antonio in chiesa si praticava ogni martedì dell’anno “la Devozione al Santo”, si celebrava un’apposita Messa, si cantava il famoso “Si Quaeris miracula” con esposizione della “Reliquia del Taumaturgo” e specifica benedizione ... Ricordo distintamente che in certi “martedì” degli anni ’70-’80 a rappresentare l’intera Venezia davanti all’altare del Santo c’erano soltanto: … il Rettore e io.

Infine, vi racconto qualche ultimo aneddoto e poi basta per non asfissiarvi e annoiarvi del tutto.

Sulla chiesa della Salute si sono dette lungo il corso dei secoli tante cose, anche alcune notizie sbagliate, come ha scritto, ad esempio, nel gennaio 1761 nei suoi “Notatori” il Gradenigo:“… nel Tempio della Salute vi sta un altare dove si vedono dipinti li Re Magi Gasparo, Melchiore, Baldassare …”  Ah sì ? … E dove sarebbero mai questi Re Magi dipinti ?
Non esiste questo dipinto alla Salute.

Nel 1810 i Francesi decisero la soppressione della Congregazione dei Somaschi e del loro Convento della Salute. Ai 36 Religiosi rimasti fu concesso di rimanere ospiti per qualche tempo nel Monastero di Sant’Andrea della Zirada da dove s’erano estromesse le Monache per permettere loro di terminare l’insegnamento dell’anno scolastico in corso. Le Cronache Veneziane dell’epoca ricordano: “Se ne andarono via da Venezia …uomini non di rado talento e dottrina che erano molto utili … che da sempre aveano nella Salute la loro Casa di Professione e Noviziato da dove partivano e dove tornavano in vecchiaia a riposar delle loro fatiche.”

Nel giugno 1822 la chiesa della Salute subì gravissimi danni da un tremendo turbine ... L’Imperial Regio Governoriparò e demolì gli edifici che serravano la parte meridionale della chiesa, e fece aprire nel Coro della Salute quattro grandi finestre che portarono un po’ di luce tolta via dalla collocazione dell’organo messo in parete … Nel 1836: la città di Venezia come ennesimo ex voto offrì la grande lampada d’argento eseguita da G.Borsato e appesa al centro della “Rotonda Grande”(che fatica lucidarla a specchio “dandoci di gomito” in preparazione della Festa della Salute stando in cima alla solita scaletta traballante).

Privi ancora delle tecnologie attuali, i Veneziani pensarono all’inizio del 1900 di collocare un bel filo elettrico aereo e volante fra la cima della Cupola Grande della Salute collegata con l’Osservatorio Astronomico del Seminario, fino al Campanile di San Giorgio Maggiore al di là del Bacino di San Marco. Scopo ? Semplice: trasmettere il segnale del “perfetto orario al minuto e secondo” agli artiglieri che sparavano col cannone puntuali ogni giorno dalla riva dell’isola “il segnale orario del Mezzogiorno”.
“Utilissimo ! … Bellissima idea !” si diceva in quegli anni a Venezia ... Altri tempi … ormai trascorsi da un pezzo. Per fortuna quel progetto non venne realizzato... perché il mondo poco dopo ebbe altri pensieri a cui dedicarsi.

Trascorsa l’epoca delle due Guerre Mondiali e del misero e lugubre Dopoguerra, stavo ancora studiando “da Prete” nell’adiacente Seminario Patriarcaledella Madonna della Salute quando fra 1970 e 1976 si realizzarono i consistenti lavori di restauro della Salute finanziati dai fondi del “Comitè Francais pour la Sauvegarde de Venise”  (una volta tanto i Francesi hanno dato una mano a Venezia dopo averla sconquassata del tutto a più riprese … Ce lo dovevano un poco).

Infine intorno all’anno 1970, la statua di Eva posta insieme alle altre ai piedi della Cupola Grandadella Salute decise di spiccare il volo tuffandosi nel Campo della Salute sottostante durante un furibondo temporale caduto sopra Venezia. Per fortuna non si ferì nessuno, però mi ha fatto una grande impressione quel donnone di marmo precipitato e volato di sotto … Vi sembrerà forse banale e un po’ sciocco, ma a quei tempi considerando l’ “andamento e la piega” che stava prendendo la devozione religiosa in generale dei Veneziani e della società moderna, ho pensato: “Ecco un altro pezzetto della sensibilità dei Veneziani di ieri che s’allontana e se ne va via rovinosamente”.
Ero giovane, e forse anche un po’ idealista ed entusiasta … intendevo forse vedere e interpretare le cose e i fatti del Mondo un po’ a modo mio … come credo facciamo un po’ tutti chi più e chi meno. (la statua di Eva visibile ora in cima alla chiesa della Salute è una copia, mentre l’originale rimesso “incerottato alla bel e meglio” è stato posto nella Galleria Franchetti del Palazzo della Ca’d’Oro).

Ricordo infine, un borseggiatore pesto medicato e piantonato dalla Polizia nel chiostro del Seminario il giorno della Festa della Salute … “Non è niente … E’ solo caduto per strada” spiegavano i poliziotti ai curiosi che gli facevano capannello intorno. “Stava rubando portafogli ! … E’ un ladro !” dicevano, invece, altri che avevano assistito alla scena.

“L’ho visto anch’io …” gridava esagitata una Suoretta minuta … “Hai incontrato eh eh … quello del formaggio ? … Ben ti stà ! … Farabutto ! … Dovevano dartene di più !” chiocciava la Religiosa un po’ bellicosa.

La sera della Festa della Salute(“ricchi” delle nuove offerte ed elemosine portate da benefattori e fedeli), si accendeva ogni anno finalmente il riscaldamento nel Seminario dove risiedevamo in pianta stabile … Non vi dico che freddo che si pativa da quelle parti: eravamo “aperti” e allo “sborìn”del vento che veniva dal Bacino di San Marco… Eravamo giovani e forti sì, ma lavarsi e farsi la doccia con l’acqua fredda non era il massimo … così come non lo era dormire sotto a una montagna di coperte e lottare contro gli infiniti insidiosi spifferi gelati … La Madonna della Salute nel giorno della sua Festa pensava perciò opportunamente anche alla nostra di Salute fisica … e le eravamo perciò ovviamente e devotamente grati.

Buona Festa della Salute … “amici” Veneziani !




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