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“MAIURBIUM … SPUDORATA MAZZORBO ! … L’ISOLA DELLA LAGUNA DI VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 136.

“MAIURBIUM … SPUDORATA MAZZORBO ! … L’ISOLA DELLA LAGUNA DI VENEZIA.”

“Maedium Urbis”o “Maiurbo”… se ne sono dette tante sul nome e sulla sua origine ... Zona di orti, vigne e molendini ad acqua …  Un’isolotta rettangolare larga solo 500 metri, o meglio: un piccolo arcipelago di isolette giustapposte e quasi strette a braccetto … Maiurbium poteva significare: "Città Maggiore" per l'importante ruolo commerciale che un tempo quell'isola aveva rivestito … Ma si trattava sempre di isolette fra canali e rii dai bassi fondali, molte volte in secca o invasi vigorosamente dall’alta marea. Ogni tanto si spostava il decorso di qualcuno, o s’imbonivano un altro di fango provando a strappare qualche pezzo di terra in più dalle barene e dalla Laguna … Per Burano, Torcello e Mazzorbo un tempo si entrava dal mare nella Laguna di Venezia attraversando la bocca del Porto di TreportiMazzorbo era quindi anche luogo di Dazi, Dogane, Gabelle e scaltri Gabellieri … Da lì si entrava e usciva, dentro e fuori dai luoghi della Serenissima … Ancora nel settembre 1684 il Senato di Venezia decretava l’imposizione di una tassa di 4 soldi per ogni barca alberata che transitava sotto ai ponti in legno di Mazzorbo… Lì si pagava il Dazio alla Serenissima, così come diversi secoli dopo negli ambienti dell’antica Foresteria del Monastero di Santa Caterina che chiudeva la Fondamenta, c’era ancora la Ricevitoria del Dazio prima d’essere trasferita a Murano … Mazzorbo era quindi un posto di passaggio di grossa parte del commercio Veneziano. Poco distante poi, a monte di Torcello, sfociavano direttamente in Laguna alcuni fiumi della Terraferma: perciò di là passavano “tanti traffici che  entravano e uscivano dalle acque diventate Veneziane”… Passavano di lì: Zattieri, Lanieri, commercianti di Legname, la gente del Sale, e contadini, e bestiame, e pescatori, e gente di ogni sorta dall’entroterra… Ero ancora piccolino quando vedevo ancora transitare pigri e pesanti davanti Burano e alle rive di Mazzorbo i “trabaccoli” carichi di legna e carbone provenienti da non so dove diretti a Venezia, oppure alla Terraferma seguendo il Canale di Torcello.

Sempre da bambino era ogni volta una festa recarsi alla Sagra notturna di Mazzorbo percorrendo lentamente, in passeggiata, la lunga strada illuminata da radi fanali … Quando si arrivava alla chiesa, in fondo di Mazzorbo, c’era “la Roda de la Pesca” che girava … e c’erano le galline, i conigli, “le ànare” e le quaglie … e il vinello buono, “l’arancino e la spuma”… e tutte quelle lucette colorate e pallide appese per aria, con la musica “che andava” sopra i primi giradischi o fuoriuscendo da qualche radio che gracchiava … Poi c’erano anche le belle ragazze allegre che ballavano, sempre innamoratissime, con le gonne fluttuanti nella brezza fresca della notte … Nei cespugli di Mazzorbo invasa dal buio saturo del concerto dei Grilli, occhieggiavano flebilmente mille piccole Lucciole accese come lucette di Presepio … I Grilli e le Cicale d’estate facevano un gran casino, pareva facessero guerra strombazzando contro i nugoli delle Zanzare fastidiosissime che non mancavano mai. I canali di Mazzorbo erano scuri e luccicanti come d’argento sotto la Luna, le acque erano immote, come invase e occupate da una quiete quasi sfacciata … Solo ogni tanto passava una rara barca spinta dai remi … e ancora più raramente transitava qualche barchino col motore acceso scoppiettante.

A Mazzorbo non succedeva mai niente … era come se non esistesse … anche se, invece, c’era qualcosa … eccome che c’era. Sentivo che quelle vigne buie di notte, quegli orti assolati di giorno avevano qualcosa da raccontarmi. Dentro a quella terra isolana muta e consumata ci doveva essere per forza qualcosa di nascosto … una storia di storie che prima o poi avrei finito col scoprire.

Ed effettivamente era così … C’è voluto un po’ di tempo, ma poi l’ho scoperto … C’era moltissimo da dire e raccontare di quelle antiche Contrade oggi del tutto sepolte, cancellate e dimenticate poste lungo quell’ampio “Canal Grande”(di noialtri) fiancheggiato da case e palazzi. Nel 1700-1800 separava come oggi le isole di Mazzorbo e Mazzorbetto in una sorta di due Contrade e Pievanie parallele e indipendenti, ma interagenti: San Pietro e San Bartolomio di Mazzorbo ...  In realtà di canali, canaletti e canalicoli a Mazzorbo ce n’erano stati sempre tanti e di diversi, che ogni volta frammentavano ulteriormente quel piccolo arcipelago di isolette ed emersioni fangose che facevano appena capolino fuori dalle acque della Laguna Nord di Venezia ... Ancora nel 1927 si eseguì il taglio del Canale di Mazzorbo nella zona dell’ex Monastero di San Mattio deviando il flusso dei Vaporetti della linea: “Venezia-Murano-Mazzorbo-Torcello-Burano e viceversa” che transitavano per l’antico Rio di Santa Caterina dove c’era ancora nel 1850 un ponte girevole che collegava le due isole.



Nei tempi del suo maggior splendore, Mazzorbo era suddivisa in cinque Parrocchie-Contrade-Pievanie: San Pietro (primo documento incerto sulla chiesa del 1151, e soppressione del 1810), San Bartolomeo(primo documento incerto sulla chiesa del 1244, e soppressione del 1633 (?), San Michele Arcangelo(primo documento incerto sulla chiesa del 1298, e soppressione del 1810), Santo Steno o Stefano(primo documento incerto sulla chiesa del 1336, e soppressione del 1393 (?). Venne distrutta e “assorbita” dai Santi Cosma e Damiano di Mazzorbo prima, e poi da San Michele Arcangelo per l’abbandono delle isole), Santi Cosma e Damiano(primo documento incerto del 1222, e soppressione nel 1500)… L’isola di Mazzorbo vantava inoltre la presenza di ben cinque Monasteri di cui era certa l'esistenza almeno fin dal 1200: Sant’Eufemia Vergine e Martire e Santa Dorotea, San Tecla e Sant’Erasma (è del 1235 il primo documento su Sant’Eufemia delle Benedettine di Mazzorbo, ma qualcuno giudica il Monastero già fondato nel 900. Soppresso nel 1768 dicono alcuni … Soppresso insieme a tutti gli altri, nel 1806, dicono altri, per costruire sul suo terreno i bastioni e le casematte di un Forte ... Ospitava le figlie dei Nobili Tasca, Pisani e Zeno), Santa Maria in Valverde e San Leonardo(1277 primo documento sul Monastero del 1277, fondazione nel 1281 (?), e soppressione nel 1768 (?) … Ospitava le figlie dei Nobili Donà, Zane e Baffo), San Maffio o Matteo e Santa Margherita (primo documento delle Monache Cistercensi del 1239 o 1298, poi Monache Benedettine e soppressione del 1810 … ospitava le figlie dei Nobili Morosini, Minio, Corner, Gabrieli e Selvatico), Santa Maria delle Grazie o del Pianto delle Eremite Cappuccine(primo documento di fondazione del 1689, soppressione del 1806, demolizione nel 1810), e Santa Caterina e Pietro(del 1266-1289 il primo documento, e soppressione del Monastero costruito con preziosi materiali importati da Altino nel 1806. Ospitava le figlie dei Nobili Dolfin, Polo, Michiel e Da Lezze).

Non si trattava quindi di semplici Conventucoli di campagna persi nel niente, ma di grossi complessi dove i Nobili Patrizi Veneziani provvedevano all'educazione delle figlie inserendole in ambienti degni del loro ruolo Per i Veneziani poi, Mazzorbo come Murano erano isole bucoliche e “di Villa”, luoghi del riposo, dell’evasione ludica, letteraria e passionale … e anche d’altro.

“Il Canale di Mazzorbo hà i suoi casini di campagna”, scriveva il Coronelli nel suo“Isolario Veneziano” del 1696: “… per divertimento, e delizia di Gentiluomini, fra quali considerabili sono quelli del NobilHomo Girolamo Morosini su la punta di Santa Maria, del Procuratore Corsaro nella parte di San Piero, e del Maimenti a Sant’Eufemia, ch’è il più bello di ogni altro.”

Mazzorbo è tutt’ora collegato a Burano dal Ponte Longo: quasi come un ombelico con l’isola più importante, abitata e industriosa … ma anche spartiacque fra due piccoli mondi alternativi e contrapposti. Già nel 785 si parlava della prima fondazione di una prima Pieve di Mazzorbo … “Perciò Mazzorbo è più antica di Burano ! … i Mazzorbesi sono quindi più prestigiosi dei Buranelli” dicevano i Mazzorbesi … “Abbiamo perfino la campana del 1318: la più antica di tutta Europa !”… Ma vallo a dire ai Buranelli ! … era ogni volta scontri e baldoria.
Guardando, invece, alla Storia vera, quella che conta per davvero, nel 1064 Orso Vescovo di Torcellochiedendo per se stesso ulteriori privilegi elencava le sue pertinenze in Laguna ad Ammiana, Lido Bovense o Maggiore, Costanziaco, Burano, Mazzorbo e Murano con le sue nove isole e la Pieve di Santa Maria che aveva giurisdizione su quattro Cappelle una delle quali era Sant’Erasmo posta sul Lido della Mercede.



Nel 1169 si scriveva che la “Comenzaria pubblica vadit (iniziava) ad Maioribus (ossia da Mazzorbo)… Nel 1202, invece, Vitale di Andrea Dandolo donò alla nipote Agnese vedova di Alvise Badoer, divenuta Monaca a Santa Caterina di Mazzorbo, i diritti di “… tutto l’allodio, e mia possessione posta tra il Lido Maggiore et Lido Bianco …” collocata a sud dei due lidi, in riva al mare, e delimitata dai Canali Peretolo e Badoer allora già esistenti, ossia l’attuale Valle Liona ... Cinque anni dopo, nel 1207, si accennava a una “Tumba Doria o Dauro  o Dauria”di Mazzorbo … nell’ottobre 1219, a Rialto, invece, Giovanni Venier da Mazzorbofece quietanza di lire 50 di Denari Veneti a Leonardo Ianna da Mazzorboprestategli con atto del luglio 1218, sempre a Rialto, per commerciare fino in Siria con la nave Sant’Andrea di Patròn Veniero ...

Pensate: da Mazzorbo alla Siria ! … nel 1219.

Nel maggio 1252 a Candiadavanti al Notaio Nicholaus Iusto Prete di San Nicola: Aurifilafiglia del defunto Pietro di Tomba del Confinio di San Bartolomeo di Mazzorboabitante in quell’anno a Candia, fece procura a Giacomo Trevisan del Confinio di Santo Stefano Protomartire di Mazzorbo per riscuotere i suoi crediti e vendere una sua casa sita nel Confinio di San Pietro di Mazzorboconfinante col canale, il lago e le proprietà di Domenico Orso e Matiliana... Qualche decennio dopo, nel marzo 1289 e sempre sotto ai portici di Rialto davanti al Notaio Nicolaus Prete a San Lio, si stese l’atto di divisione fra Marco Mocenigo del Confinio di San Giovanni Crisostomo e Matteo figlio del defunto Pietro Viaro del Confinio di San Maurizio per certi molini in Mazzorbo confinanti con le case poste nel canale di San Pietro, gli orti dei convicini dello stesso San Pietro, la palude di San Tommaso, il Rio delle Pietre e le barene presso il canale di San Tommaso di Torcello ... Nel giugno 1296 a Rialto davanti al Notaio Marcus Rana Prete e Piovan di San Tomà e Cancelliere Dogale, e al testimone Iacobus De Molino Prete: Zaniolo figlio del defunto Marco Da Mosto del Confinio di Santi Apostoli concesse per 27 anni e per soldi 16 di grossi annui a Filippa Girardo Badessa assieme ad Elena Gradenigo Priora e 15 Monache di San Maffio di Mazzorbo una terra vacua sita nel Confinio di San Pietro di Mazzorbo salvo una parte di terra di proprietà di San Giovanni di Torcello.

Giunto il 1316, durante la Podesteria di Cattarino da Mario si promulgarono gli Statuti di Mazzorbo.
Penserete di certo che fossero documenti capaci di rivelare una realtà sociale rosea e ben organizzata e governata … Beh, in un certo senso si … anche se in realtà le isolette erano di magra sussistenza e un po’ da morti di fame visto che le cronache raccontarono per secoli e fin oltre il 1600 di continue dispute e litigi “per sopravvivere alla miseria”, d’insolvenze e debiti circa i versamenti delle Decime, di esenzioni da dazi e concessioni, di condoni di pene, restituzioni di pegni, e raccomandazioni della Serenissima tramite il Senato e i suoi Savi e Magistrati di non vessare troppo i già sfortunati cittadini locali di Maiurbo.

Gli Statuti di Mazzorbo nella loro semplicità sono quasi commoventi, sono precisi e molto interessanti. Iniziano col raccontare che“insieme e davanti” ai rappresentanti di Torcello e Burano, anche: Angeli Alberto, Marci Marino, Marci Cappello, Blasii de Canalo, Dominici Carpacio, Ioannis Dando, Marci Longo de Maiurbio aderirono al “…diximus statuendum et ordinandum”… che qualunque maschio di Mazzorbo fra i 14 e i 70 anni doveva giurare sopra ai Vangeli la propria dedizione alla Potestà della Signoria e ai suoi precetti … E non solo: gli Statuti di Mazzorbo oltre ad elencare doti, virtù, incarichi dei vari Potestà, Giudici e Massari … elencavano anche i compiti dei vari Tabernari (Osti), Pancogoli (Fornai), Macellarii e Preconi di Mazzorbo … e quel che è più sorprendente, gli Statuti s’attardavano ad ordinare: “di non commettere ogni male … di evitare ogni frode e contraffazione e contrabbando.” … avercene oggi di Statuti del genere !

“Fra le principali cose che gli Statuti devono ordinare e stabilire, … è che non si diano via o si prendano le cose delle chiese … Che gli Officiali non facciano né vendano pane adulterato con semole, ma con buona farina e di giusto peso … Che i Giudici ascoltino ogni causa diligentemente, lavorino in buona fede e sentenziando senza fare preferenze … e siano tenuti a controllare tutte le rive rovinate ... Che i macellai vendano carne sana fresca e secca di bovino, pecora, montone, di castrato e suino, olio e formaggi senza frodare e senza scambiarle l’una per l’altra … Che Giudici, Scrivani e Preconi non mettano all’incanto se non al giusto valore e prezzo, e rispettando le regole pubbliche senza avvalersene per i propri scopi … Che i Procuratori delle Chiese tengano i loro denari al sicuro in apposita cassella con due serrature … Che i Procuratori non vendano vino se non quello fornito da Venezia, senza bollarlo, e senza lucrarvi sopra le anfore oltre una certa cifra … Gli eletti per un Ufficio Pubblico devono giurare “sub pena”... Se qualcuno di Mazzorbo trova cose che valgono più di 6 denari, deve presentarle “sub pena” … Non si deve bestemmiare Dio … Tutto gli uomini di Mazzorbo devono recarsi in visita “sub pena” nelle case dove c’è un morto e portarli in chiesa quando “pulsano” le campane … Nessuno beva nelle taverne prima della Messa Cantata nei giorni di Natale, Pasque e Ascensione, né dopo la campana della Guardia e dopo quelle ore … Nessuno osi giocare a TAXILLOS “sub pena” nelle taverne, né nei luoghi limitrofi, né dentro alle chiese e nei loro dintorni ... I tavernieri e chiunque altro non osi vendere vino se non solo quello fornito dai Procuratori, i tavernieri devono lavare i bicchieri, vendere in giusta misura, smaltire la botte del vino venduto, non adulterare il vino con l’acqua … né alcuno esca dalle taverne senza aver pagato il dovuto al taverniere … sub pena.”

Che ve ne pare dei Mazzorbesi di ieri ? … e si era agli inizi del 1300 !



Già dal giugno 1342 il Podestà e i Giudici di Torcello, Mazzorbo e Burano raccomandavano tramite apposita sentenza di spartire “da bòni fradèi” i proventi delle multe dai reati e condanne dandone due parti a Torcello, due a Mazzorbo e una a Burano … così come s’impegnarono a spartire le spese per mantenere la Cancelleria, il Palazzo del Consiglio, le Prigioni, il Fondaco, le Osterie, la Casa del Cancelliere e del Podestà… Nell’agosto 1456 e nel maggio 1462 i Podestà Francesco Da Molin e Giovanni Gabriel dopo l’ennesima lite tra Torcello, Burano e Mazzorbo circa le solite spese, l’amministrazione della Giustizia, gli Avvocati, la vendita dei pegni, le pene pecuniarie, e Cancelliere, barbiere, e doti ribadirono le stesse cose … Era trascorso più di un secolo dagli Statuti: ma erano serviti a ben poco, perchè vinceva sempre il contenzioso campanilista e la contrapposizione isolana che erano sempre più vispi che mai.

Si viveva intensamente in quelle parti recondite in fondo alla Laguna di Venezia … e se da una parte nel luglio 1419 una “ducale” del Consiglio dei Dieci dava disposizioni per costruire e sistemare ponti e strade donando 60 Grossi a Torcello, 40 Grossi a Mazzorbo e 20 Grossi a Burano… dall’altra parte nell’agosto 1511 una “parte” del Senatodella Serenissima ordinava ai Savi del Consiglio e ai Savi della Terraferma di mandare a proprie spese 24 barche fino a Trevisoper la custodia e la difesa dei mulini della Serenissima sul Sile facendo allestire ed equipaggiare: 6 barche a Murano, 6 a Mazzorbo e 6 a Burano e Torcello… La Repubblica avrebbe fornito un ducato e mezzo per ciascuno e il pan biscotto a tutti per 20 giorni.

A Mazzorbo comunque non accadeva solo questo … Fra 1368 e 1463 il Monastero delle Monache Benedettine di Sant’Eufemia di Mazzorbo a cui Papa Eugenio IV aveva unito le rendite del Sant’Angelo di Ammiana semisommerso dalle acque e ridotto a sole 3 Monache, subì ben 10 processi per abusi sessuali delle Monache con nascita di 2 bambini.

Nel 1432, invece, il Vescovo di Torcello Filippo Paruta unì al Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo le rendite del Conventino di San Nicolò della Cavana abitato da Benedettine fin dal 1303, assieme al quelle del Monastero di Santa Maria Maddalena dell’isola di Gaiada a nord-est di Torcello ormai quasi scomparsa del tutto, e  già proprietà dei Canonici Regolari di Sant’Agostino … Circa trent’anni dopo, lo stesso “povero” Monastero di Santa Caterina venne sollevato assieme ad altri Monasteri e Luoghi Pii altrettanto “miserrimi”dal pagare Decime e canoni economici allo Stato Veneziano … In realtà nella primavera del 1486 nel Santa Caterina di Mazzorbo non risiedevano affatto delle povere Monache “morte di fame cenciose”, ma oltre alla Badessa Franceschina Polo erano presenti le Nobili figlie Monache di moltissime Casate Veneziane prestigiosissime: Giustinian (3sorelle), Contarini (4), De Tomnasi, Valier, Celsi(2), Foscarinie Da Lezze ... Altro che poveracce ! … Nel Santa Caterina di Mazzorbo c’era “il fior fiore del meglio” della Nobiltà di Venezia.

Esattamente dieci anni dopo, nel Capitolo di Santa Caterina erano rimaste solo 9 Monache: il minimo storico. Che cos’era successo ? … Perché quella flessione ? … Forse qualche rilassatezza dei costumi degli stessi Monasteri, una calo di devozione dei Veneziani ? … o forse i Nobili puntavano maggiormente su altri grossi Monasteri posti nel centro di Venezia ? … Chissà ? … la Badessa di allora era Laura Da Lezze, e c’erano ancora 3 figlie dei Contarini oltre a quelle dei Giustinian, Zen, Foscarini, Querini e Grigis.

Nel 1500 però, il Monastero di Santa Caterina ebbe un nuovo sussulto d’orgoglio, d’affluenza e d’entusiasmo: a seguito di una ben riuscita Riforma il Monastero si definì: “Ordinis Sancti Benedicti De Observantia” e le Monache ospitate erano così brave, esemplari, oneste e pie che venivano mandate in giro per Venezia e per tutta la Laguna a correggere i costumi e i modi di vivere della altre meno coerenti col loro “Status Monacale” … Come ricordava la Monaca Cristina Muazzonelle sue memorie del 1522: “Il Santa Caterina di Mazzorbo era diventato uno dei Monasteri più interessanti e prestigiosi di tutte le Lagune Venete”.

Nel gennaio 1541, infatti, il numero delle Monache Professe lievitò considerevolmente, e sotto la Badessa Benedetta Michiel si contavano di nuovo 19 Monache da Coro: Michiel (2),Molin, Grimani (2), Bon (2), Contarini, Zane, Malipiero, Morosini (2), Badoer (2), Zorzi (2), Barozzi, Boldù e Paruta ... Nell’aprile di due anni dopo il Monastero ricevette la Visita entusiasta del Vescovo di Torcello Girolamo Foscari che trovò il numero delle Monache quasi raddoppiato trovandosi davanti ben 28 Monache Corali in fila, tutte da confessare una dopo l’altra … S’erano aggiunte anche altre figlie di Nobili: Loredan, Querini, Ferro, Moro, Barbarigo (2), Venier (2), Zen, Pizzamano, Superanzio (2) e Trevisan alle quali si aggiungeva la serie delle 11 Monache Converse: Gerolima, Veneranda, Maria, Antonia, Lucia, Agnese, Pasifiba, Maddalena, Margherita, Placida e Barbara.
Insomma il Santa Caterina di Mazzorbo era un successone … un fiore all’occhiello … e stava anche benone dal punto di vista economico … Nel 1564 il Monastero dava 1 ducato ai Preti per la Festa della Patrona, 6 ducati al Predicator per la stessa Festa del Titolo, altrettanti per l’Avvento e la Quaresima, e 20 ducati annui per le Cere della Festa sempre della stessa Santa Caterina … anche se come il solito, neanche due anni dopo, venne definito “povero e bisognoso”, e per questo esonerato dal pagamento delle Decime del Clero in quanto possedeva solo “poco legname proveniente dalle magre terre di campagna spesso sommerse dalle invadenti acque del Sile”.



Secondo il censimento del 1606, Mazzorbo contava: 154 famigli, 191 homeni fra 18-50 anni, 4 Preti, 43 vecchi dai 50 anni in su, 255 putti fino 18 anni, 288 donne e 202 putte ... Tutto bene quindi ? … e, invece, no … perché il Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo era divenuto anche uno dei più intriganti, curiosi e scandalosi … sentite un po’ perchè.
In quegli stessi anni si allestì un grosso processo contro Albano Minio barbiere della Contrada di San Cancian di Venezia che con suo fratello Prete si recava troppo spesso, anche durante le ore notturne, nei Monasteri di Burano, Mazzorbo e Torcello compreso quello di Santa Caterina di Mazzorbo: venne bandito dal Consiglio dei Dieci per tutti gli abusi che aveva commesso con alcune Monache.



Beh … direte … Niente di che … Sono cose che potevano capitare … Sentite allora che cosa accadde prima della metà del 1600. Il Monastero di Santa Caterina aveva cambiato del tutto faccia … e pure lo stile: “Era ormai trascorso il tempo in cui le Monache celebravano e imitavano le nozze mistiche di Santa Caterina col Cristo seduto in trono con un libro aperto dove si leggeva: “EGO SUM LUX MUNDI”, mentre con l’altra mano infilava un anello sponsale alla Santa che era immagine delle stesse Monache”… Nonostante gli uomini della Serenissima e dell’Inquisizione Ecclesiastica … che erano Nobili pure loro come le Monache … fingessero di non sapere e non vedere nulla sminuendo le colpe e giustificando le circostanze … nel Santa Caterina e negli altri Monasteri di Mazzorbo accaddero diversi casini … Alla fine c’era una somma tale d’eccessi che era impossibile non intervenire almeno ogni tanto per reprimerli e sedarli almeno un poco.

Nel giugno 1626 il Nobile Girolamo Giustinian assieme a un altro Nobile non meglio precisato fu scoperto dal Capitano dei Censori alle Contrade che si era recato a Mazzorbo per un sopraluogo di controllo mentre stava nel Monastero di Santa Caterina alle ore 23 di domenica notte. Nonostante l’ora tarda si trovava ancora nel Parlatorio delle Monache a festeggiare con la tavola piena di leccornie ed ancora apparecchiata “da ròsto”… E quella non fu affatto un’eccezione o un caso isolato, perché quei pranzi e cene dei Patrizi con donne e Monache nel Parlatorio erano frequenti più che mai … Solo qualche mese dopo, il Nobile Piero Memo e sua moglie, che già di loro non godevano di buona fama, vennero accusati anonimamente di trascorrere troppo tempo nel Parlatorio delle Monache ragionando con tre quattro di loro … Troppi ragionamenti ! … e di che poi ?
Qualche anno dopo, nel maggio 1633, subito dopo gli anni della terribile Peste che aveva devastato e resettato tutta Venezia e la Laguna, si tenne un processo per: “Eccessiva famigliarità di un Prete con quelle Monache”… Ad essere precisini si trattava di Benedetto Zogia, un Monaco Benedettino espulso dai Cassinesi, prestante servizio nella Diocesi di Torcello come Rettore della chiesa di San Bartolomeo di Mazzorbo. Venne accusato da Benedetta di Francesco Da Antivari e da Gaspare Gonda oriundo di Padova residenti a Mazzorbo, di recarsi troppo spesso al Santa Caterina col pretesto di celebrare Messa, intrattenendosi troppo familiarmente a parlare, non si sapeva bene di che cosa, alle finestre delle Monache. Venne incolpato anche di aver aperto una bottega dove vendeva farina, formaggio, vino ed altre “cose mangiative poco buone e a prezzi vigorosi” dando da mangiare pubblicamente a chiunque si recasse da lui e gestendo anche un luogo dove era possibile giocare a carte ... Inoltre l’ex Monaco in un impeto d’ira aveva minacciato di uccidere chiunque lo avesse accusato di fare visita alle Monache Claustrali ... “Era un uomo misero che sembrava essere anche tutore di alcuni nipotini abbandonati in età minore, che non riusciva a mantenere con le scarse elemosine dell’Oratorio di San Bartolomeo”. Perciò … ed ecco svelato l’arcano … andava a chiedere elemosine e carità alle ricche Monache del Santa Caterina “facendo loro mille moine e raccontandone loro di ogni sorta per ricavare qualche danaro”.

Alcuni decenni dopo si celebrò un altro processo tenuto segreto: “per visite frequenti di Betta detta Bettolin servente del Piovan di Sant’Angelo di Mazzorbo troppo presente nei Parlatori dei Monasteri … e anche per lenocinio”. La donna godeva di cattiva fama e di possedere lingua senza timore. Un gruppo di servitori del Santa Caterina la accusavano di recarsi più volte al giorno nei Parlatori del Cenobio per portare presenti e lettere a certe giovani Nobili Monache che la ripagavano per il servizio con anelli d’oro, belle cordele da testa e con cotoli …  una Religiosa giovane e bella le aveva promesso perfino un paio di braccialetti d’oro … Nel dicembre 1671 si parlò di nuovo di: “Chiassi e bagordi di alcuni Nobili con le stesse Monache ... Nel Parlatorio vicino al ponteselo il Capitano del Magistrato Sopra i Monasteri scoprì alcuni Nobili Veneziani fra cui Andrea Bragadin abitante in Calle Lunga San Lorenzo e Federico Bembo che con la scusa di avere parenti Monache in Monastero, la sera dell’8 dicembre: mangiavano, bevevano, ridevano con le Religiose facendo un gran chiasso udito da tutti … e poi dormirono là come attestarono alcuni ospiti che in quei giorni erano presenti nella Foresteria del Monasterio.”

Dieci anni dopo accadde ancora dell’altro, e si tenne un ulteriore processo … Stavolta si denunciò la “Corrispondenza amorosa delle Monache con un Prete”… Un bel casino di Monastero insomma ! … Non c’è che dire … Il Sacerdote denunciato era Prè Antonio Grilloabitante in casa del Podestà di Torcello: “… non godeva buona fama nelle Contrade … Venne accusato di frequentare troppo i Parlatori del Santa Maria della Val Verde e del Santa Caterina di Mazzorbo tenendo stretta amicizia con la Madre Bragadina”.

Quando nel 1689 e ancora nel 1691 il Vescovo di Brescia Cardinale Pietro Ottoboni, futuro Papa Alessandro VIII, fece visita allo stesso Monastero di Mazzorbo, lo trovò ricco d’opere d’Arte dipinte dal Porta Salviati, da Matteo Ponzone e da Paolo Veronese… Tutto pareva a posto, tranquillo e in ordine, e il Vescovo ammirato celebrò una Messa donando alla Badessa Margherita Gradenigo la preziosa Reliquia di San Mario Martire… In quell’occasione vivevano nel Monastero 40 Monache, come confermò poco dopo alla Visita Pastorale Marco Giustiniani Vescovo di Torcello ... e quindi anche di Mazzorbo … Ogni Monaca da Coro del Santa Caterina doveva portare in Dote almeno 8.000 ducati, altri 50 doveva sborsarne per la funzione religiosa dell’Accettazione in Monastero, 150 ducati ancora servivano per la Cerimonia della Vestizione Monacale, altri 150 si dovevano versare alla Badessa all’atto della Professione Religiosadefinitiva e solenne, 150 ducati per “la sagra dopo la Funzione”… 50 ducati si davano come “offerta per le necessità della Chiesa”, e 25 ducati per il rinfresco offerto all’Ingresso definitivo in Monastero ... Pure le putte Nobili “in educazione a spese” portavano al Monastero 10 ducati annuali ciascuna per il proprio mantenimento, ed erano sempre gradite dalle Monache regalie per la Chiesa … come ad esempio: 8 pani di zucchero ad ogni ingresso nel Monastero.

Credo s’intuisca quale doveva essere il tenore di vita, il “ritmo economico”… e interiore … del Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo. Già dal 1400 possedeva antiche affittanze a Col di Mezzo ossia Tre Palade nella Terraferma subito più in là di Torcello … e dal 1439 circa, possedeva come Sant’Arian e San Giovanni di Torcello, e San Maffio di Mazzorbo centinaia di campi di bosco a Musestre e a Meolo nella così detta Zosagna di Sotto del Trevigiano, dove anche Simone Valier, proprietario egemone della zona, deteneva: “campagna magna inculta et vigra”...Ancora verso la fine del 1600 la maggior parte del patrimonio del Santa Caterina si trovava in Terraferma: il Monastero possedeva 216 campi boschivi nel Trevigiano ... a San Civran e a Santa Caterina di Musestre dove era proibitissimo tagliare i Roveri delle Monache in quanto il guardiano era autorizzato dalle stesse ad usare anche lo schioppo contro chi entrava di frodo nei loro boschi ... Inoltre possedeva fin dal 1202 una vigna a Lio Piccolo, e terreni arativi-agrari-prativi con sopra case dominicali, fienili e stalle situati a: Campolongo, Malcontenta, Casale sul Sile, Zero Branco, Borgo Feltrin nel territorio di Noale, Meolo, Marcon e a Musestre dove si litigava con i Conti di Collalto per gli spostamenti arbitrari dei confini delle proprietà.

E non ho finito … Per via di tutta una serie di testamenti e donazioni “piovuti dal Cielo fra 1300 e 1400”, il Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo possedeva ancora 9 case a Venezia delle quali 8 in Calle Zancagna nella Contrada di Santa Fosca a Cannaregio, e una in Calle Lunga a San Felice: tutte date in affitto … anche se gli inquilini come Rosa Venuti, Antonio Carminiani e Innocenzo Bressanin per le case di Santa Fosca, e Angelo Corner per la casa di San Felice erano spesso in ritardo con i pagamenti ... Perfino il Cappellano di San Pietro di Mazzorbo, Antonio Regazzo, venne accusato nel 1798 di non voler pagare l’affitto per la casa di 4 stanze che abitava di proprietà delle Monache del Santa Caterina di Mazzorbo ... Le questioni dei debiti degli affittuari si trascinarono per ben 22 anni fino a metà del 1700, quando il Monastero fu costretto a richiedere pubbliche sovvenzioni perché i muri degli edifici e le fondamenta dell’isola si sfaldavano cadendo in acqua … “ed era sempre tutto un litigare e contendere del Monastero con Avvocati e Processi”: contro Carlo Zaniol affittuale della vigna di Lio Piccolo ... e contro le Monache del Sant’Eufemia di Mazzorboche di notte spostavano “la spinada di confine” fra le loro terre e quelle del Santa Caterina.

Arrivato il tristo 1806, all’atto della sua definitiva soppressione, il Monastero di Santa Caterina avanzava pagamenti per lire 4.805,9 dagli affittuari insolventi di Venezia, Domenico Pavan era debitore per un terreno e beni a Casale, come Francesco Barban, Pietro Potente e Pietro Zago per i bei a Zero Branco, Girolamo Biasetto per beni nel Trevigiano, e Francesco Argentin per un terreno a Campolongo ... Oltre alle case di Venezia, il Santa Caterina era proprietario anche di un pezzo di squero in Contrada di San Bortolomio di Mazzorbo confinante con una vigna del vicino Monastero di Sant’Eufemia, un appezzamento di terra con un casino da caccia, una casa con vigna nella vicina zona di Santa Maria di Valverde sempre a Mazzorbo, e tre caxette presso la Pieve di San Pietro di Mazzorbo.

Inutilmente al momento della chiusura del Monastero, Giovanni Mattio Balbi Procuratore delle Monache provò ad affermare che le Monache erano pronte ad accogliere altre comunità: “… il Monastero situato sulla punta dell’isola, assicura ai naviganti un asilo e un ricovero assai opportuno nel passaggio di un canale burrascoso.” Le Monache non volevano trasferirsi a Torcello: “… luogo peggiore di quei contorni per l’aria insalubre che vi si respira, e per le paludi che da ogni parte lo circondano.”
Il Monastero di Santa Caterina era, invece: “… ampio, spazioso, disposto su tre piani, con Infermaria, Refettorio e cucina, e possedeva 24 camere, la Spezieria e l’Archivio, ed altre belle stanze usate per la Badessa, e capaci di ospitare almeno altre cinque Monache ... Di sotto esistevano tre cortili selciati in cotto, e quattro chiostri col proprio pozzo interno ... Accanto al Monastero c’era un orto non molto grande, due magazzini per le merci, una cantina e una cavana, e sebbene possedesse mobili vecchi e privi di valore, e l’aria intorno fosse pesante e le acque paludose e piene d’insetti fastidiosi, il Monastero si trovava comunque in zona di grande passaggio per via del vicino canale, e in luogo protetto dai venti freddi avendo di fronte il Convento delle Cappuccine.”



Santa Maria delle Grazie o del Pianto delle Cappuccine di Mazzorbo era una chiesetta con Conventino di Monache non molto fortunati … Era stata costruita forse come ennesimo ex-voto locale per la liberazione dalle ricorrenti Pestilenze della Laguna … veniva chiamata: “Santa Maria di Mazzorbo”… e nel 1651 venne data in custodia a un Eremita Napoletano, che partito la concesse ad un Sacerdote Trentino, che a sua volta la passò a un altro Eremita Veneziano… che miseria ! … Le Monache col loro Convento passavano di mano in mano come un pacco postale.
Qualcuno diceva la chiesetta fondata nel 1610 … altri nel 1689 ossia quando in realtà era già passata di mano in mano parecchie volta … C’era un po’ di confusione, insomma … Nel 1689 la Comunità di Mazzorbo diede tutto a due sorelle: Elisabetta e Francesca Coi da Brescia che abbellirono la chiesetta e vi raccolsero fino a 30 Monache che seguivano la Regola delle Francescane Cappuccine con estremo rigore ... Le cronache locali raccontano che la chiesetta veniva visitata ogni anno processionalmente dal Comune nel giorno di San Rocco per far memoria dell’antica quanto recente liberazione della Peste.
Il Gradenigo nei suoi “Notatori”scriveva nel maggio 1757: “Solenne consacrazione adempita da Nicolò Antonio Giustinian Vescovo di Torcello della piccola e devota chiesa di Santa Maria delle Grazie di Mazzorbo officiata dalle Reverende Madri Cappuccine ivi esistenti.”

Nel 1806 quando venne soppresso, il piccolo Conventino ospitava 20 donne fra Monache Coriste (de riguardo) e Monache Converse (da scàfa):“… sparsasi la voce a funestare il religioso nostro ritiro che avessimo noi ad essere traslocate nel Monastero di Santa Chiara di Murano … esse Clarisse e noi Cappuccine, il più angoscioso cordoglio assalì questa religiosa comunità.”  Le Monache inconsapevoli dei tempi, della situazione socio-politica, e degli avvenimenti in corso s’impuntavano di rimanere a Mazzorbo non volendo lasciare il loro Monastero … Al massimo si dichiaravano disponibili ad ospitare altre Monache, che però avessero “Regola e maniere simili”.

Risultato ? Vennero trasferite “di peso” nel Monastero di Ognissanti a Venezia nel Sestiere di Dorsoduro, e il Monastero di Mazzorbo venne concesso alle Cappuccine Concette di Santa Maria di Castello demolito del tutto per costruire i Giardinetti Pubblici di Venezia.
Le Cappuccine delle Grazie di Mazzorbo allora: “… protestarono veementemente alzando la voce sulla pubblica piazza, con gran clamore contro quel sopruso che era stato loro impunemente imposto dal nuovo Governo Francese.”

Nuovo risultato ?

Venne sciolto l’intero Convento, e le Monache furono buttate in strada e rimandate ciascuna a casa propria e dai loro parenti … Delicatissimi i Francesi !

Tornando ancora al Monastero di Santa Caterina che stava di fronte, lì fu tutto un discutere inutile, perché nello stesso luglio 1806 i Francesi cacciarono le 24 Monache rimaste mandandole da quelle di San Giovanni Evangelista di Torcello, e diedero inizio alla demolizione parziale del Monastero … nel gennaio 1815: “una vigna di sei pezzi con casa nell’isola di Santa Caterina affittata a Tagliapietra Giacomo Angelo e Gianantonio già data all’Amministrazione del Lotto fu messa nella Lista delle vigne, orti e beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti”.

Nel 1830 il niente che era rimasto del Santa Caterina venne accorpato a San Michele Arcangelo di Mazzorbo e dato in gestione a un unico Prete che celebrava 2 Messe Perpetue, 2 Anniversari per i Morti, 5 Matrimoni, 38 Battesimi, 13 Cresime e 35 Funerali ... l’unico Oratorio Pubblico rimasto (San Bartolomio ?) venne chiuso perché cadente col suo Economo Spirituale che abitava a Venezia nella Contrada di San Silvestro percependo ugualmente 700 Franchi … Gli abitanti dell’intera isola di Mazzorbo erano 124 distribuiti in 21 famiglie dislocate in 38 case … Non c’era alcuna scuola, e una sola ragazza si recava a “leggere e scrivere” a Burano, mentre il Parroco dava sporadiche lezioni ai ragazzi Mazzorbesi auspicando l’apertura di una Scuola Comunale.

Se le Monache del Santa Caterina a “conti fatti” non erano Sante, quelle di San Maffio e Sant’Eufemia di Mazzorbo non erano di certo Beate e da meno … Durante tutto il 1500 il Monastero di Sant’Eufemia aveva accumulato ingenti rendite e ricchezze mettendo insieme le pertinenze dell’antico Convento di Sant’Angelo di Ammiana o di Nani andato perduto, i beni dell’isola di Santa Cristina, e quelli della Terraferma situati in Mogliano e Marcon dove il Sant’Eufemia possedeva 8 campi affittati al NobilHomo Pietro Grittiprima di venderli al NobilHomo Antonio Bernardo.
Oltre a tutto questo, le 26 Nobili Monache del Monastero di Sant’Eufemia di Mazzorbo possedevano una vigna affittata a Mazzorbo, diverse case a Murano affittate a diversi debitori come Antonio Dal Gallo denunciati puntualmente al Magistrato Sopra ai Monasteri e al Proveditor… inoltre: diversi capitali depositati in Zecca a Venezia, e diverse Mansionarie di Messe pagate a proprio favore. Il Monastero pagava vari Medici e conti per medicinali, intraprendeva notevoli spese per restaurare il Convento e la Fabbrica della Chiesa, pagava 25 ducati annui per le Feste e per far confezionare ricchi paramenti ed altro ... Anche il Sant’Eufemia s’impegnò senza fine in diverse cause legali come quella contro Vincenzo Monticano, o come quella col NobilHomo Balbi per la Professione di sua sorella, o quella contro Baron Baroni Gritti Livellario per 500 ducati da lire 6 ... e debitore delle Monache.

E poi eravamo alle solite … Pure nel Sant’Eufemia nel gennaio 1659 si tenne un processo: “per fuochi d'artificio e balli di donne fatte venire da Venezia nel cortile del Monastero per opera di 4 secolari” ... L’anno seguente: “si denunciarono il Podestà ed altri, per pranzi, cene entro e fuori del Monastero, coll'Abbadessa e con due Monache Converse”… Pure nell’aprile 1681 si tenne un altro processo “per frequenza nei Parlatori del Monastero di un Patrizio di Venezia” ... e dieci anni dopo se ne tenne ancora un altro: “per commercio carnale con parto di una donna e pericoli di veleni, con un Patrizio ed altri”… Nel 1682 e ancora nel 1699 i Vescovi di Torcello Jacopo Vianoli e Marco Giustiniani tornarono a buttare l’occhio preoccupatissimi e attenti sulla situazione delle Monache.

E basta con queste storie ! … Invece, durante tutto il 1700 “la musica”non cambiò.

Il Monastero era tutto un processo contro questo e contro quello con un dispendio enorme di energie e risorse: contro il NobilHomo Francesco Raspi per l’adempimento della Mansionaria disposta a favore del Monastero dalla defunta Angelica De Santi… contro la Contessa NobilDonna Elena Zini Rusteghello… e contro Beltramelli Leonardo, contro il Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo accusato di ingrandirsi l’orto spostando “il confine della spinada”, contro Zasso Antonio per i beni e i titoli di proprietà situati in Terzo sulla Terraferma … E c’era anche tutto un trafficare di soldi e capitali delle Monache versati in Zecca a Venezia: c’erano Livelli Affrancabili a debito del Monastero e a credito dell’Arte dei Pistori di Venezia … un capitale di lire 387,12 investito nel Deposito Nuovissimo a debito del Monastero e a credito dell’Arte dei Luganegheri… varie “partite di capitali” dovuti dal Monastero a privati … un capitale di ducati 1.000 a debito del Monastero e a credito di Lombardo Giovanni ... e molto altro ancora.

Prima ancora che arrivassero i Francesi a indemaniare tutto, nel settembre 1768 ci pensò il Senatodella Serenissima a sopprimere il Monastero di Sant’Eufemia di Mazzorbo passandolo ad uso militare. Le Monache vennero concentrate con quelle di Sant’Antonio di Torcello.



Poco distante, all’estremità ovest del gruppetto delle isolette di Mazzorbo, era situato, invece, il Monastero delle Monache Cistercensi di San Matteo o Maffeo o Maffio e Santa Margherita di Mazzorbo di Regola Benedettina. S’era trasferito lì dall’isola diventata inabitabile di Costanziaco dove si trovava un tempo, e s’era sistemato in alcune case prese in affitto dal Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello di fronte alla chiesa Pievanale di San Pietro dall’altra parte del canale, in attesa di poter costruire un nuovo Monastero bello e spazioso … cosa che accadde in seguito.
Quel trasferimento di Monastero da un’isola all’altra non fu però affatto indolore, perché il Vescovo di Torcello: “s’inquietò non poco per non essere stato interpellato”, e preso da rabbia aveva scomunicato tutte le Monache, la Badessa, e anche il Procuratore del Monastero: il Nobilissimo e Devotissimo Matteo Viaro… Nel novembre 1297 a Rialto presso il Notaio Jacobus Donusdeo Prete e Canonico di San Marco: Nicola figlio del defunto Pietro Viaro del Confinio di San Maurizio aveva fatto testamento. I Viaro s’erano arricchiti col commercio, e avevano possedimenti fin nella Marca Trevigiana. Pietro Viaro nominò suoi esecutori testamentari: Ziburgasua madre dallo stesso Confinio Veneziano, Filippa Badessa di San Maffio di Costanziaco ora di Mazzorbo, e Matteo Viaro suo fratello dello stesso Confinio di San Maurizio.
A Matteo lasciò i mulini di famiglia e metà della “Casa Grande del Casato”; ad Agnese Vitturi sua zia lasciò dei Legati in denaro, come a Marco Viaro suo zio e a Cristina sua figlia e ad altri privati. Al Monastero di San Maffio di Mazzorbo lasciò, invece, lire 600 di Denari Veneti di Piccoli per provvedere al pagamento della terra sui cui il Monastero doveva essere edificato ... Infine, lasciò alla chiesa di San Maurizio un calice d’argento del valore di soldi 20 di Denari Veneti di Grossi, e altre donazioni alle Congregazioni di Rialto…  Le Monache di San Maffeo di Mazzorbo scomunicate fecero ricorso a Pietro Patriarca di Costantinopoli e ad Egidio Patriarca di Grado e Primate di Dalmazia, e riuscirono così ad ottenere l’assoluzione e il perdono del Vescovo Alirone da Torcello che andò a mettere e benedire la prima pietra del loro nuovo Monastero ... però solo dopo avergli pagato una multa di lire 5 e ½ in Denaro Veneto.

In quegli stessi anni Giovanni Da Mosto del Confinio di Santi Apostoli pagava canone annuo di fitto su alcune terre site a Mazzorbo e locate dal Monastero di San Mattio che possedeva oltre alle rendite provenienti dalle isole e Monasteri sommersi di Sant’Andrea di Ammiana e San Adriano di Costanziaco, anche altre proprietà a Bocca di Musestre per le quali esigeva un censo in frumento, e grosse porzioni terriere in Terzo“sul bordo della gronda Lagunare”insieme a 70 campi di palude e barene atti a pesca e caccia in Laguna.

Le Monache di San Maffio di Mazzorbo avevano un bel caratterino: sapevano difendersi bene, e facevano valere la loro posizione: nel 1301 il Cistercense Enrico Abate di Brondolodopo aver visitato Torcello, pretendeva dalle Monache di San Maffio di venire condotto in barca a visitare l’isola della Canonica di San Giacomo in Paludo a metà strada fra Mazzorbo e Venezia. Le Monache si rifiutarono: “… e che siamo noi ? Le sue barcarole ?” avranno detto.
Vennero subito interdette ed espulse dall’Ordine Cistercense della Colomba a cui appartenevano ... Le Monache però non si scomposero, e si appellarono immediatamente al Papa Bonifacio VIII cercando aiuto … il quale rispose solo dopo 40 anni (?)reintegrando le Monache nello stesso Ordine ... Palesemente schierato dalla parte delle Monache, era, invece, Angelo I Dolfin Nobile Veneziano e Vescovo di Castello che concesse ampie indulgenze a chiunque offrisse generose elemosine “per la povera chiesa e il Pio Monastero di San Mattio di Mazzorbo”.

Nel 1382 le Monache del San Mattio deposero la Badessa Cecilia Barbaro sostituendola con Elisabetta Steno ... Immediatamente il Patrizio Donato Barbaro parente di Cecilia andò a prelevare di forza la Steno riportandola a Venezia … e rimise al suo posto la nipote … Allora si costumava così … era quasi normale.
Nel gennaio 1442, Carlo molendinarius del Monasterodi San Mattio di Mazzorbo venne condannato a 2 anni di carcere e 200 lire di multa per aver avuto rapporti carnali con la Monaca Cassandra Badessa del Monastero ... Il giorno dopo si condannarono anche il Nobile Andrea Barbo per aver avuto rapporti con Suor Magdalucia Morosini dello stesso Convento … e il Nobile Nicolò Da Molin e Angelo Della Porta per rapporti con Suor Franceschina Morosini… Nel marzo di due anni dopo fu il turno di venir condannato anche del Nobile Ludovico Morosini a cui s’imposero 2 anni di carcere inferiore e 100 lire di multa per essere colpevole d’inonestà con Suor Morosina Morosini ... Tremende ! … e non solo … le Nobili Sorelle Morosini Monache di Mazzorbo !

Nel 1564 le Monache di San Maffio di Mazzorbo notificarono ai Sopraintendenti alle Decime del Clerodi possedere 24 case in Contrada di San Maurizio a Venezia, vicino alla “Casa Nova” del magnifico Marco Zorzi Corner. Ne possedevano anche altre al Ponte di Ca' Malatin, e altre ancora in Campo San Mauritiocomperate nel 1320 dalla stessa Plebania di San Maurizio(le medesime case furono restaurate dal Monastero di San Mattio di Mazzorbo ancora nel 1762 sotto la Badessa Marianna Manzoni… a distanza di 4 secoli ½ ).

Nello stesso 1564, quando le Monache spesero ben 20 ducati “per un disnàr obbligatorio con i Confratelli della Schola di Santa Margherita”, nacque un putiferio durante la Visita del Patriarca Trevisan al Monastero. Suor Brodata Minio protestò aspramente: “… circa l’obbedienza che vien data all’Abbadessa la ghene ha pocha et malissime da quelle zovene.” … Fu poi il turno di Suor Paola di Albori che accusò altre due Monache apostate: “… ha trattà l’Abbadessa come fusse sta una massara et non una gentildonna.”...Suor Andriana Basaldonna aggiunse: “… la è obedida tanto quanto la sa comandar ma povereta non la sa comandar, et la ze poco obedida.” … le Monache riferirono inoltre che “… non si manza più in Parlatorio…”
Non era solo uno sfogo, perché era accaduto di peggio … Le Monache del San Maffio avevano infatti inviato una lettera ai Provveditori Sopra ai Monasteri in cui si opponevano al ritorno in San Maffio di Suor Giustina Corner e di sua sorella espulse in precedenza per il loro comportamento immorale e spudorato: “Clarissimi et illustrissimi Signori …” scrivevano, “Se dalla sua bona Giustizia noi povere et infelici Monache Osservanti di San Maffio di Mazzorbo non saremo suffragate senza dubbio al nostro Monasterio, che per tanti e tanti anni è passato senza alcun scrupolo de infamia, hora serà fatto vergogna del mondo et questo per causa di due scelleratissime sorelle Catharina et Giustina Corner, la qual Catharina parturì già una creatura nel nostro Monasterio con grave scandalo di tutte le bone Religiose, el qual così grave eccesso passò impunito per la potentia di favori de grandi i quali ingannando il nostro Capitolo con un brieve falso la fecero assolver, siccome è notissimo.
Donde nacque da poi che Giustina sua sorella cascò nell’istesso errore, la qual conosciuta gravida fu manata fuori del nostro Monasterio con l’autorità del Capitolo nostro et Superiori, havendo fatto sapere tutti questi successi al Reverendissimo nostro Patriarca all’hora esistente in Trento.
Il quale comise al suo Reverendo Vicario per mandato espresso et intimato a noi, che per niun modo la detta Giustina fosse accettata nel nostro Monasterio, come era giusto et conveniente. Nondimeno per la sua sfrenata audacia ardisce con i soliti favori di voler entrare nel nostro Monasterio. Per la qual cosa noi tutte, prostrate alli suoi piedi piene di lacrime, humilmente per viscera jesu Christi le pregamo che per Giustizia et per honor di questa bene istituita Republica non sia dato occasione (col lassar entrar questa) alle altre del nostro et delli altri Monasteri di questa città di cascar in simili errori contra l’honor di Dio et scandalo del mondo.”

I Provveditori accettarono la proposta delle Monache, e il Patriarca“aggiunse del suo” perché diede ordine di riaccogliere le Monache nel Monastero per carcerarle lì dentro per qualche anno.

Nel luglio 1575, quando le Regole del Monastero di San Maffio di Mazzorbo prevedevano che il giorno in cui una Monaca prendeva i Voti definitivi si doveva presentare al Confessore del Monastero con 6 regali: un paio di colombe bianche vive dentro un cesto pieno di profumati garofani; una scatoletta contenente quattro collari da uomo; un Agnus Dei o Messale rilegato in raso cremisi e ricamato in oro; un cesto di biscotti; un paio di polli e un dolce di marzapane accompagnato da 6 fazzoletti ... si avviò un’indagine su Alvise Bollani e Simon Donà che tenevano pratiche illecite con Suor Caterina Corner… Ancora lei ? … quella del 1564 ? … il carcere nel Monastero non le era servito a niente.

Nell’agosto 1614 si avviò un nuovo processo: “per le visite frequenti di un Frate effettuate in San Mattio di Mazzorbo e anche al San Rocco e Margherita e al Santa Chiara in Venezia”... Tre anni dopo, i partecipanti a una festa di nozze fecero visita al Monastero di San Mattio in piena notte, e dopo aver lì cenato vennero convocati dai Provveditori. Fra loro c’era Nicolò Cressi incorreggibile frequentatore di Parlatori di Monache presente a San Maffio proprio nel giorno in cui era appena stato rilasciato dalla prigione. La visita aveva compreso anche una sosta al Monastero di San Sepolcro che stava sul Molo di San Marco a Venezia, e anche un’altra in un Monastero di Murano.
Nell’aprile dell’anno seguente, pervenne alla Serenissima una segnalazione-supplica urgentissima da parte delle Monache di San Maffio di Mazzorbo: “… era d’uopo considerare urgentemente le cause per le quali il mal d’aere possi aver preso tanta forza … che in pochi giorni habbi cagionato la morte di otto d’esse Reverende Monache…”. In verità più che di “male arie” si pensava che ci fossero stati degli avvelenamenti fra le Monache … I periti Giovanni Alessandro Galesi, Tommaso Contin e Camillo Guberni inviati subito sul posto dalla Serenissima individuarono la causa di tante morti. Non si trattava di “male arie”, ma di “male acque dolci” portate in Laguna dal flusso dei fiumi Marzenego, Dese, Zero e Sile ... le Monache le avevano bevute, ed essendo acque tossiche e inquinate … divennero mortali.

Ma che ci buttavano e scaricavano nei fiumi già da allora ?

Nonostante tutto, nel 1620, poco prima della grande Peste che affossò Venezia e i Veneziani, alcune Nobili Famiglie Veneziane: Grimani, Falier e Genova presentarono una petizione a Romachiedendo che ad altre delle proprie figlie venisse concesso di poter entrare come Monache in San Maffio di Mazzorbo pur avendo già nel Monastero altri parenti. C’erano: Marietta Grimani, Lucrezia Falier e Federica Genova da sistemare … e il Monastero di San Maffio di Mazzorbo dove ciascuna aveva già altre 2 sorelle, era uno di quelli che in giro per Venezia si diceva:“andasse per la maggiore e tirava su parecchio”.

Nell’ottobre 1642 avvenne ultimo processo per “Frequenti visite di un secolare al Monastero di San Maffio di Mazzorbo” ... Per vent’anni, dal 1766 al 1788, Bonaventura Furlanetto celebre compositore Veneziano musicò diverse Cerimonie di Vestizione di Nobili Monachedel San Mattio … Infine giunse la soppressione napoleonica del 1806, quando le 26 Monache Cistercensi vennero portate via e trasportate nel Monastero di Santa Maria della Celestia di Castello. Dal Monastero si asportarono molte opere di pittura e scultura; il Delegato della Corona elencò 92 dipinti e 14 sculture in terracotta e legno di cui si persero completamente le tracce ... In chiesa c’erano quattro tavole dell’Ingoli: una “Sant’Elena in ginocchio che tiene la Croce con alcuni puttini in aria”, una “Visita di Santa Elisabetta”, un “San Girolamo con San Carlo e una Santa Badessa”, e una “Santa Margherita con la sua decollazione vista da lontano” ... Il Boschini ricordava nelle sue “Minère dell’Arte Veneziana” che: “… sull’Altar Maggiore c’era una tavola con vari Santi, una Monaca e tre Angioletti che suonano, attribuita dal alla Scuola del Vivarini”… Tutto è scomparso !



Nel novembre di due anni dopo la ditta Fratelli Pigazzi acquistò per lire 392 in tutto gli organi e le cantorie di San Domenico di Castello, di San Vito e Modesto di Burano, di San Marco e Andrea di Murano, e di San Maffio di Mazzorbo ... mentre nel gennaio 1815:“… una casa che era ad uso di foresteria appartenente al Monastero di San Maffio al n° 22 di Mazzorbo era nella Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti”… Il Monastero di Mazzorbo divenne prima caserma militare e poi venne demolito per costruire un canale detto di Santa Margherita… dove ora tutto è scomparso ovviamente.

I Monasteri di Mazzorbo, come avete ben capito, facevano quasi a gara fra loro e con quelli di Murano e Venezia “su chi la combinava più grossa, più grave e più stramba”.

Nel 1777 secondo la cronaca del Formaleoni: “… a Mazzorbo nella Podesteria di Torcello dove un tempo c’erano 5 parrocchie, ora ne rimangono solo due: San Pietro e Sant’Angelo con quattro Monasteri di Monache e un Ritiro di Romite che sono la miglior parte della popolazione di 250 Anime dell’isola ... Il Podestà di Torcello si porta lì una volta al mese per giudicare le frequenti liti degli abitanti.”… che continuavano ancora dopo secoli.
Quando nel gennaio 1806 ritornarono le truppe Francesi in Laguna, si divise il Dipartimento dell’Adriaticoin 34 Comuni suddivisi in 3 Distretti alle dipendenze del Prefetto di Venezia: Venezia, Chioggia e Burano. Il Distretto di Burano comprendeva 16 Comuni, fra cui Burano stesso: Comune di 2 classe con 8.000 abitanti, Torcello: Comune di 3 classe con 200 abitanti, e Mazzorbo: Comune di 3 classe con 267 abitanti.

Ancora nel 1924 il Comune di Burano contava 9.574 abitanti di cui 5.252 nel capoluogo, 1.841 a Treporti, 1.592 al Cavallino, 288 a Lio Piccolo, 142 a Mesole, 150 a Torcello, 29 a Santa Cristina, 16 a Montiròn, 9 alla Cura, 211 a Mazzorbo, 22 a San Francesco del Desertoe 22 nelle Valli Dogado-Grassabò e Ca’ de Riva.

Nel 1936 andarono a rifugiarsi nelle Casermette e nel Forte di Mazzorbo gli sfollati di un’epidemia sorta a Burano nella zona Spagnera-Cavannella dove … sfortuna nella sfortuna … per lo scoppio di un reperto bellico bruciò tutto.

Nel 1960 nei pressi del Canale di Mazzorbo esisteva una stazione sperimentale di coniglicoltura ora dismessa … nel 1981 il Comune di Venezia ha dato in concessione agli Scout dell’AGESCI il Forte abbandonato di Mazzorbetto parte integrante con 6 bocche da fuoco della Linea Difensiva Austriaca che proteggeva il settore Nord-Est lagunare, le Valli da pesca e le foci del Sile e del Piave. Il Forte venne costruito dopo la demolizione del Monastero di Sant’Eufemia utilizzando l’area dell’antico chiostro come piazza d’armi. Durante la ritirata di Caporetto del 1917 si sparò di precisione con le artiglierie di Mazzorbetto su San Donà di Piave e sul Porto di Cortellazzo a molti chilometri di distanza.… e nel 1991 nella zona Mazzorbo-Torcello si contavano: 19 aziende agricole con 175,26 giornate lavorative medie annuali.

Pensate che vi ho detto ormai tutto su Maiurbium ? … Invece no !

Non posso terminare di dire su Mazzorbo tralasciando di raccontarvi del Monastero di Santa Maria Vergine in Valverde e di San Leonardo Confessore detto comunemente “La Valverde de Mazorbo”.  
Venne istituito alla fine del 1281 in un fondo abbandonato di Mazzorbo donato da Egidio Galucci Vescovo di Torcello a tre Monache Cistercensi in fuga dal Santa Caterina di Chioggia. Di quel complesso monastico rimane oggi solo quel campaniletto solitario in fondo a Mazzorbo visibile andando verso Burano.
Nel 1302 confluirono alla Valverdeanche le poche Monache rimaste nell’isola ormai quasi sommersa di San Adriano di Costanziaco che proposero la loro Badessa Tommasina Morosinicome guida di tutte le Monache unificate. Fu nel 1333, con l’avvento della nuova Badessa proveniente dal Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello che le Cistercensi della Valverde divennero di Regola Benedettina.

Nel novembre 1508 si condannò il “monachino” Fabrizio Succi: “… per essere entrato più e più volte in Convento avendo avuto copula carnale e disonesto commercio con Suor Cecilia Baffo”... e questa fu una storia ... Qualche anno dopo, nel dicembre 1515, si pervenne alla condanna di 6 mesi di carcere e 100 ducati di multa per Alvise Agostinus “telarolus et monachinus” colpevole di sacrilegio col le Monache della Valverde ... Nel 1539 Cornelio Pesaro Vescovo di Zara provò a risanare “il buon nome” della Valverde donando alle Monache una preziosissima quanto Santa Reliquia di San Leonardo, perciò fu giocoforza che si aggiungesse quel titolo al nome del Monastero ... ma fu tutto inutile: niente da fare. Certe Monache si comportavano come prima, il loro “Modus vivendi” era quello, e la società di quei tempi funzionava così.

Fra aprile e luglio 1658, infatti, trascorsi ormai gli anni scabrosissimi della “Peste Granda”, si tennero diversi processi che interessarono le Monache della Valverde… e non solo. Se ne tenne uno “Per visite di foresti e di un Patrizio nei Monasteri” ... Poi accadde che tre abitanti di Burano venissero denunciati per essersi recati in una notte al chiaro di luna nel Campo di San Vito a Burano, e dopo essersi messi nudi davanti al Monastero avevano fatto chiasso in faccia alle Monache formando anche un fantoccio di paglia lasciato fino al giorno successivo col membro dipinto e un campanello attaccato che le Monache tiravano e facevano suonare per tutta la notte ... Contemporaneamente si denunciò anche Alban Minio Buranello ma residente nella Contrada di San Cancian a Venezia, per avere troppe amicizie sospette coi Monasteri di Burano, Mazzorbo e Torcello in particolare con una Monaca della Valverde: Suor Degnamerita Donato. Costui era recidivo, perché in precedenza era già stato denunciato insieme a Prete Domenico suo fratello, e a Bernardino Zane Caporione di Buranoche fu assolto presentando falsi testimoni. Solo in seguito lo stesso Bernardino Zane venne bandito dal Consiglio dei Dieci da tutti i territori della Serenissima e dal suo Dominio per aver ingravidato una Monaca del San Vito di Burano … e venne bandito pure Domenico Minio che era solito andare di notte nei Monasteri di San Mauro di Burano e di Santa Caterina di Mazzorbo dove “ne combinava di cotte e di crude e di tutti i colori”. Era andato nei Monasteri a Carnevale a cantare e suonare, aveva portato fuori dalla Valverde Suor Degnamerito che era poi morta di parto. Inizialmente s’era condannato erroneamente il solo Nobile Zuanne Raimondo, che però non era l’unico colpevole, ma alla fine si scoprì anche Minio al quale oltre al bando si comminarono anche 3 anni di carcere severo.

Come non bastasse, nell’agosto 1670 si tenne un ulteriore processo per “Ruffiani in Convento” tre anni dopo ce ne fu un altro per “Visite frequenti di un Prete al Santa Caterina e alla ValVerde di Mazzorbo”.

Nel settembre 1682 Jacopo Vianoli Vescovo di Torcello passò in Visita Pastorale per dare un’occhiata e una controllatina, così come nell’ottobre 1699 tornò di nuovo anche il Vescovo Marco Giustiniani che passò in rassegna il Refettorio, i Parlatoi, le Celle, il Noviziato e perfino gli orti e tutta l’area coltivata: ... era tutto a posto, in regola e ancora una volta tranquillo. Non c’era niente di anomalo da costatare … eccetto il fatto che i muri portanti degli edifici stavano crollando in acqua sempre di più … Nel 1754, infatti, un documento dell’epoca dichiarò gli edifici della Valverde: “quasi inservibili”… Si era però verso la fine della “Storia delle Storie di Mazzorbo”, perché nel 1768 il Monastero venne soppresso per decreto del Senato della Serenissima, e le Monache unificate con quelle del Santa Caterina di Mazzorbo.
Vent’anni dopo tuttavia, i Provveditori informavano il Doge che la Valverde di Mazzorbo pur avendo speso 1.200 ducati per restaurare le mura perimetrali, era indebitato per almeno 10.700 ducati per le spese di mantenimento delle Monache … Ce ne mettevano però di tempo le Monache della Valverde a traslocare e ad andare con le altre del Santa Caterina !

Poi tutto e tutti, come sapete bene, caddero insieme a tutta la Repubblica Serenissima, e la devastazione fu grande ovunque … Nel febbraio 1834 venne richiesta una stima per acquistare le pietre del solo campanile rimasto di quel che era stata la Valverde venduta ormai da tempo al Comune di Burano per usarlo come Cimitero.

Altro che isolette sperse in fondo alla Laguna ! … Con tutti quegli andirivieni e quegli intrallazzi Mazzorbo pareva una moderna e caotica metropoli.



Poco distante dalla Valverde, sorgeva anche San Michele Arcangelo o Sant’Anzolo de Mazzorbo che spendeva nel 1564: lire 6 e soldi 4 l’anno per le spese della chiesa, ossia: “ostie, concieri per le feste, per il sepolcro, per battizar la crose et altro che ocorre ala zornada” ...  alla Visita del Vescovo di Torcello Grimani la Parrocchia contava 200 anime nel 1591.
Anche Sant’Anzolo di Mazzorboera prestigioso e antico, oltre che ricco … Alla fine del 1237 sotto ai soliti portici di Rialto: Nicola fratello del defunto Ragusi figli di Grifo da Costanziaco, e sua sorella Costantina moglie di Giovanni Berengodel Confinio di Sant’Angelo di Mazzorbo vendettero a Umiltà Badessa di San Maffio dell’isola di Costanziaco una casa e una terra sita nella stessa isola, e una vigna per lire 125 di Denari Veneti. L’appezzamento di terra e la casa confinavano con San Maffio e una Calle di 4 piedi verso il Rio; mentre la vigna confinava col canale, la palude, San Maffio e il Rio del Rovere ... Tre anni dopo, sempre a Rialto: Leonardo Donà del Confinio di Sant’Angelo di Mazzorbo vendeva a Marino Bon da Costanziaco un’altra casa con terra sita nel Confinio di Santa Maria di Torcelloper lire 45 di Denari Veneti. Questa volta l’appezzamento confinava con la Calle Comune lungo il Rio e con le proprietà di Zeto, di Filippavedova di Liberale Barello, e di Mariotta Mauro ... Nel gennaio 1265, invece, ancora a Rialto davanti al Notaio Benedicutus Manfredus Prete di San Pauli(ossia San Polo):Giacomo Narissi del Confinio di Sant’Angelo di Mazzorbo cedeva per soldi 5 di Denari Grossi al Prete Nicola Marango del Confinio di San Pietro di Mazzorbo una terra sita nel detto Confinio di Sant’Angelo… era tutto così: Mazzorbo era un posto vivissimo, attivo e fibrillante, non come le placide, bucoliche e silenziose rive e campi che si possono notare oggi.

Durante una delle tante Visite Pastorali successive, quella di Marco Giustiniani del 1699: la chiesa di Sant’Anzolo di Mazzorbo si presentava a tre navate divise da colonne, con Coro ligneo e Abside Maggiore con altare separato dal resto della chiesa, e “telèro in vari comparti dipinto dal Vivarini”… dal 1748 al 1805 in Sant’Arcangelo di Mazzorbo fu attiva anche una Schola della Beata Vergine  della Salute ... mentre nel 1747: “una Confraternita di Pii Veneziani devoti a San Michele salvò la chiesa dalla distruzione risarcendola e sostenendola”… In precedenza il Monastero aveva chiesto come tutti gli altri pubbliche sovvenzioni per lo sfaldarsi dei muri perimetrali e delle fondazioni dell’isola. “Tutto sta andando in acqua !”, si scriveva allarmati al Pubblico. Il Proto Giovanni Scalfarotto andò subito a controllare l’edificio e relazionò alla Serenissima: “… Sant’Anzolo sussiste si può dire per miracolo, vedendosi cadente le muraglie et rotti e pontollati li suoi coperti …”

Mentre stava accadendo il devastante tornado napoleonico-austriaco, nel giugno 1811, Don Luigi Pisani era Piovano di San Michele Arcangelo di Mazzorbo… la popolazione era diminuita fino a 150 Anime, e il Prete si lamentava di poter usufruire per vivere di sole lire 323,24 provenienti da Livelli e Redditi di Stola e dalle magre rendite concesse dal Ministro per il Culto dopo aver soppresso le chiese di San Pietro e San Bartolomeo di Mazzorbo unificandole con Sant’Anzolo.

Risposta alle lamentele ? … Nessuna: “Che s’accontentasse d’aver ancora una chiesa aperta !”… Alla fine del marzo 1825 un documento dell’epoca ricordava il crollo della Cappella Maggiore dell’Anzolo de Mazzorbo … “perciò si dovette procedere alla totale demolizione di tutto”.

C’era infine anche San Pietro Apostolo di Mazzorbo che un tempo era il Duomo dell’intera isola di Mazzorbo … si diceva costruito con materiali preziosi portati da Altino, e con San Bartolomeo era una delle 2 Pievi della parte orientale dell’isola. Dopo qualche tempo, San Piero incluse San Bortolomio ridotto a cadente Oratorio, infine ridusse anche se stessa a: “… luogo povero e disadorno in attesa di soppressione con un portico di poche colonne di marmo greco davanti, e una palla d’argento dorato all’interno dove sull’Altar Maggiore c’era una tavola con “San Pietro e San Paolo” di Pietro Ricci, e un altro altare di Santa Margherita con una tavola di Francesco Ruschi con: “Nostra Donna e San Nicolào, San Bartolomìo e Santa Margarita”.

Già nel 1207 San Pietro secondo antichi documenti era la chiesa Matrice delle isole circumvicine. In quell’epoca lontana venne fatta una donazione al Piovano di alcune “acque” vicine alla chiesa. Una delle tradizioni antiche delle Lagune voleva che proprio in San Piero de Maiurbo avessero predicato San Francesco d’Assisi e Sant’Antonio da Padova. In quei secoli quindi la Pieve Mazzorbese era rinomatissima.

Nel febbraio 1216 a Torcello: Orio Lando Prete e Piovano di San Piero de Mazorbo vendeva per lire 29 di Denari Veneti a Vitale Ianasi dallo stesso Confinio una terra con casa di legno confinante col canale, la palude, e le proprietà di Domenico Da Canal e Leonardo Damiano, di proprietà della chiesa di San Piero ... nel giugno 1235, invece, sotto ai Portici di Rialto: Simone Bon del Confinio di San Pietro di Mazzorbo vendeva per lire 90 di Denari Veneti a Endrebona Ministra del Monastero di San Maffio di Costanziaco una terra e una casa nell’isola di Costanziacoconfinante con la terra del fratello di Marino Bon, con altre terre del Monastero, e i beni già di Ragusio ... Quattro anni dopo, sempre a Rialto:Guido Ministeriale attestava che il 30 del mese, per ordine del Doge Giacomo Tiepolo e dei Giudici dell’Examinador, aveva investito “sine proprio” Giovanni Bonio del Confinio di San Piero de Maiurbium di una terra con casa in detto Confinio, e di un’altra terra colà sita acquistata da Giacomina vedova di Marino Fel dallo stesso Confinio, ora Monaca nel San Zaccaria di Venezia ... A Torcello nel dicembre 1243 e nel marzo seguente, lo stesso Giovanni Bon del Confinio di San Piero di Mazzorbo vendeva a Pietro Navager del Confinio di San Giacomo dell’Orio la stessa casa con terra sita nel Confinio de San Piero per lire 19 di Denaro Veneto … Pietro Navager aveva già acquistato in precedenza per 60 Denari Veneti e col consenso di Stefano Vescovo di Torcello da Pietro Bonci Piovano di San Piero di Mazzorbo un’altra terra sita nello stesso posto confinante col canale, il Rio Ferrario e un altro Rio, e con le terre di Pietro Casarolo, il Fondamento Duce, e quelle di Alda Da Ponte. Erano presenti e testimoni dell’atto: Marco Vitale Pievano di San Massimo di Costanziaco, e il Notaio Andrea De Mullianis con Jacobus Corrado Arciprete di Torcello ... A fine anno, lo stesso Piovano Bonci vendette allo stesso Piero Navager un'altra parte di terra … stavolta in cambio di un Antifonario Notturno … Qualche anno dopo, stavolta direttamente a Mazzorbo: Aurofina e Cecilia figlie del defunto Pietro Ruybulo ancora dal Confinio di San Piero di Mazzorbo concessero al Veneziano Pietro Mocenigo del Confinio di San Giovanni Crisostomo, e a Pietro figlio del defunto Pietro Viaro del Confinio di San Maurizio di prolungare il capo dell’argine dei loro mulini fino all’inizio del loro orto con diritto di passaggio attraverso una casa per recarsi sull’argine. Testimone di tutto era ancora Pietro Bonci … lo stesso Piovano di San Pietro di Mazzorbo … probabilmente quasi immortale ... Nel gennaio 1265 a Rialto di fronte al Notaio Benedictus Manfredus Prete di San Polo: Giacomo Narissi del Confinio di Sant’Angelo di Mazzorbo vendette per soldi 5 di Denari Grossi a Prete Nicola Marango del Confinio di San Pietro di Mazzorbo una terra sita nel detto Confinio di Sant’Angelo…. Insomma: era tutto così, di continuo ... Anche in quell’angolo di Mazzorbo si viveva e commerciava, comprava e vendeva … Non c’era tempo da perdere, “tutto girava” ... e si andò avanti in quella maniera per secoli.

Giunta la metà del 1500 si davano ancora ogni anno lire 6 e soldi 4 ossia 1 ducato al Capitolo di Torcellonella Festa di San Piero, e si spendevano ogni volta lire 18 e soldi 12 ossia 3 ducati per solennizzarne la ricorrenza, ma iniziò un veloce declino del luogo e delle persone: nell’agosto 1682 il Vescovo Jacopo Vianoli in Visita ricordava ancora: “… la chiesa a tre navate divisa da colonne di marmo, e la presenza di una bella Iconostasi a 12 colonne con statue di Santi Apostoli, un prezioso Crocefisso centrale, e una Pala d’argento con alcune figure fra cui San Pietro Apostolo … il tetto era “rusticalis” e c’erano due portici corrispondenti alle due porte principali.” … A fine secolo, alla Visita del Vescovo Grimani la Pieve contava solo 190 Anime, e il Vescovo ordinò di ridipingere ed indorare la pala dell’Altar Maggiore che era tutta scrostata e cadente.

All’inizio del 1700, infatti, Pre’ Antonio Regazzo Cappellano-Rettore di San Piero de Mazzorbo veniva accusato di non voler pagare l’affitto per la casa di 4 stanze che abitava, proprietà come altre tre vicine delle Monache di Santa Caterina di Mazzorbo … Qualche anno dopo, nel 1736: il Piovano Baldisserra Ferrazzi stava ancora peggio: nella relazione al Vescovo Diedo per la Visita Pastorale si lamentava di dover fungere da Cappellano alle Monache del San Maffio per poter racimolare un po’ di denaro per vivere in quanto le elemosine della Pieve erano scadenti ... a poco contavano i 22 ducati annui che gli fruttavano le due Schole ospitate in chiesa sull’altare del Rosario e su quello di Santa Margherita.

A settembre 1771, alla Visita del Vescovo di Torcello Nani, c’era ancora la Pala d’argento ridotta male. Il Vescovo ne ordinò il restauro … con quali soldi poi ?
Giunto infine il solito 1810 col tumultuoso riordino napoleonico, Sant’Angelo fu per breve tempo l’unica Parrocchia di Mazzorbo col Piovano Luigi Pisani che assommava in se tutto quel che restava di San Bartolomeo, San Pietro e Sant’Anzolo ... San Piero venne demolita, dando le Anime e anche il nome alla vicina chiesa di Santa Caterina … della preziosa Pala d’argento, come di tutte le altre opere che c’erano in San Piero non si seppe più niente … Nel gennaio 1815: “… un Orticello nella Contrada di San Pietro di Mazzorbo affittato a Botter Giovan Battista per 40:12 lire era nella Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti ... La proprietà risultava essere del Monastero di San Gerolamo di Venezia ...”

Basta … Ho terminato … Finalmente direte !



Che aggiungere ancora su Mazzorbo? … Poco o niente, mi pare sia più che sufficiente ... Potrei concludere dicendo che in quegli stessi posti di Mazzorbo quand’ero bambino, per via di un certo campanilismo sfegatato delle isole duro a morire, venivano considerati dai Buranelli in maniera diminutiva, anzi peggiorativa se non dispregiativa ... Parlare dei Mazzorbesi e di quelli delle Casermette era accennare a poco più che a dei pezzenti … Noi Buranelli eravamo il “Non plus ultra”, contavamo senza ombra di dubbio più degli altri isolani vicini … di certo di più dei Mazzorbesi e di quelli di Sant’Erasmo che erano solo ortolani e campagnoli”, eravamo forse alla pari (e un po’ di più) dei Muranesi… e un po’ meno dei Veneziani, che eravamo convinti avere sempre “la spùssa sotto el naso”.

Però si doveva stare attenti a far questi discorsi e parlare male dei Mazzorbesi, perchè la casa in cui i nonni vivevano in affitto apparteneva proprio a uno di loro … era perciò meglio essere sempre prudenti, e sostenere certe cose soltanto sottovoce … non si sapeva mai.
Mazzorboera quindi una “sorella minore” di Burano e della prestigiosa Torcello“una specie di Cenerentola povera della porta accanto” continuavamo a dire a Burano … anche se non era affatto così ... Maiurbius era stato per davvero un borgo curioso, ricco di Storia, un arcipelaghetto davvero interessante ... incantevole almeno quanto Burano.




“Laura … la Strìga de Castèo … a Venezia.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 137.

“Laura … la Strìga de Castèo … a Venezia.”

A dirla tutta, il vero nome di Laura era Tarsia e la sua è stata tutto compreso una storiaccia … una fra le tante simili che capitavano un tempo nella nostra Venezia. Una storia in fondo di miseria, dabbenaggini e ristrettezze mescolate a violenze e soprusi, ma anche a quel pizzico d’arguzia e furbizia che sa adottare chi deve per forza inventarsi un modo di badare a se stessi e di “sbarcar il lunario”.

A Laura-Tarsia fin dalla più tenera età era accaduto di tutto: nei primi anni del 1600 venne abbandonata in uno dei mille Monasteri di Venezia pochi mesi dopo essere nata dalla madre Isabella che non sapeva come mantenerla in vita. Probabilmente la donna la lasciò nel Monastero della porta accanto, quello della vicina Contrada di Sant’Antonin che forse conosceva meglio o in cui riponeva maggior fiducia. Ad essere precisini, si conosceva anche il padre di quella bimba: si trattava di Teodorin da Rodi(un greco quindi)… ma che fine avesse fatto e dove fosse andato a finire ?

Tarsia allora crebbe lì dentro presso la Comunità dei Greci di Veneziache in quell’epoca contava almeno 4.000 persone tutte strette intorno alla loro chiesa, all’Ospizio, alla Schola e al loro Cimiterietto. Crebbe mica tanto visto che a soli dodici anni si ritrovò già bella che sposata con un Marinaio Greco, che partito poco dopo per la guerra contro i Turchi, fece sparire di se ogni traccia e notizia per sempre ... Laura venne perfino sciolta dal matrimonio, e i Greci le restituirono anche la povera dote.

I Greci a Venezia come altrove avevano fama d’essere uomini di mare intraprendenti, ma anche persone lascive, sensuali, disinibite e scostumate … oltre che avide e parsimoniose. In giro per Venezia giravano certi “veci Greci capotèri” che erano considerati quanto più di libidinoso e ambiguo si potesse immaginare … E non era un caso se a Venezia accanto ad alcune “Greche Guaridòre” come Elena Draga e la Zuànache stava alla Carità, c’erano anche alcune “donne di malaffare” come Serenae Marietta, e Rosae Caterina da Corfù che stavano in Calle del Forno a Castello: “ … le donne Greghe de la Contrada sono fèmene passionali, spudorate assae e dai facili costumi … ma buone da abbordare” si diceva in giro.

Maledetto destino ! … Vedova così giovane … Tarsia però non si depresse perché poco dopo, a vent’anni, finì col maritarsi per la seconda volta con un ricco Mercante di Seta letteralmente ammaliato dal suo modo e dalla sua bellezza. Francesco Bonomin, così si chiamava il Mercante, che affermò in seguito davanti all’Inquisizione: “Ho conosciuto Laura a un ballo di Carnevale in Contrada di Santi Apostoli … Era mascherata e assomigliava a un Diavolo … e lo era per davvero.”

Anche costui era vedovo e con quattro figli, e forse quella di scegliere una matrigna fu una scelta oculata e di convenienza. Inizialmente, infatti, tutto sembrava “giràr ben”, tanto che la coppia mise al mondo altri due figli: un maschio Luigi e una femmina Malipiera.

I quattro figli del Mercante e adottivi di Laura, raccontarono in seguito che la donna “faceva gran chiasso”… e che l’avevano vista più volte attraverso la serratura “buttar su una padeletta piombo discolato in forma d’ago e di Diavolo … C’haveva li corni et pareva strangolasse uno … e Laura disèva misteriose parole grèghe segnando con un coltello negro prima di riversarlo sulla veste del padre”.  Inoltre l’avevano vista in altre occasioni: “buttàr cordelle rosse annodàe per terra, mèter ostie da Messa avute da donne dei Carmini, acqua benedetta tolta dalla ciesa de San Polo, e polveri misteriose dentro alla minestra del padre … Le quali lo facevano diventar màto e far pazie, onde lui andava per la strada fecendo matarìe, e buttava la spuma dalla bocca, et infuriato voleva dar a tutti.”

Sempre gli stessi figli adottivi ricordarono ancora che la donna possedeva: lingue secche di gatto morto avvolte in oro, argento e nastri di seta gialli, che erano talmente dure che non si distruggevano neanche buttandole nel fuoco dove resistevano scoppiettando … Affermavano anche che la donna aveva “strigàto, maliàto e fassinàto” il loro padre per farlo diventare buono e perché non la picchiasse più … Il Mercante in persona dichiarò più tardi: “… ho continuato così sin tanto che sono andato alla Casa di Loreto venendomi fuori dallo stomaco una cosa negra, qual credo fosse il letto delle strigarìe.”

Laura sapeva tante cose “per strigaria e perché il Dimonio in persona gliele diceva mentre si denudava con i capelli sciolti”. In quell’epoca si era convinti che fosse riprovevole per una donna andarsene in giro o starsene in casa senza i capelli acconciati e ordinatamente raccolti. Una donna con i capelli sciolti era ritenuta libertina, provocatoria, eccessivamente sensuale, quasi perversa. Non era un caso se l’Inquisizione faceva rasare del tutto le donne ritenute malefiche e coinvolte in situazioni di stregoneria diabolica.

“Le donne devono procedere velate … perché quei capelli sciolti provocano perfino gli Angeli del Cielo.”… Era questa una norma dell’atteggiamento comune condivisa quasi da tutti.

Laura aveva anche un certo successo perché aveva rivelato che un Frate Carmelitanoapostata e ora carcerato era l’autore di un furto di due anelli di diamante e rubino, e di quelle “strane rivelazioni sataniche” era testimone anche un altro Frate: Antonio Contarini.

Arrivato però il famoso 1630, quello della grande Pestilenza Veneziana che falciò Venezia di tante esistenze, il Mercante buttò Tarsia letteralmente in strada “spogliandola di tutti gli ori” e accusandola davanti all’Inquisizione di Venezia di sortilegi e poligamia effettuati in accordo con la madre Isabella. In realtà, invece, era il Mercante focoso, irascibile ed epilettico che la minacciava con stilo e pistola, la tradiva con altre donne, e la picchiava “tanto che era tutta negra per li maltrattamenti”.

Povera Laura ! … Comunque qualche tempo dopo il Mercante Francesco Bonomin morì ... e non certo per le malie di Laura.

Non si seppe mai bene come e dopo quanto, Laura s’era ricongiunta con sua madre legittima Isabella con la quale aveva iniziato a intrattenere e spartire non solo buoni rapporti, ma anche “l’Arte”di famiglia che si tramandavano da generazioni. Isabella pur vivendo nella Contrada di San Martin de Castello si recava quasi ogni giorno sotto il falso nome di Elisabetta Battaglia ad esercitare la “professione”a Mestre dove aveva trovato “un mercato” più consono e disponibile al suo stato. Laura, invece, aveva preferito rimanere a Venezia e nella circumvicina Laguna che considerava un posto irrinunciabile e dalle mille opportunità dove poter vivere tranquillamente. Quello di “vivere da Strìga” era una maniera di sbarcare il lunario più che un’adesione vera e propria a certi contenuti e principi misteriosi ... e si poteva offrire e vendere quei “servigi”perché c’erano Veneziani e foresti di ogni sorta disposti a credere nella loro efficacia … fino a comprarla.

Qualche tempo dopo gli anni bui della Peste, la stessa Laura si sposò per la terza volta, e ancora con un altro Mercante: Andrea Salamon da Bologna ...e anche da costui finì col separarsi nel 1640 … Bisogna dire che quella donnetta non fu molto fortunata “in amore” ... Anche quella convivenza finì con l’essere burrascosa come la precedente: Salamonspazzò via i due figli di Tarsia, che già da allora si faceva chiamare col “nome d’Arte” di Malipiera per via di certe incerte e vaghe parentele pseudonobiliari.  Il figlio maschio di Laura, diciasettenne gracile e malaticcio, spesso infermo e soggetto a “brutto male”, trovò rifugio presso un Capitano di Mare con quale finì con l’imbarcarsi probabilmente come mozzo morendo in viaggio per “mal caduco e malattia”. La ex bimba di Tarsia divenuta ormai donna ventiquattrenne: Malipiera Bonomin, cieca di un occhio, fuggì, invece, da casa andando a trovare rifugio presso una donnetta “maestra di bottoni” abitante a Castello in Corte Nova. Costei ebbe pietà di lei prendendola in casa come fosse sua figlia ... La giovane insomma si dissociò dal modo di vivere della madre, andò a stare per conto proprio, e sparì così facendo dalle vicende della Striga Laura da Castèo.

Il matrimonio di Laura andò a finire ancor peggio del precedente: il Mercante Andrea arrivò addirittura a prometterle d’ucciderla … e la donna stavolta fu costretta ad abbandonare in fretta e furia il Mercante saltando giù mezza nuda da una finestra perché l’uomo anche stavolta la stava ammazzando di botte. In seguito raccontò d’essersi salvata solo perché portava addosso una “preziosa carta neretta”,e dentro alla borsa “tre orazioni contro l’arme” e “la carta del Benvolere bona per salvarsi da tutto”… Laura perse tutto, perché l’uomo la derubò di tutti i suoi averi che ammontavano a più di 6.000 ducati, ma non si perse d’animo neanche questa volta perchè trovò rifugio presso la casa-canonica del Piovan di San Biasio dei Forni sulla riva del Molo di San Marco da dove partivano e arrivavano le Galee della Serenissima.

Al riguardo ci fu ovviamente qualche immancabile pettegolezzo, che arrivò a dire che Laura era stata anche l’amante contraccambiata di quel Prete … ma in giro per Venezia se ne dicevano e inventavano tante ... “di tutti i colori”… E da lì Laura ripartì ancora una volta.

Dopo aver vissuto per un po’ di tempo in casa di Venturinennesimo Mercante che abitava vicino a San Zuàne dei Furlani(l’ex casa dei Cavalieri Templari di un tempo), tornò a rimettersi in gioco andando ad abitare per conto proprio in una caxetta da dove iniziò ad affittare qualche stanzuccia a foresti di passaggio a Venezia o a chi ne avesse avuto bisogno. Laura era di certo una donna industriosa e piena d’iniziativa perchè oltre ad affittare camere e magazzini si dedicò anche a far calzette, prestar soldi … e com’era tradizione di famiglia, alla Magia e “a far da Guaridòra”.

Non che fosse una donna fortunata, perché anche in quei nuovi frangenti si ritrovò più volte derubata di soldi e preziosi: una volta da un Frate Gabriele Valier da Venezia che l’aveva poi anche denunciata all’Inquisizione, e un’altra da una massèra di casa Elena Forlana che le aveva svaligiato la casa insieme a tre uomini Greci con i quali “praticava inonestamente”.

Insomma, per rifarsi, a Laura non rimase che darsi parecchio da fare come Strega.

Nel 1647, infatti, Laura “già inferma e malsana” venne denunciata “per certe ontioni o oglii che ella dispensa” insieme alla madre Isabella e ad altre sei streghe di Venezia, due Frati e un Prete … Per tuti si prefigurava il carcere … L’Avvocato Zana descrisse Laura come: “… donna grande piuttosto che piccola, con capelli negri, d’età di 40 anni incirca, vedova …”

Due anni dopo, Laura venne convocata dall’Inquisizione “a Processo” insieme alla madre che faceva per mantenersi: “l’infioratrice de Margherite de vèro o infilaperle”. La faccenda si risolse in fretta e furia, e ad entrambe vennero comminati dieci anni di carcere tramutati in arresti domiciliari … ma qualche anno dopo, nel 1654, Laura finì di nuovo a processo … perché Laura-Tarsia per campare faceva: l’unguentàra, guaridòra, erbarola e medegàra. E quel mestiere lo sapeva anche far bene e con stile, con competenza e affidabilità … tanto che i suoi servizi costavano cari … ed erano perciò anche fruttuosi.

A dire della stessa Laura: “… non bisognava affatto credere a tutto quanto andava dicendo e facendo”… ma visti i risultati delle sue performance le veniva quasi da credere che ciò che si andava inventando fosse in qualche modo buono. La Strigaria a Venezia come altrove andava a collocarsi in una specie di “terra di nessuno” che spuntava all’orizzonte del “vivere difficile” dopo che avevano fallito i rimedi tradizionali di cui ci si fidava sempre. Per intenderci, dopo che si erano dimostrati incapaci di trovare qualche soluzione efficace i vari Speziali e Medici con i loro intrugli e sapienze da una parte, e i Preti e i Frati con i loro Santi, Madonne e Reliquie miracolose dall’altra (Si diceva in giro per Venezia che se uno non migliorava e non reagiva al contatto con le Sante Reliquie o partecipando ai Riti e alla Santa Messa, lo si doveva considerare refrattario a tutte quelle “cose Sante”, e perciò: “Indemoniato e posseduto”) … In quel caso, altri non esistevano a cui affidarsi se non le Streghe, iMaghi e le Guaridòre… a cui facevano ricorso anche gli stessi Frati, Preti, Monache e Speziali ... e perfino gli Ebrei.

Laura perciò faceva parte di quella particolare “categoria miracolosa”, che fungeva un po’ da ultima spiaggia per ogni ceto sociale. Agiva insomma su una specie di sottile linea di confine e d’incerto equilibrio fra lecito e illecito, fra sicuro o probabile e inventato, sulla quale se andava bene finiva col godere d’ulteriore fiducia e di una certa remunerazione … se andava male, invece, poteva incorrere in guai non indifferenti da parte di tutti.

I clienti di Laura erano sia i Nobili che potevano con la loro disponibilità finanziaria permettersi ogni sfizio e ogni genere di soluzione … sia il “popolino mentecatto, ignorante, volgare e miserrimo che pagava come poteva … e se poteva … o lo faceva alla sua maniera con i suoi tempi eterni”. Di tutto questo Laura era più che consapevole perché sceglieva attentamente i clienti … anche se non disdegnando ogni tanto di far “doverosa carità” nei riguardi di qualche suo concittadino sfortunato che curava “gratis et amore Dei”.

A Venezia sulle Streghe si diceva di tutto, anche che prima facevano ammalare qualcuno per poi indurre a rivolgersi a loro per guarirlo … Esisteva tutto un mercato organizzato della Magia, e ogni cosa aveva un suo preciso valore e prezzo: una “carta del benvolere” ottenibile anche da Laura, poteva costare fino a 3 lire, mentre una “lingua di gatto” si poteva mettersela al collo per 4 lire o poco più … Un’ “Onziòn con ogio”(unzione con olio) per tre giorni consecutivi costava circa 20 lire … un consulto iniziale qualsiasi poteva valere ½ ducato ossia 3 lire, e aumentare di prezzo di volta in volta qualora la faccenda si dimostrasse continuativa e più difficoltosa. In un’occasione Laura “cavava nel principio ½ scudo o ¼ di scudo, et poi nel finire 4 scudi alla volta …” e in un’altra occasione “la Strìga con so màre Isabella”avevano “mangiato” a Battista ben 14 o 16 ducati …

Erano più o meno quelli i prezzi in giro per Venezia, come indicava anche la Gobba dei Due Ponti, famosa in Venezia durante il 1500 per aver avuto centinaia di clienti al giorno, e per saper guadagnare fino a 20 ducati al mese … Come ben sapete, Venezia in quei secoli era ricchissima, anche se saprete altrettanto bene che gran parte di quell’immane ricchezza era accumulata, gestita e tenuta stretta nelle mani capienti e potenti di solo qualche migliaio di Nobili e Cittadini: circa 6.000 e 7.000 in tutto … Il resto dell’intera città Serenissima era spesso carico di gente impotente, infermi, e di poveri manifesti o vergognosi … oltre che in mano a un esercito di Religiosi e Religiose capaci di promettere qualsiasi cosa.

Laura era analfabeta, non sapeva né leggere né scrivere (almeno così diceva), ma sapeva bene distinguere il valore delle monete che le transitavano per le sue mani … e quello alla fine era ciò che contava per davvero. Sia lei che sua madre Isabella sapevano consigliare alle altre donne e uomini pratiche magiche di ogni sorta utili per mantenere il controllo su mariti e amanti, per ritrovare cose perdute, trovar Fortuna, e anche per intervenire su persone malate.

Se c’era una rivale in amore: “bisogna tagliarle la strada con un coltello nero”… oppure “si deve saltare “la fata” (cioè l’ombra) dopo aver riempito con acqua di mare a Sant’Antonio un bocaletto comprato a nome dell’amato pronunciando le efficaci parole: “si come l’acqua batte in questi coccoli, che così possa battere il cuore del tale de mi” … Con “40 onde d’acqua di mare” Laura faceva le sue pozioni, e sempre alle “onde d’acqua di mare” affidò in un caso i“vestiti maleficiati” della Nobildonna Marina Emo provando a salvarla da morte certa … Sempre per ritrovare cose perdute e soldi, per vincere al gioco, o per scovare amati perduti o futuri amanti desiderati Laura sapeva usare l’ “Arte scellerata di gettare la cordèla e le fave benedette”. La “cordèla” era spesso un semplice cordino di stoffa con cui le donne si reggevano le calze sulle cosce (un primitivo reggicalze che forse godeva di un suo prestigio per la collocazione intima e recondita su cui andava ad agire): “… si tirava la cordèla per farsi voler bene … et che quando due capi di detta cordèla si univano insieme era segno che si volevano bene quelli due homo e dona per i quali si faceva il gioco.”

Accanto alla Cordèla, le Streghe attuavano l’uso abusivo di cose sacre e benedette come “L’acqua Santa” e gli “Oli dei Sacramenti” che andavano a rubare o procurarsi nelle chiese di Venezia. Quei “prodotti” era ricercatissimi perché le Strighe erano consapevoli del “potere potentissimo, misterioso e secreto” a cui quegli oggetti facevano riferimento. Praticamente da sempre nell’accezione comune le “cose Sacre” godevano di grande affidabilità, e il loro uso, a differenza di oggi, si riteneva per davvero miracoloso e risolutore, capace anche di sovvertire situazioni fisiche e sociali scabrosissime o perfino terminali o mortali.

Una volta una ricca Nobile Veneziana non corrisposta mandò la sua serva da Laura per farsi aiutare. Le venne indicato dalla Strìa di: “pigliar tre ovi freschi, farli bogìr e venir duri, dividerli in quattro parti, una parte dalla al gato a magnàr, la seconda al cane, la terza gettarla in canale, la quarta non so dove mi disse andarla a buttare … e questi ovi prima di cucinarli andarli a mettere una notte intera in una sepoltura …” Infatti Laura con la serva andarono in gondola fino al Cimitero Ebraico del Lido, e lì seppellirono le uova dicendo: “Si come l’ovo non sa del morto, così il moroso di F. non possa saper dell’amore della sua signora.” Il giorno seguente ritornano a prelevare due uova da dare da mangiare al desiderato moroso, e ne seppellirono altre tre … In un’altra occasione Laura: “…confezionò un Malefizio Amatorio dentro a una pignatta mettendo insieme fango del Ghetto e acqua spuzolente, e vi aggiunse altri intrugli accompagnandoli con strane parole.”… In un’altra occasione ancora, sempre la stessa Laura confezionò un’altra “strigaria” per la Nobildonna Veneziana Zani vogliosa d’amore: “fece bollire un cuore di castrato in una pignatta di terra nuova legandolo con seta di più colori …vi fissò poi dentro degli aghi con dell’acqua salata fino a farlo ridurre quasi a niente ... E mentre bolliva bisognava dire: “si come si consumava quel cuore che bugiva, così si consumasse l’amor di Antonia che era la Signora di detto Polo, et che l’amor di Polo ritornasse alla Signora Catanella.”

In quella stessa occasione Laura ordinò poi di ridurre in polvere il “cuore di bestia” rimasto nella pentola, e di gettarlo dietro al moroso desiderato“per dar martello” al desiderio: “… overossia per non far dormir, né mangiar, né riposar l’innamorato inducendolo al tormento amoroso”.

Secondo le conoscenze delle “Strighe de Venesia” gran parte dei mali era causato o da cause fisiche o da: “una Malaombra overossia uno Spirito Maligno” spinto verso le persone tramite malocchio e strigarie. Era perciò necessario contrastarlo e reindirizzarlo … rimuovendo così il mal di testa considerato segno di possessione, ma anche: fastidi, febbri, debolezze e sintomatologie fisiche d’ogni genere.

Di solito bastava portare dalle Streghe degli abiti o delle stringhe della larghezza giusta appartenenti al malato, la Guaridòra le prendeva in mano e dopo aver recitato sopra di loro “parole speciali” le faceva seppellire portando sotto terra con loro anche “il male” che così lasciava l’afflitto … In altre occasioni, invece, la Strega in persona si recava al domicilio del malato e lo ungeva da capo a piedi con un “olii speciali” recitando particolari “fòrmole magiche secrete”… però tutto questo costava molto di più … Quasi sempre non funzionava e le persone ammalate peggioravano o morivano ugualmente, o l’amato perduto non ritornava affatto a casa, o non si trovava il tesoro nascosto … ma si trovava sempre una spiegazione plausibile che spiegava l’inefficacia di quel trattamento: a volte si era stati convocati troppo tardi … altre volte s’erano fatte strigarie al contrario e in maniera sbagliata … altre volte ancora non si era degni d’essere esauditi … o non si era stati sinceri nell’esprimersi e nel raccontare le circostanze ... “La Magia è una Verità Efficace solo per pochi cuori puri e per rari Spiriti Eletti !” speigavano spesso le Strighe.

Durante e dopo tutti quei loschi e contorti traffici, Laura venne denunziata più volte all’Inquisizione di Venezia anche dalle stesse “donne insodisfate della Contrada”, praticamente le amiche e conoscenti che incontrava ogni giorno: Giulia, Margherita, Angela, Betta di cui si fidava e alle quali anche prestato “numerosi servizi in tante occasioni”. Per questo Laura durante la sua “carriera”incorse in molteplici processi.

Nel 1654 però, a denunziarla per l’ennesima volta fu un Prete Antonio Cardini che aveva ascoltato le confidenze di Girolama moglie di un servo di Ca’ Emo: una fra le principali e più note Casade Nobiliari di Venezia. Laura a quei tempi dopo tanto darsi da fare e dopo tanti patimenti subiti durante la sua vita, era ormai una “perfida vecchia vana”, invecchiatissima, sempre vestita di nero, che abitava al Ponte della Morte in Contrada de Sant’Antonin de Castèo ... “Sembrava una settantenne cionciòna”… In quell’occasione la StrìaLauraera stata chiamata “sotto titolo de Medico” per curare Marinamoglie amatissima di Angelo Emo Senatore, Cavaliere Grande che poteva molto et era ex Procuratore Generale di Morea … donna gravata da considerevole infermità”.

In quegli anni Laura non se la passava male perchè continuava ancora ad affittare camere, prestava soldi a pegno: “… trattenendo una perla, un orologio, alcune lenzuola con merli e parte de corredo di dota da sposa”, e aveva al suo servizio ben due serve-massere: Lucia e Caterina, e aveva per casa anche un certo Luca, Greco, che vendeva calzette sotto a portici delle Prigioni di San Marco  … Dicevano che era cieco, ma di certo faceva gli interessi di Laura … ma questi erano fatti suoi precisò la donna al processo davanti all’Inquisitore Grande… Dopo vari consulti presso la moglie ammalata del Nobile, Laura aveva convinto anche una giovane servetta incinta di Ca’ Emo a sostenere la tesi che la spiegazione della malattia della donna era dovuta a“malìe, fatture e strigarie procurate dagli stessi figli della Nobildonna” … Era bastato regalare a Girolama, la servetta, un bel vestito nuovo e una donazione di 10 denari: “… e il gioco era stato fatto” ... In realtà era tutta una finzione a cui in qualche maniera partecipò pure il Prete di famiglia Francesco Moroniappartenente al Capitolo di Santa Maria Zobenigo che era stato lui a segnalare al Nobile Emo e poi convocare la Striga Laura. Fu la stessa servetta alla fine a non volersi adeguare a quell’imbroglio rivelando tutto al Nobile e poi alla Santa Inquisizione … e la denuncia per Laura fu di aver “assassinata con le sue cure” la Nobildonna ammalata e allettata ormai da più di tre anni.

Inizialmente s’era fatta pressione sulla Striga Laura perché intervenisse in fretta: “… prima della “Luna Nova” che come sempre porta via ogni Anima derelitta in preda a gravissima malattia.”... Si diceva così a Venezia … ma in fondo accade ancora così anche oggi … Laura appena incontrò il Nobilissimo Emo in persona“addoloratissimo”, s’attivò subito ordinando al Prete di Famiglia Moroni diprocurarle: ambra, muschio, noce moscata e una ventina di erbe da aggiungere alle molte di cui già era in possesso per farne un’efficace lavanda. La Striga coinvolse nel “rito della lavanda” anche lo stesso Prete che doveva recitare una lunga serie di “tremende benedizioni salutari”, e dopo aver misurato con un lungo filo la donna, la segnò e la lavò per tre mattine di seguito con “acqua tratta da 40 onde di mare prese sulla spiaggia del Lido e successivamente a Malamocco. L’acqua avrebbe dovuto così lavare e portare via le malignità che ricoprivano l’inferma, ma siccome non accadeva nulla, Laura spiegò che doveva esserci nelle vicinanze qualcuno che rinnovava di continuo il malefizio funesto contro la donna ... e quel “qualcuno” si rivelò ben presto come: Marco e Marietta Michiel, ossia i figli del primo matrimonio della donna risposatasi in seguito col Nobile Emo.

La cosa aveva un senso, anzi: un vero e proprio movente, perché c’era di mezzo l’eredità che i due figli non volevano spartire con gli altri figli avuti più tardi dalla donna.

Di certo era un po’ (tanto)perversa l’idea della Striga Laura… Per trovare quindi una causa di tutto quel male che affliggeva la Nobile Marina, Laura aveva pensato di escogitare la colpevolezza dei figli del suo primo matrimonio, e per rivelare e “vedere” i nomi dei “malignatori” della Nobile donna morente, la stessa Strega inscenò a Palazzo Emo una messinscena di notevole effetto coinvolgendo la timorosa serva Girolama e il Prete Moroni. 

Tinto di nerofumo e d’olio di mandorle dolci la mano della serva, le fece tenere una candela benedetta accesa ripetendo per 10 volte alcune formule misteriose adatte allo scopo … ma senza successo. Sarebbe dovuto apparire nelle mani della serva un Demonio che sbattendo le ali avrebbe rivelato i nomi degli autori dei malefizi. Fu, invece, necessario ripetere l’esperimento magico dopo altri 8 giorni: “perché l’ora era tarda e forse gli spiriti erano già andati via o erano impegnati altrove …” si affrettò a spiegare la stessa Laura. Perciò fu durante un secondo tentativo, dopo una nuova “apparizione spiritica” di un’ora, e dopo nuove preghiere speciali che finalmente il Demone rivelò i nomi dei figli di Marina.

Il Senatore Emo incerto sulla veridicità di quelle notizie che indirettamente lo minacciavano a sua volta, chiese ulteriori conferme e partecipò di persona a una terza seduta in cui si confermarono quelle stesse rivelazioni … La donna intanto peggiorava ulteriormente, e non migliorava neanche applicando i rimedi di Laura che chiedeva: “più applicazione e più tempo”… Il Nobile Emo allora chiese alla Striga di assistere maggiormente la moglie sempre più inferma stabilendosi a casa sua per almeno venti giorni ... le avrebbe dato anche 1.000 ducati se fosse guarita come lei prometteva.

Laura per giorni tornò e ritornò a Palazzo Emo inscenando le sue azioni guaritrici fatte di segni, unzioni, misurazioni, formule e “… applicazioni di acque sananti, radici di palma per purgare Marina, fomenti per gli umori melanconici, fumigazioni di muschi, lavande di erbe, sciroppo di semi di cedro, una “pìttima” alla bocca dello stomaco, e Finocchi di Barbaria nel brodo per quietare i dolori.” ... Alla fine di tutto, invece, la giovane serva Girolamaspinta dal suo Prete Confessore Marcantonio svelò al Nobile Emo e all’Ufficio dell’Inquisizione l’inganno di Laura che venne perciò arrestata e carcerata nonostante si fosse prodigata subito in mille scusa nei confronti dell’Emo provando anche a restituirgli parte dei denari ricevuti ... cosa che costui rifiutò.

Il Capitano dell’Inquisizione Zuane Cieregoandò a bussare alla porta di Laura alle due di notte con i suoi uomini, Laura provò a fuggire buttandosi giù da una finestra dentro a un orto vicino, ma venne presa subito dagli uomini dell’Inquisizione che la trasportarono alle Carceri del Santo Uffizio in Contrada di San Zuane Novo. Poco dopo si andò a perquisire la casa di Laura trovando in una cassella nascosta sotto al letto: “empi e perniciosi libri scritti a mano, carte piegate, ampolle d’acqua, ogli, grandi di allume di rocca, fave, aghi da cucina, e candele nere che erano state accese alla rovescia…” e nascosto sotto a un tappeto: “due pezzetti di candelette nere e una cordella rossa”. Tutto venne elencato e portato all’Ufficio della Santa Inquisizione … Non c’era più alcun dubbio, Laura oltre che una Strìa, era anche un’imbrogliona analfabeta: osservava i disegni, i circoli e le figure magiche contenuti nelle carte e nei libri, e ospitava in casa sua libri proibiti, magici, diabolici e pericolosi che le venivano forniti da Medici, Cavalieri, Frati inonesti, forestieri di passaggio e personaggi ambigui.

Una delle due serve di Laura raccontò di averla vista chiudersi più volte a chiave nella sua stanza in compagnia di putte, donzelle, donne e uomini mascherati, travestiti e stravaganti, ma anche di Frati o Monache furbeschi … Anche se non sapeva dire bene che cosa facessero chiusi lì dentro, il giorno dell’arresto l’aveva però spiata per il buco della serratura: stava seduta sopra a una cassa in compagnia di Angelo Paganini un Frate di Sant’Antonio, e tenevano in mano delle candele nere bisbigliando cose incomprensibili ... e di certo Sataniche !

Di fronte all’Inquisitore che la minacciava dicendole che se non confessava ammettendo ogni responsabilità l’avrebbe sottoposta “all’esame vigoroso del tormento”, Laura si accontentò di pronunciare poche parole: “Se sapessi fare ciò di cui mi accusate sarei una gran donna !”

La Nobile Marina Emo moribonda nel frattempo s’era ripresa, anzi: era guarita del tutto … Non si sapeva bene né come né perché né quando né quanto, ma comparve perfino davanti all’Inquisizione al processo contro Laura. Fu strana la presenza di quella donna perché pareva quasi non si trattasse di se stessa … In quei momenti sembrava quasi che lei non fosse presente e si stesse intrattenendo in altre situazioni ... Infatti furono esemplari e sorprendenti le sue poche affermazioni: “Il tutto è nulla.” disse riassumendo tutta quella losca e intricata faccenda ... e tutti rimasero allibiti … Laura e i Giudici compresi.

Ma non finì tutto così … perché Laura in seguito venne anche minacciata da Nicoletto Sfachiotto Calenti, un “bravo” inviatole dalla famiglia Emo. I Nobili non solo erano scontenti perché non aveva guarito la Nobildonna Marina, ma erano soprattutto irritati e sconvolti perché Laura aveva coinvolto e “tratto in basso” in quella pubblica faccenda l’onore della loro importantissima Casada.
Laura finì quindi nello squallore del carcere dell’Inquisizione per 8 mesi in attesa del processo … e dopo la celebrazione dello stesso venne condannata il 3 marzo 1655 dal Nunzio Apostolico Carlo Caraffa in persona che prima la fece abiurare, e poi la destinò a 10 anni di carcere “senza riserva di grazia”, e a recitare per il detto periodo due volte alla settimana il Rosario per la Beata Vergine.

La clemenza del Santo Uffizio però fu grande, perché Laura riuscì qualche volta ad uscire in permesso per Pasqua e Natale … finchè ne uscì … ma solo per pochissimo tempo, perché già nel 1660 incappò in un ulteriore mandato d’arresto a causa di nuove denunce “per pratica di strigarie” fatte da un Barbiere di Sant’Antonin, da un Chirurgo, dai vicini di casa, e da altri soliti amici e conoscenti che si erano serviti da lei comprando rimedi ... Fra le altre cose le Veneziane Caterina e Benedetta testimoni contro di lei al processo, si lamentarono che Laura: “aveva mangiato loro una man de bèzzi (soldi)” ... Per la Striga Laura era la fine …
Quando Michael Cataneus Capitano delle Guardie dell’Inquisizione andò a bussare per l’ennesima volta alla sua nuova porta di casa in Calle Larga dei Furlani, Laura si lanciò in un’ultima fuga disperata e rocambolesca: aprì “un luminare”, e scelse di scappare per la via dei coppi e dei tetti ... Il Capitano allora forzò “con ingegno” la porta ed entrò con i suoi uomini, ma lei già aveva saltato due tre case dall’alto e stava già buttandosi sopra al tetto di una casa contigua e più bassa ... Gli uomini dell’Inquisizione circondarono l’isolato … Accortasi che non aveva scampo, Laura tentò il tutto per tutto: “… saltò di sotto, ma rotolò da basso e di sotto cadendo dentro a una corticella sconta e chiusa da dove le guardie ebbero difficoltà d’andarla a recuperare aprendo due tre porte e cancelli e scavalcando perfino un muro”.

La trovarono riversa per terra ai piedi di una“vera da pozzo de pièra”, contro la quale Laura aveva battuto malamente la testa cadendo dall’alto. Quando la raggiunsero per portarla via in barca già non rispondeva più. Infine venne portata di nuovo nelle Carceri del Sant’Uffizio dove venne vista subito “secondo il bisogno” da un Barbiere delle Prigioni Pubbliche perché non si trovava in giro nessun Cirusico … 

Le cronache giudiziarie ricordano che Laura si riprese un poco, fece la Comunione, si confessò … e disse che non le serviva niente.
Stavolta in casa sua le guardie trovarono altri oggetti equivoci: “… pezzetti di piombo, cordelle annodate, fave, candele nere, un pezzetto di testa di morto, aghi da cucire, chiodi e oggetti magici … e altro ancora di compromettente.”

Quando il Barbiere tornò nella cella per rivederla la trovò morta ormai da un pezzo … avendo ancora addosso due fogli scritti di sortilegi, e intorno al collo le sue solite cordelle rosse.



“UN FRATE ESORCISTA SPAVENTATO E INSEGUITO DAL DEMONIO … AI FRARI DI VENEZIA FRA 1500 E 1600.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 138.

“UN FRATE ESORCISTA SPAVENTATO E INSEGUITO DAL DEMONIO … AI FRARI DI VENEZIA FRA 1500 E 1600.”

A cavallo fra 1500 e 1600 a Venezia erano tre i rimedi per ogni forma di malattia e per ogni problema sociale: gli Speziali e i Medici, i Frati e i Preti, e gli Strigòni e le Strighe. Per i Veneziani erano tre rimedi intercambiabili, e se non funzionava uno capitava più che spesso che si passasse con disinvoltura dall’uno all’altro e viceversa ... senza particolari priorità.
In ogni caso serviva pagare … e non era detto che nessuno dei tre“risolutori” sapessero giungere per davvero a una soluzione dei problemi in cui s’era incappati, o alla guarigione da ciò da cui si era afflitti. Fra i tre però c’era di solito “una comune preferenza”.

Come sapete bene, in quei secoli la fiducia dei Veneziani nell’efficacia della Religione e sull’utilità di seguirne consigli, precetti e rimedi era altissima per non dire quasi totale. E non era un fatto Veneziano, perché era un “sentire comune” diffuso e consolidato che pervadeva tutta l’Europa Cristiana e anche molto oltre.
Perfino il potente Stato Serenissimo non sapendo più dove andare a battere la testa s’era rivolto in più di un’occasione direttamente alla Beata Madre Madonna e all’Onnipotente Padre Celeste per provare a venirne fuori in qualche modo dalla Peste oltre che dalle Guerre, dalla carestia, e da altro ancora … Basti pensare ai solenni voti del Redentoree della Madonna della Salute che continuiamo a celebrare ancora oggi seppure a modo nostro … In quei tempi funzionava così, si facevano scelte socio-politiche del genere, e pareva che in quella maniera tutto si risolvesse per davvero: era miracolo, ed è stata Storia di Venezia anche questa.

Andando però nello spicciolo quotidiano e popolare delle Contrade di Venezia si può incappare in storie minori davvero curiose. A Venezia vivevano diverse categorie di Frati Esorcisti affiliati ad Ordini Fratereschi o Monastici diversi, e costoro erano considerati dai Veneziani fra i più abili a risolvere certe situazioni patologiche che secondo loro non erano tali del tutto. I Veneziani erano convinti che causa di tutto fosse stato il Demonioin persona !

Un più consistente gruppo di questi Frati Esorcisti era attivo e risiedeva in Contrada di San Tomà nel grande e potentissimo Convento della Ca’ Granda di Santa Maria Graziosa dei Frari che apparteneva ai Frati Francescani Conventuali. A loro si rivolgevano molti Veneziani nei “momenti del bisogno”.

Infatti dopo essere passata inutilmente per una Strega, che le aveva fatto pagare uno scudo d’argento per una boccetta di “olio speciale” ma inefficace, Orsetta con sua madre Valentinas’erano ridotte a rivolgersi ai Frati dei Frari di cui si parlava “un mondo di bene”.

“Orsetta è piena di Spiriti … e urla grandemente … Vedo tanti atti e voli intorno a lei …” aveva spiegato la Strega, “Non sono buona di guarirla, che bisogna di un Sacerdote.” concluse.

Giunto al famoso Convento, al marito di Orsetta venne presentato Fra’ Francesco Cristicchio da un altro Frate che tutti chiamavano Fra’ Barbone ... “uomo grande, di 40 anni all’incirca, con barba un tantino rossa.” Il Frate accettò subito l’incarico, ed andò a casa della donna entrando nella stanza di Orsetta “che aveva un piede gonfio, che steti 12 giorni senza dormire e con tremazzo grande”. Mandati fuori tutti eccetto la madre, e indossata la stola, il Frate aprì un suo libro ripetendo sopra ad Orsetta inferma molte parole e molte invocazioni a Sant’Antonio da Padova… Poi trasse fuori dallo stesso libro un’ostia grande usata dai Preti per la Messa, e dopo averla pigiata nel vino e nell’Acqua Santa la diede da bere a Orsetta ... Infine il Frate “pigliò fuori di scarsella un bussoletto et con oglio che aveva dentro mi ònse il collo del piede, e poi cominciai a pigliare sonno…”

“In verità il male mi era venuto fuori perché avevo disperso una creatura …”spiegò in seguito la donna, “mi erano venuti mali naturali, e facevo li atti da spiritata.”

Comunque: bene o male, l‘intervento del Frate Esorcista ebbe l’effetto positivo di sbrogliare la brutta matassa … e Orsetta guarì.

Meno lineare fu l’intervento di un altro Frate Esorcista sempre dello stesso Convento dei Frari: Fra’ Fabrizio chiamato di nuovo ad intervenire su una “recidiva” della stessa Orsetta nel 1581. Venne subito sospettato d’essersi appropriato di un anello d’oro che indossava “la spiritata” in casa, perciò venne prontamente denunciato al Convento dei Frati e al Patriarca. Il Frate andò in “grande collera”, ma due giorni dopo tornò a rivedere Orsetta e a segnarla, dando disposizioni alla madre di lavarla con Acqua Benedetta, di far suffumigi sulla solita “gamba offesa” con certe erbe e altre cose che lui indicava: ambra, olivo benedetto e incenso ... Ritornò poi un’altra volta durante la quale ricomparve l’anello d’oro, e poi non si fece più vedere ... Si trattava di un uomo e Frate ambiguo al quale ancora nel 1647 si andò a perquisire la cella.

Di nuovo un altro Frate Francesco Esorcista sempre del Convento della Ca’ Granda dei Frari, lo ritroviamo impegnato stavolta con un’altra donna Veneziana: Caterina, “Spiritata” anche lei. Trentatreenne, maritata col Navigante Simone Berandi abitava nella lontana Contrada di San Pietro di Castello, “la Contrada del Vescovo”dall’altra parte di Venezia.

Tutto sembrò aver avuto inizio durante un ballo di Carnevale dove Caterina ebbe a che fare con due “Maschere” forse “due donne di mala vita”, che la guardarono “ingrintate”… Da cosa nacque cosa, si finì con l’ingiuriarsi e minacciarsi … ma fatalità dopo neanche due mesi la donna iniziò ad essere “posseduta”. Una notte la donna udì “gridare e volare” alle due di notte suo figlio di due tre anni … corse a vedere, ma sul letto trovò un gatto grande mai visto. Il figlio per lo spavento s’ammalò pure lui … Caterina provò allora a curarsi con un “Olio Magico Benedetto la Notte di Natale” fornitole da una certa Maria che faceva la sarta nella Contrada … Lo usò per tre volte inutilmente perché la terza sera riapparve il gatto, il figlio urlò di nuovo, e lei scappando via diede un calcio all’animale.

“Dopo data la pedata al gatto principiai a sentirmi male, ebbi come doglie, e dopo due mesi mi ridussi andar col bastone sospirando con una gonfiatura al collo, partorii, e dopo cinquanta giorni dal parto restai immobile con le mani in croce in maniera tale che non mi potevo muovere in modo alcuno. Mi portarono a letto dove stetti cinque giorni dura, stroppiata, e non mi poteva muovere …”

Il Frate Esorcista dei Frari sentenziò: “Pulsatio arteriarum circa collum e rigiditas nervorum sono segni fisici di probabile possessione Diabolica” ... Il malessere poteva essere stato provocato dal gatto creatura diabolica per eccellenza. La donna che un po’ se ne intendeva perché era anche Spiciàra, lasciò perdere il Frate e si risolse ad ascoltare ancora una volta i consigli di una Stròlega del posto che in cambio di mezzo scudo per dell’olio miracoloso e un altro mezzo scudo di compenso rimise apparentemente ogni cosa a posto. Sia Caterina che il suo bimbo vissero un periodo di generale benessere ... anche se alla donna era rimasto solo: “un peso alla coppa che la travagliava e martirizzava grandemente”… Ma Caterina non ci prestò attenzione più di tanto.

Fu dopo altri tre anni mentre Caterina stava a Castello a lavare i panni che: “mi cascò nella testa un dolore tanto terribile che credevo di morire …”

“Altro segno evidente di possessione Diabolica!” commentò l’Esorcista dei Frari. A niente servirono le cure del medico che le applicò sanguisughe senza beneficio. Secondo il Medico la donna era sana come un pesce, ma lei affermava che: “mi sentivo tanti mali addosso che quando andava via el Medego me venia voglia di dare la testa per li muri … Ero uscita fuori di me … che uscivo per strada come una matta.”

Esperimentate inutilmente anche questa volta le Strìghe, Caterina passò per un primo Esorcista di San Giovanni dei Forlani poco distante da casa sua, il quale “la benedì con un libro”, ma ottenne solo che alla donna: “mi venivan tremiti, e mi mancava la terra di sotto se mi poneva sopra al capo la stola, se mi segnava con una santa Reliquia di San Giorgio, o se mi dava l’Acqua Benedetta da bere o il Pane Benedetto ... Se andavo a sentire Messa non potevo star salda, che mi pareva essere in un inferno …”

“Segno bruttissimo ! … L’avversione alle Cose Sacre … E’ un altro grave segno di Possessione Diabolica !” rincarò la dose il Frate Francesco Baldi Esorcista dei Frari subentrato al confratello che si era arreso. Questo Frate dei Frari godeva di una certa fama e abilità: Fra Francesco Baldi era “credo Veneziano, di cinquant’anni, uomo di bell’essere, di buona statura, grassotto …”

Il Frate andò a visitare Caterina a casa sua, e ascoltata tutta la faccenda le fece reggere nella mano sinistra una candela benedetta recitando formule d’Esorcismo. In seguito le diede “un’ostia da Messa bagnata nell’Acqua dell’Epifania”… e così fece anche per la figlia e il marito per nove giorni consecutivi per due volte al giorno. Quando il Frate tornò la donna era peggiorata ulteriormente: “aggravata nei tremori … cominciò a parlar uno Spirito con la lingua fuor di bocca, e diceva molti spropositi al Padre e finì col buttarsi addosso a lui e tirarlo per la barba.”

Il Frate provò ad indagare per la casa cercando segni di “malefizio”:“Si trovarono sotto il solièr della porta di casa diversi legni lunghi una spanna abbrugiati con carboni, li quali carboni parevano teste di statue. Quei cugni di legno erano stati messi lì nelle giunture delle statue affinchè tormentassero le giunture dei corpi …” Il Frate provvide subito ad oliare con l’Olio Benedetto tutto il “soglio della porta”.

Tutti sapevano bene che le porte di casa erano uno dei posti preferiti da Streghe e Folletti per compiere le loro malefiche azioni ... Non per niente si usava mettere dietro alle porte una scopa di Saggina o di Miglio così gli Spiriti “si perdevano a contare di continuo ogni filo e ogni chicco” dimenticando di compiere tutto il resto del loro malefico repertorio.

Un altro consiglio del Frate fu quello di andare a controllare dentro al materasso del letto di casa. Il Frate spiegò: “Lì dentro è facile trovare cilette, vetri, scarti di maranze, pezzi di corda, strisce di pelle tanto acciuffate e strette impossibili da svolgere, e garattoli ed altre cose … sono tutti segni di malefizio ! … Una volta una tale Lucrezia moglie di un fabbro Francesco trovò nel suo letto consigliata dal suo Confessore: miglio, spelta, sorgo, fasoli, alloro, formento, seme di pomi, seme di fiori di ogni mese, bisi, cagoli de sorgi e ossi piccioli che pareano de creatura, carboni, calzina e pietre de diverse sorti, et legne di più sorte, e duoi chiodi, e duoi brocche, una colla testa e l’altra senza, agi da pomolo duoi, da cusire uno, ossi di zizoli e altre cose …”

Si vuotò così il materasso e si bruciò tutto il contenuto … ma non cambiò nulla nella donna … A niente valse il fatto che il Frate di fermasse per qualche notte al suo capezzale dandole Acqua Santa da bere, né la somministrazione della nuova serie ripetuta di ostie che il Frate fece subito e in fretta, né i ripetuti scongiuri, né le applicazioni di erbe, il mettere Acqua Benedetta nel vino … Ogni tanto il Frate riusciva a farla tacere, ma poi la donna riprendeva ad agitarsi sempre più incontrollata … “Lo Spirito gridava enormemente … e diceva che in casa tutti erano “guasti” anche il marito che prendeva nove ostie al giorno…” 

Alla fine dopo l’ennesimo exploit della donna e l’ennesima violenta aggressione il Frate si spaventò grandemente scappando via a gambe levate ... e non lo si rivide mai più.

“Sembrava proprio Indemoniata e Posseduta per davvero … Mai avevo pensato di vedere cosa simile a quella in vita mia !” commentò in seguito senza aver più voluto aver a che fare con casi del genere.

Il quadro a distanza di tempo potrebbe essere benissimo inteso, interpretato e compatibile con un grave deficit neurologico della donna con afasia, confusione e sovrapposti episodi di epilessia ... Ma andarlo a dire ai Frati, ai Chirusici, agli Speziali e alle Strìghe Veneziani di allora  !

Di Caterina non si seppe più niente … si sa solo che sua figlia Ancilla tredicenne continuò la stessa trafila della madre rivolgendosi ai Frati Esorcisti stavolta del Convento di Santo Stefano dopo aver consultato i soliti Medici e le solite Streghe … I sintomi che presentava la ragazza erano più o meno gli stessi della madre: “… gonfiadura della gamba … tremori ora caldi ora freddi … doglie e pesi strani dentro alla testa … Spesse volte mi pareva essermi levata dal letto con sgraffioni … Di notte vegliando avevo inquietanti visioni: vedeva due con due torce in mano e anche un terzo senza torcia senza vedere la faccia, mi fu stretta la gola che non potessi dire nemmeno Gesù …”


Chissà come andò a finire ? … e chissà che s’inventò e combinò quel nuovo Frate Esorcista ?

“aprile 1945: i cannoni del Cavallino puntati su Venezia.”

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“Una curiosità Veneziana per volta” – n°139.

“aprile 1945: i cannoni del Cavallino puntati su Venezia.”

Si è stabilito il 25 aprile 1945 come data simbolica della Liberazione e della fine della Seconda Guerra Mondiale, ma non è accaduto proprio tutto nello stesso giorno in giro per l’Italia … neanche a Venezia.

Quando i primi mezzi dell’Ottava Armata Britannica giunsero a Piazzale Roma il 29 aprile, i “giochi”a Venezia erano già stati tutti fatti e sistemati dagli stessi Veneziani che di fatto avevano già preso il controllo dell’intera città.

I Partigiani Veneziani avevano fama in giro per l’Italia d’essere attendisti, salottieri, poco pratici oltre di non annoverare fra le loro file gente qualsiasi ma solo pensatori, insegnanti e teorici dialogici. Non era affatto così.
Quello che non sapevano la maggior parte degli altri Partigiani Italiani era che a Venezia per la sua particolare indole e situazione territoriale era estremamente complesso agire. Venezia in quegli anni era satura di soldati Fascisti e di personaggi altolocati d’ogni sorta che s’erano concentrati in Laguna dove si sentivano più al sicuro.
Inoltre, cosa non da poco, la città era in mano ai temibili Tedeschi-Nazisti che controllavano perfettamente ogni cosa della Laguna. Possedevano una notevole concentrazione di uomini e di mezzi, e con le loro agili motozattere armate erano presenti e sapevano intervenire ovunque setacciando a piacimento la città, le isole e la Laguna. Non era facile riuscire a gabbare gli uomini della Gestapo: non erano affatto dei sempliciotti sprovveduti.

“Venezia è una trappola ! … Ci si sente un topo in casa del gatto …” commentò finalmente uno dei maggiori esponenti della Resistenza Italiana in visita anonima in Laguna. Anche lui inizialmente pensava d’andare tranquillamente avanti e indietro fra Mestre e Chioggia liberamente e senza alcuna difficoltà ... Invece, tornandosene sui suoi passi clandestini tirando un sospiro di sollievo dovette ammettere che a Venezia la situazione era per davvero parecchio difficile:
“I Crucchi hanno in mano e controllano tutto e tutti ...”

Quindi per i Partigiani Veneziani non fu affatto facile operare, e allora fu ancora più grande il loro merito quando portarono la città verso la Liberazione e la tanto attesa “resa dei conti”.

Curiosamente, ancora l’8 maggio seguente l’ultimo gruppo della famosa ed efficientissima (e tremendissima)X° MASFascistacomposto da centinaia di persone se ne stava ancora asserragliato e armato fino ai denti nella Caserma “Accademia” di Sant’Elena (l’attuale Collegio Morosini).

Neanche sapevano (o non volevano accettare)che la guerra fosse ormai terminata. Continuarono per alcuni giorni ad andarsene in giro pattugliando Venezia, e solo una settimana dopo si arresero agli Alleati consegnando malvolentieri le armi e ottenendo in cambio “l’onore della Bandiera”.

Chiusi lì dentro erano ancora convinti di riuscire a mettere in piedi un ultimo atto di resistenza armata ... cosa che non accadde. Le cronache Veneziane di quei giorni raccontano che dopo una Messa il Cappellano Militare tagliò a pezzettini l’ultima bandiera della RSI Fascista consegnandone un pezzetto a ciascun soldato schierato di fronte all’Armata Britannica che controllava ormai l’intera città. Fu quello l’ultimo atto della Seconda Guerra Mondiale a Venezia, quando praticamente tutta l’Italia era già stata liberata.

Non andò però via tutto così liscio. Una cosa di cui si parla molto poco, fu che in precedenza ci avevano pensato gli stessi Veneziani a ripulire e riprendersi faticosamente pezzo dopo pezzo l’intera città lagunare. All’annuncio dell’arrivo imminente degli Alleati nel Veneto e in Laguna, non è che i Tedeschi con i loro “supporter” Fascisti se ne fossero fuggiti via in disordine e alla disperata. Anzi ! … Erano prontissimi a rendere quella transizione la più difficile possibile.

Soprattutto i Tedeschi, pur essendo ormai platealmente sconfitti, continuarono baldanzosi come era loro abitudine inveterata a far ancora una volta la voce grossa: “Se non lascerete che ce ne andiamo liberamente con tutti i nostri uomini, i mezzi, le armi e tutto il resto …” tuonò picchiando i pugni sul tavolo il Comandante Tedesco capo della Platzekommandantur e della Wehrmacht di Venezia insieme al Console Tedesco davanti al Patriarca Adeodato Piazza che fungeva da mediatore con le forze di liberazione e Partigiane ormai alle porte per liberare la città, “faremo saltare per aria l’intera Venezia come già abbiamo saputo fare a Firenze e Varsavia. Il Ponte Littorio, la Stazione Marittima e gran parte della città sono già tutti minati, e tutti i cannoni del Cavallino sono puntati su Venezia, il Porto del Lido, l’Arsenale e altre costruzioni d’interesse bellico ... Provate a fermarci e di Venezia non resterà più niente.”



Erano i Tedeschi … che ci si poteva aspettare di diverso da loro ?

Comunque al di là delle diplomazie, delle trattative e delle minacce ufficiali, ci pensarono i Partigiani Veneziani insieme ai civili qualsiasi di Venezia, agli uomini della Guardia di Finanza e ai Secondini del Carcere di Santa Maria Maggiore a sgomberare fattivamente l’intera piazza Veneziana.
A Tedeschi e Fascisti non rimase che andarsene in fretta salvando il salvabile … se ne fossero stati capaci.

Progressivamente, cercando però d’evitare lo scontro frontale aperto e diretto, i Veneziani sfrattarono tutti i NaziFascisti dal controllo di Venezia. S’iniziò dalla Stazione Ferroviaria dove inutilmente per tutta la guerra Tedeschi e Fascisti avevano cercato di contenere e debellare le azioni di sabotaggio dei Partigiani Ferrovieri.  In tutta la guerra erano riusciti solo a scovarne e catturarne un paio …

Subito dopo la Guardia di Finanza prese di fatto possesso di altri punti nevralgici della città: prese il controllo della Caserma d’Artiglieria di San Giorgio Maggiore, del Tabacchificio, della Punta della Dogana alla Salute, della Banca d’Italia, dell’Acquedotto, del Catastoe del Molino Stucky. Poi progressivamente seppure con qualche scontro con i Tedeschi, un morto e qualche ferito si prese possesso anche delle Poste  e Telegrafi, della Telve, il Gazzettino, la Centrale Elettrica, la Cassa di Risparmio e gli stabilimenti e cantieri della Giudecca con la fabbrica bellica Junghans.

Gli stessi Secondini provvidero a difendere dall’interno il Carcere di Santa Maria Maggioresalvandolo dall’attacco dei Fascisti e dei Nazisti in fuga che intendevano prima d’andarsene“far piazza pulitaalmeno delle persone scomode”. Si liberarono inoltre i detenuti politici tenuti chiusi in Ospedale, nella Caserma Fascista di San Zaccaria e nella lugubre e truculenta Ca’ Littoria di Cannaregio sede della Federazione Fascista Repubblicana. I prigionieri politici Veneziani vennero giustamente liberati e poi armati per poter contribuire al massimo alla “liberazione totale” di Venezia.
In carcere al loro posto s’incominciò subito a mettere tutta quella serie di personaggi che avevano collaborato e contribuito a rendere presente e funzionante in maniera efficacissima in tutta la Laguna l’organizzazione NaziFascista.

La maggior parte dei Fascisti si volatilizzò provando a scomparire, ma i temibili e minacciosi Tedeschi non intendevano andarsene altrettanto facilmente: oltre a garantirsi con le mine e i cannoni una ritirata indolore, volevano bruciare tutto e lasciare dietro di se “tabula rasa” per non favorire in alcun modo il nemico che stava arrivando.
Con loro fu scontro fino all’ultimo, e si riuscì a strappare dalle loro mani Venezia pezzetto dopo pezzetto. Minato il Porto e il Ponte Littorio (della Libertà), avevano iniziato a dare alle fiamme l’Arsenale e tutte le strutture portuali, ma man mano che i Tedeschi incendiavano da una parte ritirandosi, i Pompieri e i civili Veneziani spegnevano dall’altra.
Ci fu qualche mitragliata Tedesca isterica in giro per la città: nel Canale della Giudecca dove i Tedeschi pestarono un Veneziano ubriaco che li stava prendendo per i fondelli: lo buttarono in Canale credendolo morto, ma costui si allontanò a nuoto continuando a insultarli; a Piazzale Roma sul Molino di Cannaregio(dove c’erano dei cecchini dei Partigiani. Fino al 2016 sono rimaste le tracce della rosa dei proiettili sparati sugli edifici e sulla torre dell’ex Macello e Molino ora divenuto Università). Vennero feriti con una mitragliati anche alcuni Chierici del Seminario in Campo alla Salute perché creduti gli autori di una pistolettata sparata contro i Tedeschi presenti all’Hotel Europa al di là del Canal Grande. Erano stati, invece, i Partigiani appollaiati sulla Torre della Punta della Dogana ad aprire il fuoco contro una motozattera Tedesca. I Tedeschi videro movimento nel palazzo di fronte a loro, perciò aprirono il fuoco in quella direzione (fino agli anni ’80 ho visto sulle finestre, gli infissi e i davanzali del Seminario i segni della mitragliata che arrivò da quella parte). Alla fine gli ultimi Tedeschi ritardatari dovettero capitolare lasciando in mano ai Veneziani l’ultimo convoglio in fuga con 57 ufficiali, 262 soldati Tedeschi e 5 marinai Fascisti che vennero fatti tutti prigionieri dai Veneziani.

A dirla tutta, all’atto della Liberazione alcuni corpi di Fascisti galleggiarono morti sulle acque della Laguna, così come quelli di alcuni Tedeschi che vennero lasciati trucidati a terra nelle callette di Venezia … Diciamo che quelli che finirono in prigione in un certo senso dovettero considerarsi fortunati per aver salvata la pelle (ne sanno qualcosa alcuni Buranelli Fascisti che vennero tratti fuori dal Carcere di Santa Maria Maggiore con l’intervento provvidenziale di Monsignor Marco Polo Piovano di Burano).

Nello stesso giorno venne organizzata un’accurata retata racimolando tutti i “Neri”allo sbando e alla deriva che cercavano di nascondersi e farla franca in giro per la Laguna ... A poco valse da parte di qualcuno anche a Burano, Mazzorbo e Torcello provare a nascondersi, o all’ultimo momento togliersi e liberarsi della “Camicia Nera” o voltarsi il basco scuro mostrano la fodera rossa. Fu tutto inutile perché vennero riconosciuti e additati agli Alleati e alla Resistenza dalla stessa gente delle isole: finirono tutti a Venezia nel solito carcere di Santa Maria Maggiore salvati anche dalla voglia della folla di linciarli.

I primi automezzi dell’VIII Armata Britannica entrarono festosamente a Piazzale Roma il 29 aprile 1945, e il giorno seguente il Piazza San Marco sfilarono le jeep del “carosello inglese” del Popsky Private Army facendo sette giri della Piazza.
I Tedeschi non c’erano più … e i cannoni del Cavallino non spararono neanche un colpo su Venezia.


“A Torcello a metà del 1300 ... fra Preti briganti, un Ospedàl e Monasteri quasi in rovina.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 140.

“A Torcello a metà del 1300 ... fra Preti briganti, un Ospedàl e Monasteri quasi in rovina.”

Torcello sapete tutti cos’è, dov’è e com’è … Sapete della sua Storia illustre, di com’era un grande emporio commerciale prima che lo diventassero Rialto e Venezia … Conoscete di certo la leggenda del “caregòn de Attila”, le origini Altinati e tutto il resto, ma a volte sfuggono alcuni flash storici, certi dettagli che fanno cogliere una realtà in maniera del tutto diversa … o perlomeno più curiosa, come piace dire a me.

Sulla Laguna di Venezia secoli fa si levava un nugolo di campanili e chiese, una flotta di Monasteri e Conventini di ogni sorta che ospitavano soprattutto le figlie dei Nobili Veneziani escluse dai grandi giochi matrimoni di convenienza. Nella sola isola di Torcello, che di certo non è mai stata una metropoli, ci sono state almeno sette di quelle piccole realtà Conventuali, e ciascuna con una sua precisa storia e identità. Attorno a queste ruotavano e vivevano i Torcellani, che voglia o non voglia sono quasi sempre stati un popolo destinato a impallidire e declinare di fronte all’inarrestabile crescita della vicina Venezia Serenissima.

A farvela breve, “pizzico e frugo” su costoro dentro a un pugnetto d’anni della Storia a cavallo della metà del 1300 … giusto per raccontarvi qualcosa che mi ha incuriosito un po’ di più.

Nel 1322: “l’universalità dei poveri di Torcello”, ossia l’insieme “demalciapài de la Laguna fra Torsèo, Mazòrbo e Buràn” si riunì interessata nel Palazzo del Podestà di Torcello con i suoi Giudici e Notai perchè c’era stata una donazione da parte di un Nobile Veneziano che li riguardava. Si trattava di costituire nell’isola di Torcello:“un novo Ospìssio par miseri despossènti”. In quegli anni non esisteva ancora in isola un’associazione capace d’interessarsi direttamente di quel tipo di situazione, perciò venne incaricata della gestione dell’Ospedalettola locale Schola di Santa Fosca di Torcello, che da quel momento assunse un ruolo assistenziale non solo per l’isola ma per tutto il circondario lagunare di Torcello, Burano e Mazzorbo. La prima mossa della Schola fu di dare al neonato Ospizio un apposito Priorenominato dal Podestà di Torcello e dal Gastaldo della Schola che s’imposero di scegliere nelle isole chi avesse avuto i requisiti peggiori per poter essere ospitato ... anzi: ospiziato a Torcello.



La gestione della realtà dinamica dell’Ospizietto di Torcello ebbe inizialmente successo … tanto che nel luglio 1341 Pietro Teldi Mastro dell’Arsenale della Contrada di San Martino di Venezia donò alla Confraternita e Ospizio di Santa Fosca una sua casa sita a Torcello per incrementarne le economie. Nel suo testamento c’è scritto che fece quella donazione: “per la salute della sua Anima e di quella dei suoi genitori”… perciò quella caxetta divenne la nuova sede dell’Ospedaletto di Torcello.
La Storia continua raccontando di quanto accadeva spesso a Venezia e quindi anche in fondo alla Laguna: l’Ospizio di Santa Fosca divenne sempre più facoltoso allargando progressivamente il suo patrimonio fino a superare quello della stessa Schola che l’aveva inizialmente “generato e sostenuto”. L’ “Ospeàl de Torsèo” possedeva terre nel Distretto di Treviso, una vigna affittata a Torcello (acquisita all’inizio del 1400), e nella stessa isola anche un altro terreno con casa di legno, e un ulteriore appezzamento di terra su cui il Priore decise di costruire delle caxette per finanziare ulteriormente l’Ospizio.

Tutto bene verrebbe quindi da dire ! … Mica tanto, perché nonostante l’Ospedaletto possedesse quei lasciti e quel bel patrimonio, l’Ospizio languiva non poco in quanto scomparivano e s’esaurivano troppo facilmente tutte le rendite … Strano ! … Allora come oggi, i soldi entravano da una parte e chissà dove andavano ad uscire da un’altra.

Già nel 1384, infatti, le Cronache Torcellane raccontano di come l’Ospedaletto fosse fornito di soli 6 letti in tutto: uno di questi era inutilizzabile, mentre altri tre che erano di tela erano strappati e malridotti. Non parliamo poi delle lenzuola dei letti ! … erano tutte ugualmente scadenti e lacere, mentre le imbottite erano piene di muffa tanto che non si osava collocarle in uso per gli ospiti ... I “secchi da notte” e il pentolame della cucina erano tutti rotti e senza manici … e l’unico bancone non aveva più il suo fondo usuale. Solo all’inizio del 1400 con qualche altro nuovo lascito si riuscì a rendere di nuovo utilizzabili 5 dei 6 letti rimasti.

Nel 1428: un Canonico del Duomo di Torcello impietosito da quella situazione lasciò per testamento 1 ducato all’Ospedaletto perché si comprassero delle lenzuola nuove … Ma le cose non cambiarono più di tanto … Circa vent’anni dopo, infatti, quando Pietro Bortolo Gastaldo della Schola di Santa Fosca di Torcellonominò il nuovo Priore dell’Ospìssio, lo fece a patto che il nuovo eletto rifornisse l’Ospedaletto a proprie spese di un nuovo letto efficiente e provvisto di tutto ... e già che c’era, il Gastaldo chiese al nuovo Priore di mettere anche un’immagine della Madonna “sòra a la porta dell’Ospeàl”, e gli ordinò ancora di far bruciare la sera di ogni sabato un’apposita luminaria davanti a quella nuova icona beneaugurante.
Le cose con quella nuova gestione Priorale sembrarono andare un po’ meglio, tanto che l’Ospedaletto riuscì addirittura a soccorrere e finanziare la Confraternita stessa di Santa Fosca fornendole contributi annuali in farina e legna da utilizzare per i pasti di carità offerti gratuitamente ai miseri della Laguna.
L’Ospizio stava così bene economicamente, che lo stesso Gastaldo Bortolo chiese e ottenne che fosse dato alla Schola di Santa Fosca la rendita d’affitto di una delle caxette di Torcello appartenenti all’Ospedale. L’Ospizio infatti continuava a recepire ulteriori consistenti lasciti da parte di Nobili famiglie Veneziane come i Dandolo, i Contarini e gli Emo che tuttavia lasciavano al Priore e agli uomini dell’Ospizio la libera gestione di quel significativo patrimonio.
Priore e uomini dell’Ospedaletto venivano scelti tutti fra le famiglie più in vista di Torcello: i Nalesso e i Bordolo… che in realtà grandi ricchi non erano, erano forse meno poveri degli altri isolani.



Le altre cronache “dell’Ospìssio de Santa Fosca de Torsèo” andarono quasi del tutto perse e dimenticate, così come si raccontò poco o niente dei “malciapài”che sostavano sotto ai portici di Santa Fosca e del chiesone di Santa Maria Assunta per ripararsi dalle intemperie dell’inverno. In isola stavano accadendo cronache diverse … nel 1374, ad esempio,“tenèva banco” sulle bocche di tutti l’insolita storia del Prete Marco da Torcello.

Era capitato che la Nobile Veneziana Donna Lucia si recasse un giorno a Torcello in compagnia di suo marito Buonaventura in visita al fratello Prete e Segretario del Vescovo di Torcello. E fino a qui: niente di che … Infatti, cenarono insieme dentro al Palazzo Vescovile di Torcelloaccanto alla grande Basilica nella più grande normalità cordiale fino a tarda notte. In compagnia degli altri invitati si divertirono, fecero musica e balli, e quando terminarono era già suonata da un pezzo la campana della terza ora di notte. A quel punto, vista l’ora tarda, fu impossibile trovare qualche barcarolo volonteroso disponibile a traghettarli fino a Venezia, perciò marito e moglie decisero di ritirarsi ospiti in una delle camere del Vescovado.
Fu poco dopo che iniziò per loro una notte di terrore e d’angoscia. Mentre il marito della donna mezzo ubriaco dormiva profondamente, la donna udì prima dei fruscii sommessi e dei rumori leggeri, e poco dopo nel buio avvertì delle mani sudicie che la toccavano dappetutto. Ovviamente urlò impaurita svegliando il marito, ma non videro nessuno, e i due rimasero svegli e impauriti tutta la notte, stando nell’inquietudine e mezzi vestiti con un coltello stretto in mano.

“Per fortuna quando Dio volle tornò l’alba e la luce del giorno … così potemmo letteralmente fuggire da quella trappola Torcellana …” spiegarono in seguito i due malcapitati.

L’autore della bravata notturna era stato uno degli invitati al banchetto della sera precedente. Si trattava di Prete MarcoCanonico di Santa Maria Assunta di Torcello, che come molti altri Torcellani nutriva dichiaratamente un: “odio profondo e grande disprezzo per i Nobili Veneziani”. Quella notte non aveva perso l’occasione per divertirsi alle loro spalle e poterli così deridere. Diversi testimoni raccontarono, infatti, che il giorno seguente Prete Marco andò a vantarsi e a raccontare tutto nei minimi particolari nella vicina osteria di Torcello dove s’intrattenne a lungo a mangiare, bere, ridere e scherzare insieme ad altri isolani suoi amici, complici e conniventi. Come riportato negli atti della denuncia presentata in seguito al Podestà di Torcello, Prete Marco raccontò a lungo nell’osteria di come la sera precedente ballando con Siora Lucia da Venesia le aveva sottratto alcuni anelli dalle mani. Non sazio di quel gesto, aveva spiato la coppia per tutta la serata, e infine era andato di notte a toccare la donna nel suo letto con l’esplicito intento di spaventare i due Veneziani.

“I Veneziani sono tutti stupidi …”disse il Prete nell’osteria, “e quella donna era una povera pazza ubriaca e furiosa …”

Esisteva insomma un notevole astio e un grande risentimento degli uomini delle Lagune verso quelli della Capitale Veneziana … Lo dimostra e conferma anche un altro episodio risalente al 1366. Stavolta il denunciato fu Prete Nicolò della Pieve di San Martino di Burano che oltre a tenersi stabilmente in casa una giovane donna di Burano come concubina, si raccontò essere anche abituato ad uscire di notte con altri compari e simili Buranelli andando armati e con barche a taglieggiare le persone soprattutto Veneziane di passaggio sulle terre e acque di Mazzorbo. Sfacciatamente poi, Prete Nicolò si vantava in giro per le isole di riuscire: “a far ogni notte buon bottino”.



Erano quindi parecchio “vispotti” i Buranelli e i Torcellani di quell’epoca … Nel 1377, infatti, un’altra banda di Buranelli si scontrò con una banda di Torcellani scegliendo Mazzorbo come luogo di scontro e battaglia. Raggiunta una festa e sagra da ballo che si teneva nella Contrada di San Pietro di Mazzorbo, innescarono una rissa furibonda lanciando ingiurie e offese, e sfoderando le armi contro i Torcellani nonostante fossero stati appena stati redarguiti, richiamati e multati delle guardie del Podestà di Torcello. Anche quello non fu un episodio isolato, perché nello stesso anno avvenne anche un’altra lite furibonda fra Buranellie Mazzorbesi. La causa fu stavolta del pesce rubato nottetempo da un Buranello in una peschiera di una Valle di Mazzorbo data in concessione a un Buranello. I Mazzorbesiaccortisi dell’intrusione furtiva, inseguirono il ladro Buranello fino al ponte principale di Burano intenzionati a sequestrargli reti e “sièvoli”(Cefali), ma giunti a Burano furono immediatamente investiti da una gragnuola di pietre lanciate dai giovani dell’isola, e subito dopo vennero sovrastati da sonore remate calate dai pescatori di Burano sopra le loro teste e spalle. Ai Mazzorbesi non rimase che fuggire.

E non è tutto ancora circa le storie di quelle isole … Dietro al Palazzo Pretorio del Podestà nell’Isola Maggiore di Torcello, esisteva fin da prima dell’anno 1000 un Monastero di Monache Benedettine situato oltre un piccolo ponticello, “sul bordo del palùdo” in una delle Isole Minori di Torcello. Oggi non ne rimane più niente, è tutto scomparso. Si trattava del Monastero di San Michele Arcangelo di Zampenìgo detto volgarmente dai Torcellani: “Sant’Angelo delle Campanelle” per via di alcune campanelle argentine che suonavano nel suo campaniletto ... “pignatèlle più che campanelle” dicevano i Torcellani.
Nel 1370 quel piccolo Monastero di campagna era totalmente in crisi, con poche Monache e ridotto in miseria. Lo stato dell’abbandono e dell’incuria era tale che gli isolani potevano permettersi di penetrare a piacimento dentro ai luoghi del Monastero per derubarlo di quel che volevano.
Due anni dopo, infatti, il Podestà di Torcello per salvare il salvabile fu costretto a ordinare a tutti coloro che possedevano nelle loro abitazioni oggetti provenienti “dalle Campanelle” di riportarli nel cortile del Palazzo Podestarile entro il giorno seguente … Il troppo era troppo ! … rimuginò di certo il Podestà.



Quella decisione fu però insufficiente, perché ancora nel marzo 1409 la Quarantia Criminal della Serenissima fu costretta a condannare in contumacia il Nobile Francesco Mudazio a: “Bando perpetuo da Venezia e da tutto il suo Dominio sotto pena di morte”. Era entrato con un suo servitore nella camera della Badessa di Sant’Angelo delle Campanelle di Torcello mentre dormiva con una Monachella di 16 anni di nome Faustina. Il servitore aveva tenuto a bada la Badessa con un coltello sotto alla gola, mentre il padrone aveva violentato la fanciulla: “in tranquillità”… Torcello in fondo alla Laguna di Venezia stava per davvero morendo del tutto.


“SANT’ILARIO DI FUSINA … DOVE INIZIAVA E FINIVA VENEZIA SERENISSIMA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 141.



“SANT’ILARIO DI FUSINA … DOVE INIZIAVA E FINIVA VENEZIA SERENISSIMA.”

Se andate ora a cercare e vedere Sant’Ilario di Fusina troverete solo un mucchio di pietre abbandonate e dimenticate chiuse dietro a un cadente e provvisorio recinto: “Sant’Ilario xe quattro pière desmentegàe !”, mi raccontava qualche tempo fa un nostro illustre Storico ormai scappato dal vivere per sempre.

“Sai qualcosa su Sant’Ilario di Fusina ?” chiedevo qualche giorno fa a una mia conoscente.

“Mai sentito … Che è ?”è stata l’illuminante risposta.


La storia dell’Abbazia di Sant’Ilario di Fusina va collocata nel passato della nostra Serenissima quando era ancora combattuta fra dipendenza Bizzantina e aneliti filoEuropei e Imperiali ... ma aveva adocchiato ormai con certezza la sua via economica e Mediterranea. Di Sant’Ilario si parla pochissimo anche se è stato un “piccolo miracolo in casa Veneziana”. Sorgeva in una zona altamente strategica sul bordo, sulla gronda della Serenissima Laguna: stava proprio sull’estremo confine della Repubblica, era insomma una delle “porte estreme” da dove si poteva filtrare o uscire dalla Laguna. Per di là passava proveniente dal Nord Italiano e Padano grossa parte dei commerci, degli intrighi e accidenti, ma anche delle fortune che interessarono Venezia per alcuni secoli. Da Sant’Ilario entrarono: “Forèsti, Mercanti, Ambasciatori e Signori di ogni sorta e lignaggiodai quali la Serenissima si doveva proteggere e guardare attentamente, o coi quali era bramosissima di consociarsi ed allearsi. Quello di Sant’Ilario era uno snodo, un luogo particolarissimo dove Venezia teneva gli occhi ben aperti, e portava la mano dietro all’orecchio per sentire meglio e cogliere i grandi sommovimenti della Terraferma Veneta, Italiota ed Europea ... Il posto di Sant’Ilario era antichissimo, esisteva fin da prima che Venezia diventasse grande e Serenissima. Lì avevano posto i Monaci Benedettini che avevano capito quanto era importante quel luogo di transito dove sboccavano numerose Vie terrestri e fluviali, e non ultima: la foce del fiume Brenta in Laguna.”

Oggi Sant’Ilario non esiste più … Sorgeva nel cuore di quel che è stata la grande Zona Industriale di Marghera, vicino a Dogaletto di Malcontenta, nelle periferie estreme dei Moranzani di Fusina, sulle ultime propaggini di Marghera insomma.

“Sant’Ilaria de Fusina ?”

“Fusina ? … Ah ! … Ghe xe solo un Terminal co una specie de spiaggia … xe làssa a macchina e se ciàpa un fià de sol … non ghe xe altro.”

Sant’Ilario di Fusinaè per molti una tematica riservata a pochi “addetti ai lavori”, a studiosi abituati a inabissarsi negli Archivi e a frugar fra carte e reperti museali.

Sant’Ilario di Fusina era, invece, “Una Porta di Venezia” che apparteneva alla Diocesi di Olivolo-Castello, un luogo dove si proteggeva Venezia dall’arroganza di Padova, e si riscuotevano i Dazi e le Gabelle per conto del Doge tenendo in funzione tutta una serie di torri e belfredi, e provvedendo alla “retencio aquarum” con palade, roste, molini e stroppe.



“Già dalla fine del 1200, i guardinghi Capitani Veneziani erano prontissimi e severissimi nel rintuzzare e controllare ogni seppure minima “novitas et introdutio” o sconfinamento che accadeva nelle Valli o in direzione della laguna ... la prima freccia dei gabellotti Veneziani s’infiggeva sui carri o sulle barche, la seconda sul petto o in faccia di chi non si fermava … ma venivano seppelliti nel nobile cimitero dell’Abbazia di Sant’Ilario … Nessuno poteva avvicinarsi a Venezia: “fodiendo terram, ausellando, piscando, canna set cannellas faciendo et secando.”  … A Sant’Ilario di Fusina iniziava Venezia ... anzi: s’incominciava ad aver a che fare con Lei.”

Secondo la tradizione Sant’Ilario Vescovo morì nel 368 d.C. dopo aver governato Padovaper 12 anni: a 2 km da Malcontenta sulla “Via di Padova” sorse quasi subito un Oratorio intitolato a quell’uomo, Santo e Vescovo così singolare. Piano piano quel piccolo punto di riferimento fra i campi e le paludi divenne più consistente ospitando anche un nuovo Monastero fondato nel 819 dall’Abate Giovanni. Proveniva dall’isola di San Servilio o San Servoloin Laguna dove i Monaci vivevano “…in loco angusto et infra paludes … e privi di proprietà e di mezzi”. In seguito il Monastero di Sant’Ilario crebbe sempre più d’importanza divenendo un essenziale porto d’interscambio sulla foce del Brenta fra Padova e la Laguna di Venezia. Lo “Scriptòrium Ilariano” produsse codici di una certa rilevanza come quello ricordato e realizzato dal Monaco copista Paganus alla fine del 1100 su incarico dell’Abate Strambo. A Sant’Ilario inoltre si stendevano: sillogi di testi, note storiche e Annales, necrologi, Martirologi, Capitolari e Regole monastiche.

L’Abazia si emancipò progressivamente da ogni controllo sia del Patriarca di Grado che del Vescovo di Venezia-Olivolo-Castello a cui non versò più alcun tipo di tributi, né angherie, né pranzi, nè xenia … era divenuta: Abbazia Dogale. Sant’Ilario controllava tutti i territori a nord di alcuni fiumi che oggi non esistono più: l’Une(Brenta Vecchia), il Suecoe Clarino (odierna Seriola veneta), a sud arrivava a governare territori fino alla Fossa Ruga e al Canale Luva o Lova o del Cornio(oggi già Comune di Mira), mentre a ovest giungeva fino alla Fossa Gambararia (Ponte Damo, Molinrotto-Bastie), e ad est fino al bordo della Laguna di Venezia. 

Alla “Cadèna e Palàda del Borgo de Sant’Ilario” iniziava il Cal Tana ossia il porto dove avveniva il pagamento dei dazi e noli, e da dove si spedivano a Venezia: derrate, legnami, selvaggina, cinghiali e pesci che venivano pescati fino accanto alle mura del Monastero. Tutte le barche che passavano per Sant’Ilario pagavano pedaggio: all’Abazia spettava la terza parte dei noli delle barche che caricavano e transitavano, e la quarta parte del “Nolo dei battellieri”che scendevano da aprile ad agosto da Noventa fino a Venezia. Nel Monastero Dogale di Sant’Ilario vennero sepolti molti uomini di Stato della Serenissima e ben 5 Dogi (Vitale Candiano (978-979) ritiratosi dalla vita politica e fattosi Monaco a Sant’Ilario come Pietro Candiano III (942-958); Pietro Candiano IV (959-976) e Angelo e Giustiniano Partecipazio Dogi Nobili provenienti dalla Civitas Eracliana fondatori dell’Abbazia ma anche del primo Emporio Realtino nonchè di Palazzo Ducale e della Basilica Marciana).
I Monaci del Cenobio di Sant’Ilario allevavano Cani, Bracchi, Falconi e Cavalli che prestavano al Doge quando andava a caccia da quelle parti … Ogni anno nella zona di Sant’Ilario la vigilia di Natale si teneva una grande caccia le cui prede venivano distribuite ai Magistrati e alle famiglie dei Nobili di Venezia, e ogni anno il giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo in giugno il Doge col Senato visitavano solennemente l’Abbazia … Curiosamente, Sant’Ilario collocato sopra a un'isola fluviale sabbiosa del delta dell'antico Brenta sembra essere stato un “Monastero doppio”, promiscuo, dove coabitavano Monaci e Monache: infatti i documenti ricordano che vi risiedeva anche Bona vedova di Stefano Tino divenuta prima Conversa e poi Monaca di Sant’Ilario.

Già nel maggio 883 il Cenobio di Sant’Ilario dichiarava di possedere “le Curtes” di Ceresaria e Pladano con la Cappella di San Pietro e il xenodochio dei Santi Vito e Pietro di Treviso esigendone le decime. I Vescovi di Treviso tentarono più volte e inutilmente d’assicurarsi il controllo di quel patrimonio di Sant’Ilario falsificando diplomi di Enrico II a proprio vantaggio. I Monaci di Sant’Ilario a loro volta si fabbricarono un falso diploma di Carlo il Grosso che confermava le proprietà concesse loro da Ottone III, Enrico II e Corrado II, e si rivolsero direttamente all’Imperatore che “con le buone maniere” indusse i Vescovi di Treviso a remissione verso gli Abati di Sant’Ilario. Alla fine di quell’antica e contorta vertenza Sant’Ilario concesse in feudo quelle proprietà di Treviso ad Umberto da Fontaniva Avvocato del Monastero.

Fra novembre 1025 e ottobre 1028 l’Abate Bono di Sant’Ilario forte di un privilegio di Corrado II che gli concedeva decime sulla Corte di Oriamo, acquistò dalla Contessa Edvige vedova dei Conti di Treviso oberata di debiti quasi 70 “massaricie di terra” con tutti i loro diritti di decima (44 massaricie si trovavano in Fossa Bovara, Fiesso e Perarolo dove c’era anche un molino, e 24 massaricie c’erano in Pedraga in Padovana dove sorgeva anche la Cappella di Santa Maria).

Ottenendo di continuo ulteriori privilegi imperiali nonchè la Protezione della Santa Sede che concesse a Sant’Ilario la chiesa di San Nicolò di Caxorana, l’Abate Pietro acquistò nel marzo 1113 da Agicardo figlio di Conone da Vidòraltre 7 massaricie di terra in Albaredo, Adrine, Perarolo, Borbiago e Pianiga, e quattro anni dopo il Monastero comprò per 8.000 lire “con diritto di Feudo” da Arsedisio e Widotto figli del decaduto Conte Rambaldo di Treviso (ereditati da un’ava Gisla moglie di Guido da Spoleto): la Corte di Porto comprensiva di 150 massaricie (ossia 3.000 campi) lungo tutta la Riviera del Brenta e nel Veneziano(15 massaricie in Brazido e Alterius, 23 in Porto Menài, 2 in Cùnio, 7 in Curàno, 17 in San Brusòn, 3 in Stalèrde, 15 in Tabelle e Sermacia, 1 a Strà, Fiesso e Caselle con 125 campi di bosco, 3 in Vigonovo, 9 in Bultène, 5 in Orsignàgo, 1 a Marano, 10 in Adrìne, 10 in Vetrègo, 3 a Scaltanìgo, 4 in Formìgoe 6 in Albarèa).

A Venezia inoltre, fin dai primi tempi Sant’Ilario possedeva il Priorato di San Gregorionell’omonima Contrada nel Sestiere di Dorsoduro. Sant’llario insomma fra donazioni, compere, liti, lotte e processi divenne una piccola potenza economica sull’orlo della prima Terraferma Veneziana.



E’ sorprendente però la Storia e il destino che subì Sant’Ilario di Fusina. L’insigne complesso andò incontro a una brutta fine per le distruzioni belliche, e soprattutto per colpa dell’interramento delle acque della Laguna di Venezia.
Già fin dal 1142-1143, al tempo delle ostilità fra Venezia e Padova, i Padovani scavarono l’alveo del Medoaco Maggiore da Noventa a Porto Menai immettendovi il Brentachiamato in questo tratto Piovegella. La manovra tagliò fuori completamente Sant’Ilario da ogni via, controllo e traffico commerciale provocandogli un danno gravissimo inestimabile.
A nulla servì la concessione a Sant’Ilario da parte del Comune di Padova di poter: “…edificare molendina ad suam voluntatem et eo ubi volet…” inviando cereali già molinati all’Emporio di Rialto.  Fu un “contentino riparatorio”inutile.

Nel 1182 l’Abate Uberto concesse a Leone Paolini da Cannaregio di fondare e costituire “pro remedio anime mee” poco distante da Sant’Ilario: “… in bucha flumini Sancti Ilarii usque ad fossam quae dicitur Malanocte …”,l’Ospitale-Ospizio di San Leone di Fossamala con annessa chiesuola per adibirlo a posto di ricovero per forestieri e Mercanti di passaggio, e all’occorrenza come piccolo lebbrosario a disposizione dei Veneziani.
“L’Hospedàl de San Leon in Bocca Fluminis” posto sotto la giurisdizione del Vescovo Veneziano di Olivolo-Castello era dedicato al Beato Papa Leone come la chiesa della Contrada Veneziana di San Lio poco distante da Rialto ... A San Leone s’incontrarono i Legati Papali per risolvere la lite fra Angelo Barozzi Patriarca di Grado e Marco Michiel Vescovo di Olivolo-Castello di Venezia.

Subito ad est della cavana dell’Ospizio sorgeva “la Palàda del Dazio sul Canal di Vigo”, mentre poco distante e di fronte era attivissima la fiorente attività dei molini dei Nobili Marcello, e tutte le terre intorno coltivate quasi tutte a vigna erano state concesse in uso ai Nobili Minotto, Valier e Coco.
I Monaci di San Leone non erano tenerissimi ma spremevano abilmente le risorse dei contadini del luogo, tanto che nel 1205 frotte armate di coloni di San Gervasio misero in fuga gli sterratori inviati dal Monastero di Sant’Ilario minacciando di incendiare l’Ospizio di San Leone e di strappare la lingua al suo Rettore se non fossero state accettate le loro rivendicazioni ... Nello stesso anno il Converso Enrico indicava San Leone di Fossamala come sua residenza, e la descriveva come un’area di 60 passi x 60 passi bonificata dai Monaci con edifici, chiesa, cavana e annessi ...  In un trattato fra Venezia e Padova del 1232, invece, si cita il Priore Ambrogio di San Leone in Buca Fluminis, mentre tre anni dopo il Nobile Marino Marcello chiese alla moglie Parera un prestito da impiegare nella costruzione di alcuni molini proprio di fronte a San Leone in Fossamala ... Nel settembre 1328 il luogo era già ampiamente incannettato e abbandonato per il progressivo impaludamento e l’abbassamento del livello marino ... Il pescatore Marco Bellin affermò durante una vertenza processuale che l’Ospizio e la chiesetta di San Leone in Fossamala ai Molini di Ca’ Marcello erano ormai circondata da canneti, e che tramite “un argine di terraferma” si poteva raggiungere Sant’Ilario di Fusina. Le bocche dei fiumi Visgnòn, Brentasecca, Oriago o Roiaglierano avanzate di diverse centinaia di metri verso la Laguna. A Sant’Ilario che distava due miglia e ½ dal molendino del Visgnòn e due miglia dalle acque del Clarino, si pescavano “i Gò”: pesci d’acqua salata.

Nel 1467 San Leone era un cumulo di rovine poco distanti dall’Ospizio-Osteria di LizaFusina ... Nel 1519 quando i Nobili Marcello vendettero ai Boldùalcuni loro beni in zona Sant’Ilario la zona di San Leone era ormai soltanto un nome di un posto abbandonato ormai da due secoli.

Più o meno negli stessi anni in cui San Leone venne attaccato dai coloni, per Sant’Ilario di Fusina iniziarono le “prime grosse rògne”: nel 1214 il ricco Padovano Jacopo di Sant’Andrea di Codiverno figlio di Speronella Dalesmanini assediò e invase con le armi il Monastero minacciando di morte l’Abate Teonisto che prima si rifugiò nel campanile e poi fuggì a Venezia andandosi a riparare nel Priorato di San Gregorio. Jacopo radunò il Capitolo dei Monaci, cacciò quelli contrari, ed elesse come Abate il Monaco Baronio che gli permise di impossessarsi di 10.000 lire veronesi. Fece poi giurare ai Monaci rimasti che gli avrebbero concesso una rendita annuale di 500 lire ... ma intervenne il Papa Innocenzo III che attraverso il Vescovo di Cittanova disautorò l’Abate usurpatore trasferendo la sede giuridica e patrimoniale di Sant’Ilario a San Gregorio di Venezia. Una decina di Monaci Veneziani riuscì a tornare al Sant’Ilario di Fusina solo una quindicina d’anni dopo.

Fino a metà del 1200 tuttavia, il Monastero di Sant’Ilario tramite il suo Abate residente a San Gregorio di Venezia concesse in affitto ai Nobili Veneziani Zulian, Dandolo e Marcello di San Basilio, e in seguito anche ai Valierparte del loro ingentissimo patrimonio. Diedero in concessione le terre e le acque poste attorno all’Ospizio di San Leone di Fossamala e sui rami dei delta fluviali del Brenta, dell’Elero, Oriago, Volpadego, Moranzano e Brentasecca per costruirvi sopra numerosi mulini, e le Valli da pesca di Cona, Visgnòn e Malanotte dove i Veneziani andavano a pescare e cacciare.

A metà del 1200 fu il turno di Romano da Ezzelino Signore di Padova di attaccare il Monastero di Sant’Ilario trasformandolo in fortezza. I Monaci scapparono di nuovo nell’Abazia di San Gregorio di Venezia lasciando un unico Monaco Guglielmo, e alla fine l’Ezzelino lasciò di Sant’Ilario solo un cumulo di rovine che i Monaci provarono a ripristinare utilizzando un cospicuo lascito di un Notaio Prosdocimo gravemente infermo che lasciò 100 denari “per l’Anema sòa”… L’Abate di Sant’Ilario-San Gregorio vendette inoltre alcuni terreni ai Nobili Veneziani: Pino, Cocco e Marcello, litigò per più di un secolo con le famiglie Da Peràga e Bàdoer per la gestione di altri terreni, e concesse ai Valier di eseguire opere idrauliche e canalizzazioni “… pro utilitate molendinorum…”nonché il libero utilizzo “…ab aqua Sisula usque ad aquam salsam.” … ma era già iniziata la grave stagione dell’impaludamento della Laguna di Venezia dovuto alla deviazione dei fiumi.

Le deviazioni delle acque portarono in Laguna sfacelo e malaria: vennero abbandonati villaggi, scomparve la Villa di Vicolo, si danneggiarono per sempre le Valli del Gambarare e tutte le terre verso Curano. L’antica Tergolache scorreva fino a Sant’Ilario a causa dell’immissione delle acque del Brenta si biforcò ad Oriamo sfociando in laguna ai Bottenighi formando l’interramento chiamato Ponta dei Lovi, mentre dall’altra parte sboccò in laguna presso Fusina ove fino al 1300 inoltrato avanzarono le paludi e i canneti raggiungendo quasi Venezia distante solo 200 passi o mezzo miglio.
Le cronache Veneziane dell’epoca raccontano che si potevano percorrere le barene con i muli arrivando fino a 50 metri dal Convento di Santa Marta di Venezia … Vero o no che fosse, di certo le deviazioni dei fiumi segnarono la fine della “Stagione Ilariana”. Sul margine della gronda Lagunare iniziarono a regnare solo grandi silenzi e sparuti gruppi di contadini, contrabbandieri e briganti che insidiavano i sempre più rari forestieri di passaggio.

Nel 1283 il Maggior Consiglio concesse al NobilHomo Pietro ed eredi dei Minotto di San Cassiano lo sfruttamento delle zone acquitrinose e lacustri sul fiume Brenta da Oriago fino alla Laguna di Venezia con la possibilità di costruire a piacimento sul letto del fiume: palade, zattere per molini, opifici e foli per la tintura dei panni.

All’inizio del 1300 il Vescovo di Castello-Olivolo di Venezia che aveva ottenuto giurisdizione sopra l’Abate di Sant’Ilario-San Benedetto e San Gregorio concesse di ospitare a Sant’Ilario un’autorità vescovile per controllare tutto il territorio di Sant’Ilario dove vivevano solo sei Monaci … L’Abate Frigidiano concesse inoltre di costruire la chiesa di San Giovanni Battista di Balleello a Gambarare, acquistò ulteriori terreni a Fiesso dove l’Abazia gestiva dei molini sul corso d’acqua detto la Botte dei Bianchi, e concesse terre, molini e un bosco al Magister Miniator Rolando del fu Goto da Padova, ma abitante in Venezia.

Quando il Dogado Veneziano era diviso in nove parti, la nona era Gambarare divisa a sua volta in quarti o quartieri: Bottenigo, Fusina, Moranzani e il Quarto da Folo… Per Folo s’intendeva una Gualchiera, ossia una macchina idraulica che percuoteva con magli di pietra i tessuti di lana già trattati e “purgati”con acqua, sapone e argilla, dando loro consistenza tipo feltro. (Anche i Nobili Bragadin, i Pesaro, il Vescovo di Torcello e i Mocenigo possedevano Foli da Lana e Foli da Carta a Padova e Battaglia e altrove … e ancora nel 1613 la Camera del Purgo di Venezia possedeva: “la giurisdizion de lavàr lane a Fusina sul folo alle porte del Moranzan pagando ai Nobili Da Pesaro 120 ducati fino al 1633, e avendo anche due case affittate per 85 e 28 ducati e una bottega de fruttarolo …”).

Sempre all’inizio del 1300, si provvide a costruire nei pressi di Sant’Ilario tra la foce del Canal Maggiore e del Bottenigo la Cappella-Oratorio di Sant’Onofrio Protettore dei Tintori, indice indiretto della decadenza dell’attività molinaria per colpa dei fiumi diseccati e troppo imboniti. Al loro posto nel territorio ormai paludoso s’erano piantate tintorie e folli da Lana e Carta.
La chiesetta di Sant’Onofrio venne quindi edificata sul letto secco del fiume di Oriagoaccanto al Canal dei Follie della Crea, e di fronte alle proprietà e alle case di Pietro Minotto risalenti al 1283. Nell’ottobre 1303 la costruzione doveva essere ormai terminata perché Bennata Minotto vedova di Pietro e figlia di Marco Soranzo lasciò per testamento una “pelle azzurra” per adornare l’unico altare della nuova chiesetta costruita “con portico davanti sorretto da pilastrini in pietra viva”. (Nel 1628 anche Sant’Onofrio era divenuto solo un toponimo: “il ramo di Sant’Anofrio ovver Paltane” a sud del fiume Bottenigo vicino al Brenta di Fusina… era scomparso tutto, non c’era più niente).

Nel 1362 la guerra di Venezia contro i Carraresi si combattè proprio su quello che era stato il territorio dell’Abbazia di Sant’Ilario … e dopo la guerra i Monaci concessero al Nobile Maffeo Emo e alle famiglie Nobili Marcello e Venier quel che restava dei loro beni devastati a Gambararecomprese le terre fra Ca’ Valerio e quel che c’era ancora di San Leone in Fossamala… L’anno seguente l’appalto del “Transito del Soldo alla Palada de Fusina e Sant’Ilario” a privati garantiva di nuovo allo Stato Veneziano un’entrata annua di 100 ducati … Cinque anni dopo si provvide a costruire un argine di separazione fra acque salse e dolci con marchingegni che consentivano di superare il dislivello: era “il Carro”, un “portello-scivolodi legno” alto 3 metri che dava accesso all’alveo pensile superiore del Brenta.

Trascorsi pochissimi anni tranquilli, iniziò nel 1379 la guerra di Venezia contro i Genovesiche decretò il ritiro definitivo dei Monaci a San Gregorio di Venezia e la fine del Borgo di Sant’Ilario: gli ultimi quattro Monaci di Sant’Ilario vennero mandati a risiedere a Santa Maria e Teonisto di Borbiago... L’ultimo documento che parla ufficialmente di Sant’Ilario e delle sue attività risale al febbraio 1390: poi più niente.


Rimaneva comunque l’ingentissimo patrimonio di Sant’Ilario sparso sulla Terraferma Veneta e in Laguna. I Monaci dell’Abbazia dei Santi Gregorio-Ilario e Benedetto di Venezia possedevano: 30 campi lavorativi, 7 di bosco e 7 di valle a Ca’ di Bosco di Dolo; 590 campi e ½ a San Brusòn dove in Contrà Argine del Brenta tenevano anche 1 vacca e 1 manzo; 16 campi di cui 10 a prato in Contrà Gorgo; 98 campi arativi-prativi in Contrà Maltempo dove c’era anche una casa e un casòn di paglia, e altri 8 campi di restàra e bosco; 40 campi alle Stradelle; 130 campi arativi-prativi ai Sabbioni dove 2 campi e ½ e 1 casa pagavano 3 ducati e regalie di un paio di galline, un pollo e 25 uova; 45 campi a prato e restàra in Contrà Brenta; e 68 campi a prato, pascolo e restàra soggetti ad acqua fra San Brusòn e Contrà Brentòn.

A Fiesso, invece, i Monaci possedevano una casa sopra il Brenta in Contrà Botte Bianchi; una casa con tesa e casòn e 40 campi e 8 pascoli, e un’altra casa con 40 campi.
A Gambarareavevano altri 1.000 campi in tutto di cui 765 lavorativi, 168 prativi, 4 pascoli, 55 valli, 8 paludivi ed altro. Secondo i Libri e le carte dell’Abbazia di Sant’Ilario ormai traslocata definitivamente a Venezia vennero dati in gestione a Pietro de Nardo(42 campi con casa di paglia, 2 casoni, 8 prati, 8 valli e pascoli al Bastiòn); a Antonio detto Zaramello(15 campi in Contrà Mira, 22 a Porto Menài, 16 a Curano, 3 a Bastia); a Pietro Xesa(32 campi con casa e tesa di paglia in Contrà Cao de Villa, altri 13 a Latàra e 6 a Mota); a Giacomo La Vida(42 campi arativi-prativi con cortivo e casa di paglia e tesa in Ca’ de Villa); a Natale fu Menego detto La Rissa(16 campi con casa di legno e tesa a Ca’ de Villa con una vacca e un manzo); a Lorenzo fu Antonio(un cortivo con casa, casòn e tesa e 18 campi a Mezza Villa, 10 campi arativi-pascolivi  a Bastia); a Gasparini Zigo(una casa e 3 casòni); a Piero Rato(20 campi con casa di paglia a Mezza Villa, e 10 campi a Curàno); a Lipo de Orazio(un casòn con 6 campi arativi-prativi a Porto Menài, e 14 campi in Contrà Valocàra); a Marco Fabio (una casa di legno, un casòn e 4 campi); ai Tuzàto(una casa de piera e una de pagia, una tesa e dei casòni, e 45 campi a Mira presso la Brenta con 10 prati e 4 valli); a Giacomo di Maràgno(una casa de piera e una de pagia con una tesa e 8 campi arativi-prativi a Porto Menài per i quali pagava ogni anno: 6 mogi di Frumento, 1 mogio di Sorgo, 1 mogio di Miglio, 10 lire di Lino, 1 paio di galline, 1 paio di polli, 1 anitra e 25 uova); ai Gasparini(1 casone e 12 campi arativi-pascolivi a Porto Menài e 1 vacca, 1 vitello ed 1 manzo in società fra loro); ai Vinciguerra(una casa con tesa, 48 campi in Ca’ de Villa, e 14 prati che confinavano con la palude del Bolpàdego); a Nicolò Delnote(2 campi in Contrà della Piazza, e 12 campi arativi-pascolivi a Porto Menài); a Blasio Segalìn(una casa, un casòn e 2 campi presso il Brollo dell’Abate); ad Antonio Fabris(due case, un bosco di 2 campi in Piazza ossia Mezzavilla); ai Gambellàno(80 campi, due case, una tesa in Piazza, a Latàra, al Bastiòn, a Curàno, a Porto Menài, e 2 vacche e 1 vitella piccola); a Perono di fu Matteo(una casa, due tese di paglia e 49 campi arativi-prativi in Piazza);e all’Abate Pietro (un “sedìmen” con brollo di 6 campi con casa grande di muro in Contrà Piazzaper suo uso come canonica (quella attuale).

Niente male vero ? … Inoltre Sant’Ilario possedeva 15 affittanze per 290 campi a Tresciegoli, 56 campi a Borbiago, 633 campi a Marcuriàgo e 58 campi e ¼ con 14 affittanze a Roncodùro… ma giusto a metà del 1400 si nominò Vescovo di Jesolo l’Abate di Sant’Ilario Andrea Bon e il Monastero-Abbazia dei Santi Gregorio-Ilario e Benedetto con tutti i suoi possedimenti venne ufficialmente soppresso e dato in Commenda al Nobile Girolamo Lando… In Terraferma l’antico Sant’Ilarioera ormai privo della copertura del tetto, non c’era più il campanile, e le pietre vennero utilizzate per costruire la chiesa di Gambarare.

Per continuare a salvaguardare il “benessere spirituale e interiore” di quelli che erano stati “i Coloni di Sant’Ilario”gli ex Monaci di Sant’Ilario fecero costruire e continuarono a finanziare sul delta Ilariano diversi piccoli Oratori e chiesette: Santa Maria in Folo o San Martino di Fusina ai Moranzani, San Martino di Oriago, San Teonisto di Borbiago che possedeva un suo Ospizietto, San Giovanni Battista di Balleello, San Bartolomeo di Ballò, San Pietro di Scaltenigo, San Silvestro di Vetrègo e San Nicolò di Caxozana o di Mira. Tutto passò sotto la giurisdizione del Vescovo di Treviso compresa la chiesetta di Sant’Onofrio verso il margine del Bottenigo, il Monastero delle Benedettine sulla sinistra del Brenta presso Malcontenta verso i Moranzoni, altri due Monasteri di Monache ad oriente della Fossa Gambararia a Dogaletto e in Piazza Vecchia di Mira, l’Ospedale-Ospizio di San Leone sulle foci del Brenta “in boca fluminis di Lizza Fusina”, e la chiesa di San Leonardo di Fossamala a mezzogiorno sul Ramo del Cornio.

Il Priorato di San Leonardo di Fossamala era un altro complesso appartenente ai Monaci Benedettini di Sant’Ilario costituito da una quindicina di piccole strutture soprattutto di legno e paglia usate come stalle, magazzini e fienili, con pozzo pluviale, cortile, chiesetta a tre absidi, pavimento musivo, mura costruite con materiale povero e Ospizio. Era una specie di piccolo villaggio segnalato già presente nel 1113 accanto alle proprietà e ai mulini dei Nobili Valier dove i vari Priori: Giovanni Strambo, Armengerius, Rugerius, Angelo, Clarius e diversi altri che si succedettero riscuotevano “il censo e le decime” dagli abitanti del luogo a nome dell’Abbazia di Sant’Ilario.
Stranamente come per Sant’Ilario nel 1285 fu una Monaca Agnese sorella di San Leonardo in Fossamala” a riscuotere lasciti a favore del Monastero, così come due anni dopo fu ancora un’altra Monaca Fiordelisa a qualificarsi come Procuratore del Monastero di Fossamala rilasciando quietanza all’esecutrice testamentaria di Albertino Vendelino che aveva testato a favore del Monastero Ilariano ... Nel 1348 il villaggio con la chiesetta vennero adibiti a luogo di sepoltura degli appestati di Venezia … nel 1521 della chiesetta c’erano ancora resti visibili ... il Cappellano delle Gambarare nel 1601 citò San Leonardo in Fossamala al Patriarca di Venezia come: “ancora esistente nel bosco piccolo delle Gambarare” … oggi tutto è stato “mangiato e ingoiato” dal tempo e dalla 3° Zona Industriale di Marghera.



Le cronache Veneziane del 1500-1600 continuano a raccontare che l’area di Fusina e dei Moranzani funzionava parecchio rimanendo ancora una delle “Porte di Venezia”. LizzaFusina ossia: “IssaFusina”o ZaFusinaera il posto dove continuava ad esserci “l’edificio del carroper le barche”. “Issa” in verità significherebbe in dialetto Veneto: “acqua”, ma si è sempre inteso soprattutto col significato di: “sollevare, scivolare e slittare”.
Alle Palàde dei Moranzani c’era sempre grandissimo traffico … perchè era uno dei Porti della Terraferma Veneziana. Sembra che la Serenissima abbia perfino fatto distruggere il Porto di Oriago che era in concorrenza con quello dei Moranzani e Fusina(esistevano altre Palade di Confine anche a Mestre, Trepalade, Limena, Jesolo, mentre altrove c’erano le famose “stànghe” che limitavano lo Stato Serenissimo. Ancora oggi diverse località di montagna e campagna presentano il toponimo: “La Stànga”).

Nel 1561, quando il “Transito del Soldo di Fusina” garantiva ancora alla Serenissima un’entrata di 270 ducati, si provvide a demolire il vecchio “carro di legno” per costruirvi le porte nuove. In contemporanea s’iniziò il Servizio Postale Venezia-Milanoche passava proprio di là ... Già nel 1514 il “Carro” con la vicina Osteria erano stati messi al pubblico incanto e acquistati dai Nobili Pesaro“ribattezzati”Pesaro Dal Carro. Ai Moranzani di Liza Fusina, infatti, c’erano un Osteria (l’Hostaria del Toni ai Moranzani), un forno e una Pistoria che i Pesaro diedero in affitto nel 1583 per 1.500 scudi annui, e nel 1661 a Perin Lantano per 100 ducati mensili, mentre altre stalle vennero affittate per ducati 30 annui all’Università dei Corrieri Veneti. In totale i Nobili Pesaro e Venier riscuotevano ducati 2.325 annui dal “Monopolio del carro delle barche di Fusina”, mentre i Mocenigo e i Marcello ne guadagnavano altri 170.

Nel giugno 1583 Zulian Bonazza dichiarò: “… d’essere affittuale di alcune terre pascolive e paludive al luoco di Torso nel Tezòn sopra la Brenta dalla parte di Lizafusina pagando a Laura Gritti: 110 ducati annui, 60 libbre di vedello, 100 libbre di porco, 40 libbre di onto sottil e varie regalie di pollame con un barile di agrèsta.”… Erano le aree delle Valli da Pesca che rimasero attive fino al 1900.

Nel 1619 quando s’interrò una delle due chiuse (l’altra è attiva ancora oggi), ai Moranzani di Fusina funzionava ancora la Palada per la riscossione del Dazio della Serenissima. Nei pressi c’era la famosa “Presa d’acque della Cerinòla o Seriòla”: l’acquedotto dove la Serenissima faceva depurare le acque in grandi vasche prima d’inviarla “con bùrci” a Venezia dove si riempivano le cisterne dei pozzi, e la si vendeva in giro per le Contrade con i bigolànti.
Quattro anni dopo, Domenico Papacizza Gastaldo dei Nicolottidi Venezia dichiarava “interrato” tutto quello che era stato il sito Ilariano: “… tutto Bombagio et San Marco di Lama et tutti quei luoghi da Lizafusina fino ai lidi et il Melison, per causa del Brenta, che se Dio non provede nel Melison vi s’anderà presto camminando…”mentre Nadalin Gritti altro Nicolotto ricordava: “… haver preso dei cievoli dentro di quelle bricole che adesso si può dire vigna …”



Nel 1693 Giovanni Battistae i fratelli Sebastiano e Lunardo Venier acquistarono per ducati 784 dal Magistrato alle Acque in società con i Foscarini e con Giobatta Cellini(che possedeva anche una terza parte nell’uso delle Porte del Cavallino e della Fossetta): “… l’uso delle Porte col diritto di esigere per la Serenissima il Dazio del Transito delle barche con l’aggravio degli homeni che assistono a serràr e vèrser e porte, e l’obbligo di tenerle in acconcio con le case e fabbriche, oltre il danno che se può ricevere a causa dei giazzi invernali”… Allo stesso tempo si risarcirono con 581 ducati annui i Nobili Pesaro per le perdite dovute alla costruzione delle nuove porte della Conca dei Moranzani, per cui erano stati costretti a spostare la loro redditizia attività di lavaggio delle lane in acqua dolcevicino a Mira.

Al “Carro delle Porte dei Moranzani” passavano pagando “regolàr tariffa”decretata dal Senato della Serenissima:
___Barche da Padova che pagavano vòde: 12 franchi, 1 lira se piene con persone, 1 lira e 10 franchi se con robbe.
___Barche dalla Villa vòde: 16 franchi.
___Barche da Este, Frassene, Moncelese et altre vòde: 1 lira, cariche: 2 lire e 10 franchi.
___Barche da frutti da Vicenza vòde: 1 lira e 10 franchi, cariche: 3 lire.
___Barche da vino de Mercanti vòde: 2 lire, cariche: 3 lire.
___Burci col timòn in pope vòdi: 1 lira e 10 franchi, carichi: 3 lire.
___Barche o burci con timòn alla banda vòde: 2 lire, carichi: 3 lire.
___Burchielli de particolari vòdi et con persone: 8 franchi.
___Peote de particolari vòde et con persone: 8 franchi.
___Barche da LizaFusina et Marghera: 8 franchi.
___Gondole: 4 franchi.
___Barche discoverte o con capuzzi e simili: 8 franchi.
___Barche da Piove vòde: 8 franchi, cariche: 10 franchi.
___Barche da Miran vòde: 8 franchi 8, cariche: 10 franchi.
___Zattere: per ogni “duo zatuoli vòdi”: 2 franchi, carichi: 4 franchi.



Un gran bel commercio avanti e indietro, e un gran“dèntro e fòra” redditizio dalla Serenissima. Qualche famiglia Nobile Veneziana provvide per comodità a costruirsi una “Villa da Statio” ai Moranzani: i Marcello e i Memo che possedevano in zona 3 casoni e 110 campi. La maggior parte delle aree prative e da pascolo dei Moranzani di Fusina appartenevano, invece, ai Nobili Pisani e soprattutto ai Muazzo che possedevano in Contrà del Folo:“… casa da stacio, cortivo e dòi campi di broli e 50 campi”. C’erano poi presenti a attivi in zona anche i Nobili Da Canal che erano padroni di 300 campi arativi, 100 di prato e grandi quantità di paludi; c’erano vari rami dei Marcelloche assommavano più di 120 campi e 25 casòni ai Moranzani e altri 240 campi al Bottenigo, e i Siori Cappello che possedevano: “… un pèzo d’argine dal secondo taio fin a Fusina, 30 passi lontan dall’hostaria e l’arzere da Lizza Fusina, fino alla Resta d’Aglio” da cui traevano una rendita annuale di 180 ducati.



Raccontano ancora le cronache Veneziane, che l’ultimo giorno del mese di aprile 1639 il Vicario del Patriarca di Venezia si recò in Visita Pastorale passando per LizzaFusinaalla chiesa e Parrocchia di San Giovanni Battista di Balaello in Gambarare soggetta alla Diocesi di Venezia. “… A Fusina dove un tempo sorgeva Sant’Ilario venne ricevuto dal Reverendo Pievano, dai Cappellani e dai Massari di detta chiesa con cavalli e carrozze, come pure dagli abitanti del luogo … Lì di fronte comparve Ser Giovanni Momolo fu Adamo barcaiolo di Fusina e residente del posto, di cui è proprietario insieme agli altri abitanti consegnando uno scritto a me Scrivano … Poi davanti agli stessi Vicario e Vescovo si presentarono Maddalena moglie di Michele Marano, il predetto Giovanni Momolo, Matteo Gabbro figlio di Angelo, Elisabetta moglie del detto Giovanni, e Giacomo figlio di Michele Marano. La sunnominata Elisabetta parlando in lingua volgare disse che il Piovan di Oriago ha portato via la chiave della chiesa di Fusina màrti (martedì) passato, qual chiave sempre è stata tenuta da noi, et lui la portò via con finta che venne a dir Messa, et per questo siamo restati tutti questi giorni senza Messa e senza poter sonàr l’Ave Maria, et hieri venne qui a posta la mattina et messe quell’arma de cartòn sula porta (lo stemma del Vescovo di Treviso)… Per il passato il detto Piovano fu a casa da me con la cotta et stola dicendo che mi voleva sposàr par davvero, che ero una bestia et che vivevo in peccato mortal, et io non volsi perché sono stata già sposata alle Gambarare, faccio con le Gambarare et voglio essere con le Gambarare (ossia sotto la giurisdizione di Venezia)”.

Risale al 1775 l’ultimo atto riguardante Sant’Ilariodi Fusina: si decretò la fine della sua Storia millenaria scandita dalla serie di più di 35 Abati sopprimendo del tutto la Commenda Ilariana e di San Gregorio di Venezia. S’incamerarono e indemaniarono tutte le rendite e il patrimonio vendendo tutti i beni che erano rimasti, destinando 250 ducati annui al mantenimento della Cappella-Oratorio di Sant’Ilario costruita a memoria nel 1648 dove un tempo sorgeva il grande complesso Abbaziale dei Santi Ilario e Benedetto di Fusina.

In realtà all’inizio del 1800 di quell’Oratorio rimanevano solo resti … Qualche ignoto ieri come oggi intascava quei 250 ducati annuali senza far niente … In quella che era stata l’area Ilariana abitava un migliaio di persone ... Uno dei proprietari terrieri voleva costruire una nuova chiesa dedicata a Sant’Ilario, ma il Piovano più vicino: “non volle affatto saperne”.

Fino al 1805 Giuseppe Giolo ottenne in subappalto dai Nobili Venier l’uso delle Porte dei Moranzani pagando un canone annuale di lire 1.600 a Maria Contarini vedova Venier e agli altri soci: Foscarini, Giustinian, Mocenigo e Colledani. … e Luca Dal Campo residente in Contrada di San Giovanni Evangelista a Venezia pagava l’affitto del canale ai Nobili Pesaro, e ai Dolfin per: “el carro, la casa e l’hostaria di Issa Fusina dove si lavano le lane … che rendono 1500 ducati annui”.



Poi giunsero i Francesi con napoleone che espropriarono e indemaniarono tutto. Gli Austriaci dopo di loro ridistribuirono per breve tempo “le competenze” agli ex Nobili Veneziani, finchè alla fine con l’annessione del Veneto all’Italia l’uso e la proprietà delle Porte dei Moranzani di Fusina passarono allo Stato ... Ogni mese transitavano per i Moranzani oltre 650 “bùrci a cargàr acque a dòi soldi il viaggio”, e oltre 300 barche “a soldi quattro di passaggio”.



A causa dei continui reclami presentati contro gli abusi, le vessazioni e indebite esazioni dei “Tiranti dell’Alzaia”, l’Intendente di Finanza del Dipartimento dell’Adriatico stabilì nel maggio 1810: “le Tariffe per il diritto di Attiraglio con cavalli da Fusina a Dolo e viceversa Chi avrà esatto oltre la tariffa verrà multato di lire 10 italiane, e se recidivo: licenziato dal Servizio” …Per ogni cavallo usato per tirare il Burchiello si pagheranno 5,12 lire da Fusina a Dolo come per la Corriera da Padova … sulla stessa tratta i Militari pagheranno solo 4.10 lire a cavallo, le barche dal Portello di notte, i battelloni da Frassene, Cologna, Bomba e Vo’, e i burchielli a quattro balconi pagheranno 5.63 lire, i bùrci carichi: 6,14 lire; le barche da Vicenza, Este, Monselice, San Zuanne, Frassene e Caneve: 7,68 lire; le barche da frutti: 6,14 lire; i bucintori, i burchi forranti, le Corriere da Firenze, Bologna, Ferrara, Modena, Roma e Rovigo: 8,19 lire; e da Fusina al Taglio con barche da Maran e barche da Piove: 6,14 lire …”

Fra 1873 e 1885 quelli che furono i terreni e le adiacenze di Sant’Ilario passarono in proprietà al Marchese Saibante che fece effettuare degli scavi e ricognizioni guidate dal Regio Ispettore dell'Antichità e i Monumenti, il cavaliere Eugenio Gidoni:“Ne venne fuori dai terreni abbandonati e incolti … l’iconografia di una chiesa a pianta basilicale a tre navate spartite da due file di 6 colonne, lunga più di 30 metri e larga 15 … con tre distinte absidi profonde trasformate in Cappelle affiancate da una base rettangolare interpretata come campanile, e un triplice pavimento sovraposto di cui quello inferiore di genere musivo … presentava inoltre un incipiente presbiterio analogo a quello di Sant’Ambrogio di Milano … forse il più antico esempio di Basilica a tre absidi sorto nel Veneto …”


Infine nel 1936, dove un tempo sorgeva Sant’Ilario andarono ad abitare alcuni sfollati dalla Giudecca di Venezia… s’era già provveduto in precedenza a costruire una chiesetta utilizzando il vecchio altare del rimasto Oratorio del Redentore… Alcune memorie locali ricordano dei militari dei Lagunaridi Malcontenta che costruivano terrapieni intorno alle polveriere della loro caserma prelevando terra dai vicini dossi incolti e dal “tumulo” dove un tempo sorgeva il complesso di Sant’Ilario.

“A Sant’Ilario se va a morìr d’inedia, isolamento e malaria”diceva i vecchi Preti inviati in quel luogo a soggiornare a volte quasi per castigo ...  Poi in zona giunse il Capolinea del tram Velocifero delle Guidovie della Società Veneta che rimase in servizio fino al 31 gennaio 1954, il collegamento con vaporetti per Piazza San Marco a Venezia, e nel 1974 si costruirono scuola e cinema per le 900 famiglie della zona che contava 3.500 abitanti … Di quel che era stato Sant’Ilario di Fusina non esisteva più traccia e notizia … solo silenzio.




“Un’altra lista di “Benemerite” … a Venezia fra 1500 e 1600”.

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 142.

“Un’altra lista di “Benemerite” … a Venezia fra 1500 e 1600”.

Chi mi conosce sa che non possiedo affatto “la fissa” né la morbosità giusta per andare a “scannocchiare” di continuo fra prostitute e dintorni … Quanto le riguarda lo considero però argomento interessante e curioso al pari di tutto il resto della Storia, Tradizione e Costumi della nostra Serenissima.
Mi è capitato ancora una volta di posare casualmente gli occhi sopra un altro documento che riguarda questo fenomeno antico quanto il mondo che a Venezia è sempre stato considerato non poco “di casa”, titolandolo fra gli altri modi come “commercio carnale”.

Questa volta “la lista” che ho rinvenuto è meno corposa della precedente, ma secondo me non meno interessante. Si tratta di un estratto proveniente da un Registro tenuto probabilmente dalle “Guardie di Notte” delle Contrade Veneziane che riassumevano in sintesi le pene, le multe e le restrizioni inferte alle prostitute di Venezia che per qualche motivo venivano arrestate, indagate, perseguite o controllate. Il testo contiene ampi contenuti riguardanti il “malcostume” in genere, gli eccessi di “pompa e sfarzo” proibiti dalle “Leggi suntuarie”, e i clamori locali provocati dal normale esercizio del “mestiere” fra calli, gondole, case, palazzi e campielli della solita Venezia.

Lungo i secoli molti governi, compreso quello Serenissimo di Venezia, più che esorcizzare, combattere e debellare “il fenomeno” hanno preferito, invece, conviverci e ordinarlo perché in qualche maniera ne intravedevano un utilità e un tornaconto comune che poteva essere anche “soluzione” per tante miserie e angustie sociali e personali.

Le cronache raccontano che in epoche diverse i soldati Inglesi e Francesi sostavano spesso a Rialto sotto la “bandiera delle Mamole”delle quali bramavano il denaro e i guadagni oltre che i “servizi concreti”. A ondate successive Bravi e violenti di ogni tipo hanno vessato le donne presenti a Venezia coinvolte in quel “impegno”, perciò la Serenissima è intervenuta a più riprese legiferando sull’argomento e creando: “strutturazioni di concentramento”a difesa delle prostitute: il Castelletto di Rialto, ad esempio, o le Carampanesituate poco distanti.
In cambio le prostitute furono spesso costrette, come nel 1450, a fornire acqua alla popolazione traendola dai pozzi o a “bigolàre”gratuitamente per le Contrade, così come le “donne” erano tenute “a prodigarsi con le secchie” in caso d’incendio. Per questo e non a caso, quindi, le prostitute a Venezia vennero chiamate anche “le benemerite”.

Fin dal 1496 s’iniziò a parlare a Venezia del “Morbo Gallico” ossia della malattia: Sifilide Venerea, e nel 1522 s’istituì un apposito ospedale per provare a curarlo: gli Incurabili sulle Zatterein fondo al Sestiere di Dorsoduro, affacciato sul Canale della Giudecca, ampiamente finanziato da Nobili ed Ecclesiastici oltre che dalla stessa Repubblica Serenissima.

Pietro Langaràn o Angaràn emerito “Professor de jure Canonico a Padova” per il quale la Serenissima stravedeva ma non trovava i fondi per stipendiarlo, venne pagato con i proventi del “Dazio sulla Prostituzione”, e con quei soldi già nel 1413 “il Professoròtto” riuscì a costruirsi un bel palazzo di famiglia prospiciente sul famoso Canal Grando.
Nel 1617, invece, l’Inglese Henry Conte di Oxford della famiglia di De Vere la cui famiglia abitava a Venezia ormai da parecchio tempo, presa in moglie la bella Diana Cecil venne presentato al Doge Giovanni Bembo da Sir WottonAmbasciatore Inglese a Veneziain quanto intendeva offrire i suoi servigi militari alla Repubblica Lagunare. Il Conte Inglese, infatti, combattè a lungo sotto il vessillo di San Marco guerreggiando anche contro l’Arciduca Ferdinando in Friuli dove morì nell’ assedio di Bredanel 1625 al comando di un Reggimento Veneziano. Fu quindi un personaggio illustre, un uomo meritevole agli occhi delle Serenissima …
Essendosi però fatto vedere in giro in gondola negli ultimi giorni di Carnevale in compagnia di una “giovane cortese” in aperto spregio delle leggi che lo proibivano, la donna e i “servitori da barca” che li accompagnavano vennero tutti carcerati. Perciò di nuovo l’Ambasciatore Wotton suo mentore dovette ripresentarsi in Collegio, stavolta per scusare l’ignoranza del Conte di Oxford e per intercedere per la sua liberazione e quella degli altri incarcerati.

Di nuovo nel luglio del 1643, il Segretario dell’Ambasciata Inglese a VeneziaSer Gilbert Talbot dovette presentarsi inCollegio e davanti al Doge Francesco Erizzo per difendere un suo subalterno Giovanni Bren o Brin accusato d’essersi recato in gondola con un suo barcaiolo al Monastero delle Convertite alla Zuecca da dove aveva tentato di rapire una Monaca istigato da una vecchia megera. Visto lo scandalo pubblico e gli evidenti “costumi corrotti” del dipendente Inglese, venne costretto ad espiare una pena di sei mesi nei “Piombi di Palazzo Ducale” dal luglio 1643 al gennaio 1644.

“El stàga attento Sior ! … Non xe un zògo a Venezia l’esercizio de la Prostituziòn” venne spiegato all’Inglese prima di scarcerarlo.

Ecco quindi la lista delle “Benemerite” tratta dalle pagine del “Registro che stava nel Magistrato alle Pompe”. Sono trascorsi secoli da quando esistevano quelle donne, ma si possono ancora rilevare e menzionare tutt’oggi:

Di qualche Dama, Donna o Cortesana si sapeva e bastava solo il nome per individuarla. Erano nomi che giravano di frequente e con facilità sulle rive del Porto, sul Molo di San Marco, fra le navi, le osterie, le locande e fra calli, portici e campielli di Venezia e di Rialto:
___Alessandrina (condanàda come apàr in Libro a carte 32, li 9 Zenèr 1588); Osana (condanna a ducati 10 come apàr in Libro a carte 81, li 10 Zùgno 1596) e Fortuna (condanna come a carte 39, 8 Novembrio 1589).

Qualche donna era segnalata e conosciuta anche per gli eccessi, gli accessori o il grosso corredo con cui si mostrava in giro per Venezia “in aperto dispregio delle Leggi e Norme Suntuarie che cercavano di castigar, disciplinar e contener il lusso e le smanie libertine de Veneziani”:  
___Cornelia Soeioni(condanàda in ducati 25 “per cuori d’oro nel portego e camerini”, 6 Fevrèr 1612).

Altre “Dame Beneamate” venivano riconosciute per le pene e le condanne in cui erano già incorse in precedenza e di cui spesso si vantavano come fossero “medaglie al merito”:
___Aialrzana Sanrignana Cortesana (ducati 20 et mesi tre in preggiòn serrada come in Libro a carte 71, 17 April 1581).

Qualche altra era conosciuta per le “doti professionali” o le caratteristiche fisiche:
___Donna Marieta “svelta de Man”(ducati 100 come in squarzafoglio 33, 18 Novembrio 1605); Isabella Zentil(ducati 53, 7 Zenèr 1584; e ducati 30 come a carte 27, 2 Zùgno 1593); e Diamante Zòtta(condanna come a carte 14, 21 Zenèr 1590).

Alcune giovani donne erano spesso figlie della classe intermedia degli Artigiani e dei Lavoranti affiliati alle Schole e Arti di Mestiere e Devozione Veneziane:
___Donnna Santina fiola di Gaspare di Tadio Tintòr(condanna ducati 50 come in squarzafoglio 96, 5 Decembrio 1608); Orseta fia de Marco Orese(ducati 15, 2 Decembrio 1602); Mofresina fiola quondam Zan Battista Muschièr(ducati 50, 10 Setembrio 1602); Lucrezia fia de Zuàn Maria Ofitiàl de barca(ducati 150, come in squarzafoglio 21, 17 Zùgno 1606); Elena Scaletèra(ducati 10 come a carte 28; ducati 20 come a carte 92, 8 Agosto 1596; e ducati 50 et spese come a carte 10, 11 Lùgio 1597); e Diamante Caleghera(condanàda per usuria come in Libro a carte 23).

Esisteva poi un alto numero di donne straniere “importate”o giunte spontaneamente a Venezia. Erano donne che più facilmente si ritrovavano indotte a prostituirsi sopravvivendo molte volte d’espedienti. Povere di mezzi e raccomandazioni che contavano, e spesso reduci da situazioni incresciose già vissute altrove, trovavano nella “Capitale e Porto Veneziano”l’ambiente ideale per ritagliarsi qualche nuovo “spazio al sole”.

Alcune provenivano dall’immediato entroterra del Dominio Veneto, dalla Terraferma e dalla “Terra del Friuli”:
___Giulia (ducati 10 et spese come a carte 126, 18 April 1597), e Isabella (ducati 50; ducati 35, 15 Zenèr 1588; e ducati 45, 10 Decembrio 1590)erano entrambe: “Visentine”.
___Faustina Ronzana era Veronese(ducati 20 come a carte 51, 24 Marzio 1593; e ducati 50 come a carte 31 in squarzafoglio corrente, 28 Setembrio 1605)come lo era Anzola Borghi (condanàda come in squarzafoglio 36, 5 Decembrio 1605).
___Diamante era “la Padovana” (condanàda a carte 23, 16 Zenèr 1588).
___Erano, invece,“Furlane”: Verginia(ducati 40 a carte 33, 9 Zenèr 1588); Elena (ducati 100 come in squarzafoglio 65, 6 Novembrio 1606), e Donna Gatte (ducati 50 come a carte 98, 8 Agosto 1596).

Oppure venivano a Venezia da poco più in là: dalla Lombardiae dalla Piana Padana:
___Maria Bresana (ducati 20 come a carte 66, 5 April 1581); Genevra Sforza detta:“la Milanese”(ducati 50 et spese, 7 Agosto 1602) e Barbara (ducati 40 come a carte 35).

Altre donne attive in Venezia arrivavano da più lontano, d’oltre mare, dall’area Greco-Balcanica e Mediterranea sempre percorsa dalle rotte commerciali e mercantili Veneziane:
___Novella Albanese (ducati 50 come in squarzafoglio 38, 26 Agosto 1616); Catterina Turca(ducati 225 come in squarzafoglio 51, 10 Otobrio 1616); e Nastaszkz Greca (ducati 10 come a carte 63, 27 Fevrèr dello stesso anno).
Oppure giungevano a Venezia lungo le rotte terrestri ultra montane, transalpine e del Centro, Est e Nord Europa:
___Marina Polacca (condanàda come a carte 38, 3 Agosto 1579, e a carte 42, 8 Zùgno 1584); Madalena Sofmka(ducati 100, 3 Decembrio 1596); Chiaretta Bmkmz‘(ducati 10 come a carte 42, 27 Zenèr 1579).
___Cecilia Alòerzîqa (ducati 30 come a carte 62, 17 Fevrèr); Maria Spagnola (ducati 50 come a carte 9, 30 Zùgno). Erano, invece, tutte Francesi: Margarita (ducati 20 come a carte 11, 5 Lùgio 1595; e ducati 100 come a carte 107, 2 Otombrio 1596), Lidia overo Lina dal Monte (ducati 120, come a carte 15, 18 Agosto 1595) e Franceschina dal Monte (ducati 120, come a carte 15, 18 Agosto 1595).

Altre donne ancora erano proprio “Forèste” del tutto, provenienti molte volte da altre Capitali o Ducati Italici dove spesso erano già state maltrattate, cacciate o bandite. A qualcuna come raccontano i documenti storici: “non le riusciva proprio di fare altro se non quel mestiere” ... per cui “si riciclavano” dovunque andassero a soggiornare.
___Claudia Ferrarese(ducati 150 come a carte 17, 18 Agosto 1596), e Bartola del Duca(ducati 30 come a carte 54, 19 April 1584; e ducati 25 a carte 14, 13 Lùgio 1588).
___Santina Romana Cortesana(condanàda come a carte 46, 4 Lùgio 1584); e le Fiorentine: Margarita (ducati 10, 9 Setembrio 1596), e Lucieta (ducati 10 come a carte 90, 14 Agosto 1596).

C’erano anche Donne del Mestiere residenti nel Ghettoe forse anche Ebree d’origine:
___Marieta Machièm(ducati 10, 8 Novembrio 1596); Donna Laura Ferèm(ducati 95 et spese, 3 Setembrio 1603) e Ipolita di Lazàm over di Leonardi(ducati 100“per orechini con perle e simili a perle”, 29 Marso 1613).

A queste si aggiungevano alcune figlie e donne di famiglie Cittadinescheo addirittura Nobili di Venezia dal nome blasonato o perlomeno altisonante. Qualche volte le “Beneamate” assumevano certi cognomi nobiliari come “nomi d’Arte”, per finzione e mestiere … non erano Nobili per davvero. Tuttavia le donne Veneziane Nobili vere, spesso molto acculturate e dotate, praticavano la prostituzione e il libertinaggio in grande stile, ma lo facevano “d’alto bordo” e a grande livello, concedendosi a chi volevano e con gran giro di regali e soldi. Famose fra tutte furono: la “Veronica Franco”, “la Sorànza”, “la Pisàna”, “la Grimàna”, “la Tròna” e diverse altre che erano Nobili autentiche. Fra quelle che, invece, lo erano solo per “mestiere”, c’erano:
___Anzola Bona o Bon(ducati 10 come a carte 56, 8 Zenèr 1598).
___Paolina Barbariga(condanàda come a carte 76, 30 Decembrio 1586).
___Donna Zaneta Tiepola(ducati 50 per “Rechini con picandoli d’oro”, come in squarzafoglio 50, 30 Zùgno 1606).
___Laura Foscarina(condanàda per la ressistion a ducati 50. Item condanàda un mese in prigion dalla quale si possi liberar con pagar ducati 100. Pagò il tutto per libertade della pregion nella qual fo messa, adi 15 Setembrio 1612).
___Alba Novello(ducati 150 come in squarzafoglio 145, 26 Zenèr 1610; e ducati 300 aggionti e spese come in squarzafoglio 29, 18 Marzio 1615).
___e poi le varie: Tomasina Fontana(ducati 25 come a carte 49, 17 Setembrio 1584), Laura Malipiera over Pasina(ducati 27 come a carte, 24 Otombrio 1588); Isabella Citadella detta Colona(ducati 75 come in squarzafoglio 21, 1 Zùgno 1609); Isabella Querini (ducati 20 come a carte 65, 27 Fevrèr); Julia Pisani(ducati 25, 13 Lùgio 1587; ducati 30, 9 Zenèr 1588; e ducati 25, 13 Lùgio 1598); Isabella Centani(ducati 45 come a carte 70, 24 April 1581); Cornelia Gritti(ducati 10 come a carte 113, 12 Novembrio 1596); Betta Carolda(ducati 40, 2 Dicembrio 1602) e Donna Betta Grimalda(ducati 100 come in squarzafoglio 22).

Tutte donne molto cercate, “usate”, e spesso multate e condannate con regolari sentenze puntualmente registrate.

Molto spesso per individuare le prostitute a Venezia bastava dire poco e in maniera molto generica: “Biancasta alla Madonna”(condanàda in ducati 10), tanto tutti la conoscevano. Altre volte, invece, si fornivano vere e proprie informazioni con tanto di localizzazione e precise indicazioni su dove e quando si poteva trovare ciascuna nel proprio Sestiere e dentro alle labirintiche Contrade Veneziane:

Il Sestiere di Cannaregio primeggiò di certo su tutti gli altri per l’abbondanza della presenza, l’intensità, e la costanza nell’attività delle “Benemerite”:
___Marietta Cortesana stava in Canaregio appresso il Saoner della Colombina (ducati 30 come a carte 1, 9 Zùgno 1595; e ducati 10 come in sua querela et espeditione a carte 24, li 9 Otombrio 1595); Cornelia stava in Cale del Asèdo(condanàda come a carte 71, 21 Lùgio 1586); Verginiain Calle della testa, (come a carte 46, 23 Fevrèr 1588); e Aneta in Canaregio alla Ca Brusà(ducati 10 et spese come a carte 11, 29 Lùgio 1599).
___Giustina Canziana era solita star in Contra’ deSanta Foscanelle case delle Muneghe della Valverde (non si essendo trovata fo proclamata sopra “le Scale di Rialto”, et non comparsa fo l’istesso giorno sopradicto condanàda in ducati 100 e cinque e spese dell’Ofitio, come apàr in processo a parte del presente giorno, adi 24 Fevrèr 1611). Nella stessa Contrada de Santa Fosca in Corte dei Saoneri stavano Donna Dionora(ducati 10 et spese come a carte 4, 2 Zùgno 1597) e Anzelica(condanàda come a carte 12, 21 Zenèr 1590); ed Elena Vendraminsulla Fondamenta del Piovan(condanàda due volte: li 3 Setembrio 1610 e 24 Fevrèr 1611, e non essendo comparsa fo proclamata sopra le “Scale de Rialto”, et restando absente fo condanada dopiamente per esser stata altre volte condanada, in ducati 155, come apàr in processo a parte sotto il giorno presente).
___Giulia Terzi era solita star in Contrà de San Leonardonelle case de Cà Basadonna(ducati 100 per aver pagato più di ducati 100 d’afitto contra la forma delle leggi. Item in mesi 6 di pregion giusta le leggi, della qual pregion le fo poi fatto gratia, 22 Zenèr 1613), come vi abitava Anzoletta Linarola(ducati 10).
___Margarita (ducati 35, 1 Fevrèr 1588) e Lucrezia Cortesana stavano in Contrà deSan Felise (ducati 30 come a carte 26, 2 Zùgno 1593; e ducati 50 come a carte 95, 9 Zùgno 1593), come Donna Betta o Bettina Saluzz’ che abitava sotto il Portego de Cà Priuli(ducati 50, 23 Agosto 1614).
___In Contrà de Santi Apostoliconcentravano la loro attività parecchie donne: Donna Paolina che si faceva chiamar Grimana(ducati 50 come in squarzafoglio 86, 30 Lùgio 1608); Giacomina Cortesana sta drio la Calle del Ongaro (ducati 10 come in querela et espeditione a carte 25, 9 Otombrio 1594); Lucieta Bellocchio(ducati 25 come in squarzafoglio 144, 24 Novembrio 1610); Donna Catina sta drio la ghiesia in Cale per andar in Campielo de la Casòn (ducati 10 come a carte 12, 27 Agosto 1597); e Donna Cecilia dei Franceschi solita star a Santi Apostoli  (ducati 100 come in squarzafoglio 36, 9 Lùgio 1616).
___Poco distante in Contrà de Santa Sofiadrio la gièsia abitava Donna Verginia Armano(ducati 50 et spese come in squarzafoglio 49, 02 Zenèr 1598);Donna Vitoria a San Cancian (ducati 25 et spese come a squarzafoglio 70, 22 Marzio 1599); e Pantasilea Romanain Biri (ducati 25 et spese, come in squarzafoglio 86, 7 Lùgio 1608). Sempre nei pressi in Contrà de Santa Caterina drio la gièsia stava e “lavorava” Francese Lina Muranese(ducati 50 come in squarzafoglio 60, li 20 Zenèr 1606; ducati 135, come in squarzafoglio 25, 16 Zenèr 1603; e ducati 10 et spese come a carte 131, 8 April 1597); e anche Donna Catina(ducati 10 come a carte; e ducati 35 come a carte 7).

___Procedendo oltre nello stesso Sestier de Cannaregio, Donna Caterina lllariona stava nella Contrada dellaMadalena (ducati 50 come in squarzafoglio 146, 23 Marzio 1611), come Cresciana Cortesana(ducati 10 come a carte 18, 9 Fevrèr 1582), e Pasquetta Muranese stava sulla Fondamenta de Servi sopra il magazen(ducati 50, 27 Zùgno 1614).
___La Contrada di San Marcuola era un po’ “il cuore”, la zona centrale di Cannaregio, e lì stanziavano e si prestavano diverse donne: Anzoletta Cortesana sta al Pontesello Storto (ducati 10 come a carte 31, 13 Novembrio 1595); Lucretia Baglionasolita star però in Contrà de San Lunardo (ducati 20 et spese come a carte 54, 7 Agosto 1601; ducati 150 et spese come a carte 50, 6 Lùgio 1602; ducati 25 et spese come a carte 67 ma poi fo assolta come in squarzafoglio 35, 6 Zùgno 1616); Donna Paolinamugièr de Messer Lorenzo de Simon fiola de Piero de Zuani sta in Calle del Zudio (ducati 40 et spese come a carte 46, 30 Otombrio 1598); Donna Idea sta al Ponte Storto(ducati 10 come a carte 140, 28 Marso 1597); Donna Veniteta sta in Calle del Forno arente il Tamburèr(ducati 10 et spese, come in squarzafoglio 13, 22 Agosto 1597); Anzola Cassella sta sulla Fondamenta dei Do Ponti arente la casa dove soleva star “la Fiorentina”,(ducati 10, 17 Novembrio 1596; e ducati 20 et spese come a carte 1, 10 Lùgio 1599, e ducati 25 et spese come a carte 10, 29 Lùgio 1599) comestanno Cecilia Cortesana sta in cao de la Fondamenta (condanàda come a carte '70, 21 Lùgio 1586), Donna Lavinia sta alli Do Ponti (ducati 100 come a carte 101, 21 Otombrio 1596) e Donna Licieta Fiorentina(ducati 50 et spese come a carte 29, 15 Marzio 1598).

___Oltrepassato il Ponte delle Guglie si accede al Campo e alla Contrada di San Geremia dove erano attive: Virginia Padoana Cortesana(ducati 45 come a carte 1, 5 Magie 1581; e ducati 35 come a carte 52, 20 Otobrio 1595); Donna Marta sta sul Campo (ducati 14 et spese come a carte 28, 7 Marzio 1599); Madalena Ottobotte(ducati 25 et spese come a carte 64, 10 Fevrèr 1599); Donna Fiorinain Calle dove è il fràvo(ducati 20 et spese come a carte 4, 9 Lùgio 1599); e Donna Zaneta Reniera sta sulla Fondamenta de Santo Giòppo(San Giobbe) (ducati 50 per: “le perle al collo portade da lei”, 10 Decembrio 1608).
___Donna Clioro Stella stava in fondo alla Misericordia sulla Fondamenta del Piovan (ducati 75, li 15 Decembrio 1609); come Cornelia(come a carte 88, 4 Zenèr 1584); e Cornelia Cortesana stava sempre in fondo in Contrà deSant’Alvise in Calle delle Chiovere(come a carte 56, 4 Lùgio 1580); Anzolla di Negriconsorte de Michiel Anzolo Librerabitava in Corte di Cà da Leze (come a carte 19, 21 Otobrio 1588).
___Donna Vigenza abitava nella popolosa Contrà deSan Marcilian(ducati 25 come a carte 15); e sempre lì stavano: Donna Susana Cortesanaal ponte de legno e a Santa Fosca sotto il Portego de Cà Diedo(ducati 20 et spese come a carte 57, 26 April 1595; e ducati 125 come a carte 136, 16 Marzio 1597); Cecilia fiola di Cristofaro desegnadòr sulla Fondamenta del Piovan (condanàda “per il faziol bianco” in ducati 15, 1 Setembrio 1612); Armenia Proeglia Cortesanain Corte del Trapolìn (ducati 20 come a carte 36, 3 di Marzio 1584; ducati 10 come a carte 20, 2 Zùgno 1593; e ducati 10, 13 Novembrio 1595, come a carte 34); Andriana Foraboscain Corte de Ca’ Diedo(come in squarzafoglio 88, 28 Lùgio 1608); le due donne: Benvegnuda dai Zambelotti(ducati 300 come in squarzafoglio 55, 8 Agosto 1610) e Margarita detta Fondi dai Zambeloti sta in Corte dei Muti(ducati 10 come in sua querela et espeditione in foglio a carte 33, 9 Otombrio 1595; e ducati 100 et spese come a carte 28, 8 April 1598; e ducati 25 et pendendo altri capi fo spedita alli 12 Setembrio et fo condanada altri ducati 25, in tutto 50 adi 25 Novembrio 1608); e Donna Paulina Cortesana(ducati 30 et spese come a carte 128, l’ultimo de Marzio 1597; e ducati 100 come a carte 85, 10 Zùgno 1596).

Alla Madonna dell’Orto, invece,sulla Fondamenta Granda in Calle da Ca’ da Brazo, abitavano: Donna Vitoria(ducati 25 et spese come a squarzafoglio 50, li 11 detto); Paola Gosetta(ducati 50, 2 Zenèr 1584; ducati 33, 9 Zenèr 1594; e ducati 25, 24 Otombrio come a carte 35); e Antonia Rosetta(ducati 10 et spese come a carte 2, 9 Lùgio 1599; e ducati 25 et spese come a carte 16, 12 Novembrio 1605).

Nel centralissimo Sestiere di San Marco dove si celebrava la Serenissima e risiedevano le Magistrature, Missier lo Doge, i Senatorie i più ricchi e potenti Nobili, c’erano comunque: Diamante Cortesana in Calle dei Fabri a San Salvador(condannàda in ducati 10 come in sua querella et espeditione a carte 20, 19 Setembrio 1595);Anzoletta Cortesana che stava a Santo Stefano in Calle del Pestrin (ducati 6 come a carte 20, 7 Zùgno 1595; e ducati 40, 11 Agosto come in foglio a carte 18); Donna Verginia che stava in Contrà de Santa Maria Zobenigo(ducati 25 come a squarzafoglio 58, 11 Setembre 1618); Donna Marina sta al Ponte dei Fuseri(ducati 30 et spese, l’ultimo del mese de Marzio 1597); Donna Lucretia sta a Sant’Anzolo per mezo il Tessèr (ducati 10 et spese come a carte 5, 2 Zùgno 1597); come Anzelicain Corte dei Santi (ducati 10, 9 Decembrio successivo), e Giulia Cortesana sta in Corte de Ca’ da Mosto (ducati 10 come a carte 36, 15 Novembrio 1598).

Oltre il Canal Grande, nel Sestiere di Dorsoduro, in Contrà dell’Anzol Rafael in Corte da Ca’ Bonaza abitava stabilmente Arlneta Cortesana nominata Campanata (ducati 30 come a carte 21, 24 Setembrio 1595).
Poco distante in Contrada de San Basegiorisiedeva Donna Barbara Bomazza(ducati 25, 8 Zenèr 1609), e Idea o Lideada Monti sta al Malcanton(ducati 25 et spese come a carte 31, 6 Lùgio 1598; ducati 25 et spese come a carte 51, 11 Zenèr 1599; e ducati 75 et spese come a carte 61, 15 Fevrèr 1599).

In Contrà de San Barnaba, invece,apresso il ponte de legno stava Catarina (ducati 10 come a carte 132, 18 April 1597); Barbara Todesckina(ducati 12 come a carte 4, 27 Agosto 1588);Bernardinain Calle dei Cerchieri(ducati 10 et spese come a carte 121, 10 Fevrèr 1596); Diana Perota(ducati 75 come in squarzafoglio  94, 19 Novembrio 1608);Anzola Tron (ducati 10 et spese come a carte 120, 21 Fevrèr 1596); e Perina Pazolana sta a al Ponte delle Bande(ducati 150, come in squarzafoglio 88, 8 Agosto 1608).

Procedendo verso la Dogana da Mar,sulla Fondamenta di Sant’Agnese abitava Isabella Zucilata(ducati 75, come in squarzafoglio 148, 19 Setembrio 1611); Donna Caterina Perqolina era solita a star a San Gregorio in Corte de Cà Zambra(proclamata et non comparsa, fu bandita di Venezia per un anno, et essendo presa stia per 4 mesi in prigione et torni al bando con taglia a chi la manderà di lire 50 di piccoli, et fo publicato sopra le “Scale de Rialto”, come in squarzafoglio 109, 3 April 1609); e Donna Letizia sta a San Vio in le case de Cà Padavio (ducati 10 et spese come a carte 6, 5 Lùgio 1599).

Nel più periferico Sestiere di Santa Croce, c’era Anzola Capello sta alla Crose(ducati 15 et spese come a carte 35, 18 Lùgio 1598) comeCinziara Grecata(ducati 50 come in squarzafoglio 22, 7 Magio 1614).
___)onno Camiletta dall’Orto risiedeva in Riva di Biasio (ducati 10 et spese come a carte 27, 7 Lùgio 1597), e Rizardina stava in Contrà de San Simion sopra il Pistor(ducati 10).
___A San Zàn Degolà stava Anzola di Pasqualin Samitèr (ducati 10 et spese come a carte 71, 26 Marzio 1599), in Corte del Tagiapiera c’era Vitoria Cortesana(ducati 20 come a carte 94, 2 Zùgno 1595; e ducati 30 come a carte 15), ea San Stae in Fondamenta di Zonta stava Donna Cecilia Oierano(ducati 50, 5 Lùgio 1610).

___Nel Campo e Contrada de San Giacomo dall’Orio, stavano Antonia Zottina(ducati 75, 1 Decembrio 1609)in Corte della Cazza, e Biancaal Ponte della Sgnanfa(ducati 30 et spese come a carte 47, 30 Otobrio 1598).
Nell’altrettanto centrale Sestiere di San Polo e dell’Emporio di Rialto c’erano:
___In Contrà de Sant’Agostinnelle case de Ca’ Balbi stavano Enzilia Faiziera(ducati 10 come a carte 8, 6 Zùgno 1597; e ducati 10 et spese come a carte 8, 27 Zùgno 1597); e Ottavia Romana inCorte de Cà Bernardo nelle Case Nove (ducati 10 et spese, come a carte 12, 17 Novembrio 1599).
___Elena Micliela Cortesana abitava in Contrà de San Cassan in Corte della Ruosa(ducati 30 come a carte 3, 5 magio 1851; e ducati 10 come a carte 52, 4 luio 1580); Isabella Cortesana era in Contrà de San Polo sopra il Strasariòl nel secondo solèr(ducati 40 come in sua querela et espeditione in squarzafoglio 24, 19 Otombrio 1596); mentre Laura Soranzèta stava alla Pasina a San Silvestro (ducati 10 come a carte 14, 27 Agosto 1597; e ducati 25 et spese come a carte 7, 23 Lùgio 1599).
___Paolina Serena era solita a star a San Boldodrio la gièsia(non si essendo trovata fu proclamata sulle “Scale di Rialto” espedita absente et condanada in ducati 55, li 30 Agosto 1612); come Elena Minio (ducati 150 come in squarzafoglio, 14 Setembrio 1613; e ducati 100 come in squarzafoglio 35, 6 Zùgno 1616).
___Margherita Trevisana stava alli Frari al Ponte dei Saoneri (ducati 40 et spese come a carte 32, 22 Novembrio 1600). Nei pressi dello stesso ponte c’erano anche Donna Elena Muranese(ducati 10 et spese come a carte 60, 27 Zenèr 1598; e ducati 100 et spese come a carte 9, 28 Lùgio 1589; e ducati 50 et spese come a carte 20, 7 Zùgno 1600; e ducati 100 e 75 come in squarzafoglio 11, 12 Zenèr 1604; e ducati 150 come in squarzafoglio 84, 6 Zùgno 1608); e Donna Ipolita Cortesanada Cà da Piero(ducati 30 come da sententia a carte 54, 9 April 1593; e ducati 10 come a carte 26, 4 Agosto 1598).
___Anelta fiola di Catterina stava in Contrà deSan Tomà nelle case de Cà Contarini in Calle de Cà Zentani (ducati 15 “per il fazuol bianco”, 7 Marzio 1616), e Donna Isabella sta zòso del Ponte dei Nomboli  (ducati 10 come a carte 26, 8 April 1598).

Nel Sestiere di Castello c’erano:
___Viena da Castèo o Castellana(ducati 50 come a carte 30, 2 Zenèr 1588).
___In Contrà deSan Martin in Corte dell’Anzolo stava Madalena (condanàda come a carte 67, 19 April 1581), e nella poco distante Ruga e Campo dei Do Pozzi in Calle per andar a Santa Ternita c’erano: Bonetta(ducati 39, come a carte, 26 Marzio 1584)e Anzola(ducati 50 et spese come a carte 5, 28 Lùgio 1599).
___Porcia Cortesana stava a San Zanepolo zo del Ponte della Pana (ducati 100, come in sua querela et espeditione a carte 29, 15 Otombrio 1595), e proseguendo per la Barbaria delle Tole per andar sul Campiello de Santa Giustina e a San Francesco della Vigna, c’erano Anzoletta Balascera(ducati 10 come a carte 84);Giulia Cortesana(ducati 10 come in sua querela et espeditione a carte 27, 30 Otombrio 1595), Isabella Cortesana sta “appresso la casa del Sior Marco Venier”(ducati 30 come in sua querela et espeditione in squarzofoglio 26, 9 Agosto 1596).

Infine se non bastavano tutte queste, in giro per Venezia ce n’erano anche altre di disponibili:
Andriana Samagnaiza (condanàda come a carte 39, 29 Fevrèr 1579);Anzolla de Celadina(condanàda come a carte 50, 9 Magio 1580); Almiriana Famesta (condanàda come a carte 45, 27 Fevrèr 1588); Betta Jubatola(ducati 100 come a carte 43, 17 Agosto 1618); Cornelia Tartarella(ducati 10 come a carte 68, 13 Marzio 1581; e 30 Marzio 1584); Cecilia del Fulsello(condanàda come a carte 42, 6 Zùgno 1584); Oavnilo over Pasqueta Tortorella Cortesana(ducati 10 come a carte 12, 10 Lùgio 1595); Cattina quondam Nicolò Budon(ducati 10, 22 Agosto 1603); Isabella Illaseretta(ducati 205 come in squarzafoglio 40, 27 Setembrio 1616); Mariella Sonilza (ducati 25 come a carte 50, 17 Setembrio); la detta, fo condanàda anche in ducati 75 come da carte 5, 8 Zenèr ...; Nicolosa Fiere Letta (ducati 10 come a carte 26, 4 Novembrio e ducati 50, 5 Decembrio 1590); Paolina Nubilon Cortesana(condanna come a carte 54, 10 Fevrèr 1580, e a carte 44, 18 Zùgno 1585); e Veneranda Maretesina(condanna come a carte 48, 20 Marzio 1589).

Insomma: Veneziani, Foresti e gente di passaggio, poveri e ricchi, mercanti e soldati … e tutti gli altri, a Venezia e in Laguna si “divertivano”parecchio con le “donnete Benemerite”, così com’erano chiamate anche dalla stessa Serenissima.


ANCORA SULLA FOSSA GAMBARARIA, DOGALETTO E MALCONTENTA.

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“Una curiosità veneziana per volta” – n° 143.

ANCORA SULLA FOSSA GAMBARARIA, DOGALETTO E MALCONTENTA.

Non è poi così povera di storia e notizie la zona della Fossa Gambarària, Dogalètto, Malcontentae Sant’Ilario di Fusina” come dicevamo qualche giorno fa, e come si potrebbe pensare.
Continuando ancora a “scannocchiare” dentro alle pieghe e ai meandri della Storia della Serenissima, ecco spuntare fuori altri dettagli, fatti e vicende degni di curiosa attenzione. C’è stato più di qualche movimento in quella “zona di confine” della Serenissima, poco discosta da Venezia ... e chissà quant’altro si potrebbe raccontare.

San Giovanni Battista di Balleèllo o Balladèllo di Gambarare, ad esempio, si trovava nei pressi di quello che era il territorio e la giurisdizione dell’Abbazia di Sant’Ilario di Fusina. “Balledèllo” sembra poter derivare dal latinizzato “Vallatèllum”che significherebbe: “luogo rialzato”, mentre il toponimo “Gambaràre”sembrerebbe derivare quasi ovviamente dal “Gàmbero” l’animaletto presente anche nello stemma del Comune ... ma gli storici si sono sbizzarriti sopra a questi nomi ingegnandosi a trovare i significati più strampalati … cambia poco.



Già nel lontano ottobre 1129 a Chioggia presso Johannes Presbiter Plebanus Ecclesiae Sancti Martini Minoris Clugie et Notarius: Carlo Prete e Piovano di San Matteo Apostolo di Chioggia Minoreconcesse a Pietro Carnello Giudice et ai di lui nipoti Tèuzo e Domenico due saline della detta chiesa nel Fondamento di Gambaràriaper annui quattro giorni di sale di canone.

Nell’ ottobre 1192, invece, Speronellabeneficò la chiesa di Balladello con 20 “sòlidos”, e quattro anni dopo Papa Celestino III dovette intervenire per rimettere d’accordo Vidòtto Presbiter titolare di San Giovanni Battista di Balladelloe i Monaci dell’Abbazia di Sant’Ilario(da cui ancora non dipendeva) circa le “Decime”da riscuotere sulla zona.

Era il 1213 quando l’Orefice Tedesco Bernardo Teotonico residente nel Confinio di San Bartolomio di Rialtoa Venezia ricordava nel suo testamento l’Ospedale di San Leone di Sant’Ilario in Bocca Fluminis. Forse era l’uomo più ricco presente a Venezia in quell’epoca, secondo solo al potente Doge Pietro Ziani che fece un prestito di 15.000 ducati alla Serenissima, e possedeva un patrimonio alla morte stimabile in 27.000 ducati. Da quella fortuna prelevò in vita una cospicua somma che dispensò a tutti i Monasteri Veneziani … eccetto però San Lorenzo e Sant’Ilario di Fusina… che non vennero da lui né ricordati nè beneficati … chissà perché ?
In ogni caso si rifece “in morte” nel 1228, quando lasciò per testamento a San Leone in Bocca Fluminis una cifra pari alla metà di quanto aveva già lasciato Bernardo Teotonico… Boh ?

Nel 1219 San Leonardo di Fossamaladipendeva già da Sant’Ilario di Fusina, e venne beneficato per testamento da Vidòta moglie di Tancredi Stabile residente nella Contrada di San Moisè a Venezia,che lasciò al villaggetto -Monastero collocato sul bordo della Laguna: un legato di 10 Lire Venete ... Nel 1232, invece, il Priore Ambrogio di San Leone in Buca Fluminis, dove c’era l’Ospizietto,fu autorevole testimone e garante in un importante trattato fra Venezia e Padova che già erano entrambe importanti, e si batibeccavano di frequente fra loro.

Esattamente dieci anni dopo, Clarius Priore dei Crociferi ottenne da Leone Abate di Sant’Ilario di Fusinalo stesso Priorato di San Leonardo di Fossamala consenziente Bomo Priore di San Gregorio di Venezia ... Trascorsi altri vent’anni, ossia nel 1268, il Priore Nicola rilasciò quietanza per un legato a favore di San Leonardo agli esecutori testamentari di Biagio Bollani, e due anni dopo ancora, ne rilasciò un’altra per lo stesso motivo agli esecutori testamentari di Basilio Basiliolo della Contrada di San Giovanni Crisostomo di Venezia... L’anno seguente, Salomone e Nicolò Valier nipoti di Pietro Cocco, tutti gente ormai ricca e Nobile di Venezia, s’impegnarono a corrispondere ad Albertino Morosini(altro Nobile) un canone annuale per utilizzare il Lago di Vico, una peschiera sul Volpàdego, e a pagargli le decime su  cento passi di terra a lato del fiume verso il solito San Leonardo di Fossamala nei pressi di Sant’Ilario di Fusina.

Dopo un’altra ventina d’anni, e stavolta siamo nel 1283, il Nobile Veneziano Pietro Minotto già in contenzioso da tempo col Comune di Venezia, litigò aspramente con Giovanni Brustolàdo per la gestione dell’isoletta di Pignìgo lontana ben 695 metri dai 20 metri dalla sua concessione dove faceva girare dei mulini su entrambe le sponde del fiume: “dalla “palàda alle paludi del fiume Oriago”. Alla fine per incrementare l’attività delle sue “ròde da molin” gli venne concesso di chiudere due laghi siti accanto al fiume, uno dei quali era denominato: “Lago Tèrgola”.

Pare che in quegli stessi anni la “giesèta di Baladèlo” lasciata in grave stato di abbandono fosse soggetta al Vescovo di Treviso ... ma già nel 1290 l’Abate Ilariano Prando si comprò metà del paese e tutte le terre intorno acquistandole dagli eredi di Giovanni Natichiero da Vigonza, e chiese allo stesso tempo a Prosavio Vescovo di Treviso di cedergli anche la chiesetta con tutti i suoi diritti e pertinenze. Il Vescovo di Treviso acconsentì … soldi erano soldi, e l’Abate di Sant’Ilario pagò incamerando la chiesetta di Balladello.



Il 20 giugno del 1306 si terminò finalmente dopo 15 anni di restauri e lavori la ricostruzione in stile Romanico di San Giovanni Battista di Balleèllo di Gambarare riutilizzando e riciclando materiali, pietre e colonne tratti dal sito del Abbazia-Monastero di Sant'Ilario di Fusina.
La nuova chiesa venne consacrata su delega di Ramperto Vescovo di Castello-Olivolo di Venezia da Agostino Vescovo di Cittanova(Eraclea)insieme ad altri 6 Vescovi, che posero la nuova Cappellania sotto la giurisdizione del Vescovo Castellano Veneziano e quindi dell’Abbazia di Sant’Ilario di Fusina … Quel giorno le cronache veneziane raccontano che si cresimarono tantissimi uomini, donne e bambini, e che i Vescovi concessero moltissime Indulgenze. Fu grandissimo, invece, in quella stessa occasione il disappunto del Vescovo di Treviso che s’era pentito della cessione di quel luogo, e continuava a pretendere di riaverlo per se … Nel 1313 l’Abate Frediano di Sant’Ilario di Fusina(residente in Venezia) si comprò quasi tutta Gambarare per lire 9.000 di Denari Veneziani di piccoli. Come si sa, in quello stesso territorio avevano interessi ed erano affittuari e locatari di terre e mulini le Nobili Famiglie Veneziane dei Candiano, Valièr, Falièr e Marcello, nonché: Jacopo da Sant’Andrea, e Manfrèdo quondam Gucèllo di Monfùmo.

Nel 1328 come siete bene a conoscenza, e come confermato da un testamento dei Nobili Falièr, tutto il territorio delle Gambarare rimase infruttuoso e non si potè coltivare per quattro anni perché fu teatro delle battaglie fra Padovani e Veneziani … Era il 1333, invece, quando Caterina vedova di Francesco Valièrconcesse quattro ruote di mulino sul Volpàdego a Francesco Delle Barche, ed erano trascorsi altri dieci anni circa, quando venne confermato alla stessa il possesso dei soliti “cento passi di terra ab illo latere fluminis versus Sanctus Leonardus de Fossa Mala”. (Più di cento anni dopo, nel 1461-1466, quando si eresse l’ultimo tratto dell’arginatura a difesa dalle acque e a protezione del Monastero di San Leonardo di Fossamala sacrificando una parte dei suoi stessi possedimenti, nei documenti si accennò che nelle vicinanze continuava imperterrita l’opera del mulino degli intramontabili Nobili Valier.)

Nel 1344 la “Gièsia e tutta la Fossa Gambararia”apparivano come dipendenze della Pieve di Santa Maria di Borbiago, ossia era sotto il controllo del Vescovo di Treviso(ce l’aveva fatta !)… e a fine secolo il Nobile Giacomo di Paolo Paruta ottenne dai Carraresi di Padova il diritto di permuta di alcuni beni in Gambarare stimati 400 ducati d’oro, con cui fece  una donazione a Santa Maria di Vanzo appartenente ai  Canonici Regolari di San Giorgio in Alga di Venezia … Nel 1400 Gambarare dipendeva, invece,  da Mira… e nel 1425, da Salzano… Nel luglio 1451 il Patriarca di Venezia Lorenzo Giustiniani fu indotto a intervenire per sospendere il Prete Marino da Venezia che era stato querelato dai fedeli delle Gambarare perché ne combinava di tutti i colori, e incaricò l’Abate di Sant’Ilario, Benedetto e Gregorio di Venezia di eleggere un nuovo e più adatto successore.

I fratelli Rigàzo nel 1495 ricordarono nei loro scritti commerciali le operazioni meritevoli condotte da quelli di Gambarare nei decenni precedenti “… in redùre le loro acque, paludi e cuore (?) a bòne terre…” piantandovi 1.720 fra alberi e viti.

Con la Bolla Papale del 1504 Giulio II ribadì a tutti per togliere ogni dubbio, che Gambarare dipendeva da Venezia(il Vescovo di Treviso doveva rassegnarsi)… Con la Bolla del 27 marzo 1508, invece, lo stesso Papa concesse ai Capifamiglia di Gambarare di potersi scegliere ed eleggere il proprio Parroco a piacimento (diritto molto frequente nelle chiese del Veneziano e delle isole). Si dice in giro che tale diritto sia rimasto attivo a Gambarare fino al 1998, quando i capifamiglia vi rinunciarono formalmente ottenendo in cambio dal patriarca di Venezia il titolo di Duomo per la chiesa, e quello di Monsignore per il Parroco considerato anche Canonico Onorario della Basilica di San Marco di Venezia. Non sono così certo che siano accaduti per davvero questi scambi e automatismi (forse sarà accaduto “ad personam”, ma potrei sbagliarmi). Certa è, invece, la concessione nel 1917 da parte della Santa Sede del titolo Arcipretalea Gambarare: “per l’antichità eminente del luogo di Culto e Religione”.

Secondo frammenti e documenti degli Archivi di San Giovanni Battista di Gambarare risalenti al 1200 e ricorrenti fino al 1748, 1707, e 1806, sembra che il territorio “delle Gambarare” fosse gestito e guidato fin dall’antichità da un Provveditore Veneziano. Fu, invece, nel 1516 che il Maggior Consiglio della Serenissima istituì il Provveditore della Comunità di Gambarareche aveva raggiunto ormai i 2.500 abitanti. Il primo Provveditore di Gambarare fu il NobilHomo Bertuzzi Emo che percepiva 200 ducati annui di stipendio e un palazzo per abitare, e non aveva alcun obbligo di mostrare i conti alla Serenissima, ma solo quello d’amministrare “la Giustizia Civìl, Penàl et Criminàl”.

Nel 1523-24 s’istituì a Venezia perfino una Lotteria sulle Porte dei Moranzani. Chi vinceva si prendeva il gettito del “passaggio delle Porte” che si diceva potesse arrivare anche fino a 500 ducati. Il primo a vincere il premio di quella Lotteria fu il Nobile Marco Antonio Contarini residente in Campo San Filippo e Giacomo a Venezia, che per l’occasione fece gran baldoria e offrì una cena a tutti i suoi amici della Compagnia della Calza detta “degli Eterni”. Quello che non sapevano i più a Venezia, era che in realtà il “Dazio delle Palàde, delle Chiuse e delle Porte” fruttava alla Serenissima più di 2.000 ducati annui ... quindi si poteva benissimo sacrificare una parte di quel profitto incassando al suo posto il grosso guadagno delle numerose giocate dei Veneziani (che avevano la mania, anzi l’ossessione del gioco … Ieri come oggi: non è cambiato niente dopo secoli).

Nel 1528-40 quando Marco Muriano era Notaio di Gambarare, le Ville costruite dai Nobili Veneziani in zona erano in tutto 7, di cui due in “Contrà del Bosco”(San Pietro in Bosco di Oriago) i cui proprietari erano guarda caso: Julio e Andrea Valier… Verso fine secolo, quando come Notaio di Gambarare c’era, invece: Francesco Juriàco, le Ville costruite a Gambarare erano diventate 13, e si decise anche di ricostruire la chiesa.

Dal Censimento del 1606 risultò che a Gambarare vivevano: “396 famigli, 1.025 homeni fra 18-50 anni, 14 Preti, 205 vecchi da 50 anni in su, 1.173 putti fino 18 anni, 1.215 donne e 1.172 putte da marìdarse o munegàrse”.
Nel 1663 Dominicus Contarinus Dei Gratia Dux Venetiarum in un documento precisò una volta per tutte quali dovevano essere i confini ufficiali delle “Parròcie delle Gambarare di Venecia”.

Nel febbraio 1676 il Senatodecretò l’ennesimo “escavo exstraordinario” della Laguna di Venezia e di tutti i suoi canali. Diede disposizioni perchè i fanghi di risulta venissero smaltiti tramite “burchielle”: “… al di là del Sovrabondante oltre le Porte del Moranzàn, e dalla parte opposta verso Malamocco di sopra le Portesine del Bondante.” I Patroni dell’Arsenale riferirono in seguito ai Magistrati alle Acque della Serenissima che il costo di: “lire 7 a Burchiella per almeno 10.000 Burchielle” era uno sproposito per le magre casse di Venezia, ma che era una spesa indispensabile da affrontare assolutamente. Così ancora nel 1719 si continuava ancora a scavare e scaricare fanghi della Laguna e di Venezia nella zona di Dogaletto, al Bondante e al Sovrabondante.

I Nobili Sagrèdo nel maggio 1679 possedevano al Bottenìgo una proprietà che si estendeva di fronte alla Villa dei Nobili Trondella Colombara, di qua dallo scolo Brentèla, e in direzione della Strada Regia Padova-Fusina. Confinava con gli arativi di proprietà dei Nobili Malipiero e dei Reverendi Padri della Carità di Venezia eredi di un lascito della Nobildonna di Oriago Concetta Moro. In realtà quel terreno stretto e lungo era parecchio infelice, sottoposto a frequenti impaludamenti nonostante si fossero fatti diversi lavori di scolo e sopraelevazione.
Marco Sagredo e fratelli quondam Zaccaria senza specificare niente affittarono quel terreno a Valerio e Andrea Pasqualòtti e a un loro fratello Anzolo dopo averlo affittato per numerosi anni a Domenico Biancolini che era morto, e non avendo voluto suo figlio Giovanni Francesco continuare l’affittanza ... chissà perché ?



Ecco buona parte del contratto d’affitto: “… essa possessione è piantàda et videgàta, che al loro partire doveràno riconsegnarla ben all’ordine … Che li suddetti Pasqualoti siano obbligati piantare d’anno in anno tutti gli albori che gli saranno consegnati, senza alcuna spesa od aggravio mio … Debbano tener buona custodia di tutte le piante che si ritrovano in esser al presente e di quelle che doverano in avvenire allevare, onde, se per loro mancamento anderano a male, siano tenuti al risarcimento … Non possano in alcun modo tagiàr qualsiasi sia alboro né vivo né morto senza espressa mia licenza … Restino inoltre … obbligati a far li cavìni, et fossi, conforme all’uso, et statuti Padovani, dichiarando che tutto quello non fosse espresso nella presente locazione, si debba in tutto e per tutto regolarsi alli statuti predetti ... Durar debba la presente affittanza anni cinque, da principiàr questa Santa Giustina prossima ventura et terminar a Santa Giustina 1684; si che essi Pasqualoti cinque intieri affitti paghino, et cavino cinque intieri raccolti … Per affitto debbino essi Pasqualoti pagàr ogni anno: formento ben secco et neto stara quaranta, misura de Venezia, et la giusta metà del vino, et pagàr ogni anno a tempi debiti: capponi quattro, galline quattro, polastri quattro et ovi cento … Siano essi Pasqualoti obbligati condur le mie entràde sino dieci miglia lontano dalla possessione senza alcun mio aggravio, come più mi piacerà … Se succedesse il caso di tempesta, che il Signor Dio tènghi lontana, quando eccedesse più del terzo del raccolto in danni, il raccolto predetto doverà essere diviso per metà in conformità del praticato; ma quando il danno non eccedesse, come si è detto il terzo, non possino essi Pasqualoti pretendere alcun risarcimento o bonificazione alcuna, ma siano obbligati corrispondere d’affitto detti stara quaranta di formento intieramente et della metà del vino, et regalie … Io Domenego Zaninelli fui presente … Io Gian Domenico Cappellari fui presente a testimonio ...”

Nel 1700 nella zona delle Gambarare c’erano attive alcune fornaci di calce, mattoni e tegole appartenenti ai Nobili Lipomano e Foscari, utili per tenere in “cònso” le loro numerose fabbriche, case e palazzi.

Fra 1837 e 1856 si accenna all’esistenza di alcune fabbriche nella stessa zona del Bosco Piccolo e Bottenighi”. Nel 1867 sembra che: “ai Sabbioni, sulla riva sinistra della Brenta Magra” ci fosse in attività un’altra fornace con forno a carbone ed essiccatoi, collocata poco distante da una fabbrica o Contarìa di perle. Di entrambe era proprietario Girolamo Scarpa da Venezia, a cui subentrò prima un certo Genovese, e a inizio 1900 prima della Grande Guerra il Commendator Peràle che abitava a Venezia, aveva sulla Zattere il suo Ufficio di vendita e rappresentanza, e utilizzava tre burci per portare avanti e indietro i suoi prodotti fra Gambarare e Venezia. Secondo le ultime testimonianze rimaste, i suoi 100 operai lavoravano, impastavano e cuocevano l’argilla scavandola a tre-quattro metri di profondità per 10-12 ore al giorno, e producevano 15.000 mattoni quotidiani. Alcuni come i due “fochisti”, che s’alternavano in turni giornalieri di 12 ore compresi i giorni festivi e Natale e Pasqua, abitavano con la famiglia dentro ai luoghi della fabbrica, mentre la maggior parte veniva licenziata ogni volta in autunno e riassunta in primavera. La fabbrica rimase in attività fino al 1964, e prima che, come disse “el paròn Commendatòr arrabbiato”: “… i Sindacati guastàsse tutto con e so insulse pretese”, si organizzava ogni anno una grande festa aziendale con pranzi, giochi e balli e musica che coinvolgeva e invitava perfino tutti i Preti di Marghera e Gambarare e perfino i Frati Cappuccini di San Carlo di Mestre.



Verso la metà del 1700 il viaggio da Venezia a Padova per Fusina, attraverso:“la cònca, la Bastia o Bastiòn, la Palàda dei Moranzani o del Moranzàn che faceva entrar nella Brenta passando dalla Brenta sàlsa alla Brenta dòlse”, durava circa 12 ore, e ne servivano altre cinque per tornare a Venezia in carrozza. In genere si definiva Moranzàntutto il territorio percorribile a cavallo nei dintorni di Fusina.

Nel 1740 circa: i Nobili Van Axel-Castelli, commercianti originari delle Fiandre, possedevano 450 ettari di terra a Montebelluna e a Mansuè di Oderzo, altri 180 ettari a Candiana e Cittadella, le Ville ad Altivole, Ponzano e Montebelluna, e anche 100 ettari a Gambarare e Mirano. Secondo l’Estimo di quegli stessi anni, Gambarare era diventato il luogo preferito dai Veneziani sia per la dimora estiva della “Villeggiatura”, che per gli acquisti alimentari e commerciali. Le Ville Veneziane costruite in zona divennero 89: 5 alle Giàre, 6 alle Bàstie, 1 a Quarto Bàstie, 25 a Mira Quarto, 14 a Mira Gambarare, 29 a Bosco e 8 al Bottenigo.

Nel 1743-1744 accadde il curioso episodio in cui il celebre scrittore e filosofo Francese Jean Jacques Rousseau cercò di far il furbetto incappando nel Dazio della Palada dei Moranzani. Presentatosi come “Sagratàrio dell’Ambassador de Franza a Venèsia”, fornì un certificato alterato con una marca falsa, e cercò di non pagare dazio facendo passare quattro sacchi di farina e una botte di vino. Gli Zàffi della Serenissima non ci cascarono, e lo incastrarono sequestrandogli tutto.

Nel 1764 quando Gambarare contava 3.819 abitanti, la “Gazzetta d’Italia” scriveva ricordando che la Ditta Veneziana Bèggio distribuiva lavoro ormai da 40 anni nel Padovano e Vicentino, e che ogni martedì “spiccàva”(partiva) da Venezia una gran barca carica di cotoni diretta a Gambarare, dove il giorno seguente era “dì de mercato”. Un incaricato della ditta avrebbe dispensato come sempre alle filatrici il “lavoro da fàr” ricevendo in cambio “el lavòro zà filàdo” della settimana che veniva pagato. Per le donne che abitavano troppo distanti, alcuni uomini della Ditta avrebbero portato il cotone da filare a domicilio. “… Il Siòr Beggio in questa maniera fa filar ogni anno 100.000 libbre di cotone alimentando un considerevole commercio che arriva fino alle piazze della Lombardia e oltre”.

Giunto il 1772, il Nobile Nicolò Tron che abitava in un Palazzo sul Canal Grande a Venezia, diseredò il suo primogenito Andrea che non voleva assolutamente saperne d’interrompere la sua relazione con la Nobile poetessa Caterina Dolfin(già sposata con Marcantonio Tiepolo del Ramo di San Tomà), che viveva con lui in continua villeggiatura nella Villa dei Tron a Monigo nel Trevisano. Il Nobile lasciò gran parte dell’eredità al figlio secondogenito Francesco Tron che aveva sposato la Nobile Cecilia Zen, al quale andarono: una fabbrica di panni a Schio, 1.000 ettari di terra fra Cittadella e Carmignano, quasi tutta la campagna di Trepalade sul basso Sile, la Villa di Mira Vecchia sul Brenta, la Villa a Mareno di Piave, le terre del Vicentino, e la tenuta di Anguillara fra Adige e Gorzone. Le proprietà più consistenti della famiglia vennero però intestate a Loredana Tron sposata con Antonio Priuli che si ritrovò a possedere anche 100 ettari a Gambarare, e altri 355 ettari a Ca’ Tron di Musestre e a Civràn.
Andrea Tron, il figlio diseredato, non si scopose e rattristò più di tanto, non sarebbe di certo morto di fame. Fu, infatti: Ambasciatore di Venezia a Parigi, Vienna, Aja, Madrid e presso la Corte Pontificia, e in seguito ricoprì a Venezia i ruoli e le cariche importantissime di: Savio agli Ordini, Savio alla Mercanzia, e Consigliere dei Dieci ... per poco non divenne pure Doge … a Venezia tutti lo chiamavano “el paròn”.  Non doveva di certo mancargli in tasca qualche spicciolo per tirare avanti.



Nella stessa chiesa di Gambararedove per secoli ebbero sede anche le Schole di San Francesco dei Cordigèri (quelli che trainavano le barche lungo il Brenta), la Schola San Giovanni Battista(attiva di certo nel 1748), la Schola dei Cento, e la Schola della Madonna del Rosario(sorta nel 1600), dal 1933 sorse anche la tradizione della Processione della Madonna dei Cavalli che viene celebrata ancora oggi l’8 dicembre di ogni anno.

Fu bruttina, invece, la situazione che si venne a creare “alle Gamberàre” quando finì la Serenissima, e durante la sucessiva dominazione Francese. Fino a quegli anni, fra 1798 e 1806, Giovanni Antonio Cicogna e Celestino Piave erano ancora i Pubblici Notai di Gambarare. Quando il Patriarca Flangini si recò in Visitanella parrocchiale di Gambarare dal 29 luglio 1805 e nei giorni seguenti, fece scrivere nella relazione giuridica: “… molti Oratori Pubblici della zona risultano essere ancora in funzione: “vivi e vegeti” sebbene “provati” dall’ondata dissacratoria dei Francesi ... Sono attivi gli Oratori Pubblici di Taglio di Mira sostenuto dalla famiglia Battagia, quello delle Giàre, di San Pietro in Bosco Grande, del Redentore sostenuto dalla famiglia Campagnon, e al Botteghin, mentre sono stati tutti dichiarati: “sospesi, rovinati e disastrati” gli Oratori Privati dei Nobili: Barbarigo, Moro, Balbi, Da Riva  e Bembo. Sono, invece, “da sistemare”, i vari Oratori dei Nobili: Correr, Contarini, Bettoni, Sografi, Stella, Tron, Zanetti e Zoglio, nonché gli Oratori alle Pallade e di Fusina ... In tutto nella zona si contano 4.000 abitanti incirca, nella zona detta del “Botteghìn” ce sono 387 fra i quali poche famiglie stabili ... La gente del luogo è piuttosto cattiva … Gli adulti non sono ancora preparati alla Prima Comunione, pochi assai frequentano ai Sacramenti … La popolazione che a riserva di un qualche numero di donne si vede appena a Pasqua: sono gente torbida ... Ci sono “disordini” alla Messa della Viglia di Natale … La chiesa vive con le rendite della carità dei fedeli: percepisce dalle 100 alle 200 lire al mese di elemosine amministrate dai Massari della chiesa (sono 5 del Comune: uno dei quali è “Trasportatore di biave macinate per barca”; un altro è “Passadòr al Taglio di Mira”; un altro è “Lavoradòr de campi”, un altro Murèr  ed infine un altro è: “Lavorante de campagne”). Le elemosine dei contadini sono tutte impiegate per pagare la celebrazione delle Messe a Gambarare, al Botteghin e a San Pietro in Bosco ...  Nella Parrocchia durante le Rogazioni e l’Ottavario dei Morti si fa la “Cerca”... Il Parroco percepisce 500 ducati annui circa di rendita (che un tempo ascendevano a 1.000 perché i proventi delle cerche erano più abbondanti). Le rendite del Piovano provengono dall’affitto di un pezzetto di terra alle balie, da “incerti di stola che sono ridotti perché scarseggiano i parrocchiani, i Battesimi, i Morti e i Matrimoni e anche le offerte”, e dalle “cerche” ossia: 19 stari di frumento, 24 di formentone, 20 mastelli di vino e 25 carra di legna ... Secondo la dichiarazione del Parroco Giuseppe Manetti di anni 64: “… a volte i Cappellani tralasciano di celebrare la Messa, bevono con poca moderazione, e si fanno ridicoli sull’altare ... Non si può parlare loro dopo il pranzo, nelle Funzioni cantano male ... Sono piuttosto prepotenti, ingordi e avidi nelle cerche, attendono alle persone che hanno e posseggono qualche cosa, per gli altri danno loro i Sacramenti e poi li lasciano: guardano l’uno e lasciano i novanta …”

Sempre leggendo la stessa relazione si può continuare ad evincere: “… il Parroco beve oltre il bisogno, e siccome mangia poco rimane facilmente alterato ... Dicono di lui: “E’ poco assiduo alla cura d’Anime, predica tutte le domeniche ma pronuncia solo quattro parole e per lo più raccomanda solo l’elemosina. Confessa poco, non partecipa alla Dottrina, non assiste convenientemente gli Infermi ... La di lui vita è stare a casa in quiete … E’ troppo buono e si dirige come un puntello, lascia fare ai Cappellani ciò che vogliono …  Il Cappellano del Quarto delle Giàre è Don Bontempi che ha rendite per 300 ducati annui dalla Mansioneria e dalla cerca consueta del frumento, uva e formentone. E’ fedele alla Dottrina Cristiana: è lui che l’ha raddrizzata … Il Cappellano Don Gaspari, invece, tiene attività commerciali di vario genere, fa denari e ne da “a prò”, ma fu burlato d’assai, e perciò da qualche tempo è in questo più misurato ... Il Cappellano del Quarto di Taglio della Mira: Don Francesco Colpi è stato eletto dal Comune, abita a Ca’ Correr, e ha da 13 anni 300 ducati di rendita dall’offerta della Messa (“se arrivano”, affermò lui stesso negli interrogatori) e dalle cerche compresa quella del fieno; Il Cappellano del Botteghin è Don Nicolini che ha 400 ducati dall’offerta della Messa e dalla cerca; Il Cappellano del Bosco Grande è Don Andrich che è l’unico di cui si parla bene, e di cui si dice “tenga una buona vita” ...”

Lo scenario trasmesso dalle parole si commenta da se.

“I 10 Sacerdoti in tutto celebrano anche diverse Messe avventizie: molte nella zona di Taglio e poche al Botteghin e alle Giàre ... Celebrano rare Messe Cantate, i Vespri tutte le domeniche, le Esposizione del Santissimo nel pomeriggio delle prime domeniche del mese, fanno le Processione nel mattino delle terze, le funzioni del Redentore, la recita del Rosario al Botteghin, e tengono la “Cassella per i Morti” ... Fanno inoltre la Predicazione a tutte le feste e il Quaresimale, la Dottrina per i fanciulli e le fanciulle nella Parrocchiale, a Cà Battagia, alle Giàre e al Botteghin con scarsa presenza per la distanza, e a San Pietro con generale sufficiente concorso quando le strade sono buone e la stagione lo permette.”

E’ molto interessante questa relazione, perché oltre allo “status”dei Preti mostra indirettamente quello della zona e delle attività e abitudini della popolazione che viveva in quel posto.



Nel gennaio 1815, nella lunghissima “Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti”, c’erano segnate fra tutto il resto: “… una possessione di Campi: 37.2.39 a Gambarare affittata con casa ed adiacenze a Marcantoni Antonio per: Formento Sacchi: 54, Polli numero: 4, Capponi numero: 4, oche numero: 1, ovi numero: 200 e contanti lire 317,241 appartenente al Convento di santa Maria Gloriosa dei Frari.”… e: “una possessione di Campi: 17.3.33 a Gambarare affittata a Megiolara Giuseppe per lire 269,655 appartenente al Monastero di Sant’Alvise e San Giuseppe di Venezia”… e: “un pezzo di terra a Malcontenta affittato a Vani Bernardo per Lire 25:5:94 appartenente al Monastero di Santa Caterina di Venezia”.

Curioso sono anche alcuni dati del Censimento Austriaco del 1820. Annotando la “Quantità delle famiglie e degli animali efficienti”, si precisava: “Ogni famiglia che lavora terreni non è completamente priva d’animali, tutti ne tengono in numero non corrispondente ai terreni lavorati:
___nella Frazione di Bosco Piccoloci sono: 97 famiglie, 21 delle quali con animali per agricoltura; 126 bovi; 28 vacche; 30 vitelli; tori: nessuno; 18 cavalli (impiegati nei trasporti e non sui campi); 07 asini; muli: nessuno; 40 pecorini (il Comune di Gambarare di solito ospitava fino a 3.000 pecore di Comuni diversi in partenza per la transumanza); caprini: nessuno; e 169 suini.
___nella Frazione del Bottenigo ci sono: 123 famiglie, di cui 20 con animali per agricoltura; 134 bovi; 60 vacche; 45 vitelli; tori: nessuno; 23 cavalli; asini: nessuno; muli: nessuno; 50 pecorini; caprini: nessuno; e 43 suini.

“… Il Frumento e l’Uva sono destinati alla vendita e al pagamento dell’affitto. Rimangono solo il Granoturco che garantisce la polenta accompagnata da un po’ di pesce fresco o salato, formaggi, erbe crude o cotte, e un po’ di carne o maiale nei giorni di festa. Il tutto viene innaffiato da “vino piccolo” ossia annacquato. Pellagra e scorbuto sono in queste terre all’ordine del giorno ...”

Secondo un’altra inchiesta Austrica di sei anni dopo, quelli di Gambarare rifornivano di foraggio quelli di Doloche avevano grande abbondanza di bestiame, e quelli in cambio pagavano di solito dando: letame.

Nel 1821, alla nuova Visita del Patriarca di Venezia Pirker si relazionò nei verbali stavolta in maniera più succinta: “San Giovanni Battista di Balleello di Gambarare conta: 4.000 “Anime” quasi tutti villici lavoratori di campagne per conto altrui ... Nella Parrocchia si contano: 7 Sacerdoti che celebrano 480 Messe di pubblica sovvenzione; la Fabbriceria della chiesa si sostiene con le offerte spontanee dei parrocchiani ... L’ArciPrete Parroco-Piovano percepisce una congrua di 500 Franchi, l’uso della canonica, e pochi “incerti di stola”, “… e si làgna dei pochi mezzi per cui non è in grado di fare il suo dovere” ... I Preti Cooperatori, invece, hanno particolari “contratti” coi parrocchiani ... Nei pressi della chiesa di Gambarare sorge una Scuola elementare con un Maestro Comunale; funzionano gli “Oratori Pubblici” di San Pietro in Bosco e del Santissimo Redentore al Botteghin, e anche gli “Oratori Privati” con Rosario e Messa quotidiana presso le famiglie: Battagia e Gregorina, alla Valmarana o “Crocefisso” che ha solo la Messa festiva; all’Acqua e Brochi che hanno Messa festiva e Dottrina ma Mansionario di Messa quotidiana “non mantenuto”; ai Marini o San Girolamo, ai Puiati o “Gesù nell’Orto” con Messa quotidiana, agli Azzo o “della Natività” con obbligo di qualche Messa, ai Chiggiato e ai Lippomano con la sola recita del Rosario quotidiano, e ai Da Riva o “Madonna delle Grazie”, Dubois o “Madonna”, Franchini, Corner, Van Axel, Bressan, Miotti, Polese, Mangilli, Legrenzi, Turrini, Costantini, Perdetti, Maruzzi e Cappellis ...”

Niente male nell’insieme ... Era quanto sopravvissuto al passaggio “innovatore e liberatore” dei Francesi nella zona delle Gambarare.

E’ interessantissima, infine, un ultima nota del 1848: il Parroco di Gambarare Don Eugenio Bortoloni si mise alla testa di 400 uomini armati di Gambarare, e presero in ostaggio il locale Commissario Distrettuale degli Austriaci per difendere le loro ragioni.

Forti quelli di Gambarare !






“Le Mùneghe dell'Isola di San Secondo ... nella Laguna di Venezia ovviamente.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 144.

“Le Mùneghe dell'Isola di San Secondo ... nella Laguna di Venezia ovviamente.”

Ad essere precisi e pignoli, l’Isola di San Secondo vicina al Ponte della Libertà e sulla via che collegava la “Palàda Lògo de Gabèlla cola Torre de San Zuliàn” alla Punta di San Jòppo o Giobbeal principio del Sestiere di Cannaregio a Venezia, si chiamava prima “Abbadia di Sant’Erasmo” (Protettore delle Genti di Mare). Il nome quindi all’inizio “suonava” del tutto diverso, ma era in ogni caso un’isoletta strategica posta quasi parallela al canale di San Giorgio in Alga e Fusina, lungo il quale passava parte del traffico commerciale proveniente dall’entroterra Veneto diretto alla città Lagunare.

Il Canale di San Secondo insieme all’isola omonima, erano insomma: “… Porta, Guardia e Sentinella di Venezia … Passo frequentatissimo, Scala de solaccièri, Vivàro de pescatori, Lanterna de Gondolieri, Porto de Virtuosi, Faro di smarrite genti, Riposo de naviganti, Albergo de Solitari … e in ogni pericolo o sfortuna: sicurissimo ricetto a tutti quanti.”

Consapevole probabilmente di questo, il Doge Felice Vitale pensò bene già nel 1089 di assegnare alle Monache di Sant’Erasmo (e Secondo)che versava in cattive condizioni, ossia: “… pauperrimam et in maxima necessitate coactam”, una salina posta nel Sestiere di Santa Croxe del Lupriopoco distante dal suo palazzo, 5 libbre d’oro, un censo annuale in denaro, e altre pertinenze “… affinchè le Monache si possano procurar di che vivere, e mantenere: Portico, Sottoportico, Cavana, Cavanella, Riva e Pontile, con camere et amplissime sale per ricevere in pericula qualunque sorta di gente v’arrivi.”

Circa dieci anni dopo la Badessa Donna Altruda di San Erasmo (e Secondo)ottenne da Bonius Vice Domino del Vescovo di Treviso col consenso della moglie Sofia e del figlio Valperto la proprietà di 2 “massarie” nel Trevigiano: “… per riparare alle ingiurie mosse verso il Monastero, e per l’Anema sòa”. La donazione al Monastero venne rogata a Mestre nella Curia del Vescovo di Treviso Gompaldo, ed era presente all’atto come testimone un Gastaldo di Mestre che si assunse il compito di continuare a promuovere buoni rapporti fra l’Isola-Monastero di San Secondo e il Vescovo di Treviso.

Durante tutto il 1100 anche l’Abbadia di San Erasmo (futura San Secondo) come altri Monasteri Lagunari (San Cipriano di Murano, Sant’Ilario di Fusina, San Giorgio Maggiore, San Giovanni Evangelista di Torcello, San Lorenzo, San Zaccaria, Santa Maria della Carità, San Nicolò del Lido, San Salvador) accumulò un consistente patrimonio di beni dovuti a donazioni e lasciti, e l’arricchì ulteriormente tramite tutta una serie di oculati interventi finanziari sul mercato fondiario del Padovano, e soprattutto a Piove di Sacco, Mestre, Rosara, Melara e nelle zone dove scorrevano i fiumi: Brenta, Tergola, Una, Clarino e Avesa. Monache e Monaci si facevano recapitare dai coloni fin dentro ai Monasteri: vino, lino e cereali dalla Saccisica e fin da Conche, Lova e Canne di Brondolo sul margine della Laguna Veneziana ... In cambio, in un altro testo di compravendita stipulato nel chiostro dell’isola da Gerardino da Villanova e dalla Badessa Donna Fumia risalente al 1186, le Monache di San Secondo s’impegnavano, ottenendo per 150 libre di Denari un manso di terre a Mercurago di Treviso, a tenere accesa con la rendita una bella lampada ad olio davanti all’altare del Santo il giorno della Festa (che ancora non c’era ?).

Niente male come cambio !



A tutela e garanzia giuridico-economica del loro “status”le Monache di San Secondo si garantirono l’assistenza continuativa di Vitale Presbitero di San Secondo, e si era ai tempi delle Monache Badesse:Dona Aycha, Dona Nella (che sarebbe Helena) eDonna Fosca.
Per tutto il secolo gli antichi documenti Veneziani accennarono alle proprietà: “… lacu, aquimoli Sanctorum Martirum Secundi et Erasmi … fundamentum…” siti nella Contrada di San Geremia a Venezia, e le 19 Monache di San Secondo chiesero e ottennero di continuo da Alessandro III la “Protezione Papale” sopra i loro sempre più numerosi possedimenti.

Ma perché quasi tutti i documenti dicono e scrivono “San Secondo” se il corpo del Santo non era ancora arrivato ? C’era o non c’era sto’ Corpo Santo ?
E’ un po’ travagliata la vicenda del nome dell’isola, ed esiste più di qualche incoerenza nella Storia e Leggenda che la riguarda. Secondo i più, il nome ancora attuale di “San Secondo” venne aggiunto e prevalse solo dopo il 1237, quando ai tempi delle Badesse Dona Florigentia e Viola Nadal si portarono nell’isola le Reliquie del Martire San Secondo d’Asti.

Chissà perché finirono a Venezia ?

Trafugato è la probabile spiegazione, com’era abitudine dei Veneziani che erano veri e propri “Collezionisti di Reliquie”.
Recitava un’iscrizione che c’era nell’Isola di San Secondo: “TRANSLATIO SANCTI MARTY(RI) SERENISSIMO IACOBO TIEPOLO VENETIARVM PRINCIPE IMPERANTE ANNO 1235. HIC CIVITATFM PEDEMONTANAM ASTA NUNCVPATAM OBSIDIONE ATQUE ARMORUM COEPI, DEPREDAVIT, DENEQVE DESTRVXIT. CORPUS SANCTI SECVNDI EX EA ABSTVLIT, VENETIASQUE PORTAVIT ET IN lNSULA SANCTI EBRASMI COLLOCAVIT. NON SINE QVIBVSDAM DIVINITVS PRODIGIIS COELITVS OSTENSIS, ET EX … COEPIT VOCARI ECCLEBSIA SS. ERASMI ET SEGVNDI.”

Non esiste però traccia storica di quella spedizione Veneziana ad Asti realizzata durante la reggenza del Doge Tiepolo, perciò più che mai rimane valida l’ipotesi del trafugamento delle Reliquie. Nell'Archivio del Monastero dei Santi Cosma e Damiano della Giudecca si conservavano, infatti, dei documenti che attestano: “…  il corpo di San Secondo Protettor d'Asti, per trecento e trentatre anni lasciato in una cassa di piombo sotterrata, dopo essere stato rinvenuto e solennemente esposto, pare sia stato venduto ad alcuni Mercatanti Veneziani per parecchi danari dalla famiglia De' Venturi, e poi furtivamente il Corpo condusse a Venezia ...”
(Un’unica traccerella storica o memoria tarda del 1600 rivela che Pietro Giovanni figlio del Doge Jacopo Tiepolo era stato Capitano della Milizia con residenza a Milano … Quindi Asti si sarebbe trovato lì, quasi a due passi.)

Ovviamente gli Astensinegano tutto, e sostengono che il Corpo del Santo Martire Secondo non se n’è mai uscito da Asti ... Anzi: sostengono pure che il Corpo presente a Venezia appartenga a un altro Santo: un San Secondino Vescovo di certo inferiore al loro San Secondo Martire. Non se ne andò fuori: si rimase tutti incerti per secoli, preda dei soliti intrugli e intrighi campanilistici escogitati dai soliti Ecclesiastici, Nobili e Mercanti Veneziani. (In una recente ricognizione delle spoglie del Santo che attualmente si trovano ancora nella chiesa dei Gesuati sulle Zattere di Venezia, risultò a sorpresa che quel Santo Martire Decapitato aveva ancora la testa perfettamente attaccata al collo, e che quel corpo non risaliva affatto al primi secoli della Cristianità, il Tempo dei Martiri, ma era più tardo … Allora qualche dubbietto c’è ancora circa l’origine e le modalità con cui quel Santo o presunto tale giunse a Venezia).

(collegiata San Secondo ad Asti)


La Leggenda aggiunge perfino che il Corpo del Santo “rapito” fosse destinato alla chiesa della Contrada di San Geremia a Venezia, e che furono le condizioni metereologiche avverse a indurre i “devoti Mercanti” ad approdare all’isoletta per trovarvi rifugio durante una bufera.

C’era però una logica dietro a tutto quel manovrare di Santi Corpi e Reliquie … Immaginate solo per un istante quale indotto e movimento era in grado di generare la presenza di una così insigne Reliquia. In quei secoli l’intera Cristianità andava matta per le Reliquie, perciò quando se ne possedeva una si metteva in moto tutta una catena di eventi devozionali, penitenziali e caritatevoli a cavallo fra Storia e Leggenda che alla fine non poteva se non risultare redditizi oltre che capaci di procurare benefici spirituali. Dopo un po’, infatti, al tempo delle Badesse: Donna Eufemia, Donna Dalmatina, Donns Gisla Zancarolo e Donna Flordelisesi disse in giro per tutta Venezia e la Laguna che la presenza di quelle Sante Reliquie aveva fatto scaturire in isola un pozzo d’acqua miracolosissima, e che era diventato perfino Protettore delle Partorienti perché da quando era arrivato lui certe donne partorivano senza difficoltà in condizioni difficili … e si aggiunse inoltre che essendo Cavaliere San Secondo era anche Protettore dei Pescatori, Protettore delle Genti Venete, Protettore dei Pellegrini, e Protettore della Porta della Città Serenissima … e chi più ne ha più ne metta.

Non era vero niente, però San Secondo scalzò via del tutto il nome di Sant’Erasmo ... e calamitò l’attenzione dei Veneziani, delle genti della Laguna, e di tanti forestieri di passaggio. 



Nonostante questo, verso il 1272, le economie del Monastero di San Secondo si ridussero non poco, e le Monache furono costrette a vendere buona parte di quel patrimonio originale donato dal Doge.
Qualche anno dopo, nell’agosto 1281 al tempo della Badessa Donna Agnese Miglani, Venezia approfittò delle guerre contro Ezzelinoper sottrarre alcune terre al Vescovo di Treviso la cui giurisdizione arrivava: “… fino a San Cataldo, alla Torre di Casanzago, e sino ad acquam salsam”. Con quell’espediente la Serenissima spostò il suo confine facendo costruire una Palàda a San Giulianosul bordo della Terraferma dove erano soliti stare i Custodi dei Confini Trevigiani, mentre fino ad allora i Custodi di Frontiera Venezianistavano proprio nell’isola di San Secondo.
Si venne però a creare una situazione incresciosa di controllo dei Confini fra Venezia e Treviso, per cui alcuni Giudici chiamati in causa decisero che chi pescava in quei luoghi avrebbe dovuto chiedere licenza sia al Comune Veneziano che al Vescovo di Treviso ... pagando così i diritti ad entrambi.

Bella mossa furbastra !


“… Nelle vicine Paludi (di San Secondo) con esca de Spiantani, Schille e Vermicelli, con diverse sorti de reti e d’ami, in vari modi di pescare che essi dicono a Trezuola, a Tratta di mano, a Trattoline, a Bragagno, a Togna, a Molinello, a Sbusigno, a Caminetto, a Fossina, e Ostregheri, si dà caccia il dì e la notte da tutte l’hore al pesce e le Conchiglie, e si pescano Cefali, Gouati, Paganelli, Passere, Branzini, Rombi, Anguille, Bisatelli, Ostriche, Gambarelli, Granci, Cape, Masenette, Molecche e Schille in grandissima copia, ma le Passere, le Cape e Ostriche di San Secondo come che habbiamo all’intorno pascoli grassi e buoni, par che nelle piazze portino il vanto. E basta dire che siano prese in questo loco, a trarne quel precio che i Pescatori vogliono, imperochè nelle mense sono molto desiderate. E quando che per la moltitudine de le barche pescareccie le quali qui d’intorno spesse volte sono quasi infinite, se doveria credere con ragione non esservi più coda di pesce, pur allhora pare, che per uno ne nascano mille. Taclhe se dicessi, come i Pescatori cavano più monete dal pesce di queste Lagune, che non fanno oro i Tedeschi dalle lor minere, forsi non direi bugia, che è cosa incredibile se ben è vero, che Pesce e del danaro che se ne trahe se alimenterebbe una Città intiera …” recitò in seguito il Chronicon di San Secondo.

Due anni dopo presso il Notaio Damianus Diacono di San Moisè attivo a Rialto: Marchesina Monaca di San Secondo col consenso della Badessa fece “Quietanza della Dimissoria” agli esecutori testamentari di Maria Ghisi… e sempre a Rialto, presso il Notaio Johannes de Raynerio Prete a San Polo, anche Agnese Miani Monaca Badessa di San Secondo fece anch’essa “Quietanza della Dimissoria” agli esecutori testamentari di Maria vedova di Marino Ghisi del Confinio di San Moisè… Negli stessi anni il Monastero di San Secondo acquisì altri 150 ettari di proprietà nel Trevignanolungo i corsi dei fiumi Sile, Zero e Dese per i quali esigeva un censo in frumento.

Durante tutto il 1300 le Monache di San Secondo arrivarono ad essere 25 di numero, e ampliarono ulteriormente il loro patrimonio aggiungendovi altri beni a Venezia, Chioggia, Padova e ancora Treviso. Fin dall’inizio del secolo quando governarono San Secondole Badesse HeIsabetta Dal Molin, Zanina Albiço, Anna Ghisi, Margherita Donàta donna di gran cuore, e Francesca Miani:“si attese molto a le fabbriche, e si rifece quasi tutte le habitationi a la chiesa contigue, fo fatta la Camera de l’Abbadessa, che serve a uso de Forestieri ne l’Hospitaria, e altre camere e saloni, e il Monasterio fu in più parti abbellito e ristorato.”

In quegli anni abitarono e vissero in San Secondo:“… molte Gentildonne di valore, ben note e virtuose, tra quali c’era:Donna Zanetta Molini, Donna Helisabetta Giustiniani, Donna Lucia d’Arpino, Donna Thomasin Pizzamano, Donna Bianca Cornera, Donna Isolana Caravelli, Donna Orsa Signoli e Donna Fransceschina Loredani quasi tutte scelte dal fiore della Nobiltà di Venetia” Non erano tranquillissime le Monache, perché litigarono spesso per le imposizioni fiscali messe dal Vescovo di Castello-Olivolo di Veneziasotto la cui giurisdizione si erano ridotte … ma litigarono anche col Vescovo di Torcello con le cui acque confinavano, e pure col Vescovo di Treviso che giunse a scomunicarle tutte ai tempi della Badessa Caterina Barbaro. Le Monache non si scomposero affatto, e con la Badessa Elena Barbaro fecero ricorso direttamente al Papa e alla sua Santa Sede che nel 1393 con Bonifacio IX le autorizzò perfino ad uscire a due a due dal Monastero per recarsi nel Padovano e Trevigiano nei periodi del raccolto e per riscuotere: mai Monache Veneziane erano state più libere di così.


(Jacometto_ritratti di Alvise Vivarini e di una Monaca forse di San Secondo_c1480-1500)

Con l’arrivo del 1400 il “modo di vivere e le costumanze” delle Monache di San Secondo “saltarono per aria”, perché le Monache si trovarono di continuo invischiate in situazioni scandalose che fecero mormorare l’intera Laguna oltre che tutta Venezia. C’era perfino qualche Monaca che si concedeva liberamente nel chiostro a Barcaroli e Nobili di passaggio, o che si recavano lì a posta per “visitarle, sovvenirle e incontrarle”.
Nel 1429, ancora con la stessa Badessa Elena Barbaro il Monastero di San Secondo risultò essere sempre più ricco: si trovava al undicesimo posto per importanza fra tutti i dichiaranti Veneziani. Anche se continuava a spacciarsi come “povero” mettendo in giro dati economici poco attendibili, San Secondo possedeva redditi fondiari un po’ ovunque. Secondo i dati fiscali del 1448 il Monastero di San Secondo sotto la Badessa Marina Zaccaria dichiarò d’essere proprietario di soli 75 campi nel Padovano, mentre nel 1479 ai tempi della Badessa Bianca Corner, il Gastaldo della Scuola dei Battuti nel Borgo di Santa Maria di Mestre che teneva a livello alcune terre del Monastero di San Secondo in isola, dichiarò apertamente che le Monache di San Secondo avevano aumentato di molto i loro interessi e possedimenti.



Sulla Pianta di Venezia del Pittore, Incisore e Cartografo Veneziano Jacopo De Barbari del 1500, nell'isola di San Secondo si può notare un campaniletto cilindrico … Sempre lì, nell’agosto 1513 si condannò al Bando di un anno da Venezia e da tutto il suo Dominio Andrea Incisor per aver osato entrare nel Monastero di San Secondo in Isola, ed aver avuto“commercio carnale” con la Monaca Cecilia Moro ... e questa è un’altra … Una leggenda racconta di una bella, ricca e Nobile giovane Monaca di San Secondo murata viva dalle consorelle in una cella del Monastero dell’isola per la sua condotta troppo licenziosa. Il suo spirito ancora oggi (2017) vaga per l’isola cercando il suo Monastero che però non c’è più … Attenti perciò se siete intenzionati a sbarcare lì … Nell’ottobre dello stesso anno gli Spagnoliche per due giorni avevano saccheggiato e dato alle fiamme tutta Mestre, spararono alcune cannonate verso l’isola di San Secondo: “… le monache stettero salde, ma ebbero grandissima paura.”

Nel giugno 1515 Papa Leone X stanco di sentirne arrivare “di tutti i colori” da Venezia e dalla Laguna, ordinò la Riforma del Monastero di San Secondo per la condotta troppo irregolare ed eccessiva delle sue Monache. Fu come parlare al vento … a San Secondo non cambiò nulla, le Monache ignorarono ogni richiamo del Papa … ed erano i tempi della Badessa Chiara Suriàn ... Così si andò ancora avanti per altri cinque anni: anche Marina Celsi inviata dal Patriarca a riformare il Monastero ottenne parziale successo dividendo le Monache fra Osservanti e Conventuali… In città stavano accadendo fatti e situazioni analoghe se non peggiori: a San Zaccaria, Santa Marta, ai Santi Biagio e Cataldo della Giudecca, e nel Sant’Anna di Castello, e in molti altri posti ancora. In realtà stava andando tutto come il solito: perché la Serenissima, i Nobili e il Clero facevano finta che nulla stesse accadendo. In giro per le Contrade, i Casini, i Campielli e i Palazzi si diceva ormai da tempo: “Dove ghe xè campane, ghe xè putane” e siccome c’erano di mezzo Figli e Figlie di Nobili prestigiosi, tanto potere e soldi, nonché equilibri politici ... non succedeva niente, e si lasciava fare a Monaci e Monache tutto quello che volevano.

Fu il Patriarca Antonio Contarinialla fine “ad avampàr di sdegno”: spedì via dall’isola di San Secondo alcune Monache trasferendole nel Monastero di San Cosmo e San Damiano della Giudecca, mentre altre se ne andarono spontaneamente andando a rifugiarsi nel Monastero delle Vergini di Castello. Già che c’era, il Patriarca chiese e ottenne da Papa Leone X di aggregare allo stesso Convento della Giudecca le poche Monache rimaste in isola, e di conseguenza il Papa trasferì buona parte (ma non tutto) delle rendite di San Secondo alle Monache altrettanto Benedettine della Giudecca. Si era nel 1533 quando si concluse quella “cacciata de Mùneghe”, ed erano trascorsi “solo” 150 anni da quando si era iniziato a tollerare con pazienza certi “vizietti”delle Monache.

Iniziò così nel 1534, dopo qualche anno d’incertezze in cui anche i Monaci Camaldolesi di San Michele di Muranovolevano assicurarsi l’isola, una nuova gestione dell’isola di San Secondo. Il Patriarca Girolamo Querini domandò e ottenne da Clemente VII d’affidare Isola e Monastero ai Frati Domenicani di Castello che l’occuparono fino al 1806.



Si raccontò e scrisse ancora che nel 1539 un vecchio Prete Cappellano dalle Monache lasciato a custodire l’isola e costretto ad andarsene appiccò il fuoco al tetto del Monastero che andò tutto distrutto eccetto la Cappella di San Secondo dove si custodiva una pala originale del Vivarini … Qualcun altro, invece, affermò che l’incendio fu del tutto casuale e fortuito. In ogni caso si ricostruì tutto con finanziamenti provenienti dagli stessi Padri Domenicani, dal Patriarca Marco Priuli, dalle Monache del Monastero del Corpus Domini poco distanti, e di tanti devoti Veneziani.

Chissà come sono andata le cose veramente ?

Il 5 aprile 1596, “... essendo stato eletto Nuncio Pontificio in Venezia Monsignore Antonmaria Graziani Vescovo di Amelia, notissimo al mondo erudito per le sue belle opere che sono alle stampe; giunto che fu a Venezia … fu stabilito il suo ingresso, e giusta il solito furono deputati dalla Signoria sessanta Senatori ad incontrare esso Nuncio. A capo di essi Senatori era il Paruta, già Ambasciatore in Roma, come Cavaliere (eletto dal Papa) … Il 29 maggio del 1596 medesimo, essendo arrivato a Venezia anche Gianfrancesco Aldobrandini, nipote di Clemente VIII: fu incontrato all'isola di San Secondo da 30 Senatori, alla testa de' quali era ancora il Cavalier Paruta, e che da essi fu accompagnato sino al Palazzo Cornaro in San Polo, dove fu splendidamente alloggiato ...”



A San Secondo si seppellirono il Nobile Marco Barozzi col figlio Giovanni annegati davanti all’isola durante un temporale, e sempre in isola si fece seppellire Alessandro Trieste figlio di Giulio: Cavaliere di San Marco e Dottore in Medicina a Padova ma ascritto al Collegio di Venezia dove esercitò con grande fama e stima …  nel 1614 si seppellì a San Secondo anche Pietro Bon o Bono figlio di Vincenzo quondam Gianmaria, Cittadino Veneziano della Contrada di Santa Maria dei Servi nel Sestiere di Cannaregio, Mercante assai ricco che molto profuse a favore del Monastero di San Secondo dove si fece costruire due cellette personali, ma anche “in opere de Pietà, Religione e Carità verso tutti i Veneziani”. Stimato dagli altri Mercanti fu Prefetto della Camera del Purgo e delle Scuole Maggiori, Guardian Grande della Scuola di San Rocco nel 1607, e incaricato d’elargire elemosine, legati e sovvenzioni oltre che di giudicare cause.
Ogni tanto era abituato con altri Mercanti, amici e gentiluomini a ritirarsi nell’amenità dell’isola. Fu lui che a proprie spese fece restaurare il campanile di San Secondo colpito da un fulmine nel 1594 … e fu ancora lui che contribuì a costruire ai tempi del Priore Alessandro Manerbius scrittore e studioso, una monumentale e splendida cancellata dorata che proteggeva la Cappella di San Secondo, e una splendida loggia affacciata sulla Laguna, che rovinò a terra nel 1710 “per vecchiezza”.



Tutto quanto accadde nell’isola di San Secondo in quel periodo è ben documentato e raccontato nell’Historia dell'Isola eMonastero di San Secondo di Venezia” scritta dal Reverendo Priore Fra Domenico Codagli delli Orzinovi Vicario di detto Monastero, e pubblicato a Venezia da Rampazetto nel 1609. L’opera venne dedicata e non a caso al solito Mercante e benefattore Pietro Bono, e a leggerla è curiosissima sebbene l’erudito Apostolo Zeno affermi che il libro: “… non e gran cosa, ed è poco a fidarsi di quello ch’el dice a riguardo de‘ tempi lontani”.

Eccovene qualche riga, uno spicchietto che descrive l’isola di San Secondo così com’era durante il 1600: “La deliciosa isoletta di San Secondo ornata già dal titolo e dignità di Abbadia … ancora che niun famoso scrittore sia celebrata, e che a pena le Croniche di Venetia se degnino come di cosa minima di farne menzione, a me nondimeno e per le Sacre Ossa del Santo Martire che per sua stanza la elesse; e per le molte memorie di antichità che vi si vedono, come anco per le cose memorabili, che dal principio de la sua fondazione sono in lei fin a l’hora presente succedute, m’è parso cosa ragionevole di honestarla d’Historia particolare, e de alcune lodi quali si siano da me illustrata, mandarla in luce. Perché essendo parte di quell’inclita meravigliosa Città miracolo del mondo; che da tutti viene communemente celebrata e favorita, conciosia che fuori de le sue Paludi nata, qual vaga Ninfa o Nereide in questo solazzevole delitioso stagno specchiandosi, mostri prima di tutte l’Isola, a la vista di lei le rare bellezze, e agli occhi di coloro di verde lauro cinta s’appresenti, che da Terre aliene a la Città per le famose porte di Marghera, e LezaFusina passi principalissimi, e frequentatissimi se ne vengono, ogni ragion voleva che se il corpo de la Città da tante Hostorie illustrato, e le città e Provincie de chi è Regina, a stupore del mondo cotanto risplende, così le membra che sono l’isolette, e massime questa, dagli habitatori de la Città si frequentata e favorita, cominciassero con degli Encomi, e particolari Elogi, Libri e Historie ad essere mentovate …”

San Secondo era quindi considerato dai Veneziani un “Piccolo Paradiso Terrestre” intorno al quale barche e gondole andavano a sollazzarsi e prendere il fresco piacevolmente … Il Converso Frà Giacomo, invece, ha tramandato fra 1642 e 1645 la registrazione giornaliera delle pietanze che venivano servite ai Monaci.

In realtà i Padri Domenicani Predicatori(i potentissimi Padri Inquisitori di San Giovanni e Paolo o San Zanipolo) avevano comprato l’isola dal Senato della Serenissima per 250 Ducati, e piano piano provvidero a restaurarla del tutto immettendovi sei-sette altari usufruendo di un finanziamento di Padre Zaccaria da Luni(Lunensis)che fece costruire una nuova Fabbrica in grado di ospitare fino a 30 Religiosi … Si fece riconsacrare la chiesa da Angelo Barone dei Padri Predicatori che era stato Priore di San Secondo in precedenza nel 1590 … e i Frati interagirono e disputarono non poco con gli organi della Serenissima che mise lo zampino sull’isola istallandovi una delle sue tante “polveriere” sparse per la Laguna … Nei tempo seguenti la Fabbrica di San Secondo andò a Processo con Orsetta Riva erede del Signor De Li Grandi Gerardo Sacrestano, e si litigò contro Stefano Comasco per una bottega ad uso di Tintoria sita in San Geremia di sua ragione.

Nel 1630-31, gli anni della terribile Peste della Madonna della Salute, l’isola di San Secondo come quella di San Giorgio in Alga e San Cristoforo dovevano essere destinate in applicazione delle disposizioni dei Provveditori alla Sanità a zona per “lo spùrgo de le ròbe”. Vinse però la risoluzione di ospitare nella Foresteria dell’Isola la famiglia dell’Ambasciatore di Francia che in città aveva già subito una decina di lutti. In cambio, alla fine della pestilenza, il dignitario offrì ai Frati 50 bei Ducatoni Veneti.


Nel 1661 il Monastero di San Secondopossedeva una rendita annuale di 96 Ducati proveniente da affitto d’immobili siti in giro per Venezia. e disponeva di diversi capitali versati in Zecca … Tre anni dopo si seppellì a San Secondo un altro personaggio singolare: il Padre Basilio Pica Domenicano Osservante originario di Napoli, zelante Predicatore, dichiarato anche Cittadino Veneto, che era venuto a Venezia appoggiato dal Nunzio Apostolico e con una patente di Priore. Inizialmente per la sua abile loquela e simpatia fu amatissimo dai Veneziani, ma giunto come inviato del Papa a San Domenico di Castello(sede della Santa Inquisizione) intendeva sfrattare dal Convento tutti e 35 i Frati Predicatori e Inquisitori appoggiato dal Legato Apostolico residente a Venezia … Giunto, invece, nell’isola di San Secondo aveva fatto esonerare il Priore Simon Salvetti reo di non applicare a sufficienza il “digiuno da carne e l’Osservanza” mettendosi al suo posto.

I Frati Domenicani Veneziani si rivolsero subito al Senato della Serenissima: figuriamoci !

“Quel Frate Napoletàn al di là delle apparenze xe vegnùo a Venezia a comandàr in nome del Papa de Roma !”

Non si sarebbe mai permessa a Venezia una cosa simile. Infatti a Fra Basilio Pica fu impedito per mesi di rendere operativa la sua carica di Priore … perciò dovette andarsene da Venezia, ma vi tornò a 53 anni per ritirarsi a morire nella stessa isola di San Secondo dove venne sepolto. A Roma nel 1672 lo considerarono “un mezzo Santo”, perciò il Papa ordinò al Priore di San Secondo che il suo corpo venisse riesumato e seppellito al centro della chiesa con grande onore.

Chissà che fine avrà fatto quella tomba così insigne ?

“… produce il terreno di quest’isola ottimi frutti, e vi sono l’Uve di Pergola d’ogni sorte delicatissime al gusto, ma la Brunesta, il Giubebo, l’Uva Marina, Moscati bianchi e neri,e Merzemine eccelentissime … Oltre che vi sono i Peri, Pomi dolci, Pomi Cotogni, Armoniache, Persichi, Marabolani, Susini d’ogni sorte, Bromboli, Fichi, More nere, Amandole, Giuggioli, Olive, Avellane, Uva Spina, e vìho veduto de le Sorbole. Lascio gli Alberi communi, la Salice, il Popolo, l’Elera, il Sambuco, e altre piante simili de quali n’habbiamo in questi horti, ma vengo a le piante nobili del Cipresso del quale dicono gli Antichi essere consacrato a Plutone Dio dell’Inferno, albore in Italia forastiero, che difficilmente in queste parti se mantiene, e di lui natura in guisa di piramide cresce a grande altezza, piantatao in quest’isola, si come io l’anno passato ne ho fatto prova di due piante, mirabilmente s’alligna. E vi sono Albori da Bacche e da fiori di diverse sorti, il Lauro consacrato ad Apolline, e honorato da Giove, il Mirto, il Busso, la Marteletta, i Melogranati, l’Euonimo Silio, e Lothocapillato, da Teofrasto e Plinio molto celebreati. Vi nascono oltre l’herbe communi de gli horti, herbe odorifere di ogni sorte, etiandio le Zucche, Melanzane, Anguri, Cucumeri e Pepone quando vi sono allevate; ma il Rosmarino vi si fa meraviglioso. Et ho provato che vi nutre benissimo ogni sorte e fiori nostrani, e forestieri, i Tulipani, Sincadami, i Giacinti di diverse sorti, e altri fiori pellegrini e belli. Ma oltra le Rose, Gelsomini, e Garofoli, vi è una specie di Gelsomini azurini che nascono da se stessi, e vi sono Semplici da la Natura prodotti che hanno del singulare, i Papaveri dìogni sorte, la Malva arborea, la Sassifragia, la Dragontea, il Nardo, l’Aneto, l’Iride, Sepreviva, Perforata, Elera Felix, Leadri, Capillo Venere, e vi furno vedute anco la Reguaritia, e la Madragora …” descrive ancora l’isola il Priore Fra Domenico Codagli delli Orzinovi.

Dal 1686 l’isola di San Secondo divenne Collegio per i Chierici dell’Osservanza Domenicana ma soltanto per 3 anni … Nel 1692 si rinnovò la Cappella di San Secondo ancora indebolita dall’antico incendio … e due anni dopo ancora, Padre Daniele Danieli compilò un nuovo Catastico dell’intera isola di San Secondo … I Frati di San Secondo tenevano scritture e disegni sui beni, terre e appartenenze di pertinenza del Convento poste nelle vicinanze di Chioggia, e atti stipulati dalla Congregazione Regolare dei Frati di San Secondo, compilavano costantemente tutta una serie di Libri Mastri, Quaderni di Cassa del Convento, Giornali e “Registri di Spesa, Riceveri e Dare e avere” della stessa Fabbrica e del Convento ... tenevano inoltre scritto nel Libro delle Decime Private e del Clero quanto versavano di tasse alla Chiesa … e registravano viceversa la Tassa che il Convento di Cividalepagava ogni anno a San Secondo insieme a una corresponsione annuale di 867 Messe da celebrare che era obbligato a corrispondergli ... Accanto a tutto questo i Frati segnarono nel Libri le “fatture” fatte eseguire in detto Convento, e segnarono puntualmente nei Libri di Crediti e Debiti del Sindaco e Amministratore del Convento, nel Libro della Commissaria Giettaistituita a favore del Convento al 1646 al 1666, e i Livelli a debito del Convento di Contarini Taddea, dell’Ospedale degli Incurabili, e dei fratelli Scarpa… senza dimenticare di raccogliere gli “Istrumenti e altre carte circa la lite fra San Secondo e il Pio Loco delle Penitenti di Venezia dovuta ad annua corresponsione dovuta dal secondo al primo”.

Diversi Testamenti vennero redatti a favore di San Secondo da parte di: MarcoBragadin (1601), Carlo Gela (1663), don GiacomoLioncini (1632), Girolamo Moro (1672), Pietro Dal Negro(1663)e Lorenzo Tetta(1662) ... Oltre a questi s’istituirono diverse Mansionerie di Messe pagate al Monastero da Franceschina(1644),Cecilia Lion(1653),Paolo Dandolo(1656), dai fratelli Zen (1567), Bernardino Fabbris(1677), Giobatta Bettini(1680), Chiara De Livis(1680),Girolamo Negroni (1686),Bortolo Petrogalli(1689) edElisabetta Memmo(1692).

Quando i Frati Domenicani Inquisitori e Predicatori acquistarono l’isola dal Senato della Serenissima sapevano bene quel che stavano facendo, perché con quella semplice mossa e con la spesa di poche centinaia di Ducati entrarono in possesso per secoli di una grossa e lunga lista di beni:
___Terre e case nella Contrà del Luprio nel Sestier de Sancta Croxe.
___Terre e case in Contrà de San Geremia, de San Marcilian, e de Sant’Ermagora (San Marcuola) nel Sestier de Cannaregio dove prima c’era una salina.
___Terre e case in Contrà de Sant’Agostin nel Sestier di San Polo.
___Terre e case in Contrà de Sant’Angelo e San Vidal nel Sestièr de San Marco.
___Terre e case in Contrada de Santa Margerita nel Sestier de Dorsoduro.
___Saline a Chioggia nei Fondamenti Asinina Vetere, Pietro Mauro e Sablòne, Aselina Maggiore, Brombèdo, Porto Gambarària e Tombàstrio, e terre e case a Chioggia, Panigàle e Suricàle.
___Terre e case a Monte Paolo, Calle Rundula e Castello.
___Terre e case ad Ultra Canale e Rivo de Venecie.
___Nella Padovana: proprietà e diritti in: Saccisisca, Fossa di Lòvolo, Prata, Ramello, Cavidolo, La Coa dei Pradi, Orte, Vignale, Gallinaccio, Pudiniga, Riva, Tognana, Ardoneghe, Arzerello, Carobbio, Castello, Conselve, Cazzeniga, Da Stangào, Marimonda, Brùgine, Paigna, Vigo di Rovea, Arzere, Ca’ Zen, Sponda, Campagnola, Cazzegògno, Corbellàro, Ponte, Teggia e Boschetto.
___Nella Trevisana: proprietà e diritti in: Tòvero, Torre, Martellago, Peràga, Mercuràgo, Torrello, Campodòvolo, Maerne, Trevignano, Favaro, Scortegàra, Zelarino, Zero, Val di Schedo.
___Case a Mestre in località Castel di Mestre e Ponte Longo, Borgo dell’Ospedale di Santa Maria, Borgo San Lorenzo e Porto di Mestre.
___Un allodio a Capodistria
___Alcuni beni nel Bresciano.

Inutilmente le Monache “cacciate”e spedite alla Giudecca provarono a recuperare il controllo di tutto quel patrimonio di San Secondo: nel 1538 una sentenza definitiva del Vescovo Giacomo Pesaro attribuì ai Frati il pieno controllo e la libera gestione di tutta quell’ingente sostanza.



Ancora nel 1712 il Monastero di San Secondo possedeva una rendita annuale di 257 Ducati (diventati 311 nel 1740) proveniente da affitto di immobili siti in Venezia … Tre anni dopo si provvide a redigere: “un novo Catastico della Sacrestia del Convento e di tutte le suppellettili che in esso si contengono” … nell’agosto 1719 il Proto Andrea Tirali rilasciò una scrittura per un restauro della Foresteria di San Secondo per la spesa di 217 Ducati … Poi avvenne la: “Vendita fatta dal Magistrato dei Governatori alle Entrade Pubbliche di una casa sita in Calle dei Fabbri dietro domanda avanzata all’Aggiunto Sopra ai Monasteri dai Padri di San Secondo” ... Nello stesso tempo giunsero altri testamenti, lasciti e nuove Mansionerie a favore del Monastero: Giobatta Erizzo (1712), Margherita Berlan (1719), Santa Picciolo (1726) e Pietro Movani (1729).

Nel luglio 1734 s’incendio di nuovo l’isola:“… caddero nel campanile, sacrestia e chiesa di quest’isola due saette nel spazio di mezzo quarto d’ora con pericolo manifesto di restar colpiti tre Religiosi e due Secolari.” … e si provvide a un “Inventario Nuovissimo della Sacrestia” in concomitanza con gli ulteriori lasciti di: Stefano Bellini (1741), Graziosa Ferri(1741), Maria Giacomin (1742)e Lucia Sevazaiol(1762).

Nel 1753 il Muratore Mistro Nicolò Maurosu indicazione del Priore Gianbattista Contarini scavò nell’isola di San Secondo relazionando: “… ritrovamento di una forma de Fabrica che se a trovà soto tera nela isola de San Secondo nel chavar le fondamenta della chavana del Monastero e questa gera tre pie sotto comun del’aqua … diverse fondamenta de muri…con scalini numero cinque larghi sino a piedi cinque … due cuoriseli che formavano una porta … e un altro muro da parte del campo con volti soto a questo dipinti a frescho con fogliami e vari oseleti con sopra il suo salizo … piano interno gera di terazo marmorin ma desegnà … si espone la fabbrica con disegno …”

Nel giugno 1775: altro incendio ancora: “… un fulmine danneggiò notabilmente nell’esterno e nell’interno la torricella ove conservatasi 395 barili di polvere e per grazia della Beata Vergine del Rosario ed intercessione del glorioso martire San Secondo furono preservati i Religiosi, l’isola e la città …”

Per un pelo l’isola di San Secondo non venne cancellata dalla Laguna.



Fra dicembre 1788 e gennaio 1789 gelò tutta la Laguna, e i Veneziani costretti al gran disagio per la scarsità di provviste camminavano sopra l’acqua gelata fra Mestre e Venezia per lavoro e per divertimento. Passarono accanto a San Secondo “camminando sulle acque” sia il Corriere per Vienna che quello per Treviso, non mancarono gli incidenti mortali con un Chierico che annegò nelle acque gelate, e alcuni Facchini che sprofondarono mentre erano intenti a far rotolare delle botti di vino ... ma ci fu anche chi si divertì non poco a “sbrissolàr a scavezzacollo sul jàzzo”, o a vendere ai tanti curiosi accorsi sul posto dei saporiti “Zalèti Veneziani”.

Nei secoli trascorsi l'isola era estesa quasi il doppio di quanto si può notare oggi ridotta a causa dell'erosione e dell'abbandono. Nel 1797, quando ancora la prima domenica di ottobre si celebrava in isola la Festa della Madonna del Rosario con una solenne processione che andava tutto intorno all’isola, giunse la Marina Francese che occupò l’intero perimetro. Dopo pochi anni i 5 Padri rimasti vennero sloggiati, e se ne andarono nel Convento dei Gesuati alle Zattereportandosi dietro la cassa dorata col Corpo di San Secondo.

Secondo La Cute, fra novembre 1806 e marzo 1807 fra i 17.363 volumi prelevati dalla Biblioteche di Venezia e inviati a Padova, c’erano anche quelli prelevati dall’Isola e Monastero di San Secondo insieme ai volumi di San Giobbe(oltre 3.500), San Giorgio in Alga, San Domenico di Castello(oltre 2.000),San Nicoletto dei Frari, San Francesco di Paola, San Giorgio Maggiore (oltre 5.000),Sant’Elena, i Carmini, San Giacomo della Giudecca e San Pietro di Murano. Secondo i verbali delle confische e sequestri: la Biblioteca dei Domenicani di San Secondo in Isola possedeva un patrimonio di 2.647 libri che vennero raccolti in 5 casse. Di questi: 559 libri avevano un certo valore: 232 erano di pregio, 327 mediocri, mentre altri 2.088 furono venduti come scarti. (Altri 24.514 volumi Veneziani vennero considerati “scarti”, e perciò venduti dal Demanio assieme alle librerie che li contenevano considerate: “legna da ardere”).
In una gran confusione in cui, ad esempio, i Gesuiti venivano confusi dai Francesi con i Gesuati, tutti i libri e manoscritti interessanti che non vennero per tempo nascosti dai Frati o inviati altrove, vennero inizialmente concentrati nell’ex Monastero dell’Umiltà in Punta alla Dogana alla Salute, e lì selezionati e scelti dal Direttore Morelli per essere inviati alla Biblioteca Marciana. (Molti libri di pregio vennero trafugati e venduti dai molti che potevano allungare le mani liberamente).

Nel 1810 il neoinsediato Consiglio Municipale di Venezia chiese il ripristino delle segnalazioni acustiche e luminose dell’isola di San Secondo che guidavano i naviganti in caso di nebbia e scarsa visibilità aboliti dai Militari: “…mentre in precedenza i Padri che vi dimoravano tenevano sempre delli segnali ed accoglievano urbanamente li passeggeri.” … Tuttavia nel gennaio1815 il Convento e la terra di San Secondo in Isola già affittata a Penso Antonio per 40:00 lire, erano segnati nella “Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia” nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti.


Fra 1824 e 1847 venne demolita la chiesa e l’isola venne trasformata in fortino di forma ottagonale, ossia in Presidio, Caposaldo e Avamposto Militare della Linea Difensiva di San Marco atto a proteggere e “battere” con le sue artiglierie il Ponte della Libertàe San Giuliano proteggendo Venezia da un'eventuale invasione nemica di Terraferma. Nel 1848, infatti, l’isola venne pesantemente presa di mira e bombardata dagli Austro-Ungarici.

Esistono epiche quanto triste descrizioni storiche dell’assedio Austriaco subito da Venezia, così come della sua strenua resistenza e difesa fatta di atti coraggiosi ma anche di qualche sprovvedutezza. (Provate a leggere, solo ad esempio: “Venezia nel 1848 e 1849” di Alexandre Le Massonstampato a Lugano nel 1851 presso la Tipografia della Giovane Svizzera.  Si può scaricare liberamente in pdf da Internet, ed è un’interessante cronaca della nostra Storia di quegli anni.)



L’isola di San Secondo “messa in stato di difesa” accanto all’accesso del Ponte in parte interrotto e demolito verso la Terraferma (abbattuti 17 pilastri e archi con un taglio di 250 metri), fu proprio “il cuore” della linea difensiva Veneziana. Insieme alla Grande Batteria di Sant’Antonio detta la “Piazza Grande” che imboccava il Ponte per tutta la sua lunghezza, e a “numerosi bastimenti armati e barche cannoniere posti a scaglione intorno al ponte, e a una flottiglia armata a guardia dei canali che batteva da tutte le parti” formò un argine invalicabile per gli Austriaci che vennero respinti anche di notte mentre tentavano sfortunate sortite durante le quali ben 60 soldati volontari si videro rigettati morti in Laguna.

La Batteria di San Secondoinizialmente armata con cinque pezzi, arrivò ad ospitarne ben tredici ... Anche se i Veneziani erano armati approssimativamente rispetto gli Austriaci, di certo non inviarono “carezze” verso gli appostamenti nemici, che da parte loro inondarono Venezia con 23.000 palle di cannone, ossia quasi mille al giorno, provocando però solo tre morti e una trentina di feriti. Venezia si arrese alla fine perchè rimasta quasi senza farina e in preda al colera, e alla fine gli stessi Preti che avevano cantato nella Basilica di San Marco inneggiando all’indipendenza di Venezia, cantarono il solennissimo Te Deum di ringraziamento quando gli Autriaci con Radezsky entrarono ad occupare Venezia. L’opportunismo è sempre stato una delle doti principali della Chiesa ... per il bene dei Fedeli s’intende ovviamente, mica per il suo … Eh !



All’inizio del 1900 l’Isola di San Secondo venne utilizzata dalla Società Cellina come luogo di passaggio e controllo del nuovo elettrodotto che raggiungeva la Contrada di San Giobbe a Venezia partendo da Campalto ...  Poi iniziò l’epoca delle concessioni dell’isola, che venne data prima a un tale Zangrando ex Macellatore della Contrada di San Giobbe, e poi a un Gambirasi con moglie e parecchi figli che gestirono l'isola dal 1904 al 1930.
Durante il periodo bellico, l’isola di proprietà del Demanio Pubblico venne usata dalla Junghans ufficialmente come Fabbrica di Fuochi d’Artificio, mentre in realtà caricava d’esplosivo bombe e mine che fabbricava alla Giudecca.
Dopo la guerra si tornò a dare l’isola di nuovo in concessione a un custode: “Nonno Mario” Vianello, fu fino al 1961 l'ultimo custode-ortolano ad abitare e gestire l'isola di San Secondo detta anche “Isola delle Vacche”. Abitò l’isola, infatti, con moglie e figli per 10-15 anni, e per arrotondare il magro stipendio, allevava animali da cortile e mucche olandesi di cui vendeva il letame ai Veneziani, e soprattutto il latte a una signora che faceva burro e ricotta nel vicino l'ex Macello di San Giobbe.



Oggi “San Secondo è un’isola che non c’è.”, come si è scritto di recente e non a torto su di lei. Infatti, solo qualche iniziativa un po’ originale (Progetto “Terra Terra” del 2015 dell’Opera Bosco Museo di Arte nella Natura) l’ha richiamata flebilmente alle cronache salvandola per un poco dall’oblio totale che avvolge molte isole della Laguna di Venezia probabilmente per sempre. Ogni giorno andando a lavorare a Mestre e ritornando poi a Venezia “buttò l’òcio” su quel che resta dell’isola di San Secondo che oggi è solo un silenzioso grumo di verde selvatico impiantato nella Laguna.

So però che ha avuto anche lei una Storia maiuscola e curiosa.


Per chi fosse ulteriormente curioso, clicca qui sotto per vedere: Foto e Stampe sull'isola di San Secondo

“PIAZZA SAN MARCO, OVVEROSIA: LA STAZIONE FERROVIARIA DI VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 145.

“PIAZZA SAN MARCO, OVVEROSIA: LA STAZIONE FERROVIARIA DI VENEZIA.”

Non è una bufala o un’idea strampalata insolita. Quello di trasformare Piazza San Marco in Stazione Ferroviaria dei Treni è stato per davvero un progetto che si voleva realizzare nella Venezia dei tempi di napoleone: “Dio lo strafulmini e lo sprofondi purgandolo nel più profondo degli inferni.”(dicevano così molti Veneziani nei primi anni del 1800).


Il progetto prevedeva di portare la tratta Milano-Veneziadella novità moderna del Treno fino a Piazza San Marco che doveva diventarne il capolinea. I fumosi e sferraglianti convogli dovevano giungere dal Ponte Ferroviario Translagunare, poi voltare a destra nei pressi dell’Isola di Santa Chiara della Ziràda(l’odierna caserma della Polizia di Piazzale Roma) imboccando l’attuale strada della Marittima del Porto di Santa Marta. Da lì avrebbero attraversato il Canale della Giudecca su apposito ponte approdando sull’isola pressappoco dove sorgeva la chiesa e il Monastero dei Santi Biagio e Cataldo della Giudecca(l’attuale Hilton Molino Stucky). Percorrendo poi tutta l’ “Isola delle Foche” il treno avrebbe raggiunto il sagrato dell’Isola di San Giorgio Maggiore dei Monaci Benedettini che erano stati una delle realtà più potenti di Venezia Serenissima, e attraversato finalmente l’altrettanto famoso Bacino col Molo di San Marcodove un tempo il Doge ormeggiava il suo ricco Bucintoro (demolito per spregio e trasformato in carcere galleggiante), si sarebbe giunti al capolinea di Piazza San Marco: "Il più elegante salotto d'Europa e del Mondo" dove la Basilica dorata sarebbe stata ridotta e convertita in elegante biglietteria e luogo di servizi e ristoro per viaggiatori in partenza e arrivo a Venezia.

Mamma mia ! Che pericolo si è corso … Che scempio sarebbe stato !


“Che grande pensata e invenzione moderna !” si bofonchiava allora in certi ambienti Veneziani fin troppo filofrancesi e democratico-modernisti di comodo ... e c’era chi perfino spingeva forte perché quel “bel progetto” diventasse presto realtà.
Di certo quella scelta avrebbe fatto felici tanti turisti e viaggiatori di oggi che riescono a raggiungere la nostra preziosissima quanto mitica Piazza San Marco solo dopo un faticosissimo nonché carissimo viaggio pigiati in vaporetto, o dopo aver sudato le famose “sette camice” scarpinando per calli e campielli non essendo avvezzi a fare quattro passi per spostarsi.

Quella del 1800 comunque non era stata la prima volta in cui s’era inteso cambiare il volto del Bacino di San Marco e di rivoluzionare l’aspetto di Venezia. Già durante la “Renovatio Urbis” del 1500 si era stravolto l’assetto urbano della città Serenissima. In quell’occasione ci fu perfino Alvise Cornaro che ideò e propose la realizzazione di un complesso Teatrale galleggiante nel Bacino Marciano dove si voleva realizzare anche un “Vago Monticello” e un’amena fontanella in Riva di San Marco. Erano altri tempi però, ed esisteva ben altra volontà di fondo in chi governava Venezia allora. Tanto è vero che si sono realizzati capolavori come il Ponte di Rialto, l’attuale Piazza San Marco e molte altre opere insigni che hanno reso ancora più bella Venezia. Non c’era insomma nella mente dei progettisti quell’idea esaltante e distruttiva che albergava nella testa dei Francesi col loro deleterio capone.  

Per fortuna ci deve essere stato qualcuno nel più alto dei Cieli, forse un San Marco, un San Todaro Protettore, o un “chissà chi” che è riuscito a far “girare la Storia” in maniera diversa facendo obnubilare e desistere quell’ideatore della Stazione Ferroviaria in Piazza San Marco. Per mancanza di soldi e finanziatori, e soprattutto per il girare della sorte dello storico imperatorucolo, per fortuna quel terribile progetto venne accantonato e dimenticato per sempre.

E’ mancato proprio poco però perché accanto all’immenso disastro che ha affossato e cancellato mezza città Serenissima, si aggiungesse anche quell’ennesimo scempio rovinoso che avrebbe interessato forse per sempre la nostra magica Piazza delle Piazze.


Per esprimere quanto provavano in realtà i Veneziani di quel tempo di fronte a certe proposte e soprattutto nei riguardi di quel “grande pseudoinnovatore transalpino”, esiste ancora oggi in Piazza San Marco un dettaglio curioso che in un certo senso riassume “il sentire” dei cittadini di quell’epoca. Dove un tempo “chiudeva la Piazza” l’elegante e coccola chiesola di San Ziminiàn da Modenacancellata dall’“imperadòr franzèse” per costruirsi la sua nuova Reggia e Ala napoleonica (oggi Museo Correr), si apprezza ancora oggi una sequenza decorativa di statue che rappresentano gli Imperatori Romani” dei quali si sentiva ideale continuatore.


Se porrete attenzione alla parte centrale di quella pomposa decorazione statuaria, noterete che proprio al centro c’è un gran buco, un posto vuoto proprio nel mezzo della scena. Proprio lì stava, ed è stata puntualmente tratta a terra sulla Piazza dai Veneziani, la statua del napoleone che si credeva l’imperatore degli Imperatori e “el paròn del Mondo nonché de Venexia”

“Sic transit gloria mundi !” amavano ripetere in molti in giro per Venezia apprezzando il fatto che quell’ “homuncolus franciòso”fosse passato in fretta dalla Gloria degli altari a respirare la polvere dell’insuccesso ... Fu vera Gloria poi ?

In molti ancora oggi sono convinti di si … in tanti, invece, pensano proprio di no.

Come molti di voi ogni tanto mi godo la nostra splendida Piazza San Marco felice che siano trascorsi secoli da quelle meschinelle pensate credute a torto brillanti, ma che per fortuna non hanno trovato e avuto seguito e realizzazione … E’ soprattutto di mattina presto quando la Nobile Piazzaè silenziosa e sgombra dai turisti che si riesce ad assaporarne tutta la bellezza, e soprattutto forse udirne l’eco della sua illustre storia. Sarò forse un Veneziano romantico-sentimentale, ma vi lascio immaginare che cosa mi passa per la mente quando provo a chiudere gli occhi in quella nostra“Piazza Salvata”.

E’ mia opinione che non è cambiato nulla nel Mondo dai tempi del devastatore francese di Venezia. Penso che l’Umanità non impari mai dai propri errori, e che ancora oggi i Potenti del Mondo di turno non siano stanchi d’esprimere le loro velleità di controllo e dominio semiplanetario dimostrandosi sempre pronti a pigiare fatidici bottoni micidiali e distruttivi. Ovviamente in nome della modernità, del progresso, dell’efficienza economica, del benessere, della democrazia, della sicurezza e perfino della religione.

Sarà questa vera Gloria? … O solo fatuo vaneggiamento come quello della trasformazione di Piazza San Marco per fortuna evitata.




“Un’ “Ultima Cena” Veneta D.O.C.”

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Questa è una Curiosità Veneta piuttosto che Veneziana, ma esprime e riassume quello stesso sentimento curioso che mi accompagna ormai da tempo nelle mie “Una curiosità veneziana per volta”.
Fra i vigneti e i campi Trevigiani precisamente a San Polo di Piave, poco distante dalla “Templare” Oderzo, esiste una chiesetta campestre dedicata a San Giorgio.

In quel posto ci si trova sull’itinerario di una strada romana antichissima: la Opitergium-Tridentum percorsa dai Romani e perfino dai PaleoVeneti.
Quello che m’incuriosisce di più di quel luogo piuttosto bucolico e recondito forse messo in piedi ai tempi dei Longobardi o al massimo intorno al 1000, è un dettaglio, un particolare “succosissimo”di uno degli affreschi che dal 1466 probabilmente tappezzarono l’intera chiesetta. Fra i tanti affreschi pregevoli con le “Storie di San Giorgio” eseguiti dal Mastro di San Giorgio” ossia Giovanni di Francia c’è anche un’ “Ultima Cena” che occupa gran parte di una parete laterale.


Come tutti ben sapete secondo i Sacri Testi e i Canoni Evangelici il menù dell’Ultima Cena del Cristo era a base di Pane, Agnello Pasquale e Vino Rosso che ritualmente sarebbero diventati in seguito per i Cristiani di ogni epoca: “Il Corpo-Pane Spezzato e il Sangue Versato condivisi con tutti e per tutti dal Cristo.”

Guardate un po’, invece, insieme a quale menù alternativo viene rappresentata quell’arcana Ultima Cena così preziosa per la Cristianità ?


Siamo in Veneto, no ? Perciò quell’Ultima Cena sarà stata: A BASE DI PESCE !… con Gamberoni e Pesce di Laguna appena pescato, e innaffiata da un buon vinello rosso, probabilmente un buon Raboso o un Merlot Trevigiani.


Bellissima immagine ! Si vede una lunga tavola imbandita con al centro uno striminzito agnellino rituale, ma cosparsa ovunque soprattutto di pani, pesci e grosse chele di Gamberoni.


E’ stupefacente notare come l’Arte sa abilmente interpretare e mettere insieme tradizione locale e contenuti misterici.
Mi piace quell’Ultima Cena Veneta !




“L'isola di Salina nella Laguna di Venezia.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 146.

“L'isola di Salina nella Laguna di Venezia.”

E’ una di quelle isole che a sentirne il nome anche i Veneziani autentici rimangono un po’ perplessi, e dicono: “Boh ? … Non saprei ... Sarà forse una delle antiche isole scomparse come Albiola, Gajada, Verni o Olivaria ... oppure …”

Salina è uno di quei posti sulla carta della Laguna di Venezia per i quali ti viene da dire: “Embè … Dunque … vediamo … Dov’è ?”

Solo chi la sa lunga e ha scannocchiato e frugato a lungo fra le carte e gli archivi sa raccontare e scrivere che Salina è stata ed è uno dei pezzetti che rimangono dell’antico e mitico arcipelago di Ammiana dietro a Torcello, verso Lio Piccolo, distante poche remate da Burano. Testi curiosi ci spiegano che proprio lì sorgeva in antico il Monastero dei Santi Felice e Fortunato di Ammiana
“Cavolo !” esclameremo dopo aver letto un poco, “Quel posto non era mica un bugigattolo perso dentro alla Laguna !”
“Era, infatti, uno dei pezzi forti della Laguna Torcellana dei tempi andati.”


Il Monastero de Santi Felice e Fortunatoera uno dei più ricchi e prestigiosi della Laguna Settentrionale di Venezia: lì i Dogi Orso Badoer e Orso Partecipazio abbracciarono la Regola Benedettina e vennero sepolti come pure altri numerosi Dogi. La zona abitata probabilmente già dal 400 d.C., venne occupata nel 899 dai Monaci Benedettini del Monastero di Santo Stefano di Altino in fuga dagli Ungari. Vi fondarono un nuovo Conventino dedicato ai Santi Felice e Fortunato indipendente dall’autorità del Vescovo di Torcello, probabilmente con tre dipendenze sottoposte nelle vicinanze: San Marco di Ammiana, i Santi Sergio e Bacco, e i Santi Massimo e Marcellino di Costanziaco, e con un vasto patrimonio di possedimenti sia in Laguna che nel vicino agro Altinate.

Tutto compreso la stagione storica dell’isola e Monastero dei Santi Felice e Fortunato fu breve e facilmente riassumibile.



Nel 949 Pietro Longo donò al Monastero un allodio sulla Dolza con prati, campi, boschi, acque e diritti di pesca ed uccellagione in tutto il territorio fino all’acqua salsa della Laguna. Enrico V nel 1116 confermò all’Abazia Benedettina dei Santi Felice e Fortunato la stessa proprietà che comprendeva le isole di Fossato, Ronco e Zuello donate a Longo dal Doge Giovanni II Patriciaco ... Nel 1086 a Musestre Rachinbaldo di Collalto Conte di Treviso confermò allo stesso Monastero la donazione anche della Selva di Paliaga fatta da sua madre all’Abate … Nel luglio 1131 Domenico Valiari Pievano del vicino San Lorenzo di Ammiana alla presenza del Doge Pietro Polani confermò ad Arnaldo Abate dei Santi Felice e Fortunato la proprietà anche delle terre ed acque dette Senegie nonchè dei “Piscis Capti sul Sile”… Sette anni dopo due fratelli cedettero per 40 soldi veronesi allo stesso Monastero la decima prediale sulla terra che stava “… non longe ab aeclesiae Beati Stephani di Altino” … A fine secolo la Badessa Engelmota di San Lorenzo di Ammianafinì a processo contro Leonardo Abate dei Santi Felice e Fortunatoper il possesso di alcuni beni siti sul Lido Bovense e sul Lido Bianco, mentre Innocenzo III pose sotto la sua protezione lo stesso Monastero confermandogli i beni che possedeva: “… nei Lidi e nelle lagune, in Altino, in Istria, a Costantinopoli a Rodi ed in Asia Minore e soprattutto a Venezia dove donò la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo per costruirvi accanto un nuovo Monastero dove andò a risiedere buona parte dei Monaci dell’isola lagunare”.

Sarebbero parecchi da citare i documenti e le donazioni effettuate ai Santi Felice e Fortunato soprattutto attraverso lasciti testamentari ... Nel gennaio 1241 a Rialto: il Ministeriale Pietro da Sacco attestò dinanzi al Doge Giacomo Tiepolo e ai Giudici dell’Executor, che Luca Barbani dal Confinio di San Giovanni Evangelista di Torcello, Procuratore di Bartolomeo Abate dei Santi Felice e Fortunato reclamò contro l’investizione conferita a Altichiera vedova di Ottone Vidoso da Costanziaco di una terra sita a Costanziaco confinante con la palude del Vescovo di Torcello, il Canale di Costanziaco e due rii... Nello stesso anno, lo stesso Abate Bartolomeo col Priore Marco Querini e altri cinque monaci, col consenso di Stefano Vescovo di Torcello, vendettero per lire 50 di Denari Veneti ad Umiltà Badessa di San Maffio di Costanziacouna vigna nella stessa isola, confinante col Rio, con la terra dei Santi Sergio e Bacco, con un’altra vigna di San Maffio e le proprietà dei Nobili Dandolo.



Nel 1247 Giovanni Cappello e Nicolò Zanedella Contrada di Santa Maria Materdomini e Donato Fradeletto della Contrada di Santa Margherita iniziarono ad utilizzare l’acqua del Sucaleoconfinante con la Seneza costruendovi argini e sistemandovi dei mulini. Chiesero perciò alla Badessa Giacomina del già soppresso Monastero di San Lorenzo di Ammiana e a Marco Querini Priore dei Santi Felice e Fortunato d’affittare posti e acque iniziando l’attività del più grande aquimolo della Laguna che utilizzava il Sile per il trasporto di granaglie e farine. La zona diverrà la Valle di Ca’ Zane.

Verso la fine del 1200 dopo un lungo contenzioso fra lo stesso Monastero dei Santi Felice e Fortunato col vicino San Lorenzo di Ammiana per “… una petia de terra vinea posta in Littore Albo (ossia Lio Piccolo), Gregorio X fece chiudere il Monastero per la prima volta motivandone l’atto con la poca cultura e l’incapacità gestionale del suo Abate. I quattro Monaci più l’Abate rimasti si trasferirono nel Convento dei Santi Filippo e Giacomo di Venezia, e le proprietà con le relative rendite finirono in mano ai Nobili Cappello e Zane. Quella finalizzazione di beni però non piacque molto alla stessa Sede Romana che perciò fece riaprire il Monastero cadente mantenendolo attivo ancora per due secoli.

Ancora nel 1391 il Senatoprovvide a un ballottaggio per assegnare lo stesso Beneficio dei Santi Felice e Fortunato di Ammiana rimasto vacante. Fra i canditi ad assumerlo c’era anche l’Abate di San Leonardo di Malamocco… A cavallo fra la fine del 1300 e i primi anni del 1400, l’isola col suo patrimonio era ancora amministrata da Fra Geronimus Betanio Abate del Monastero dei Santi Gregorio e Ilario di Veneziache aspirava anche a gestire il titolo Abbaziale e le rendite significative di Santa Maria in Sanavalle di Follina. Gli faceva concorrenza in quella caccia ai Benefici il Cardinale di Firenze, ma la Serenissima pensò bene di appoggiare e sostenere il suo Monaco Veneziano.

Inutilmente verso il 1419 Pietro Nani Vescovo di Torcello cercò in estremis di valorizzare in qualche modo l’isola ormai abbandonata per le condizioni ambientali averse dagli ultimi abitanti e dall’ultimo Abate Luca. I pochi Monaci dei Santi Felice e Fortunato si erano già trasferiti a Venezia in Contrada dei Santi Filippo e Giacomo poco distante dalla famosa Piazza San Marco. Nell'isola tutto andò presto spogliato e demolito ... Nell’aprile 1455 un decreto del Senato destinò i marmi dei Santi Felice e Fortunato alla Basilica di San Marco di Venezia… dieci anni dopo, l’Abate dello stesso Monastero residente però a Venezia era ancora proprietario di alcuni boschi e paludi in Paliaga di Mestre di cui si curava scarsamente ... Nel 1472 su richiesta del Doge Nicolò Tron giunse la soppressione ufficiale da parte di Sisto IV sia del titolo Abaziale Lagunare che del Monastero Veneziano presente in Contrada di San Filippo e Giacomo dov’era rimasto un solo Monaco-Abate. Le poche rendite rimaste ad Altino, sul Sile, a Casale, nel Trevisano, a Lio Piccolo e nel borgo-valle Paleazza vennero affidate alla Basilica di San Marco che le affittò ai Nobili Morosini ... Nel 1555: il tristo destino di quell’area lagunare era ormai compiuto: del Monastero dell’isola rimaneva solo la torre campanaria rovinata che rimase per secoli issata e impiantata in mezzo alla Laguna a ricordo di quella presenza andata cancellata.



Solo nel 1842 l’isola ebbe un “nuovo risveglio” tramite il Cavaliere Carlo Astruc da Montpellier, che ottenne in concessione la Motta di San Felice di 690 ettari di superficie abbandonata da secoli sul Canale di San Felice e Canale del Bussolaro(nome di un antico Vescovo di Torcello padrone di quelle acque), di fronte alla Palude Maggiore fra Treporti e Burano … La zona venne considerata favorevole per il commercio perché: “collegata facilmente sia coi Magazzini del Sal di Venezia distante solo 15 miglia, che col mare aperto e l’Oltremare.”

Il Cavaliere Astruc a sua volta fece un accordo per 50 anni con la ditta Pietro Brambilla per produrre sale bianco granito marino a iato di tipo siciliano in una serie di bacini posti a varie quote della Laguna circondati da dighe e chiuse.



Nel dicembre 1845 divenne nuovo concessionario del sito il Barone Salomone di Rotchild che s’impegnò in un lungo contenzioso con l’Erario di Venezia circa l’esatta estensione della concezione. L'impianto per la produzione di sale venne completato solo nel 1857 seguendo un progetto formulato da Antoine Balard: “L’acqua filtrerà in discesa dalle vasche esterne delle acque verdi a quelle interne concentrandosi il sale fino ad un bacino detto “Pezza Maestra” nel livello più basso della salina. Da qui le acque verranno pompate verso i “Bacini Salanti o Cavedini” dove accade la cristallizzazione del sale ... Esisteranno inoltre altri 12 bacini per la Salamoia al riparo dalla pioggia per la stagione invernale ... e dalle acque reflue non riciclabili si potranno ottenere solfati di soda, magnesio e potassio ...”

Nell’isola si realizzò anche un edificio centrale “a forma palladiana” per ospitare una Caserma della Guardia di Finanzache preveniva i furti di sale, si realizzarono inoltre delle barchesse laterali con 300 posti letto in doppia fila per alloggiare i lavoranti stagionali, una casetta per il Direttore con scala esterna, una casa del Controllore, e un’area con Sala Macchine con motori a vapore, cisterne, caldaie e ciminiera collocati a mezzo km dagli altri edifici. Il raccolto del sale si sarebbe conservato sotto tettoie in canna fino a quando sarebbe stato trasportato ai Magazzini-Emporio della Punta del Sale alla Salute a Venezia.

Durante i lavori di livellamento dell’isola riemersero le fondazioni medioevali dell'antica Pieve-Abbazia Monastica dei Santi Felice e Fortunato di cui si realizzò un rilievo. La generica planimetria mostrava forse un chiostro, un’abside circolare, dei cortili, e forse i resti di quello che era stato un antico tempietto dedicato al Dio Felice da cui forse l’isola aveva preso il nome.



Nicolò Erizzonel 1854 descriveva così l’isola di Salina nella Gazzetta Ufficiale di Venezia: “… chi si dirige a quella volta per vistare la salina scorge da lungi innalzarsi a fior d’acqua un novello paesetto…non appena il visitator vi approda si trova immerso in un movimento inatteso ad una attività la più operosa … ei riscontra un andirivieni di operai, di doganieri, di artisti, un risuonare di incudini, uno strisciare di pialle e di seghe ed il mormorio di ruscelli, il cupo romor delle macchine per cui sembragli essere nel popoloso sobborgo di una città commerciale piuttosto che in un’isola circondata da acqua …”

Nel giugno 1862 nell’isola dove c’erano diversi “Letti preparatori acquei per l’evaporazione, diversi Riparti per prima e seconda saturazione, e 67 tavole di cristallizzazione”, funzionava una Ruota idrofora a vapore, c’erano abitazioni e depositi d’attrezzi, e si benedì una Cappella dedicata a Santa Maria che venne in seguito ampliata per dar modo ai lavoratori di partecipare alle liturgie festive senza doversi recare per forza fino a Torcello o Burano. L’attività della Salina era coordinata da: un Direttore, da un Controllore, un Assistente, due Commessi e due Capisalinari.

Nel 1863 nella Salina di San Felice si giunse a un’entusiastica produzione di sale di 125.000 quintali venduti a 2,12 lire ciascuno. Il complesso insulare gestito da due funzionari aiutati da un impiegato dava lavoro a tre macchinisti che facevano funzionare due motori eolici, a 34-50 operai salinari che lavoravano da aprile a fine ottobre, e a 800 stagionali da Burano, Mazzorbo e Torcello che venivano assunti al momento della raccolta annuale del sale. Fra gli stagionali si assumevano anche una decina di donne e una quindicina di ragazzini-fanciulli a volte con età inferiore ai 14 anni.

Tre anni dopo la Salina ebbe una produzione di 94 quintali di sale che venne dato all’Erario dello Stato per lire 2,12 al quintale. Il Sale Macinato-Raffinato dallo stesso Stato si acquistava poi a 64,50 lire al quintale, e si rivendeva negli spacci a 66 lire al quintale, mentre il Sale Comune costava 55 lire. In quella circostanza in Laguna e a Venezia ci fu un enorme calo dell’uso del sale comune perché il prezzo veniva considerato troppo elevato.
Nel 1869 quando il Legale Rappresentante della Salina era Carlo Wirtz, gli operai fissi percepivano una media di 2-3 lire d’estate e 1,75 lire d’inverno, quelli avventizi stagionali percepivano 2,55 lire, altri che lavoravano “a cottimo” arrivavano a guadagnare 3-5 lire, mentre “i fanciulli” percepivano: da 50 centesimi a 1 lira al giorno.
Negli anni seguenti la produzione del sale fu altalenante alternando anni di magra (11.988 quintali nel 1877 e 15.811 nel 1889) ad altri di significativa produzione (133.000 e 150.000 quintali nel 1865 e nel 1895).  Secondo contratto la salina avrebbe dovuto fornire annualmente al governo: 150.000 quintali di sale, ma riuscì solo in due occasioni a raggiungere quella quota produttiva prevista.

Nel 1880 Salina toccò forse l’apice storico della sua produttività. L’Ingegnere Bermani già Direttore Generale delle Gabelle dello Stato presentò un progetto d’espansione dell’isola di Salina incappando però nell’accanita resistenza sia dei pescatori Buranelli, che dei coltivatori di Mitili della zona, del Genio Civile, del Ministero della Guerra, della Prefettura e del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ... Nessuno voleva saperne insomma di quel nuovo ingrandimento.

Nel 1884 i vecchi motori eolici venne sostituiti con dei nuovi motori a vapore “a 4 timpani e 2 caldaie”che passarono “a 4 caldaie” nel 1891. Nell’ultimo anno del secolo le caldaie a vapore erano 3 con 2 timpani e 1 turbina, e la Cooperativa fra i Pescatori di Burano presentò una petizione alla Camera dei Deputati chiedendo il mantenimento in attività della Salina di San Felice presente nel Comprensorio di Burano.

Nel gennaio 1903, quando i Bastazi al Saldi San Felice (addetti al trasporto del sale dell’isola che si tramandavano il mestiere di padre in figlio, e presenziavano alla Festa del Redentore col proprio gonfalone) si consociarono nella Cooperativa dei Salineri, sul Giornale di Venezia si potè leggere la notizia: “ Malcontento a Burano … Produce malcontento una disposizione data dalla Direzione della Salina di San Felice presso Burano che soleva impiegare nei mesi di Gennaio e Febbraio un centinaio di Buranelli la qual cosa rimediava in parte alle tristi condizioni nelle quali  giaceva pescatori e sandolisti, che in questa stagione difficilmente riescono a guadagnarsi da vivere, perché quest’anno si è chiamato gente da fuori spendendo di più dovendo per questo provvedere all’alloggio di questo personale provvisorio ? Burano sarebbe grata al Direttore che è pure Consigliere Comunale, se volesse prendere a cuore la cosa e far che l’anno venturo non abbia a rinnovarsi questo giustificato malcontento …”

L’anno precedente s’era scoperto un “gonfiamento”dei casi dei pellagrosi da parte di Medici compiacenti per ottenere il sale gratuito dall’apposito Ufficiale di Stato. Il sale veniva barattato con altri generi alimentari, tabacchi e sigari, o rivenduto a prezzo inferiore. Si denunciavano come pellagrosi bambini, vecchi e adulti perfettamente in salute e in grado di lavorare, e alcuni “beneficiati di legge” compravano generi alimentari nelle botteghe di qualche salumiere di Burano dando in cambio il sale gratuito di Stato.

In quegli stessi anni Antonio Furlani(1875) di Domenico e Chiara Ferrer faceva il Saliniere nell’isola di Salina presso Burano con Domenico Giuseppe Vio(1872) di Attilio e Filomena Doni, e Giuseppe Luigi Vio(1872) di Antonio e Regina Rossi detti entrambi: “Zenèvre”. Con costoro lavorava anche Amedeo Giovanni Pagnìn(1881)di Daniele che era “Salinàro” come Angelo Furlanetto(1880) di Antonio e Marianna Corazza nata a Fossalta nel Distretto di San Donà di Piave, e Giovanni Giuseppe Furlanetto detto: “Tacchètto” (1880) di Pietro Giuseppe e Giuditta Enzo anche lui da Fossalta di Piave, che erano entrambi: Fuochisti della Salina.

Nel 1907 si ritornò a utilizzare 2 caldaie a vapore associate e due motori a vento, e alla fine dello stesso anno si definì che dopo la morte di Astruc e la gestione Rothscheld la Salina sarebbe passata in proprietà e gestione diretta dello Stato. In realtà, invece, la salina di 780 ettari venne demolita poco dopo per assicurare il pieno ripristino del Porto del Lido (?).



La Salina Rothscheld nella Laguna di Venezia sopravvisse fino al 1913, e fu l'ultimo complesso autorizzato a produrre sale nella Laguna di Venezia. Si trattò del capolinea di tutta una tradizione salinara Veneziana plurisecolare che interessò l’intera Laguna di Venezia.

Nel lontano VI secolo Cassiodoro scriveva: “… gli abitanti (della Laguna di Venezia) hanno una risorsa, la grande abbondanza di pesce … Il loro lavoro consiste nello sfruttare le saline: invece di aratri e di falci, manovrano dei cilindri. Dalle saline traggono i loro raccolti, grazie alle saline possiedono ciò che non producono. La moneta che vi si batte è alimentare, in verità. La marea collabora alla loro arte. Si può fare a meno di cercare l'oro, ma non c'è nessuno che non desideri trovare il sale, e giustamente, poiché è a esso che, in questi luoghi, si deve il nutrimento ...”

Inizialmente non esisteva disponibilità naturale di sale in Laguna, Venezia dovette inventarselo. L’economia del sale probabilmente fu uno dei primi input commerciali della Serenissima, e uno dei primi strumenti utili per iniziare gli scambi con la Terraferma. Quasi 500 documenti antichi rogati soprattutto nei Monasteri e Vescovadi Lagunari, a Rialto e Chioggia attestano di un progressivo lavorio salinaro accaduto nella Laguna di Venezia fin da prima dell’anno 1000.

Il Monastero di San Giorgio Maggiorepossedeva 90 saline e diversi “salaria” dove immagazzinava sale, il Priore di San Cipriano di Murano riceveva il censo di 113 saline, il potente Monastero femminile di San Zaccaria ne possedeva altre, così come San Michele Arcangelo di Brondolo a Chioggia. Nel Medioevo si contavano più di 120 fondamenti” che producevano sale in Laguna conalti e bassi produttivi. Ce ne furono diversi ad Equilio(Jesolo), Lio Maggiore, Murano, Pellestrina, Sant’Erasmo, Malamocco, Chioggia Maggiore e Minore, Fogolana, e forse a Torcello… così come nella Laguna Nord tra Ammiana e Costanziaco dove esistenza l'area di Septem Salaria, e dove anche il Monastero dei Santi Felice e Fortunato possedeva fondamenti di sale”.
Nella stessa Venezia esistevano saline nel Sestiere diCastello dove c’era un fondamento” fra il Rio dell'Arsenal e il Rio di Castello, nel Sestiere di Dorsoduro non distante dal Canale della Giudecca, nell’area acquitrinosa del Luprio del Sestiere di Santa Croce, e nel Sestiere di Cannaregio sul canale che raggiungeva l'isola di San Secondo.

Intorno al 1000 il Doge Pietro Orseolo concludeva due distinti trattati commerciali con i Vescovi di Treviso e di Ceneda che gli garantivano la franchigia dalle tasse per 300 moggia del suo sale personale esportato a Treviso, e per altre 20 moggia vendute a Ceneda ... Dal secolo successivo diverse prestigiose famiglie Nobili Veneziane come i Michiel, Morosini, Foscari,Falier, Contarini, Flebanico,Polani, Ziani, Orseolo, Da Molin e Gradenigoiniziarono a interessarsi alla produzione e alla commercializzazione del sale che veniva impegnato su tutto il mercato Veneto-Padano



Fra il 1978 e il 1998 le ultime famiglie di contadini e pescatori abbandonarono l’isola di Salina, le arginature dell’isola scomparvero, e sono rimasti solo resti di case con un cortivo e una piccola sorgente di gas naturale … Solo di recente l’isola e le aree perilagunari sono state recuperate e destinate all’itticoltura, all’orticoltura e all’agriturismo ecologico-naturalistico dall’atmosfera un po’ artefatta e fasulla: “… nutrita è la presenza del pesce in questa zona lagunare: branzini, orate e anguille … Si coltivano ortaggi come i carciofi, alberi da frutto: albicocchi, prugni, peri, peschi, ciliegi, fichi e meli seguendo i metodi dell’agricoltura biologica … Oltre tre ettari di suolo salmastro sono stati “videgati” scegliendo vitigni pregiati di Chardonnay, Merlot e Cabernet ... E’ un luogo delizioso in fondo alla Laguna sul Canale di San Felice che pesca 8 metri d’acqua di profondità … Ci sono due camere a disposizione, per trovare pace e ristoro dell’Anima …”



Le zone più basse di quel che è stata l’isola di Salina sono ora coperte da erbe selvatiche palustri e vengono spesso invase dall’acqua alta della marea. Uccelli lacustri e Zanzare grandi come punte di trapano fanno da padroni insieme a silenzi pesanti come quelli di un cimitero … Il luogo però rimane arcano e denso di Storia che ogni tanto riesce a traboccare e riaffiorare come ritrovamento prezioso.




“Le Romite sòra ai còpi de San Marcuola ...”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 147.

“Le Romite sòra ai còpi de San Marcuola ...”

Secoli fa non era insolito che a Venezia e in Laguna ci fosse qualche eremita o romita che abitasse isolato e recluso dentro a qualche campanile, soffitta, o loghetti limitrofi abbarbicati su per i tetti e i soffitti delle chiese. C’era un po’ “la santa mania” di vivere esperienze del genere in condizioni davvero scomode e spartane, e con servizi davvero ridotti all’osso. Era un po’ un’imitazione lagunare di certe esperienze esotiche dei Padri del Deserto famosi per vivere reclusi in cima a qualche rovina o colonna (i famosi Padri Stiliti), o fra gli anfratti o cime di qualche montagna come alle Meteore, e in caverne o in luoghi e scogliere a picco sul mare come accadeva al Sinai o nella Karulya della Teocrazia del Monte Athos.

Certo nel cuore di Venezia era tutt’altra cosa, e non si era per niente isolati, perchè si viveva immersi in una realtà vivissima … ma a Venezia accadeva ed era possibile un po’ di tutto, perché allora non provare a vivere anche così ? … A Venezia era tutto tollerato e concesso, bastava che non si andassero ad intaccare le regole, la sensibilità e gli interessi della Serenissima, o quelli più sofisticati, delicati, e più “puri e suscettibili” della Chiesa (ma non meno interessati).

C’erano inoltre Pii Istituti, Nobili, Pizzocchere, Monache e Frati che più di qualche volta aprivano dei propri balconi privati e dei terrazzini direttamente dentro alle chiese per ascoltare “con comodo o non visti” Messe e Funzioni di ogni sorta. Venezia, insomma, non si è mai smentita, era una sorta di grande calderone variopinto e bollente in cui succedeva un po’ di tutto.

Uno di questi posti insoliti e un po’ particolari sorgeva anche in Contrada di San Marcuola nel popoloso Sestiere di Cannaregio. Era una delle zone un po’ meno antiche di Venezia, fondata fra la fine dell’ottavo ed inizio del nono secolo, che costituivano come un interland e un allargamento dell’area commerciale di Rialtoe San Marco. Sembra che inizialmente quella zona limitrofa al Canal Grande ricca di paludi, canneti e ambienti di discarica e bonifica si denominasse isola Lemenea, ma si va a finire nel terreno viscido e incerto delle pure ipotesi e lontane supposizioni e ricostruzioni storiche a volte un po’ fantasiose. Anche a Venezia, quando non si sapeva circa l’origini di qualcosa e di qualche posto, spesso s’inventava … e chi aveva più fantasia faceva più bella figura dandosi un inizio pomposo.

Sta di fatto, quindi, che accanto e sopra e a fianco e in parte della chiesa di quella neonata Contrada di San Marcuola, (titolo che sintetizzava alla Veneziana i nomi dei Santi Ermagora e Fortunato) nacque a un certo punto quella specie di coagulo e piccolissima aggregazione di natura religioso-devozionale, ossia “un Romitorio abbarbicato per aria”. A dirla tutta: quello fu uno dei più antichi di Venezia.
Fra il Portico che c’era in antico davanti alla chiesa, e il tetto soprastante andarono a vivere e ritirarsi tre Pie donne: Benedetta, Lucia e Caterina, che sopravvivevano sostenute esclusivamente dalla pubblica elemosina. Erano “le Romite di San Marcuola”che trascorrevano la vita pregando e facendo penitenza ispirandosi alla Regola di Sant’Agostino che era seguitissima in quei tempi lontani.

Nel 1486 Papa Innocenzo VIIIconcesse alle Pie Donne di San Marcuola di avere un loro Prete che celebrasse Riti e Liturgie giusto per loro, e concesse anche che da due appositi “finestrelli prospicenti” potessero partecipare alle liturgie celebrate in chiesa pur standosene dentro al loro aereo romitorio sopra ai tetti della chiesa.

Figuriamoci il Piovano e i Preti della Collegiata di San Marcuola ! … che si videro limitati nei loro diritti, e privati del controllo di quelle “devote” che avevano radicate “in casa” ma libere dal loro controllo. Partì contro le Romite tutta una serie senza fine di processi e denunce che durarono dal 1487 fino al 1685 !

Un po’ bellicosi e vendicativi quei Preterelli !

Il Capitolo dei Preti proprio non voleva saperne di quelle donne importune che vivevano “sopra alla loro testa”… Per di più dicevano: “le Romite limitano le rendite delle elemosine offerte da quelli della Contrada” ... soldi erano soldi … Infatti, fecero di tutto per ostacolare le Eremite negando loro ogni ampliamento e libertà, e una volta sì e un’altra anche cercarono la maniera di allontanarle e sfrattarle dalla Contrada.

Nel 1518 Benedetta morì e le due Romite superstiti vollero accogliere tra loro una nuova consorella confermando la concessione del Papa … il Piovano di San Marcuola ovviamente si oppose … Ma quelle avevano la “Protezione Papale”…. quindi …arrivò la terza Eremita.
Nel 1561 il Patriarca di Venezia in persona accordò il permesso alle Romite di alzare il tetto del Romitorio, e pochi anni dopo il Nunzio Pontificio concesse loro anche la facoltà di svincolarsi dal controllo diretto del Piovano di San Marcuola … I Preti del Capitolo di San Marcuola erano furibondi e arrabbiatissimi … e quindi: giù ! … denunce e processi su processi.

Nel frattempo, non pensate che la limitrofa Contrada di San Marcuola fosse tutta e solo un posto di “basabanchi e bigotti di cièsa”, i Veneziani erano anche tutt’altra cosa !

Nell’agosto 1549, e proprio “de fàsa alla giesia de San Marcuola e sul Canal Grando”, tre fratelli Nobili Savorgnan: Tristano, Nicolò e Giovanni aiutati dai loro servi uccisero a schioppettate il Conte Luigi Dalla Torre che passava in gondola sul Canal Grande, ferendo pure il Conte GiovanBattista Colloredo ed altri presenti. Il Nobile Tristano Savorgnan venne condannato “al bando” dalla Serenissima, e sembra che il corpo del Dalla Torre sia stato sepolto “in un cassòn de legno”issato e collocato su una parete della chiesa dei Frari nel Sestiere di San Polo.

Come potete intendere, la Contrada di San Marcuola era parecchio attiva e vispa nella seconda metà del 1500. Nel 1570 lì abitava anche Andrea Calmo, bizzarro scrittore e recitatore di commedie, “che sapeva dare giocondissimo e nobilissimo piacere a tutta Venezia ch'ella maggiormente desidera … et ha fatto honore a sè ed alla patria”. I Registri Sanitari della Contrada lo ricordano: “morto adì 23 febraro 1570. Andrea Calmo d'anni 61, da febre giorni 10 in San Marcuola” ... Nella stessa Contrada e nella stessa epoca Prete Baldo Antonio Dottor e Letor, Prete Nicola Colichò de Arbe Grammatico, e un certo Bevilacqua insegnavano nella Scuola Sestierale di Cannaregioche aveva un numero variabile d’alunni fra 36 e 40 di diversa età fra cui un putto di 6 anni che imparava tutto a memoria.
Ancora nel maggio 1592 la Parrocchia-Contrada di San Marcuola contribuiva per la sua parte a mantenere la Scuola Sestierale pagando una “Texa (tassa) praeceptoris sexteriis Canalis Regii” di ducati 8 su un totale di 74 ducati che pagava l’intero Sestiere di Cannaregio.

Nei verbali della Visita Apostolica del giugno 1581 si segnalava che la chiesa di San Marcuola era: Parrocchia e Collegiata di Preti… e che in Contrada vivevano 8.392 Aneme ... L’Autorità Ecclesiastica invitò i Preti di San Marcuola a togliere tutte le bandiere e le casse da morto che erano affisse ovunque dentro alla chiesa, e nella stessa occasione processò e condannò pure il Prete Domenico De Andregisdetto Torta“per gravi irregolarità comprese fra: carnali, patrimoniali e vizi di gioco” ... Fra le altre cose segnalate, si evidenziò anche la presenza “sopra al portico dell'antica chiesa di un Romitaggio ove abitavano sei donne ascritte alla Regola di Sant’Agostino. Si accede al loro ritiro dal Portico antistante la chiesa attraverso una scala adiacente al muro della stessa. Queste hanno un piccolo Oratorio sacro dedicato al loro Santo dotato di paramenti ed ornato da dipinti di Girolamo Pilotti, Matteo Ponzone e Palma il Giovane con un: “Sant’Agostino e San Gerolamo”. Sopra l’Oratorio si trova il Dormitorio costituito da piccole e modeste cellette ...”

Dopo che nel 1610 “il Sacro Loculo sopra ai tetti di San Marcuola venne consecrato da Girolamo Porzia Vescovo d'Adria” ... scoppiò ancora una volta, prepotente più che mai, la Peste in tutta Venezia.



Gli abitanti della Contrada si ridussero a 5.409 … Nell’ottobre 1630, anno di Pestilenza, morì in Parrocchia di San Marcuola anche “Betta specchiera de ani 39, di sospeto di Peste in Corte della Specchiera presso la Calle dei Ormesini” ... Per dire il gran disagio di quel fenomeno, ancora nel maggio di sei anni dopo tre Padri Domenicani: due da Napoli e uno da Roma che predicavano in giro per Venezia nelle Contrade di Santa Maria Formosa, San Geremia e appunto San Marcuola, supplicarono  protezione e sostegno dalla Serenissima per le molestie che venivano loro inflitte dalla gente nelle chiese in cui predicano ancora provate dalle angustie dei tempi e della Pestilenza … Nell’ottobre 1643 morì anche Zuanne Campelli, di anni 36, “…colpito da febbre e mal di Mazuco per il qual mal si ha butato in acqua et se ha negato essendo 5 giorni che se ha butato in letto con sudeto male … in Cale del Amigoni.”… In Contrada c’erano attive 131 botteghe e due Pistorie: “ai Do Ponti” che consumava 5.627 stara di farina annue, e quella “in Rio Terrà” che ne consumava 3.228 stara.

Nel 1663-1665 la NobilDonna Angela Darduin moglie del NobilHomo Angelo Giustinian lasciò per testamento alle Romite di San Marcuola quattro campi con casa padronale annessa a Carpenedodi Mestre con l’obbligo di celebrare una Messa in ciascun sabato a Carpenedo. Le Romite di San Marcuola vendettero subito quel “lascito scomodo” per 1400 ducati, e costrinsero il compratore a pagare “annue lire 72” al Parroco di Carpenedo perchè celebrasse “quelle suddette Messe dovute alla Memoria”.

Giunto il 1669, quando Contarina Barbi Priora delle Putte dell’Ospeàl lasciò sei quadri alle Romite, e quando Papa Clemente IX confermò l’autonomia delle Pie Donne di San Marcuola, accadde l’inevitabile con grande soddisfazione dei Preti del Capitolo della stessa chiesa. In quell’anno spuntò fuori una grossa infiltrazione d’acqua sul tetto della chiesa di San Marcuola che perciò necessitava di urgenti interventi di restauro constatati dal Proto della Serenissima Baldassare Longhena(quello che costruì la chiesa della Madonna della Salute).
Il 05 gennaio 1676 infatti, lo stesso Baldassare Longhena scriveva ai Provveditori Sopra ai Monasteri della Serenissima: “…trasferir mi debi sopra locho dalle Reverende Madri Romite, quale confina con la chiesa di S.marcuola et veder la giesola di dette reverende madre, che son in solaro sopra il sottoportico di detta chiesa et veder ogni parte, se son sicure ovvero se minaziase ruvina…ho veduto l’altar in detta chiesola di esse reverende madri è fabbricato sopra la travatura molto debole et in diverse parti offesa verso il muro della scala, asende in detta giesola. Visto la piana over lapide  che sopra quella si celebra le santissime messe, qual è calatta dalla debolezza di detta travatura, onde farebe bisogno di riparar tale pericolo, inspesir detta travatura et poner un fillo con modioni di piera viva sotto per sustentar ancho la travatura vechia,a ciio’ l’altar non fazi maggior mossa, et chosi’ si riparerà il pericolo prossimo…”



Il tetto della chiesa era rovinoso e minacciava di crollare … “Le Romite devono andarsene !”… si precipitarono subito a dire i Preti del Capitolo di San Marcuola.
Nel 1679 la Serenissima diede ordine di chiudere il Portico pericolante di San Marcuola antistante la chiesa, perciò le Romite dovettero venire a patti e compromesso col Piovano di San Marcuola per poter raggiungere “il loro abitacolo sui tetti” in maniera alternativa.

Il Prete fu molto accondiscendente e gentile nei riguardi delle Pie Donne: “Dovete andarvene ! … Non avete alternativa.”le apostrofò.
Nell’aprile 1691 le stesse Eremite di San Marcuola chiesero stremate ai Provveditori di trasferirsi da San Marcuola perché con la nuova sistemazione della chiesa “…erano state cellate sin dalla luce del sole doppo la nuova fabbrica della Cappella Maggiore della chiesa Parrocchiale…”

Nel 1693, infine, l’ebbero vinta i Preti di San Marcuola: le Romite per forza si trasferirono altrove. Nel dicembre 1695, infatti, iniziarono i lavori di rifacimento della chiesa rovinosa.

Esisteva in Contrada e Borgo e Parrocchia di San Trovasio(ossia dei Santi Gervasio e Protasio) nel Sestiere di Dorsoduro dall’altra parte di Venezia, poco distante dalla Calle Lunga di San Barnaba dove vivevano “le Turchette” ossia una piccola colonia di prigioniere Ottomane semiconvertite, un ampio terreno e locale lasciato libero dai Frati Minoridi San Francesco che si erano appena trasferiti vicino al Bressaglio di Cannaregio fondando il Convento di San Bonaventura. Lì perciò le ex Romite di San Marcuola ottennero il permesso dal Senato di trasferirsi fondando un nuovo Convento e una nuova chiesa dedicata al “Gesù, Maria e Giuseppe” che inizialmente non doveva ospitare più di sei donne. La riorganizzazione delle Romite fu possibile grazie al sostegno di Santo Donadoni che pagò gran parte delle spese, e in morte lasciò anche un cospicuo lascito di 12.000 Ducati per continuare la rifabbrica di chiesa e Monastero legandolo il lascito alla celebrazione di una Mansionariaquotidiana di Messe.



Su progetto del Pittore, Scenografo e Architetto Giovanni Battista Labranzi si costruì una chiesa esternamente semplicissima e spoglia. Internamente, invece, si realizzò un monumentale e ricco Altare Maggiore col Coro e Presbiterio diviso dal resto dell’aula sacra ma collegato da due passaggi laterali. Il soffitto venne decorato con dipinti della scuola del Balestra: “L'incoronazione della Vergine”“I quattro Evangelisti”. Ai lati della chiesetta si posero una “Resurrezione”e una “Cena in Emmaus”, due altari laterali con una "Madonna con Bambino" e una "Maddalena davanti alla Croce", una pala raffigurante “San Girolamo e Sant’Agostino” di Jacopo Palma il Giovane, una statua lignea della Madonna della Misericordia di Andrea Corradini, e una “Vergine” di Francesco Pittoni che andò perduta a causa di un incendio che ne lasciò solo una piccolissima parte.



Nel trasferirsi in Contrada di San Trovaso, le Romite si portarono dietro tutte le loro cose più preziose: tutta una serie di dipinti, e “una Testa di San Fortunato Martire, una Mano Incorrotta di Santa Giuliana Vergine e Martire, una Testa di Santa Fausta Vergine e Martire, i Corpi di San Benedetto e Filomena Martireprovenienti dalle catacombe romane, e soprattutto un Legno della Santa Crose e un’Adorabile Spina della Corona del Redentore veduta molte volte rosseggiare di vago Sangue Santo nel giorno del Venerdì Santo dalle Pie Donne ..” come raccontava Flaminio Correr nei suoi resoconti Veneziani.



In seguito le Eremite Agostiniane di San Trovaso, che facevano vita ritiratissima con Messa quotidiana, “ebbero fortuna” divenendo prima 15, poi 28, e infine 40 con poche Converse ... Durante tutto il 1700 le Romite di San Trovaso furono a lungo presenti nella lista dei Monasteri e Chiese e Luoghi Pii che di volta in volta la Serenissima secondo le circostanze tassava o omaggiava con burci d’acqua o di legna, o con staia di farina o denari contanti.



Nel 1721, ad esempio, la Serenissimaprovvide: “a una nuova distribuzione d’acqua alli 4 Ospedali offrendone 8 burci. Alli Cappuccini: 1 burcio, alle Convertite: 2, alli Riformati: 1, al Soccorso: 1, alle Citele della Zudeca: 1, alli Catecumeni: 1, alla Crose: 1, alle Eremite di San Trovaso: 1, alle Capucine della Grazia: 2, alle Monache del Gesù e Maria: 2, alli Miracoli: 2, a Santa Maria Maggior: 1, alle Penitenti e a San Job: 1…”

L’anno seguente nel Convento finalmente riconosciuto giuridicamente anche dal Patriarca Barbarigo si ritirò per sette anni a vita d’osservanza religiosa dopo la morte del marito Doge Giovanni II Corner del Ramo di San Maurizio della Cà Granda, la vedova e Dogaressa Laura figlia del Nobile Nicolò e di Elena Pesaro che morì il 3 maggio 1729 venendo seppellita “nella chiesa dello stesso nobilissimo claustro de le Romite”.
Strana la figura di quella NobilDonna ex Dogaressa: pur avendo portato con sé un corredo sontuosissimo: “… con gran quantità d’argenteria, posate, vassoi, fiaschette, croci, reliquiari, scaldini, sottocoppe, bacili, vasetti, scatole, medaglie (anche d'oro), ditali, calamai, oggetti in filigrana...et altre varie galanterie tra cui fibbie tempestate di diamanti, collane di turchesi, agate legate in oro con orecchini, anelli d'oro, una borsa grande con 1.694 ducati d'oro, e una borsa piccola con 104 zecchini …”, si vestiva con vesti di lusso e usava lenzuola di seta ma “tutte vecchie e rotte”.

Nel 1771 il Patriarca Giustiniani sentenziò: “Si celebrano troppe Messe alle Romite di San Trovaso ! … C’è mercimonio !”, e le ridusse a 41 annue … L’anno seguente Gaetano Callido costruì un nuovo organo per le Eremite … Nel 1788 il NobilHomo Francesco Lippomano venne eletto Procuratore dalle Eremite di San Trovaso, e l’anno seguente il Perito e Architetto pubblico Giovanni Pigazzi presentò un preventivo di spesa di 10.000 ducati per dei lavori d’ampliamento del Monastero delle Eremite.

La storia delle Romite terminò ovviamente con napoleone all’inizio del 1800 quando nel Monastero di clausura vivevano ancora 38 Monache, delle quali 29 erano Professe, 10 Converse e 2 Novizie. Nel 1810 tutto venne chiuso, il Monastero soppresso e come sempre i beni indemaniati e poi venduti.



L'Architetto Lorenzo Pastori e l'Ingegner Ganassa presentarono una perizia sul complesso delle Romite di San Trovaso considerandolo uno dei più solidi Conventi di Venezia. Precisarono che “Le Romite” avevano tre distinti ingressi: dalla Calletta Boldrini, dal Rio di Ognissanti e dalla Fondamenta di Borgo che era l'ingresso principale. “… Da lì si entrava nella Chiesa col Coro e nel cortile. Poco oltre uno stanzone detto "la loza", la cucina e il Capitolo. Notiamo in questo intorno una terrazza, la sacrestia interna e una piccola stanza sotto il campanile, nonché le stanze dette "il pozzetto" e la ricreazione, quindi il Parlatorio interno. Di cinque corridoi, quattro guardavano sulla "grande corte". Questo grande spazio era diviso in tre parti, di cui quello centrale era suddiviso in quattro "Vanese", ossia aiuole "ottagone" circondate da passaggi in selciato, così come erano pavimentati i due terzi laterali, separati da bassi muretti da quello centrale. Cogliamo ancora che una corticella interna era prossima al refettorio. Salendo di un piano, dove si trovavano le camere da letto, un corridoio prende luce dai balconi sul Rio Malaga, quindi solo due stanze prospettano sul Rio Ognissanti, le altre si rivolgono al grande cortile. Oltre a questo ve ne erano altri e fra questi si vengono precisando la piccola corticella detta “la Buratta” e la corte detta della sacrestia che si trova sul versante delle fondamenta Borgo. Al secondo solaio si trovano soprattutto stanze da letto e gli affacci guardano particolarmente la corte principale…”

Nel 1827 tutto il complesso venne acquistato dal negoziante veneziano Giacomo Bonetti ... e rimase lì “morto”, praticamente abbandonato e completamente inutilizzato.

 

L’ultima pagina di quel posto la stanno scrivendo ancora oggi le Suore Canossiane con l'Istituto Maria Immacolata avviato come Scuola Femminile nel luglio 1863 in prosecuzione e ampliamento dell’opera maschile della Scuola di Carità fondata dai fratelli Conti e Sacerdoti Cavanis della vicina Contrada di Sant’Agnese.

Nel 1922 le Suore avviarono pure l'Istituto Magistrale che nel 1935 contava quasi seicento alunne … Niente male !

Oggi “le Romite di San Trovaso”a Venezia è uno di quei “posti scònti” chiusi e preclusi ai più in cui è raro o impossibile entrare. Però è l’ennesimo luogo di Venezia che contiene e nasconde ancora una Storia.




“Intorno alla Fondamenta de Liza Fusina all’Anzolo Raffael ...”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 148.

“Intorno alla Fondamenta de Liza Fusina all’Anzolo Raffael ...”

Qualche decennio fa durante le mie precedenti esperienze esistenziali, ho saputo di una singolare famiglia popolare Veneziana. Abitavano in 8-10 in un monolocale a pianterreno ricavato da un antico sottoportico dove un tempo esisteva un pozzo. Divenuto salmastro per via di certe infiltrazioni e della marea, non si era pensato d’interrarlo e occluderlo, ma più semplicemente di coprirlo e di “tirarci su tutto intorno delle leggere pareti” per ricavarne un localetto umidissimo, basso e molto buio … ma affittabile. Quelli che ci andarono ad abitare però non ci facevano caso: era “casa loro”, e ci vivevano ugualmente pur non avendo né acqua corrente, né un camino, nè servizi igienici di alcun tipo, ma solo quell’unico stanzone che s’accontentavano di condividere. A metà c’era una tenda divisoria “notte-giorno” oltre la quale s’assiepavano tutti promiscuamente in un paio di letti posti uno sopra l’altro. Dal letto di sopra si poteva toccare il soffitto alzando un braccio, e di qua e di là della tenda c’erano due finestrelle che s’aprivano a livello del prato sul giardino signorile del palazzo accanto. Infine la caxetta, se si voleva chiamarla così, aveva un’altra caratteristica specifica: soprattutto nella stagione autunnale e primaverile veniva visitata e invasa dall’acqua alta, che saltuariamente raggiungeva anche livelli di un metro e mezzo d’altezza. Se poi l’acqua alta della marea risultava eccezionale ...

Comunque che problema c’era ? Nessuno ... Quelli che stavano lì dentro erano abituati a quella strana condizione, alcuni fin dalla nascita. Perciò quasi automaticamente facevano “buon viso a cattiva sorte” appendendo le poche cose che possedevano a dei ganci sul soffitto, e abbandonando ogni volta “il locale” trovando rifugio in una vecchia barca ormeggiata nel canale poco distante. Lì stretti più del solito, si raggomitolavano e acciambellavano come “animali” dentro a una vecchia coperta e sotto a un telone cerato di fortuna, e aspettavano il tempo che serviva perché tutto si mettesse “a posto e al meglio” così che la loro “casa”tornasse di nuovo agibile, ossia per loro abitabile.

Potete quindi intuire l’atmosfera, e il modo “intenso e gomito a gomito” con cui si viveva lì dentro in quella specie di vecchia “tana”. Si stava insieme grandi e piccini, uomini e donne, vecchi e giovani con tutto ciò che ne poteva conseguire circa l’igiene, le malattie e tutto il resto ... Per non farsi mancare niente poi, il “loghètto” era anche soggetto a visite estemporanee di “pantegàne”, topi e gatti, oltre che d’insetti di ogni sorta. Ma anche quello non era un problema: si viveva lo stesso rimanendo tutti fuori per strada per gran parte della giornata, e si tornava a rifugiarsi solo “a notte” in quella specie di loculo-tugurio dove ogni tanto qualcuno andava a collocarsi quando “non stava bene”.
Era capitato, ad esempio, anche di recente con la vecchia nonna inferma, che soggiornò in quel posto come se fosse l’anticamera del vicino Cimiterietto. Ma pure a questo non fecero caso … La “vita” continuava lo stesso.


(il Rio e la Fondamenta di Liza Fusina)
Non ho alcun dubbio che vi potrà sembrare un po’ strana una condizione del genere, ma a Venezia si viveva anche così. Questo caso di cui vi ho detto credo non sia stato affatto un caso unico, nè raro, nè isolato. L’intera Contrada dell’Anzolo Raffael, di San Nicolò dei Mendicoli o della Mendigola e di Santa Marta ospitava situazioni simili o per lo meno analoghe. Venezia intera un tempo era piena di postacci del genere nelle sue periferie più estreme, appunto come in quello spicchio terminale del Sestiere di Dorsoduro, ma anche nelle zone remote di Castello, alla Giudecca, e in fondo a Cannaregio. E’ esistita per secoli tutta una folla anonima di Veneziani poveri, e talvolta meschini e senza volto che finì spesso per vivere e concentrarsi in alcune caxette molto simili, o forse appena più “ben mèsse” di quella che vi ho descritto.

(il Rio e Fondamenta di Liza Fusina fra la chiesa dell'Anzolo e l'edificio del Grande Pizzoccheraio dell'Anzolo sulla destra)
Alcune sorgevano nei pressi della Fondamenta e del Rio di Liza o Lissa o Lìea Fusina, proprio nel cuore di quella che è stata la Contrada dell’Anzolo Raffaèl. Il posto era un angolo vivissimo di Venezia, ma per capirlo un poco è necessario fare una specie di “repulisti mentale” di quanto vediamo oggi in questa parte di Venezia. Serve come una “depurazione e semplificazione” di quel che costituisce la Venezia tanto “diversa” di oggi, per trovare e ricoscere le tracce di ciò che c’è stato ieri.

Proviamo allora brevemente ad eseguire questa specie di “pulizia storico-topografica” per curiosare meglio dentro alle vicende di questa Contrada, che fra l’altro mi è particolarmente simpatica. Via innanzitutto e cancelliamo tutta la lunga Riva e le attuali banchine del Porto che contornano Venezia da San Basiliosulle Zattere e fino a Piazzale Roma dall’altra parte. Via la Stazione Marittima, le Caserme della Guardia di Finanza e dei Pompieri, la nuova sede della Capitaneria del Porto, e via tutti i numerosi capannoni e magazzini. Via tutto il rettilineo del Canale della Scomenzera di Santa Marta, via i parcheggi per le automobili. Lì non c’era nulla, solo orti, barene, canneti e terre fanfose, e una spiaggia … Sì avete capito giusto: una spiaggia, la Spiaggia di Santa Marta che terminava con la Punta dei Lovi dove sorgeva (e c’è ancora) la chiesetta col chiacchieratissimo Monastero delle turbolente Monache Benedettine-Agostiniane di Santa Marta.
In quel posto i Pescatori Nicolotti e dell’Anzolo Raffael tiravano in secco le basse barche da pesca, e sempre lì di notte si teneva la famosa Sagra di Santa Marta, che durava praticamente tutti i mesi estivi quando i Veneziani Nobili e non nobili si recavano di notte a “cantàr, ballàr e far garanghèllo magnàndo pèse e bevèndo un gòto de quel bòn …”comprandoli sfusi e “a scottadèo” direttamente dalle casupole dei Pescatori che s’affacciavano sulla spiaggia.

Venezia era anche questo in quel suo angolo remoto ... Tutte cose che oggi non esistono più. Adesso si nota solo la squallida e deserta banchina del Porto con le grandi navi ormeggiate, e i parcheggi tappezzati d’automobili.

Seconda puntata … Via tutto il complesso dell’ex Cotonificiodi Santa Marta oggi Università di Architettura, di Chimica e quant’altro … e via anche tutto l’intero Quartiere semipopolare di Santa Marta. Lì oltre la Piazzetta estrema del Campo di San Nicolò dei Mendicoli terminava del tutto Venezia facendola diventare solo paludi, acque basse e contorte da percorrere, e terre di bonifica. Il tozzo campanile de la Mendigola era probabilmente un’antica Torre d’avvistamento e di guardia sul confine estremo della città Serenissima dalla parte in cui sfociava il Rio di Liza Fusina.
La stessa spiaggia di Santa Marta s’affacciava sul largo Canale della Giudecca oltre il quale non esistevano né l’attualmente verde Isola delle Scoasse, né la popolosa Isola di Sacca Fisola. La Giudecca terminava per intenderci col Molino Stucky, che però non c’era. Al suo posto c’era un’altra chiesa-Monastero: quello delle Monache Benedettine dei Santi Biagio e Cataldo della Giudecca… e anche lì tutto attorno a quel posto c’erano acque basse e Laguna aperta.

Di fronte a San Nicolò dei Mendicoli, invece, sorgeva il complesso delle Teresecol suo chiostro e il suo chiesone oggi “defunto e chiuso” e ingoiato anch’esso dalla totipotente Università di Venezia. Anche lì c’erano state prima Monache Carmelitane e poi Orfanelle, e al posto delle case adiacenti e retrostanti col praticello dei giochi dei bimbi, c’era, invece, un rio-canale che contornava tutto il possente edificio andando a congiungersi col vicino Rio e la Fondamenta dell’Arzere dove non c’era affatto il Ponte di Santa Marta, ma un grosso Squero e la Vaccaria. Tutta la zona oltre San Nicolò e oltre la Punta dei Lovi di Santa Marta era anch’essa barene, pozze d’acqua e motte di terra emerse. Era la zona del Bressagio o Bersaglio o Campo di Marte dove fin dal 1440 i Veneziani Nobili e soldati andavano talvolta ad esercitarsi o correre a cavallo ...Era pure zona di confine in cui gli estranei andavano a impantanarsi e perdersi, oppure finivano nelle braccia capienti ed accoglienti dei Gabelotti e dei Fanti della Serenissima che controllavano sempre tutto e tutti.

Terza puntata del “repulisti”… Via tutta la zona dell’ex VenezianaGas, e via anche tutta la zona fino a Piazzale Roma. Lì non c’era ovviamente il Piazzale del Tram e delle automobili, niente Garage San Marco e Garage Comunale… niente lo squallido palazzo nero del Tribunale, e via anche “la cittadella” del Tabacchificio. Pure da quella parte finiva Venezia, e percorsa tutta la Fondamenta del Rio dei Pensieri(oggi interrato) si finiva non alle Carceri di Santa Maria Maggiorecome oggi, ma in uno dei posti più ameni e romantici di tutta Venezia, su una riva affacciata sulla Laguna aperta oltre la quale non c’erano le ciminiere della zona industriale di Marghera, ma solo ampie distese d’acqua trapuntate dalle isole di San Giorgio in Alga e San Secondo e poco altro ancora fino alla ambitissima e temutissima Terraferma. Ovviamente lì davanti non c’erano come oggi tutte le isole con le banchine del Porto Passeggeri, né c’era l’Isola del Tronchetto ... ma solo Laguna e basta ... e l’isoletta di Santa Chiara della Zirada oggi diventata caserma della Polizia incorporata al Ponte translagunare stradale e ferroviario.

Venezia era, insomma, da quella parte tutta un’altra cosa rispetto ad oggi, indubbiamente.

Ho quasi terminato con lo sforzo del “repulisti” che spero riusciate a seguire e immaginare.


(il Campo dell'Anzolo con i pozzi della Peste e il Campo dei Morti.)
Tornando alla nostra Contrada dell’Anzolo Raffael e dei Mendicoli: via nel Rio di San Sebastiano al complesso che sorge ancora oggi accanto all’omonima chiesa. Lì oggi c’è la Casa Madre delle Suore del Caburlotto, mentre un tempo sorgeva il grosso Squero di San Sebastiano che riforniva di barche tutta la Contrada e anche quelle limitrofe. Inoltrandoci da lì dentro ai meandri della Contrada dell’Anzoloavremmo incontrato dopo pochi passi la chiesa dell’Anzolo Raffael. Ieri bisogna pensarla molto diversa da quella attuale, e non solo per la forma. Tutto intorno era contornata non dal campetto deserto e assolato ricoperto di “masègni”di oggi, ma come a collana dal Cimiterietto della Contrada col Campiello dei Morti.
Come sapete meglio di me, gran parte dei Campi di Venezia fino ai tempi napoleonici era occupato da Cimiterietti di Contrada addossati alla loro omonima chiesa.


(Palazzo dei Nobili Ariani sulla Fondamenta di Liza Fusina all'Anzolo.)
E siamo giunti aggirando finalmente la chiesa dell’Anzolo ad affacciarci sul Canale di Liza Fusina che scorre proprio davanti alla facciata principale della chiesa. Oltre il Rio e dietro alla pomposa facciata di pietra merlettata di Palazzo Ariani(oggi Liceo), via ancora una volta a tutte le costruzioni sorte negli ultimi secoli. Via la Scuola Zambelli, le Palestre e i campi da Tennis del Cus Universitario ... e via tutti quei complessi abitativi moderni sorti relativamente di recente nei pressi e oltre la Calle dei Guardiani e sulla Fondamenta dei Cereri. Al loro posto dovete immaginare solo orti, vigne, piccoli frutteti coltivati e qualche bel giardino … oltre a un altro bel mucchio sparso di quelle basse caxette miserevoli a cui accennavamo prima.

Ci siamo quasi … il “repulisti”è terminato. Se mi avete seguito dovreste avere ora in mente un’immagine abbastanza diversa, ma verosimile, di com’è stata per secoli quella zona terminale o iniziale di Venezia. Si trattava però di un’area in cui la Venezia Storica s’esprimeva in tutta la sua pienezza e con tutte le sue fisionomie specifiche. Lì accadeva Venezia al 100 %.

Oggi, invece, si passa di là e … si passa e basta.


(Campo San Sebastiano verso Campo dell'Anzolo: è la Contrada.)
“Oggi l’Anzolo non è più niente … è solo morte in vacanza.” mi diceva qualche tempo fa una nata nella Contrada che non esiste più nemmeno per lei. “Sono poche le ispirazioni, le suggestioni e le emozioni che si provano passando oggi per quest’angolo di Venezia ... Così come sono ridottissimi i movimenti che oggi si captano in questo spicchio della nostra città un tempo vispissima ... Oggi passando accanto alla chiesa dell’Anzolo Raffael si nota solo un canale silenzioso “dalle rive alte” … E’ quasi del tutto privo di traffico, e non c’è più tutto quel movimento che c’era un tempo ... Sono rare le barche che vi passano ... e le rive sono quasi del tutto tappezzate da una lunga serie di vecchie botteghe e magazzini dalle serrande rugginose e abbassate ormai chiuse da chissà quanto tempo ... Sulle porte delle casupole abitate un tempo dai Veneziani e ora abbandonate, s’affacciano spauriti e sgaruffati studenti che indossano l’abito transitorio della precarietà ... S’intuisce lontano un miglio che non ne sanno nulla e non fanno affatto parte del luogo della nostra Contrada ... Sembrano quasi dei soprammobili collocati lì provvisoriamente come riempitivo ... La nostra Contrada ha perso l’Anima, e non ha più quel significato e quell’identità che aveva un tempo. Oggi qui è tutto sempre più pieno di Bed & Breakfast più o meno visibili e autorizzati, che sono come carta moschicida a buon prezzo per la marea dei turisti che affolla e affossa sempre più quel che resta della nostra Venezia. Anche oggi qui c’è un andirivieni rumoroso e continuo a tutte le ore … ma è quello dei troller dei turisti e degli ubriachi delle odiose feste di Laurea “dei campagnoli” che si riversano qui in Laguna solo per imbrattare in giro, pisciare negli angoli, e inscenare sgangherate feste di basso profilo e pessimo gusto.
Fino a qualche decennio fa qui c’era ancora vita vera … C’erano ancora i Veneziani, gli Anzolotti e i Nicolotti che giù in fondo alla fine della Fondamenta e del Canale di Liza Fusina, d’estate festeggiavano Sant’Antonio nei pressi del Ponte de la Piova … C’erano le lucette appese da una parte all’altra della Calle e della Contrada, c’erano addobbi, canti e musica, e la gente allegra e festosa sostava ai piedi del Ponte col bicchiere in mano a cantare, contarsela e spettegolare fuori delle piccole osterie che s’aprivano ancora sul posto … Nel canale passava ancora qualche barca, e i Veneziani andavano e venivano nel canale e lungo le calli, le fondamente, le corti e i campielli.
Oggi non c’è più nessuno ... Guardati intorno ! … C’è soltanto qualche baretto che oggi apre e domani già passa la mano, qualche copisteria dall’aspetto essenziale che boccheggia economicamente assecondando i tempi e le ondate degli Universitari che popolano quotidianamente ad ondate la zona dell’ex Cotonificio e delle ex Terese. In questa Contrada tutto è diventato “ex” … le case, le chiese, i monasteri, i negozi … e non si conosce più nessuno. A volte non sai neanche chi abita sul tuo stesso pianerottolo … E se lo sai, talvolta passano anni prima che qualcuno si decida a compiere il primo passo per incontrarsi e conoscersi, che poi spesso non va oltre uno stitico e striminzito “buongiorno”.”

Lo so … è un po’ amara questa analisi … ma posso anche capirla. Come potete bene intuire, il volto della Contrada dell’Anzolo Raffael, dei Mendicoli e di Santa Martaera di certo molto diverso da adesso, ma soprattutto molto “appetitoso e interessante”. Era bello e piacevole vivere qui ... in ogni caso, e nonostante tutto. C’era un piccolo microcosmo promiscuo intorno al Canale, sulle Rive e sulla Fondamenta di Liza Fusina, e a fianco e di fronte alla chiesa dell’Anzolo Raffael e dei Mendicoli, una sorta d’intenso “rebogimènto” vivido di storie, incontri, cose e persone che è durato per secoli.

Ma a proposito, vi siete mai chiesti perché quella zona di Venezia si chiamasse e si chiami ancora dell’Anzolo Raffael ? … Un nome come un altro dettato dalla casualità, mi direte … O c’era forse dell’altro ?

Per comprendere ci può aiutare il fatto che proprio adiacente all’Anzolo c’è San Nicolò dei Mendicoli. San Nicolò come ben sapete era il Patrono delle Genti di Mare, dei Pescatori, dei Naviganti e dei Viaggiatori in genere … E questo si sa, e ci sta in un posto così … Venezia era propro un posto del genere: pieno di persone proprio di questo tipo.

E l’Anzolo che c’entra ?

La spiegazione è semplice, o perlomeno doveva esserlo per i Veneziani dei secoli passati in quanto erano “più devoti e de cièsa” rispetto a noi di oggi. Secondo i contenuti tradizionali Ebreo-Cristiani e della Bibbia, l’Anzolo Raffael era uno dei tre Arcangeliinsieme all’Apocalittico e potentissimo San Michele: l’Angelo Guerriero che ha tappezzato di se l’Europa intera; e insieme all’Angiolo Gabriele: quello dell’Annunciazione alla Madonna per intenderci raffigurato ovunque e sempre in ogni modo e occasione.
Sempre secondo le convinzioni Bibliche, inizialmente gli Angeli erano sette, ma poi nell’evoluzione dell’universo Biblico tre di loro “hanno fatto carriera”divenendo Arcangeli, ossia Angeli Superiori per via delle loro “speciali Missioni e Mansioni”. L’Angelo Raffael fu uno di questi … Il nome Raffaelesignifica: “Dio accompagna ... o Dio guarisce”… Avete già intuito: in un posto come Venezia in cui ogni giorno e notte si arrivava e partiva, c’era sempre bisogno per intraprendere le avventure e i numerosi rischi che comportavano un tempo i viaggi di uno “speciale accompagnamento protettivo da parte di Dio”. Andava bene l’aiuto rassicurante dei soldi dei Nobili Mercanti e della sempre più potente Serenissima … ma si sa, quando s’intraprendono certi viaggi lunghi anche anni … gli aiuti e “le persone” su cui fidarsi non erano mai troppi.

Nella zona del Rio di Liza Fusina all’Anzolo partivano e arrivavano merci di ogni tipo per e dalla Terraferma, e dai viaggi verso i Mercati Ultramontani di tutta l’Europa e fino al Nord. Le barche dirette a Venezia che passavano per Lizza Fusina sulla gronda lagunare pagavano dazi e pedaggi per persone e cose alla Serenissima e ai potentissimi Monaci Benedettini dell’Abazia di Sant’Ilario. Poi salpavano per Venezia attraversando la Laguna, passavano accanto all’isola di San Giorgio in Alga, e approdavano giusto nel Canale prossimo all’Anzolo Raffael dove c’erano i primi magazzini dei Mercanti Veneziani, i primi bastazi disposti a scaricare e caricare, e le prime Osterie-Locande dove i “Foresti”, i Pellegrini e i naviganti potevano trovare alloggio o iniziare i loro contatti e affari Veneziani.
Sempre nella stessa Contrada dell’Anzolo s’imbarcavano prodotti di ogni sorta, si scaricavano merci che arrivavano dall’entroterra Veneto-Padano-Romagnolo-Lombardo-Trentino e Friulano e dal resto dell’Europa lungo l’intricatissima ed efficentissima rete fluviale che copriva per intero il vecchio continente. Quest’ultimo tipo di viaggi è una cosa che oggi siamo spesso portati a scordare e ignorare. Un tempo, invece, ci si muoveva tantissimo “via fiume”, oltre che lungo le Strade e i sentieri dei passi Alpini o Dolomitici, e lungo le rotte marittime percorse dalle Galee delle Mude Mediterranee.


(sui pozzi della Peste dell'Anzolo Raffael)
La Contrada dell’Anzolo quindi era un vero e proprio “Porto di mare”, un posto attivissimo di Venezia, un luogo d’arrivi e partenze dove si concentravano parecchi dei suoi traffici e affari. Ogni volta che partivano i Veneziani si auguravano: “Buon viàzo ! … Buona (av)ventura … e Bòna Fortuna !”, ma sapevano bene delle tante incognite di quel lungo pellegrinare per strade e per mare. Per questo s’affidavano a “Chi ne sapeva e poteva un po’ di più”cercando protezione e assistenza. L’ArcangeloRaffaele quindi, ossia l’Anzolo, era un altro Protettore dei Viandanti, dei Pellegrini e dei camminatori e commercianti in genere. Se andate a leggere le vicende Bibliche scoprirete che l’Anzolo Raffael in incognito guidava Tobiolo, che a sua volta guidava l’anziano e fragile Tobia che era anche cieco. L’immagine è impressa nella pietra sulla facciata dell’Anzolo Raffael.

Ecco allora come i Veneziani intendevano il viaggiare ! Commerciare, partire e arrivare, era a volte un “andare un po’ alla cieca seguendo il proprio destino commerciale ed esistenziale” ... Si partiva e si faceva ritorno proprio lì: sulla Fondamenta di Liza Fusina all’Anzolo Raffael. Da lì iniziava ogni volta un’avventura spesso rischiosissima e quasi “alla cieca” in cui si era certi di partire ma non altrettanto di tornare “con buoni frutti”… Tanto è vero che spesso si faceva pure testamento prima di partire. I grandi commerci dei Veneziani sia quelli Mediterranei verso l’Oriente, che quelli Terreni Ultramonatani nel Ponente Europeo erano talvolta delle sfide, delle “mission impossible” il cui successo però rendeva sempre più grande e ricca tutta Venezia.

L’Anzolo era quindi un potentissimo talismano, un viatico confortevole e sicuro sulla strada del “Bon viàzo”, e la Contrada-Scalo merci dell’Anzolo era il posto da cui si andava e veniva dall’avventura.

“Buon viàzo ! … Buona (av) ventura … e Bòna Fortuna … Che l’Anzolo ti protegga e conduca !”a volte si gridavano i Veneziani spingendo la barca al largo dalla riva nel Canale di Liza Fusina. L’Anzolo era come un attento compagno, una garanzia, un protettore dei mali della carne e delle infermità del corpo, ma anche dalle situazioni incresciose e nei pericoli del viaggio, nonché propugnatore di “buona Ventura”… perché sempre secondo il testo Biblico, guidati dall’Anzolo si poteva giungere anche a sposarsi, ad attraversare fiumi impetuosi, e a fare pure buoni affari riscuotendo diversi “Talleri d’argento”… Assistiti dall’Anzolo si andava e partiva un po’ alla cieca a volte, ma sempre sorretti dall’invisibile e potente Anzolo, anzi: l’Arcanzolo di Venezia.

Interessantissima e curiosa vero quell’idea-parabola “dell’Anzolo Custode e Guaritore” che “si macinava e considerava” in quella zona di Venezia !
Anche perché non si trovano altrove altre chiese e Contrade antiche dedicate all’Arcangelo Raffaele(ne esiste solo una a Milano, ma è molto più tarda). Il titolo dell’Anzolo quindi è un’altra vera e propria “curiosità”solo Veneziana.

Comunque non è che i Veneziani di un tempo stessero dalla mattina alla sera a parlare, distinguere e disquisire di Angeli e Arcangeli. Si davano, invece, parecchio da fare sulla Fondamenta di Liza Fusina dove una volta si teneva settimanalmente un grande mercato il mercoledì e il sabato con grande afflusso dei Veneziani, di quelli delle isole lagunari, e dei forestieri nuovi arrivati o in partenza.
Dentro alla chiesa dell’Anzolo Raffael insieme alle pratiche e concrete Schole e Suffragi degli Agonizzanti e dei Morti, si ospitava anche la Veneranda Schola e Confraternita dell’Angelo o di San Raffaele e San Niceta o Nicheta. Interessante anche quell’abbinata e quel connubio inscindibile che era iniziato all’Anzolo fin dal lontanissimo 1280. Sull’Altare dell’Arcanzolo al centro della parete sinistra della chiesa si conservava il corpo di San Niceta Martire davanti al quale “quelli dell’Anzolo”avevano l'obbligo di tenere sempre acceso un “cesendèllo” ossia una lampada perenne per implorare aiuto sui Confratelli infermi e sulla gente di tutta la Contrada ... In occasione della festività annuale del 29 settembre, il Piovano dell'Anzolo Raffaeldoveva pagare i cantori per la festa, mentre la Schola pagava i sonadori, l'organista, i trombettieri … e gli spari dei mortaretti. In quella stessa giornata la Schola organizzava una solennissima Processione in cui si sfoggiava un ricchissimo apparato che si portava “a spasso” attraverso tutte le Contrade vicine. Insieme alle numerosissime persone della Contrada, si portavano in giro diverse aste porta candele decorate e dorate, due “segnali”di legno dorato e dipinto che raffiguravano l'Arcangelo con Tobiolo, e una preziosissima “bolla papale dell'Indulgenza” che era legata a quella particolare manifestazione a cui si partecipava tutti in massa. Non era un caso, perché tutti quelli che partecipavano a quella Processione potevano lucrare grandi sconti e riduzioni “delle pene del Purgatorio”, e sperare anche in una benedetta “esenzione dalle pene dell’Inferno”“Carta canta !”… lo diceva e confermava la bolla Papale portata in Processione.

Nei secoli trascorsi i Veneziani “grandi e piccoli, scheòsi o miseri, santi o profani” erano tutti molto sensibili a questo tipo di discorsi.

Solo nel 1741 i Confratelli della Schola dell’Anzolo "oppressi da povertà ed impotenti a sostenere il peso delle cariche" ottennero che “la direzione della Schola, Indulgenze e capitali compresi”, fosse trasferita ai “Bancali, Governatori e Compagni del Suffragio degli Agonizzanti e dei Morti” aggregati fin dall’inizio del 1700 alla Schola stessa dell’Anzolo e San Niceta. Indubbiamente i tempi stavano cambiando anche per i Veneziani ... e pure i Preti del Capitolo dell’Anzoloci misero del proprio in quanto i Provveditori da Comun dovettero intervenire nel 1770 nei loro riguardi in quanto distraevano abusivamente il denaro del Suffragio a proprio intendimento. Si era ormai agli sgoccioli, agli “ultimi colpi” della Storia e della vita della Repubblica Serenissima.

In barba comunque alle soppressioni napoleoniche, nel 1840-1847 la Schola dell’Anzolo era ancora viva e vegeta, e teneva in luglio le sue assemblee generali nel Palazzo Ariani-Minotto di fronte alla chiesa dove a conclusione dell’assemblea si assegnavano ogni anno “Tre Grazie alle Donzelle dell’Anzolo” consistenti in medaglie. Due d’argento venivano estratte a sorte tra i Confratelli, e una d’argento dorato era, invece, riservata ai componenti del Capitolo dei Preti della chiesa dell’Anzolo. Nel 1924 la Confraternita dell’Anzolo contava ancora centocinquanta iscritti, e i Registri dei Confratelli risultano aggiornati fino al 1949 distinguendo i Confratelli di 1°classe a 5 lire di tassa, che erano: 15; i Confratelli di 2° classe a 3,5 lire di tassa, che erano: 13; e i Confratelli di 3° classe a lire 2, che erano: 21.

Tornando però alla Fondamenta e al Canale di Liza Fusina, la "Lissa o Lissia o Lieo/a” era lo scivolo che serviva per far scendere i sacchi di farina dal molino al burcio, o le balle, le casse e i colli dai magazzini posti sulle rive fino alle barche e viceversa. L’operazione di “Lissa”era il far scivolare, “lissiàre”, le merci in barca lungo le murette, così come probabilmente “lisiàvano” le imbarcazioni sul "carro di Fusina” per entrare e uscire dal fiume Brenta. Ancora oggi si possono notare curiosamente quei muretti sopraelevati caratteristici delle Rive della Fondamenta dell’Anzolo che non servivano affatto per proteggersi dall’acqua alta e dalle onde del canale, ma per favorire lo scarico-carico delle merci dalle barche.
La Fondamenta di Liza Fusina all’Anzolo era il capolinea della Liea, la Linea di Liza FusinaSabellico, ossia Marcantonio Coccio o Cocci, storico italiano del 1400, morto proprio a Venezia nel 1506, definiva Lizza Fusina: “Leuca Officina” ossia stabilimento d'imbiancatura che secondo lui lì sorgeva … Secondo Pasquale Negri nel suo “Soggiorno in Venezia di Edmondo Lundy”pensava, invece, che: “Lizza o le lizze o trincee fossero degli impedimenti per non far sbarcare i Veneti in Terraferma o viceversa far entrare i foresti in Laguna, oppure degli argini per sostenere le acque del Brenta perché non sfociassero libere in Laguna”.  A “Fusina” s’attribuiva il significato di “fuscina o fùssina” ossia il tridente di Nettuno, oppure era l’attrezzo usato dai pescatori per “infiocinàr el pèse”.


(il Rio dell'Anzolo o de Liza Fusina con sull'angolo a sinistra l'Ospizio della Maddalena sulla curva del canale, e la chiesa dell'Anzolo sullo sfondo.)
Nel 1510 il Consejo dei Diese ordinava che in caso di guerra si tenessero sempre pronte per la Signoria due imbarcazioni a tre remi ormeggiate a San Marco e ai Granéri de Terranova, pronte a partire in ogni momento verso Lissa Fusina. Fusina era insomma l’approdo, il “pied a terre” della Serenissima nella Terraferma Veneziana, e il Canale di Liza Fusina all’Anzolo era perciò lo scalo merci e persone di riferimento di Venezia dove sostavano in continuità, quasi “in agguato”: Fanti, spioni, Gabellieri e Dazieri della Serenissima. Venezia sapeva sempre essere abilissima nel giustapporre un nugolo pulsante ed eterogeneo di persone formando di volta in volta spessori vitali e identità diverse capaci di dare “volto”alle sue Contrade.

Non a caso una numerosa corona di facoltosi Nobili e Mercanti s’assieparono tutto intorno al “Canale degli arrivi e delle partenze dell’Anzolo” costruendovi i loro sontuosi palazzi, e soprattutto i loro capienti magazzini. Gli affari erano affari, perciò Nobili e Mercanti Veneziani quasi presidiavano il posto trovandosi sistematicamente presenti come “Api sul miele” sui luoghi delle economie, dei traffici e dei commerci. In chiave economica e commerciale la posizione della Contrada dell’Anzolo era quanto di più strategico si potesse pensare a Venezia.
C’erano perciò i Commercianti Falier Nobili di IV Classe che risiedevano nella zona del Soccorso. Poco distante c’erano i Nobili Balbi che erano Mercanti e Banchieri di San Bastian; nella vicinissima Contrada di San Basegio abitavano i Giustinian de Le Zatere, i Giustinian Recanati, i Michiel-Clary, i Molin in un palazzetto della fine del 1500, i Trevisan, i Bembo di San Basegio, i Foscarini di V Classe, i  Lippomano di II Classe Banchieri pure loro, i Priuli-Bondi San Basegio Nobili di V Classeprima risiedenti in Contrada di Santa Marina nel Sestiere di Castello, e i Nobili Bollani che andarono a risiedere poco distante dalla Fondamenta di Liza Fusina soltanto nel 1709.
Nel cuore vero e proprio della Contrada dell’Anzolo Rafael, e in prossimità del Rio di Liza Fusina abitavano e operavano i Badoer Nobili di V Classe d’antica Nobiltà e grandi proprietari terrieri, i Cappello in Fondamenta Rossa in Palazzo del 1600, i Minotto di San Bastian Nobili di V Classe in Palazzetto del 1600 vicino a Palazzo Ariani. C’erano inoltre i Polani di Classe II, gli Arianipoi Pasqualigo-Cicognain Palazzo archiacuto della seconda metà del 1300 rimaneggiato nel 1500, i Venierin Palazzo del principio 1400, e poi: i Ruspina o Ruspini, i Corbetto, i Lardoni,  i Bevilacqua, e i Barbarigo poi Dabalà poi Salvadori in Corte Barbarigo che da loro prese il nome. Possedevano un palazzo che prima apparteneva a Nicolò Michiel, che nel 1592 diede alloggio all'Arciduca d'Austria Massimiliano Elettore di Polonia come ricordato in un’epigrafe posta ancora oggi nel giardino.
Infine, risiedevano all’Anzolo, anche gli Angaràn e i Zenobio: entrambi “Nobili per sòldo”, e i Lorenzi nel luogo dell’attuale ex Casa del Marinaio(d’epoca fascista, oggi Università di Cà Foscari) dove nel 1700 sorgeva “la Fornace per cristalli alla maniera di Boemia” di Iseppo Briati(fornitore del Doge, vessato e cacciato dall’isola dai vetrai di Murano che ne temevano la concorrenza e invidiavano il successo).

Nel 1726 Iseppo Briati provò prima ad accasarsi con la sua impresa vetraria su di un terreno nell’attuale Piazzale Roma, ma poi si accordò col Nobile Donà delle Roseper 340 ducati annui d’affitto, e prese: “… una casa dominicale con corte et orto in Contrà San Raffael sopra la fondamenta dirimpetto a la Zenobio…”. Nel 1760 la Fabbrica Briati dell’Anzolo produceva: “… quattro specchiere grandi con suaza somigliante al verde smeraldo spedite a Bologna, e per ordine della Serenissima un gran specchio, un tavolino, otto lumiere e altrettante careghe in cristallo finissimo di colore azzurro per un valore di 2.500 ducati, per conto della sposa del Serenissimo Arciduca d’Austria…”. Per la venuta dell’Infante di Spagna a Venezia le grandissime feste d’accoglienza vennero illuminate dalle “ciocche” d’IseppoBriati e di Vettor Mestre… e per la Festa di San Marco lo stesso Briatiarredò sette tavoli del Palazzo Ducale con “Trionfi da tavola” ammiratissimi composti da vetri di più colori: “con scene di caccia al cinghiale, dell’orso, del lupo, del cervo, della volpe, della lepre e del toro”.

Poco distante, nella stessa epoca e nella stessa zona, sorgevano in prossimita della Contrada dell’Anzolo anche altre importanti industrie di lavorazione della cera, tintorie, e conce per tessuti.

Nei pressi della Fondamenta di Liza Fusina all’Anzolo insomma sono sempre stati presenti tutti i grandi nomi di Venezia ... Per secoli i vari Nobili: Lombardo di San Barnaba, Tron, Barbarigo di San Polo, Bragadin, Trevisan e Gradenigoavviarono speculazioni immobiliari e investimenti in diverse occasioni nelle Contrade dell’Anzolo e San Nicolò comprando interi blocchi d’abitazioni, botteghe e squeri, che affittavano poi a prezzi sempre più elevati. Le case dell’Anzolo, di San Nicolò e Santa Marta erano per lo più modeste e vecchi ruderi medioevali, mono o bilocali di legno o parziale muratura, abitate da famiglie e clan di pescatori e compravendi-pesce.

Sulla Fondamenta di Liza Fusinacomunque non c’erano soltanto Nobili e Mercanti … Fin dai tempi antichissimi, a cavallo fra Storia e Leggenda, si raccontava che quella parte di Venezia apparteneva del tutto alle Monache di San Zaccaria di Venezia, ma che poi a causa di un grave e grande incendio bruciò tutto nel 899, perciò le case vennero rifabbricate dai Nobili Candiano e Ariansvincolando tutta la zona dal controllo delle Monache.

Nel 1087 Stefano Candian lasciò per testamento alla chiesa dell’Anzolo Raffal una valle piscatoria con molino rivendicato da Raimondo Patriarca di Aquileia nel 1288. Fra un incendio e l’altro che giunsero a distruggere e coinvolgere ben 16 isole di Venezia, e quasi tutto il Sestiere di Dorsoduro, alla fine del 1193 all’Anzolo Raffael sotto al portico della chiesa, che aveva un campaniletto a sinistra e l’abside rivolta sul Cimiterietto, “le ragazze Veneziane suonavano il Rigabelo di fronte all’organo e il Torsello con le mazze” ... Nel marzo 1224, Dominicus Bastianus del Confinio dell’Anzolo Raffael presentò fidejussione “per Bovaterius de Portu et Bonsegnore frater eius” per l’acquisto di 2 miliaria di fichi diretti a Legnago… Nello stesso giorno: Michael de Alquisiis dello stesso Confinio, presentò fidejussione per Graciolus Pancarello de Cremona per l’acquisto di altre 10 miliaria di fichi diretti a Cremona, mentre Petrus Traenance ancora dello stesso Confinio presentò fidejussione per Bonaventura Nonto de Verona per l’acquisto di 1 miliario d’olio diretto a Verona; per Henricus Belenciono de Veronaper 6 miliaria de fichi diretti a Verona; e per Petrus de Polengo de Cremonaper 10 miliaria di fichi diretti sempre a Cremona.

Insomma, già allora c’era un gran andirivieni commerciale di “grandi e piccoli” nella Contrada dell’Anzolo Raffael. Fra il luglio 1330 e l’aprile 1339, e poi ancora nel 1423, si prosciugarono e interrarono dei “laghi-piscine” all’Anzolo Raffael tramite diverse grazie e concessioni dello Stato Veneziano per favorire nuovi insediamenti e ulteriori attività commerciali: “Ogni colmata deve lasciare libero un Rio di 4 passi di larghezza.”… Poi ritornò ancora la Peste, e il Mercante Marco Arian lasciò un legato di 300 ducati per la costruzione di alcuni pozzi nella Contrada dell’Anzolo: “… a li vivissimi de la Contrada … per i bisogni al popolo e a boni homeni de la Contrada”. Morì anche lui di peste, le sue intenzioni vennero incise sui pozzi, e il suo testamento veniva letto due volte l’anno davanti alla porta della chiesa dell’Anzolo.  

C’era quindi anche un gran pulsare di accadimenti e persone, e in quell’alveare di storie e cose c’erano i comuni Pescatori che s’affacciavano e andavano ad arenare le loro barche sulla spiaggia di Santa Marta. Da mattina a sera in Contrada era tutto un formicolio d’attività, uno scampanare, un chiamarsi a raccolta, un simpatizzare e condividere e aggregarsi, coinvolgendosi a vicenda nel bene e nel male salvo qualche rarissima occasione.

Sempre dentro alla chiesa-Contrada-Parrocchia dell’Anzolo Raffael, dove nel 1471 Ugolin de Baviera vendeva pane, fra la ventina di Schole d’Arte-Mestiere e Devozione che si ospitavano, primeggiava per partecipazione e rinomanza la Schola di San Ludovico o Alvise dei Barcaroli del Traghetto di Liza Fusinainsieme a quella del Cristo dei Barcaroli.

La Schola o Fraglia dei Barcaroli del Traghetto de San Raffael et de LizaFusina era detta anche Schola o Fraggia di San Ludovico o Sant’Alvise o dei Fusinòtti. Era composta da un solo Stazio o Traghetto che occupava con le sue barche buona parte della Fondamenta di Liza Fusina. Veniva considerato un Traghetto de Fòra(considerato a volte un Tragèto de Dentro) che collegava la città con Fusina proprio sul bordo della gronda lagunare offrendo barche a nolo. Inizialmente le barche assegnate insieme alle Licenze-Libertà d’esercizio del Traghetto erano 40, mentre i confini d’azione erano delimitati dal campanile della chiesa dell'Anzolo Rafael fino a quello opposto della chiesa di Santa Marta da una parte, e l'eventuale realizzazione delle "Porte sora i Maranzan col Carro de Fusina” dall’altra. Nei giorni di mercato le barche del Traghetto potevano trasportare fino a dieci persone per barca, mentre negli altri giorni “normali” il limite massimo non avrebbe potuto superare i sei passeggeri per barca.

Nel novembre 1508 i Barcaroli del Traghetto di Liza Fusina rinnovarono del tutto la loro Mariegola, e nel 1537 quando in Contrada sorgevano diverse botteghe di fruttariol e lugangheri, e due tintorie, il Capitolo del Traghettoapprovò la spesa per la costruzione di "uno redùtto per loro Barchaioli", e decretò un ulteriore esborso di denaro allo scopo di "conzàr la cavana per le barche". I Confratelli Barcaroli tenevano le loro funzioni religiose nella chiesa dell’Anzolo dove avevano “sepolcro proprio”, mentre come loro Sede per il Capitolo utilizzavano l’edificio del Campiello dell'Oratorio presso San Nicolò dei Mendicoli al termine della Fondamenta di Lissa Fusina. Il posto aveva già ospitato in precedenza una Schola de la Beata Vergine Maria, infatti, un’iscrizione posta in facciata dichiarava che l’edificio era stato rifabbricato nel 1687 grazie all’interessamento e ai soldi di un certo Marcho di deto Tragheto (de Lissa Fusina).

Nel 1566 quando in Contrada dell’Anzolo vivevano 3.224 persone, Bartolomeo de Ogniben faceva il Marangon come Jacomo figlio di Donado da Bergamo … Alla Visita Apostolica alla Parrocchia-Collegiata nel 1581, si rilevò che ai 4.000 abitanti si distribuivano 3.000 Comunioni. La maggior parte dei capifamiglia della Contrada erano barcaroli, marinai e pescatori. Un buon numero di uomini era anche impiegato nel settore laniero e serico, e le Tintorie della Contrada erano diventate 4, e le botteghe 71 … Esattamente un secolo dopo, il Conte Verità Zenobio istituì per testamento un legato perpetuo per finanziare doti di 60 ducati ciascuna per maritare 24 Putte delle Contrade dell’Anzolo e San Pantalon estratte a sorte. Le donne dovevano avere almeno 15 anni e non oltre 29, e il “beneficio” venne attuato quasi senza interruzioni fino al 1837 quando Alba Zenobio lo interruppe senza spiegazioni ... Nello stesso secolo nei “Commemoriali” del Doge Pietro Gradenigo si raccontava che in Contrada dell’Anzolo vivevano due Mastre Merlettaie di nome Lucrezia e Vittoria Torre, le quali fecero un collare “di capelli canuti”pagato 250 ungheri, che servì al Re di Francia Luigi XIV nel giorno della sua solennissima incoronazione … Negli stessi anni un incendio si sviluppò nell’organo dell’Anzolo Raffael, una grossa parte della chiesa venne compromessa, e il fuoco distrusse anche i banchi delle cere e delle argenterie. Ci pensò la solerzia e la generosità dei Confratelli del Santissimo a limitare i danni e reitegrare gli oggetti andati distrutti.
Solo nel 1735 il Piovano GiovanBattista Ghedinici riuscì a mettere insieme i fondi utili per i restauri, ma durante i lavori venne giù e crollò all’improvviso l’intera facciata della chiesa. Dieci anni dopo, nonostante i recenti restauri, si dovette spendere i 500 ducati di un nuovo “legato Millioni” perché c’era un pilastro della chiesa che “minaccia rovina vicino all’altare di Sant’Osvaldo tirandosi dietro l’intera facciata”… Nel 1802 e 1803 il Piovano Giuseppe Giusti supplicò più volte il Governo Austriaco per provvedere ai restauri dell’edificio ancora cadente. Il Governo non gli rispose neanche … Nel 1853 c’era ancora assoluta necessità d’interventi, c’erano ancora: “vaste caverne a tramontana sull’attico superiore del tetto, cornici slegate, travi infradiciate, tettoie rovinate in vaste proporzioni, impalcature insostenibili, arcate fesse, muraglie disgiunte, e il pavimento avallato.” 
Non se ne fece nulla per lungo tempo … Allora come oggi, non è cambiato quasi per niente il modo di gestire “la cosa di tutti” da parte di chi ci conduce e governa, laico o devoto che sia.

Nel 1700 però, gli uomini della Fraggia di Lissa Fusina spostarono lo Stazio del Traghetto dalla riva del Rio dell’Anzolo Raffael a quella del Rio di San Sebastiano in Contrada di San Basilio, proprio accanto al ponte e presso il portico … Nel 1736 si ordinò alla Schola che entro otto giorni provvedesse a far demolire il suo Altare dovendosi rifare il "canton de la chiesa verso il ponte"… e l’anno seguente, al tempo di Missier Nicoletto Canèr, furono rifatti a spese della Schola: le spalliere dei muri, si restaurarono i quadri, e si rifece la pala di Sant’Alvise con i Santi Girolamo, Sebastiano e Giovanni Evangelista..

Come vi dicevo, sempre nella chiesa dell’Anzolo, accanto e insieme ai Barcaroli per Liza Fusina, c’erano quelli del Sovegno della Santa Croce o del Cristo dei Barcaroli la cui Matricola-Mariegola era dell’aprile 1683. Nell’aprile 1692 Giovanni Prevato Custode del Sovegno dei Barcaroli e Compagni ottennero dal Capitolo dei Preti dell'Anzolo Raffael l'uso dell'Altare del Cristo nella Cappella a sinistra della Maggiore. Lo stesso Capitolo dei Preti si impegnò a celebrare per i “Barcaroli de la Croxe” una Messa Solenne ogni 3 maggio Festa della Santa Croce, un'Esequie Cantata il Giorno dei Morti, e a far suonare “l'Ave Maria et metter fòra la Croxe a ogni morte di ciascun iscritto della Fraggia”. I Barcaroli iscritti dovevano versare 26 lire mensili, i malati ricevevano un sussidio di 2 lire al giorno, ed erano assistiti da un Medico e da uno Speziale scelti e stipendiati dalla Schola-Sovegno ...  Nell'ottobre del 1692 gli iscritti residenti non solo nella Contrada dell’Anzolo e dei Mendicoli ma anche in altre Contrade di Venezia, erano un centinaio: “tutti Barcaroli, ovvero Gondolieri che lavorano al servizio di Famiglie Nobili o private, o che prestavano servizio nei Traghetti della città”. 

Nel settembre 1803 quando il Patriarca Flangini visitò le Contrade e le chiese dell’Anzolo e dei Mendicoli trovò che vi abitavano più di 3.000 persone ma senza neanche una Levatrice che li facesse nascere. C’erano però all’Anzolo due Spezierie da Medicine: “Il Tempo” a Santa Maria Maggiore, e “La Venezia Trionfante” in Campo dell’Anzolo, mentre in Contrada di San Nicolò oltre a un Forno, una Pistoria e 53 botteghe, c’erano altre due Spezierie: il “SantaTeresa” in Corte Maggior, e la “La Cerva d’Oro o la Cervetta” a Santa Marta.. ... Il contitolare della chiesa dell’Anzolo risultava essere ancora San Niceto, ed esistevano ancora l’Oratorio pubblico della Pia Casa del Soccorso; l’Oratorio semipubblico di Santa Marta; l’Oratorio privato delle Terziarie Francescane; l’Oratorio privato di Santa Maria Maddalena nell’Ospedaletto contiguo alla chiesa; gli Oratori privati dei Nobili Bembo, Contarini, Lippomano, Barbarigo, Celsi, Minottoe Mocenigo dove i Preti celebravano di continuo privatamente e solo per quelli della Casada; e quelli del Signor Giovanni Gastaldello Briati, del Signor Carlo Fedetico Pasinetti, nonchè i Tre Oratori della famiglia Foscarinidove due risultavano sospesi da ogni rito per colpa del saccheggio che avevano appena subito … I Preti, invece, attivi in chiesa e residenti in Contrada dell’Anzolo erano 15 fra cui diversi che andavano a celebrare Messe altrove. Un Prete si era recato lontano: nell’isola di Modone, un altro andava a celebrare in Contrada di San Fantin, uno a San Giacomo di Rialto, uno dai Teatini, uno celebrava in Santa Marta, e uno era “sospeso a divinis”… Dal dicembre 1817 la “Congrua” pagata al Piovano dell’Anzolo Rafael don Giuseppe Giusti era formata dal cumulo dei redditi provenienti da alcuni stabili siti in Contrada di San Felice nel circondario di Santa Sofia; dal reddito della bottega affittata ad Orsola Larese Bassan a lire 31; da quello del piccolo magazzenetto vuoto che dava 14 lire; dalla bottega affittata a Giulio Ratti a lire 88,80; dalla bottega affittata a Giovanni Maria Ferraro a lire 62; da un appartamento di casa affittatato a Francesco Sviali a lire 329, e da un secondo appartamento della stessa casa affittato ad Aurelio Rocco a lire 210,80. In totale il Piovano dell’Anzolo percepiva: lire 735,60 annue.

Sempre durante quella Visita del 1803, risultò che i Barcaroli della Croxe dell’Anzolo facevano ancora celebrare a loro spese “Tre Agonie ed un Esequie per i Confrateli Barcaroli Morti”… Secondo un Inventario del 1865: “… il Sovvegno del Cristo dell’Anzolo possedeva un banco col prospetto del Cristo e per parte due gondole (oggi conservato nella Sacrestia dell’Anzolo), due lampade d'ottone, una Reliquia della Santa Croce, un Segnale Grande e quattro aste dorate per le Processioni, un Crocifisso piccolo, dodici Cappe di tela complete da far indossare ai Confratelli, e un cuscino e un manto nero che si usavano per accompagnare processionalmente i Confratelli Morti ... Sull'Altare della Schola-Sovvegno c’era un Crocifisso con un diadema d'argento, un paliotto di seta, e sei candelieri con l'effigie del Crocifisso.”
Fra le ultime disposizioni rilasciate dal Sovegno dei Barcaroli della Croxe, una del 1884 stabiliva: “che non siano più assistiti i Confratelli quando si trovano in campagna, fuori Venezia, anche se fossero in villegiatura coi propri padroni"… Il Sovegno con attività di sussidio e previdenza rimase attivo e litigante per i propri diritti con terzi e con i Preti del Capitolo dell’Anzolo fino al 25 settembre 1910 quando gli ultimi Barcaroli de la Croxe decisero di sciogliere la loro Confraternita consegnando tutti i beni rimasti al Piovano dell'Anzolo Raffael.

Come avete inteso bene, la zona dell’Anzolo e la Fondamenta di Liza Fusina attiravano molto per i loro traffici e movimenti i Barcaroli di gran parte di Venezzia. Perfino la Schola del Barcaroli e Gondolieri del Traghetto di San Barnaba e San Samueleattivi sul Canal Grande tenevano sede lì nei pressi dentro alla chiesa di San Sebastiano dove sul primo Altare a sinistra avevano la loro Arca-Sepolcro con particolare “sigilli a barchetta” impressi. Fatalità. lì proprio accanto sorgeva il grosso Squero di San Sebastiano che costruiva gondole e barche per i Gondolieri e i Barcaroli de Casada di Venezia.
Nel giugno 1514, secondo il Quaderno del Traghetto di San Barnaba, il Gastaldo dei Barcaroli e Gondolieri del Traghetto si obbligava con i suoi successori a dare ai Frati Gerolosomini del Convento di San Sebastiano: “Tre lire per cadauno dei Compagni che entrerà nella Schola del Traghetto”. In cambio i Frati s’impegnavano a celebrare ogni lunedì una Messa di Suffragio per tutti i Confratelli Morti della Schola dei Barcaroli e Gondolieri di San Barnaba e San Samuel.


(San Sebastiano "della Peste" e lo Squero di San Sebastiano.)
A proposito di San Sebastiano, la chiesa-Convento è sempre stata considerata parte integrante della Contrada dell’Anzolo Raffael. Nel 1437, e poi nel 1464 e nel 1478 l’ennesima serie di epidemie di Peste aveva devastato Venezia e soprattutto le Contrade dell’Alzolo e dei Mendicoli. In quella stessa epoca si costruì sopra l’atrio di San Nicolò dei Mendicoli un ambiente ad uso di due Pizzocchereteche vi rimasero fino al 1511, e si costruì sopratutto la chiesa Votiva dedicata a San Sebastiano considerato: Santo Protettore contro la Peste come San Rocco e i Santi Cosma e Damiano. Non fu tanto facile realizzare quella nuova chiesa a soli due passi dall’accanito e aggueritissimo Capitolo dei Preti dell’Anzolo Raffael, e prima che nel 1530 la chiesa di San Sebastiano assumesse le sembianze attuali, accaddero numerosissime liti fra i Frati di San Sebastiano, la gente della Contrada e i Preti dell’Anzolo e dei Mendicoli che non volevano saperne di quella nuova chiesa che avrebbe sottratto loro troppe elemosine. Alla fine dovette intervenire il Papa, che stabilì che i Frati Gerolomini di San Sebastiano avrebbero dovuto offrire ai Preti dell’Anzolo e dei Mendicoli un contributo annuale di ½ libbra di cera bianca (cosa che venne presto tradotta in una più pratica e concreta rendita monetaria a favore del Capitolo dei Preti dell’Anzolo e dei Mendicoli).

Originariamente la chiesa di San Sebastiano possedeva un campaniletto con cuspide a cipolla con mattonelle invetriate coloratissime, e 30 Frati Eremitani di San Girolamopresero posto nel Convento adiacente “senza contare i forestieri che continuamente andavano e venivano dalla Contrada”… Dal 1555 ebbe inizio all’interno della chiesa dal ricco soffitto a cassettoni il favoloso intervento pittorico di Paolo Veronese voluto e finanziato dal Priore Veronese Frà Bernardo Torlioniche intendeva inscenare in pittura: “un grande trionfo allegorico della Fede sull'Eresia”. Tradizione vuole che il famoso pittore sia vissuto fino alla morte in San Sebastiano e nel suo Convento quasi come un recluso in prigione perchè aveva offeso e ucciso un potente di venezia e commesso altri reati.

Sempre in San Sebastiano avevano sede altre sei Schole di Devozione e Arte e Mestiere fra cui quelle di Sant’Alipioe quella di Sant’Osvaldo che i Veneziani della Contrada chiamavano spiritosamente:“Lìpio e Osvaldìn fiòi de San Bastiàn”. Ancora nel 1866 nello stesso luogo della chiesa e Convento che era stato dei Frati Girolomini de San Bastiàn, c’erano attive e residenti 34 Suore “Figlie di San Giuseppe” che si occupavano della Sezione Femminile dell’Istituto Manin per Orfani e Abbandonatidi Venezia. Le stesse Suore gestivano anche una Scuola Elementare in Contrada di San Zan Degolà nel Sestiere di Santa Croce, e nel 1880-1881 erano 21 unità a San Sebastiano presso l’Anzolo, e 11 a San Giovanni Decollato. Solo nel 1921 l’Istituto Femminile Manin venne concentrato in quello delle Zitelleo Citelle de la Giudecca… e anni più tardi durante i restauri dell’ex Convento dei Frati e della ex sede delle Orfanelle dell’Istituto Manin per trasformarlo in sede universitaria si rinvennero dei corpicini di neonati sepolti e nascosti dentro ai muri.

Ma quante cose accadevano dentro alle Contrade Veneziane ? … Comunque c’è ancora dell’altro “di curioso” che dovete conoscere accaduto nei pressi del Rio di Liza Fusina all’Anzolo. In quel angolo di Venezia accadde molto … anzi: moltissimo di più.

Già fin dal 1170-1180 esisteva nel Sestiere di Dorsoduro il toponimo di San Nicolò dei Mendicoli: “zona paludosa e di piscine”… Nell’agosto 1337 poco prima che il Maggior Consiglio decretasse l’interramento di una di quelle insieme a un’altra in Contrada di San Basilio, il Gastaldo Marco di Cavarzere da San Nicolò dei Mendicoli e Pietro Rosso di San Moisèsupplicarono e ricevettero “acqua a palata Tregolle usque a Botonigum per costruire mulini a patto che non nuoccia all’equilibrio delle acque della Laguna”… Nel 1365, invece, constatato che i Pescatori Veneziani e Lagunari ponevano di continuo graticci di canne palustri contribuendo a provocare l’interramento del Porto, se ne proibì l’infissione concedendo deroghe solo ai Pescatori di San Nicolò dei Mendicolie di Sant’Agnese ossia i Poveggiotti ... Nello stesso anno Almorò Buono di San Nicolò dei Mendicoli e Pietro Tinto dell’Anzolo Raffael contrattarono con Argiroto da Chioggia di comprargli tutte le Anguille e i Bucatelli che avrebbe pescato nelle acque affittategli da Pietro Cavazza di Chioggia ... e qualche anno dopo, il settantacinquenne dei Mendicoli: Marco Gafaro “decrepito e quasi cieco” presentò una “Petizione di Grazia” in cui chiedeva “per non dover mendicare e poter mantenere anche due neze”, d’essere nominato uno dei “Poveri Marinèri del Pèvare” ai quali il Governo della Serenissima stanziava come sussidio una parte della Gabella sul Pepe per aver servito la Repubblica. Il Gafaro aveva servito Venezia rimanendo prigioniero e ferito durante la Ribellione di Capodistria, durante la Terza Guerra Genovese, nella Ribellione di Candia, nella Guerra con Trieste, e in quella con i Carrara e di Chioggia.

Bisogna aggiungere ancora, che verso la fine del 1300 la Contrada dell’Anzoloe di San Nicolò erano quasi trapuntate da molte Istituzioni grandi e piccole che per secoli hanno fatto come da integrazione e supporto a tutto quell’andirivieni mai stanco delle partenze e degli arrivi che capitavano in quella “miserrima e ricca Contrada”, nonché ai Veneziani che la popolavano. Ce n’erano per tutti i gusti e situazioni: esisteva un Ospizio par i Pòvari” con annesso Oratorio dedicato a “Santa Maria piena di Grazia e Giustizia” voluto da un certo Prete Nobile Veneziano: Leonardo Pisani e da Fra Angelo da Corsica del Terzordine Francescano, che aveva fondato molti altri Ospizi in Romagna. L’Ospissietto venne affidato ai Romiti di San Girolamo fondati dal Beato Pietro Gambacorta da Pisa… e quello fu probabilmente il primo insediamento che portò in seguito alla costituzione di San Sebastiano.

Nel 1325 San Girolamo Miani fondò la sua prima “casa per poverelli” a Venezia in Contrada di San Basegio o Basiliodove strinse amicizia con i Nobili Lippomano che abitavano là, e in speciale modo col Nobile Andrea Lippomano che era Priore della Trinitàdei Templari(un Oratorio in Punta e Campo della Salute che non esisteva ancora in quell’epoca) dove San Girolamo Miani venne ospitato stabilmente.

Dal 1593 poi, non lontano dalla chiesa dei Carminie dall’Ospizio Priuli in Calle dei Vecchi, e a solo due passi dalla Contrada dell’Anzolo era sorto il complesso chiesa-Ospedale di Santa Maria Assunta del Soccorso dove “le pentite” erano state riunite in un nuovo Ospissio con Oratorio, chiostro, corticelle ed orto chiamato comunemente “Il Soccorso”. Fin dal 1580 la belladonna Veronica Franco figlia di Battista Franco detto Semolei, poetessa, celebre cortigiana Veneziana, amante fra gli altri di Enrico III Re di Francia (che si portò oltrAlpe un suo ritratto), decise di interessarsi ed accogliere in quel posto: “prostitute anziane e indigenti interessate da grande miseria ed emarginazione”. Con l’aiuto di suoi conoscenti Nobili, la Franco iniziò prima ad ospitare le “donne traviate” in alcune caxette in Contrada San Pantalon verso la chiesa dei Tolentini, in Contrada San Trovaso, e in Contrada di San Piero di Castelo, poi le concentrò tutte nella nuova e più capiente istituzione nei pressi dell’Anzolo.


(Santa Maria del Soccorso per le "donne perdute".)
Scriveva Giovan Nicolò Doglioni nel 1613: “… poche città puono eguagliarsi alla città di Venezia nella pietà et nel mantenir con elemosina i poverelli et specialmente che si ritrovano né luoghi dedicati ad Opere Pie. Che, tralasciando le tanti e tanti Monasteri di Frati e di Monache mendicanti, ecco i bambini nati di nascosto et abbandonati da padre et madre hanno luogo comodo per allevarsi nell’Hospitale della Pietà ... Gl’infermi di mali incurabili con piaghe et tumori han l’Hospitale dell’Incurabili a ciò deputato. Quegli altri poveri, non con tanto male, sono soccorsi nell’Hospital di San Giovanni e Paolo. Li meschini malamente feriti han lor ricovero in San Pietro e San Paolo di Castello. Quelle donne che dal mal fare si rimettono e si danno al far bene sono raccolte nel Monasterio delle Convertite. Le giovanette già da marito che stanno in eminente periglio di cadere in peccato son levate da alcune Matrone primarie della città, et anco a forza condotte et chiuse nel Luogo delle Citelle. Quelle donne che maritate, non però voglion vivere caste, si conservano ben guardate nel Soccorso. Vi sono anche altri Luoghi Pii et Fraterne …”

Alcune cronache Veneziane raccontavano inoltre: “Nel marzo-novembre 1594 sotto la direzione del Proto Simon Sorella si decise la creazione di due dormitori e un laboratorio con camino verso Cà Moresin ... La casa consisteva in tre soleri con due pozzi nel cortile, di cui uno nel luogo in cui si doveva costruire la cucina ... Nel 1599-1600 si pagarono i banchi della chiesa e i decoratori e stuccatori, segno che tutta l’opera doveva essere terminata … L’istituzione retta da appositi Governatori che curavano anche la sistemazione delle ragazze indirizzandole a matrimonio o  ai Monasteri, ebbe sempre patrocinio e aiuti sia da Privati Veneziani, che da altre istituzioni come il Consiglio dei Dieci che assegnava al Soccorso legna, burci d’acqua e altri generi … nel 1597 Carletto Benedetto Caliari fratello di Paolo Veronese dipinse per l'altare dell’Oratorio una pala raffigurante: “la Beata Vergine sopra le nubi e quattro donne pentite inginocchiate” … Il Piovano dell’Anzolo canta Messa nella chiesola della “Pia Casa del Soccorso” il giorno della Festa il 15 agosto …”

Tutta questa realtà assistenziale accadeva proprio sul“principiàre”, sul bordo della Contrada dell’Anzolo, al cui interno c’era ben di più ... Non se ne conosce l’esatta ubicazione di un tempo, ma all’Anzolo c’era, ad esempio, anche l’Ospeàl de la Trinità. Sembra sorgesse in Fondamenta della Pescheria proprio accanto alla Fondameta de Liza Fusina. Consisteva in un gruppo di caxette assegnate "Gratis et Amore Dei"ai poveri della Contrada e amministrato dai Procuratori de San Marco de Ultra. C’era insomma all’Anzolo una specie di piccola enclave socio-sanitaria simile a quelle che esistevano in molte altre parti di Venezia, (nel Sestiere di Cannaregio nella zona di San Giobbe, ad esempio, o a Sant’Anna di Castello).
Poco distante dall’Ospeàl de la Trinità sorgeva fin dal 1200 anche un certo Ospeàl de San Leone o de San Lio “in bocca fluminis”, che doveva trovarsi di certo fra San Nicolò dei Mendicoli e l’Anzolo Raffael proprio sulla Fondamenta Lizza Fusina. Anche quel luogo di cui oggi non è sopravvissuta alcuna traccia, era uno dei tanti Ospizi per Pellegrini, Forestieri e Viandanti che mettevano piede a Venezia in transito per la Terra Santa o per curare i loro affari.


(luogo dell'Ospizio di San Leone in Bocca Fluminis)
Sempre nella stessa Contrada era presente anche l’Ospizio Balbi (ancora attivo nel 1834), che dava ricovero a 7 povere vedove offrendo loro anche un contributo mensile di 4,70 lire. Nei pressi del vicino Ponte dell’Arzere, quindi solo a pochi passi dalla Fondamenta Lissa Fusina, sorgeva pure l’Ospizio Fusco o Pusco che era un’altra “Opera Assistenziale” fondata col testamento di Bernardo Pusco del gennaio 1475. Costui dispose per la costruzione di una “Casa-Ospealètto” di sei stanze per donne povere e sole alle quali veniva assegnato l’alloggio "Gratis et Amore Dei", e per mantenere viva l’istituzione lasciò le rendite derivanti da circa 80 campi situati in Villa di Rugoletto.
Ancora nel 1724 malgrado l’amministrazione di quell’Opera Pia spettasse ai tre Piovani di San Nicolò dei Mendicoli, dell'Anzolo Rafael e di San Basegio nominati esecutori perpetui delle volontà di Bernardo Pusco, non si sa bene perché e tramite quali transizioni, i beni dell'Ospissio finirono nelle mani private degli eredi di GioBatta Silvestrini e Dante Zorzi. Avvenne così un intenso contendere fino a quando tutto venne avocata dal nuovo Stato e incamerato dal Demanio nel 1806.


(L'Ospizio Contarini a San Nicolò dei Mendicoli accanto alle Terese.)
Poco più avanti verso San Nicolò dei Mendicoli esisteva e c’è tuttora (amministrato dall’IRE di Venezia, ma oggi occupato da Studenti e attivisti dei Centri Sociali) l’Ospizio Contarini, ossia quella casetta gotica con trifora in facciata e corte prospicente che sorge proprio accanto alle Terese(sulla destra). L’Ospissio venne fondato per testamento nel maggio 1462 dal NobilHomo Zuanne Contarini(omonimo di quello di Cannaregio, vissuto però un secolo prima). Il Patrizio Contarini dispone per la costruzione di un Ospizio di 5 stanze da assegnarsi ad altrettante “donne nobili decadute e impossenti” alle quali venivano concesse anche 4.70 lire al mese per il loro sostentamento ... Alla fine del 1400 e inizio 1500 proprio lì accanto Zan de Bernardin gestiva una rivendita di pane, mentre Nicetta era moglie di Alessandro che era Calegher ma faceva il Pescaòr, e Zan Antonio Manzoni lavorava da Frutariol a San Nicolò.
Per far fronte alla situazione d’intenso disagio sociale di quelle Contrade, negli stessi anni i Procuratori De Citra amministravano ben 11 “Alberghetti-Ospizi” dati “Amore Dei”, e alcune serie di caxette lasciate da Zuanne Contarini, da Filippo Morosini, e dalla Scuola Grande di San Rocco che possedeva nella Corte omonima e in Fondamenta dei Cereri ben 70 caxette in legno concesse “Amore Dei” a galeotti e Veneziani poveri.

Nel 1537 uno Squerarioldi San Nicolò dei Mendicoli denunciava di possedere: “… una casa marcia abitata da un pover homo che non ha niente al mondo e non paga affitto da due anni …”

Nel 1564 abitavano la Contrada di San Nicolò dei Mendicolie dell’Anzolo almeno 6.000 persone: “tutte povere e bisognose d’elemosina” ... Nel 1575-1576 s’affacciò ancora una volta la Peste, e  “… per riguardo di salute …”vennero bruciati tutti i documenti e le suppellettili della Parrocchia. Dieci anni dopo il censimento della Contrada contò in tutto: 981 nuclei familiari con 3.992 abitanti. La Peste aveva segnato ancora una volta le persone delle Contrade.
Ciò nonostante i Nicolottifecero di San Nicolò dei Mendicoli il “salotto buono della Contrada”spendendo migliaia di ducati. Si costruì l’Iconostasi a tre arcate e con catene di ferro per sostenere il tetto dell’edificio che tendeva ad inclinarsi verso sud. Si demolirono matronei e logge, s’affrescò il Presbiterio decorandolo gli archi gotici a fregi floreali, si sostituì il vecchio altare di legno di San Nicolò costruendone uno di pietra, e si costruì l’organo.

Per far tutto questo tutte le Schole della Contrada si tassarono di 8 soldi per ogni Confratello … Ma non era tutto oro quello che luccicava.

Nel dicembre 1585, infatti, si arrestò mettendolo in carcere per più di un anno: Prè Jacomo Comin della Contrada di San Nicolò dei Mendicoli, zoppo, paralizzato e malato da ictus. Era stato denunciato dalla gente della Contrada con “tre comari” come testimoni, “perché considerato un falso stregone e guaritore, e imbroglione di povere donne”. Quando comparve in tribunale davanti ai Magistrati del Santo Uffizio si buttò in ginocchio davanti all’Inquisitore pregandolo di venire assolto. Non negò d’aver commesso “strigarie”, e affermò d’aver restituito i soldi alla vedova Orsetta che aveva a lungo imbrogliata. Approfittando della sua funzione di Prete e della fiducia che godeva da parte della gente, aveva decretato che la figlia della vedova “era posseduta dal Demonio e soggetta a fattura”. Aveva inoltre chiesto alla donna 24 lire per farle arrivare delle speciali medicine da Padova per guarirla, e in seguito le aveva anche detto che doveva procurarsi 44 libbre di “medicine contro il Demonio”, che doveva far celebrare: “alcune Messe sopra l’acqua”, e appendersi al collo: “un bollettino con parole magiche”. Una vera e propria imbrogliata ad opera d’arte, insomma, per la quale Prè Comin aveva ricevuto dalla donna in più riprese ben 13 ducati e ½ senza che la figlia avesse sortito alcun beneficio.
Venne “svestito e depennato dalla Religione”.

Nel 1589 quelli della Contrada di San Nicolò erano di nuovo 4.186 divisi in 996 nuclei familiari. Vivevano soprattutto da Pescatori, anche se in Contrada alcuni lavoravano come: Samiteri, Tesseri e Filacanevo… e in Contrada c’erano attive: 56 botteghe … Nel 1592 si chiuse il Portico di San Nicolò con delle grate e dei cancelli “per ragioni di scarsa moralità pubblica che accadevano lì sotto e dentro”; si costruì il Battistero e si rifece il portale della chiesa; e si notò che l’edificio continuava ad inclinarsi verso sud anche a causa delle infiltrazioni d’acqua che rovinavano teleri e soffitto.
In quegli stessi anni il Piovano Salomon Lando affermava: “… si cerca elemosina per li poveri della Contrada nella mia chiesa, ma si trova poco et quasi niente et quel poco che si trova vien dispensato da me a quelli che son più in bisogno … Non credo che in tutta Venezia esista una Contrada più povera della mia.” … e Arzentese degli Arzentesi lasciando per testamento 2.000 ducati a quelli di San Nicolò, argomentò: “… perché con il pro di quelli si possino maridare tutte donzelle della Contrà di San Nicolò … fie de Pescaòri … e per destuàr i miei peccati …”

La zona dell’Anzolo e di San Nicolò era in ogni caso vispissima e molto movimentata: un Codice della Marciana racconta con alcune varianti:“… 1615 febbraio ... Ser Pietro Vitturi quondam Ser ZoBatta: fu di notte a San Sebastiano, mentre se ne andava a casa, con un'archibugiata ucciso, et fu detto esser stato un suo Prete di casa.”

Alla fine del 1600 e inizio 1700 nella Pistoria della Contrada di San Nicolò si consumavano: 3.734 stara di farina, le botteghe aperte erano scese a 41 …e le Confraternite: “… spendono per abbellir la chiesa et mantenir li loro altari che in tutta la loro povertà hanno speso in 26 anni intorno 12.000-13.000 ducati.”… e alcuni membri della Parrocchia di San Nicolò tentarono la fortuna al Gioco del Lotto giocando: “3-36-72” “che il Piovano per giocare si vendette anche le caldàre di casa parrocchiale …”

E non vi ho detto ancora tutto … L’intera zona della Fondamenta di Liza Fusina poi, era quasi “presidiata”da una presenza “massiccia” di donne Pizzoccare e Terziare, che come altrove a Venezia caratterizzavano la vita delle Contrade con la loro identità particolare. La Contrada dell’Anzolo era detta a Venezia: “il Pizoccheraio et il Loco de le Orsoline” per via del nutrito numero di donne di quel genere che abitavano la zona.
Un certo numero di Pizzocchere vivevano nell’Ospedaletto della Maddalena sito sull’omonimo Ponte e Calle dell'Anzolo Raffael, proprio affacciato sul Cimiterietto della Contrada di cui curavano i Morti. L’edificio esistente ancora oggi era di fatto un altro Ospizio per sette vecchie con annesso un Oratorio dedicato a Santa Maria Maddalena. Non dico né aggiungo niente di più al riguardo, ma nella stessa Calle proprio ai piedi del Ponte e affacciata sul Canale di San Bastiàn sembra sorgesse anche una locanda appartenente ai famosi Cavalieri Templari che risiedevano stabilmente a Venezia. Era ovvio, se ci pensate, che personaggi così facoltosi e potenti possedessero proprio lì un comodo “piede a terre” dove si giungeva a Venezia. La vicinanza quindi solo a due passi dell’Ospizio intitolato alla Maddalenarichiama forse coincidenze non proprio coincidenze con quel tema così ostico e mistico così caro ai Cavalieri Templari. (Ricordiamolo sottovoce: la Santa Maria Maddalena si è giunti a pensare e affermare che fosse stata la “fidanzata, la donna” del Cristo-Gesù ... Lo si è detto e creduto per secoli, perciò perché nasconderlo e non riportarlo fra le note storiche di oggi ? … I Cavalieri Templari prima che Papa Clemente V e Filippo il Bello li arrostissero depredandoli vilmente di tutti i loro averi, non era affatto atei e miscredenti, ma uno dei cuori pulsanti della Cristianità, anche a Venezia ... Quindi … Ma questa è un’altra storia.)


(La casa delle Pizzocchere dell'Anzolo e il Beato Pietro Acotanto.) 
L'Ospedaeto delle Pizzocchere della Maddalenacon corte interna e Oratorio venne fondato sul Campo drìo del Cimitero” nel 1361 per dare ricovero a persone indigenti e “Poveri de Cristo", tramite una donazione di due fratelli: Gabriele e Luciano Prior. Lo stesso Luciano Prior col testamento del maggio 1376 redatto presso il Notaio Pietro Corrosatis Piovano di San Barnaba, lasciò tutti i suoi beni all'Ospedaeto. Perciò com’era tradizione a Venezia, si costituì un’apposita Commissaria (di sei persone prima, poi di quattro, poi di un solo Procuratore) per provvedere alla gestione di quel consistente patrimonio.
Un secolo e mezzo dopo la sua fondazione, le finanze quasi esaurite dell’Ospealetto vennero integrate dai Nobili Corner de la Regina di San Cassiano che fungevano da Procuratori dell’Ospizio. Nel 1661 l'Ospedaeto era indicato come uno dei tanti luoghi Veneziani occupato stabilmente, Gratis et Amore Dei”, dalle Pinzòcare dell’Anzolo che erano un gruppo di sette-otto Terziarie Francescane: vedove o donzelle, scelte dagli stessi Corner della Regina. Ancora a metà del 1700 il NobilHomo Zorzi et fratelli Cornaro fu de Ser Andrea Procuratori dell’Ospissio della Maddalena cercarono più volte d’entrare in pieno possesso dell’intero patrimonio spettante al piccolo complesso assistenziale e devozionale occupato dalle Pinzocchere della Maddalena.
Le Pizzocchere Terziarie, ovviamente, insorsero e si opposero tenacemente temendo di perdere la libertà e le loro prerogative Devote, Laiche e di Carità ... nonché l’alloggio gratuito. Nel 1761 tramite Giacomo Trevisan loro Procuratore e Avvocato presentarono ricorso ai Proveditori Sora agli Ospeài, i Lochi Pii e per il Riscatto degli Schiavi”, e dopo un lungo altercare e ben due sentenze contro Girolamo Corner e a favore delle Pizzocchere, ottennero ragione e il diritto d’eleggersi indipendentemente una loro Priora ... (in barba ai privilegi, ai controlli, alle imposizioni e alle avidità dei Corner de la Regina).
Solo la soppressione napoleonica con l’incorporazione Demaniale dei beni spense l’impeto e l’ardore delle Pizzochere della Maddalena e dell’Anzolo, sebbene l’Ospedaletto non abbia interrotto mai la sua attività ricettiva e assistenziale-caritatevole per i miseri e la gente della Contrada, che continuò fin quasi ai giorni nostri. Oggi l’ambiente è sotto l’egida dell’I.R.E. del Comune di Venezia, e ospita ancora anziane sole autosufficienti.

Vi sembrerà strano, ma a Venezia niente lo è … Appena al di là dello stesso Canale di Liza Fusina, proprio di fronte all’Ospizio della Maddalena e alla facciata principale della chiesa dell’Anzolo, esisteva un altro Pizzoccheraio. Era quello delle Terziarie di San Francesco, che vivevano in perfetta sintonia d’intenti con quelle che abitavano al di là del Rio e del Ponte. Entrambi i Pizzoccherai fungevano da “longa manus, occhio e orecchi”dei Preti della Contrada dell’Anzolo e dei Mendicoli “che vigilavano su tutto e tutti guidando le loro Pecorelle Veneziane”.

Anche in questo caso, non si trattava di un semplice Ospizio, ma piuttosto di un vero e proprio antichissimo Convento dismesso e occupato in seguito dalle Pinzocchere. Per la sua consistenza, per la capienza, le numerose caxette e gli ampi orti annessi sul retro, il Pizzoccheraio era detto: “la Cà Grande dell’Anzolo”. Il complesso era sorto nel lontano 1207 per volontà e finanziamento della Nobile Famiglia Acotanto, e inizialmente era stato anch’esso destinato ad essere un “Grande Pelegrinaio” a disposizione dei Pellegrini che giungevano a Venezia sulla Fondamenta di Liza Fusina diretti in Oriente e in Terra Santa. Ben presto, forse già dal 1288, l’edificio divenne però Loco de le Pizzocare Terziarie dell’Anzolo Raffael alle quali Papa Nicolò IV destinò un apposito Prete Visitatore e Confessore. In seguito il Pio Luogo de le Pizzocchere de la Ca’ Granda dell’Anzolo ebbe vita Religiosa fiorentissima e di lodevole qualità benefica per tutta le Contrade Veneziane e non solo. Tanto è vero che proprio da lì uscì nel 1355 Lucia o Luigia o Luisa Tagliapietra che dopo la morte venne proclamata: “Beata per le sue grandi Virtù”… e sempre lì in quella “Casa-Conservatorio de le Pizzocchere” nel 1652 il Patriarca concentrò “in buon numero”riordinandole, tutte le Pizzocchere Veneziane abituate a gironzolare per tutta la città dando origine a dicerie, situazioni e illazioni di ogni sorta.

Nel 1537: Suora Maria “Ministra de le Pinzochare dell’Anzolo Rafael” scriveva alla Signoria di Venezia presentando la sua “Condizione”: “… do in nota quelo che nui povere abiamo al mondo qual in esta casa tuto per l’amor di Dio et ala nostra povera informaria: abbiamo diexe povere inferme qual non si po’ mover di leto oltra altre 44 done constitute in suma miseria e calamità chè zerto come pui de soto veder Vostre Signorie non abbiamo il viver per mesi doi, tamen con ogni realtà diremo quelo se atroviamo et le Vostre Signorie pietosissime in quelo potrà aiutàr il nostro poverissimo loco semo certe che el farà oferendosi nui tute pregar la Maiestà de Dio per questa Benedeta Repubblica …”

In realtà al di là del modo aulico e tradizionale di supplicare tipico di quell’epoca, il patrimonio e le risorse delle Pinzocchere dell’Anzolo erano notevoli, e le Pizzocchere non erano affatto miserevoli e poverissime. Nel 1661 le Pinzochere Terziarie dell’Anzolo percepivano rendite per 355 ducati annui da immobili posseduti in Venezia ... Nel 1712 le stesse rendite erano aumentate a 611 ducati annui, e dopo oculate operazioni di mercato nel 1740 erano arrivate ad essere: 1.234 ducati … In quello stesso anno in Corte del Pignater all'Anzolo Raffael, Antonio Martire lavorava in una bottega da Pignater “pagando pigione all'Eccellentissimo Roberti” ... mente il Forner Martino dalla Val Daura cucinava pane per le donne della Contrada che poi lo rivendevano contravvenendo alle leggi vigenti della Serenissima.

Ancora nel maggio 1765 il Murèr Pietro Pelli rilasciava una scrittura che attestava le spese per il restauro e ampliamento del Locho delle Terziarie Pinzocchere dell’Anzolo Raffael… Nel 1812 dopo il travaglio distruttivo napoleonico, gran parte dell’ampio edificio venne occupato e utilizzato dall’Istituto per l’Educazione Femminile fondato nel 1807 in Parrocchia di San Basilio dal Prete Filippino dell’Oratorio Pietro Sanzonio. Sempre lì dal 1841 incorporando il vicino Palazzo Minotto gestivano il Convittole Oblate Filippine di San Filippo Neri“inventate”dal Prete Antonio Vascòn, che erano: 47 nel 1866, e ancora 40 nel 1880-1881. Oggi di quel maestoso complesso rimane solo una nuda facciata brulla e gli orti Comunali coltivati dagli Anziani del quartiere: tutto è stato demolito e atterrato ... rimane la Storia.


(il Rio di Liza Fusina con le "lissie per le merci" sui lati, e la Casa del Grande Pizzoccheraio dell'Anzolo sulla destra.)
Come non bastassero le Pizzochere, sempre nella stessa zona e lungo il Canale e la Fondamenta di Liza Fusinac’erano anche le Orsoline ossia delle: “Pie Donne appartenenti alla Compagnia di Sant’Orsola che si dedicavano all’educazione delle Orfanelle”. Costoro occupavano due Ospizi distinti nei pressi di Santa Marta e in Calle delle Colonnette nella Contrada dell’Anzolo Raffael. L’ “Opera delle Orsoline dell’Anzolo, di San Nicolò e di Santa Marta” ebbe inizio nel maggio 1573 su iniziativa di Scipione Bardi che donò per testamento due “blocchi di caxette” in Contrada dell’Anzolo e Santa Marta-Mendicoli perché fossero destinate a ricovero di donne iscritte alla Compagnia di Sant’Orsola ... Le gentildonne della Compagnia de Sant'Orsola di concerto coi Governatori della Congregazione dei poveri Vergognosi assegnavano le dieci camere “Gratis et Amore Dei … finchè paresse loro" a vedove con figli in età non superiore ai sei anni. In cambio le vedove dovevano impegnarsi ad insegnare Dottrina Cristiana alle fanciulle della Contrada.

Fra 1712 e 1764, quando Adriana Corner e Giustiniana Priuli Garzoni prima, e Maria Barbarigo Dolfin della Contrada di San Trovaso dopo erano Procuratrici, le Orsoline riscuotevano i loro “prò in Zecca”(interessi su deposito di capitale) ... Il Nobilomo Alvise Barbarigo del Ramo della Terrazza amministrava a sua volta i due “Pii Ospissi”, e produceva tutta una serie di “polizze di spesa” per costruire e mantenere i luoghi delle Orsoline, fornire loro gli emolumenti spettanti nelle festività, e firmava le quietanze “per le Messe” usando i beni del lascito di Ottavia Antichio… Successive furono le quietanze dell’Orsolina Angela Merlo, e della Priora Elisabetta Pilosio per spese di chiesa ed emolumenti; “per assegni lasciati da Giustiniana Priuli Gussoni”; “per il vitalizio stipulato dai fratelli a favore di Angela Merlo divenuta Orsolina”; “per le disposizioni testamentarie di Maria Bragadin con inventario dei beni lasciati alle Orsoline”; “per le donazioni di beni a Chioggia da parte di Domenico Fattorini all’Orsolina Margherita Vianelli”, e circa la concessione da parte del Comune di un terreno contiguo alla Sede della Congregazione delle Orsoline dell’Anzolo e San Nicolò.

Sfogliando il “Brogliaccio di cassa delle Orsoline”, si evince che nel 1740 erano considerate “indigenti”sebbene possedessero piccoli capitali depositato al Monte Novo, Novissimo e al Sal, riscuotessero una rendita annuale di 21 ducati da beni immobili in Venezia, e gestissero lasciti testamentari a loro favore come quelli di Marietta Foscarini, Giulia De Rossi, Chiara Colombara, Paolina Fedeli, oltre a quello fra l’Orsolina Lucietta Milanie la matrigna Francesca Alborelli, e quell’altro di Elena Corner Governatrice delle Orsoline che fece Procura a Ortensio Zaghi. Non morivano affatto di fame le Orsoline … e ne godevano in qualche maniera anche tutti i miseri delle Contrade che “le contenevano”.

Ancora fra 1770 e 1772, Antonia Loredan Guiberti donò alla Congregazione delle Orsoline una terra a Santa Marta con l’obbligo di edificarvi sopra due caxette ... e nel novembre 1789 i Provveditori al Sale con apposito decreto consegnarono del sale alle due comunità delle Orsoline.

Dopo la caduta della Repubblica Serenissima, e alla Visita del Patriarca Flangini nel settembre 1803, le 14 Orsoline rimaste nell’Oratorio di San Nicolò erano ancora vive e vegete, concedevano a livello ad Antonio Privato una casa sita in Contrada dell’Anzolo Raffael, ed erano ancora capaci di prendersi cura di 24 educande. Tre anni dopo però, il Commissario Delegatotrovò solo 4 Orsoline nel “miserabile Istituto”, di cui una era pazza, e la Superiora si dichiarò pronta a firmare il verbale di chiusura dell’Ospizio, ma non disposta a trasferirsi a Murano insieme alle altre Orsoline rimaste. Voleva andare a trovare riparo in casa del Piovano di San Nicolò dei Mendicoli che era consenziente, perciò il Prefetto di Venezia lo rimproverò per “tanto arbitrio e imprudenza”, e siccome costui cercò di giustificare le Orsoline dicendo che non erano tenute alla clausura e quindi potevano andarsene liberamente dove volevano, anche trovandosi una casa a piacimento, il Prefetto costrinse il Piovano dei Mendicoli a trasferire entro sera e concentrare a sue spese tutte le Orsoline rimaste in Contrada dell’Anzolo presso il Monastero delle Dimesse di Santa Maria di Murano. Così gli Ospissi delle Orsoline delle Contrade dell’Anzolo e dei Mendicoli vennero soppressi cessando la loro plurisecolare attività.

Ma non vi ho detto ancora tutto … Abbiate pazienza, e spero siate curiosi … Sempre nella stessa zona popolare e a volte un po’ dimessa, poco distante dalla Fondamenta di Liza Fusina, prese posto anche un’altra presenza significativa definibile come Schola-Oratorio di San Filippo Neri e di San Girolamo.
“Un’altra Frataria !”direte … No … E’ stata una cosa un po’ diversa.

(L'Oratorio dei Filippini a San Nicolò dei Mendicoli) 
Nel 1697 la Cronaca Veneta di Padre Antonio Pacifico raccontava dell’esistenza fin dal 1617 nei pressi di San Nicolò dei Mendicoli di un: “… Oratorio attaccato alla chiesa con più di 200 buoni fratelli che qui posto vi recitano l’ufficio della Beata Vergine con altri esercizi di Cristiana Pietà…”

“Ecco ! … Avevamo ragione !” ribadirete di nuovo … E, invece, no.

Non si trattava della solita Scholetta Devozionale legata alla Preteria Veneziana, si trattava, invece, di un’Interessante iniziativa associata alla Congregazione della Santa Pugna Spirituale degli Oratori di San Filippo Neri: il “Padre degli Oratori”, che ebbe anche a Venezia grande adesione e costanti iniziative. E’ vero ! … Il nome un po’ pomposo potrà anche ingannare … Ma bisogna innanzitutto pensare che in quegli anno si era in piena epoca d’espansione del movimento Quietistain cui si idealizzava e privilegiava il rapporto spirituale diretto “di Pace con Dio” scavalcando l’intermediazione Ecclesiastica, e dimenticando soprattutto l’aspetto pratico della Carità Cristiana dovuta ai poveri. In altre parole la Religione correva ancora una volta il rischio di ridursi a “un fai da te diretto con Dio” in barba ai bisogni dei più poveri ch’erano lasciati a se stessi.

L’esperienza degli Oratori di Filippo Romolo Neri (1515-1595) si proponeva giusto il contrario … E “la cosa”, l’esperienza insomma, ebbe successo.

Filippo Neri era un tipino perlomeno singolare se non curioso il cui carisma e stile giunse e si diffuse fino a Venezia: tanto è vero che è stato considerato a lungo uno dei “compatroni”della città Lagunare insieme a San Marco, San Teodoro o Todaro, San Lorenzo Giustiniani e gli altri. Quindi Filippo Neri per Venezia non fu un Santo qualsiasi, uno dei tanti … ma un personaggio che lasciò il segno in Laguna … per secoli.

Filippo Neriera fratello di Caterina, Francesco e Lucrezia figli di un Notaio di Firenze che dal 1524aveva intrapreso la strada dell'Alchimia dopo essersi risposato con Alessandra di Michele Lensi. Filippo ebbe un successone a Roma prima che altrove, dove venne considerato il “Secondo Apostolo di Roma, il Santo della gioia, e il Buffone e Giullare di Dio”. Nato a Firenze in Contrada di San Pier Gattolino, dopo aver ricevuto istruzione in famiglia e da un certo Mastro Clemente, andò a studiare nel Convento di San Marco di Firenze dov’era attivo il famoso Frate Domenicano Girolamo Savonarola… Sì proprio lui: lo scomodo Frate Predicatore che pestò i piedi a Papa Alessandro VI Borgia finendo arrostito sul rogo il 23 maggio del 1498.

A 18 anni, Filippo venne inviato a Cassinodallo zio Bartolomeo Romolo per essere avviato alla professione di Mercante, e a tale scopo costui gli lasciò in morte tutti i suoi averi, cioè: 20.000 scudi. Filippo però rifiutò tutto per dedicarsi a una vita religiosa e di preghiera particolare che stava insolitamente a cavallo fra il misticismo spinto delle Laudi di Jacopo da Todi e la comicità disincantata e un po’ dissacrante delle Facezie del Pievano Arlotto. Filippo insomma era un uomo “di Religione” ma un po’ insolito, “fuori dal coro”, diverso dai soliti Preti e Frati dell’epoca.

Nel 1534si trasferì come Pellegrino in una Roma che trovò corrotta e pericolosissima. Lì per mantenersi fece il precettore di Michele e Ippolito Caccia, figli di Galeotto Capo della Dogana Pontificia in cambio di un sacco di grano che convertiva in pane da un vicino fornaio. Vestito poveramente, viveva quasi da eremita per le strade di Roma dormendo sotto ai portici delle chiese e in ripari di fortuna. Contemporaneamente intraprese studi di Filosofia all'Università della Sapienza e di Teologia presso l’Agostinianum, dove nel 1537 vendette i libri per offrire il ricavato al calabrese Guglielmo Sirletoin cerca di fortuna, che poi divenne Cardinale.
Dopo aver contattato Ignazio di Loyola (fondatore della Compagnia di Gesù dei Gesuiti), Filippo Neri iniziò un’intensa opera d’assistenza degli infermi e bisognosi dei sobborghi di Roma cofondando la Confraternita della Carità e dei Convalescenti negli Ospedali degli Incurabili di San Giacomo e Santo Spirito. Lìconobbe pure (San)Camillo de Lellis, e iniziò pure a dedicarsi con la Confraternita della Trinità dei Pellegrini all’accoglienza dei viandanti e Pellegrini accolti a Roma nell’anno Santo 1550.

Quello che però occupò maggiormente Filippo rendendolo un personaggio interessante, fu l’interesse per i ragazzi di strada diCampo de' Fiori e Trastevereche lo deridevano e beffeggiavano presentandogli di continuo delle prostitute. Si raccontava di lui, che una cortigiana Romana aveva scommesso di farlo capitolare col la messa in mostra delle sue grazie. Filippo, invece, si diede alla fuga, con la donna, che persa la scommessa, gli tirò dietro uno sgabello indispettita. Filippo spiegò: “...le tentazioni si vincono resistendo ad esse, ad eccezione di quelle carnali, dove la cosa migliore è solo fuggire.”… e contraccambiava i ragazzacci proponendo loro oltre le celebrazioni religiose anche di divertirsi, cantare, studiare e giocare insieme. Era nata così l’esperienza degli Oratori del Divino Amore, che nel 1575 venne riconosciuta e costituita da Papa Gregorio XIII come Opera e Congregazione degli Oratori.
Filippo Neri era quindi “un uomo del buon umore nonostante tutto”. Diceva, infatti: “Fratelli, state allegri, ridete pure, scherzate finché volete e potete, ma non fate peccato!”… Sua era pure la frase: “Te possi morì ammazzato ! ... pe' la fede però !”, aggiungeva spesso.
Filippo divenne Prete solo a 35 e dopo una lunga insistenza dei suoi amici, e fra alterchi, critiche, invidie e dispetti e offese anche da parte del Clero e degli alti Prelati Romani, nonché dei suoi stessi Confratelli che gli rubavano perfino le scarpe. Continuò la sua opera a favore degli ultimi di Roma fondando la Compagnia del Divino Amore in un granaio sopra la navata della chiesa di San Girolamo della Carità di Roma. Si raccontò ad esempio, che il Cardinale Virgilio Rosari diffamandolo gli proibì persino di celebrare Messa e Confessione. A tal proposito si mise in giro la voce che diceva che Filippo, che chiamavano per Roma: “Pippo il Buono”, avesse imposto a una donna che aveva il vizio di sparlare degli altri, la penitenza di spennare per strada una gallina morta provando poi a raccogliere tutte le penne volate via. Spiegò poi alla donna che quel gesto era simile al suo sparlare: le sue parole maliziose si spargevano ovunque e non si potevano raccogliere più ...

Divenuto amico e consigliere del famosissimo Cardinale Milanese Carlo Borromeoche provò in tutti i modi a portarselo a Milano, desistette dal desiderio di recarsi ad evangelizzare le Indie Orientali, rifiutò la carica di Cardinale, istituì il Giro-Pellegrinaggio delle Sette principali Chiese di Romail Giovedì Grasso del 1552 in opposizione ai festeggiamenti del Carnevale che coinvolgeva grandemente anche tutto il mondo Ecclesiastico, e ormai soggetto a grave malattia che lo portò a morte ottantenne, ebbe la soddisfazione di vedere l’attività dell’Oratorio diffondersi anche a Napoli, Viterbo, Macerata, Torino, Palermoe Lodi.

Filippo Neri, il “Papà degli Oratori”, possedeva un genuino modo popolare di proporre la Religione, le Scritture, la Dottrina e i Sacramenti della Chiesa in maniera allegra e accattivante oltre che generosa verso chi aveva veramente bisogno. “I Filippini Oratoriani” erano persone semplici, fattive, schiette e immediate, prive del benestante cipiglio spesso borioso dei classici Monasteri e Congreghe Ecclesiastiche Preteresche. Non ebbero quindi difficoltà ad integrarsi perfettamente nella popolare Contrada Veneziana dell’Anzolo Raffael dove si prestarono a favore di chi aveva bisogno, stinsero amicizie, condivisero, visitarono i malati, fornirono pasti gratuitamente ai poveri, accompagnarono i moribondi con una “buona Morte”, e favorirono “l’atteggiamento spirituale giusto”dei Veneziani di quegli anni.


(San Nicolò dei Mendicoli: il "Salotto buono dei Nicolotti e di tutti quelli della misera Contrada"... Lì finiva e iniziava Venezia)
Ovviamente nel 1806 anche quel posto dei Filippini Veneziani venne soppresso e incamerato nel Demanio del nuovo Stato. Tuttavia, seppure in forma e maniera più ridotta, l’Associazione dell’Oratorio rimase attiva fino ad oltre il 1917 compilando un proprio Libro Cassa con resoconti e consuntivi, registrando numerosi Confratelli e Novizi, e distribuendo diverse Cariche a ciascuno di loro. L’Oratorio dell’Anzolo e San Nicolò: “… teneva Lodi et Missae, il Duadenario di San Filippo Neri, et Divoti Esercizii necessari alle Anime Cristiane … Celebrava il Rito divoto per l´Esercizio dell´Adorazione di Gesù Cristo Crocefisso che si fa ogni sabbato verso sera, e le Meditazioni e Conferenze sopra gli Evangelj e sopra la Dolorosa Passione di nostro Signore Gesù Cristo ad uso delli Confratelli della Congregazione della Pugna spirituale sotto il titolo de´ Santi Girolamo Dottore e Filippo Neri … che si trovano scritte nelli otto tomi esistenti nell´Oratorio di San Niccolò in Venezia ...”
In seguito nello stesso stabile venne ospitata una Schola dei Morti, e più tardi l’Apostolato del Mare o “Stella Maris”, prima d’essere utilizzato come cinematografo parrocchiale da 150 posti ... Il dipinto delle “Nozze di Cana” realizzato da Alvise dal Friso per l’Oratorio dei Filippini venne rinvenuto accartocciato in un angolo della Sacrestia di San Nicolò (ora viene conservato all’Anzolo).

Vi può bastare ? … Le Contrade di San Nicolò dei Mendicoli e dell’Anzolo sono state comunque ancora molto di più. In quel posto Veneziano definito “miserrimo” venivano ospitate almeno una quindicina di Schole Devozionali e d’Arte e Mestiere diverse. Fra queste s’annoverava la Fraglia dei 38 Remurchianti: “… che vogando in alcuni grossi battelli, sogliono attaccare delle corde alle navi ed alle barche per trarle al sito proposto”; la Scola-Compagnia delle Donne di Sant’Annache fino al 1803 possedeva 6 casette a Santa Marta concesse in uso come sempre: “Gratis et Amore Dei”; la Schola della Madonna della Provvidenzadi cui tutti avevano sempre un gran bisogno; e la Schola-Sovvegno di San Nicetastrettamente imparentata con la Schola-Sovegno-Suffragio di San Nicolò dei Pescatori e la Gastaldia dei Nicolotti il cui ultimo “Doge-Gastaldo”: Vincenzo Dabalà detto Minestramorì dopo la caduta della Repubblica Serenissima dopo essere stato anche membro della Municipalità Provvisoria nel 1797.

Marin Sanudonei suoi famosi “Diari” scriveva già nel 1493: “…è una Contrà in Venetia dove non stanno se non pescatori chiamata San Nicolò et ancora questi tengono un certo parlar venetian antico, chiamato Nicoloto…”

Si è detto e si sa moltissimo sulla Schola-Suffragio-Sovvegno di San Nicheta o Sant’Anicheta Martire di San Nicolò e sulla Comunità dei Nicolotti, ma mi piace ricordare ancora una volta che il Suffragio-Sovvegno di San Nicheta ebbe inizio nel 1692 su iniziativa di Zuan Maria Trevisan detto Campalto insieme ai Compagni della Comunità dei Nicolotti che ottennero dal Capitolo di San Nicolò dei Mendicoli l'uso dell'altare di San Nicheta per svolgere le loro funzioni devozionali, di sostegno economico, e di suffragio. Quattro anni dopo, i fondatori poco pratici di scrittura e di procedure burocratiche dovettero ratificare più volte i documenti presentati ai Provveditori da Comun per ricevere l’Autorizzazione del Sovvegno da parte della Serenissima, e poter così redigere il “Librèto"da distribuire ai Confratelli indicando: iscrizione, pagamenti e benefici ricevuti. 

Il Sovvegno-Suffragio offriva privilegi a Pescatori e Barcaroli di San Nicolò e dell’Anzolo permettendo a un "barcariol, o servitor barcariol"di rappresentare direttamente i 120 iscritti ... Il Capitolo dei Preti di San Nicolò concedeva da parte sua la celebrazione di 120 Messe di Suffragio e l'accompagnamento alla sepoltura per i Confratelli del Sovvegno con un “Requiem in canto", e la celebrazione di una Messa Cantata il giorno della festa di San Nicheta ... I Confratelli s’impegnavano a provvedere all'illuminazione dell'Altare, a fornire due paramenti per i Preti di colore nero, a pagare le spese per seppellire i Confratelli, e quelle per mandare una persona al "Perdon d'Assisi per l'Anima di tutti loro".  Dal punto di vista assistenziale il Sovvegno prestava soccorso “per mali naturali" agli ammalati iscritti, escludendo i feriti e quelli affetti da mali incurabili e "Morbo Gallico"(Sifilide). Chi era iscritto da almeno sei mesi e s’ammalava veniva visitato dal Medico del Suffragio-Sovvegno che rilasciava un certificato dei giorni di malattia registrandoli su apposite polizze stampate con l'immagine del Santo Protettore che dava diritto all'indennizzo quando venivano bollate e sottoscritte dal Custode del Suffragio. Inoltre gli iscritti ottenevano un sussidio di 6 lire alla settimana, e i medicinali necessari dallo Speziale pagato dal Sovvegno.

Nell’ultimo anno del 1600 i Confratelli Nicolotti del Suffragio di San Nicheta commissionano a Francesco Lazzerini una Croce di legno che veniva esposta alla morte di ogni Confratello, all'intagliatore Angelo Busi delle aste processionali e un Segnale in legno dorato e dipinto con San Nicheta da portare in Processione (ancora presente in chiesa), e ad Angelo Mieriani"dei Santi" per decorare la Mariegola del Sovvegno. Il Sovvegno-Suffragio dei Nicolotti continuò la sua attività “tenendo vivo il suo Fondo”fino al 1807 … anno fatidico per quasi tutte le Istituzioni Veneziane.

E questo è quanto … per ricordare un poco la vita vispissima delle Contrade dell’Anzolo e di San Nicolò intorno al Rio Canale e alla Fondamenta di Liza Fusina. Mi piace però concludere questa “curiosità” ricordando che appena fuori della Contrada dell’Anzolo Raffael sorgeva divisa solo dal Rio di San Sebastiano la chiesa e Contrada di San Basilio o Basègio in cui nel 1642 vivevano 1.616 persone, c’erano 26 botteghe, e un inviamento da forno con casa-bottega il cui Fornèr: Francesco Pietro Bon pagava: 200 ducati annui d’affitto al NobilHomo Francesco Canal ancora nel 1740.
La Contrada di San Basilio era per molti versi simile a quella dell’Anzolo Raffael: il 26% erano Nobili che non lavoravano e vivevano in una ventina di palazzetti … Quando nel settembre 1803 il Patriarca Flangini tornò a rivistare la chiesa parrocchiale, trovò che: “ … la Fabrica e il Capitolo de San Basegio hanno rendite per 428,10 ducati provenienti da affitti di 14 case in sommo disordine e di cui per alcune non si riesce a percepire l’affitto, e da alcuni legati e contributi di Schole … Le spese però eccedono gli introiti e la chiesa è proprio miserabile … I Sacerdoti sono 12 di cui alcuni celebrano altrove, e ci sono pure due Chierici … Si celebrano 2.075 Messe Perpetue con civanzo di 1.349 lire di elemosine; 25 fra Esequie e Anniversari, e 500 Messe avventizie. Le funzioni si fanno quando si può perché i Preti sono insufficienti … Si celebrano feste particolari al primo e all’ultimo giorno dell’anno, Devozioni a San Basilio (con 1 legato per 2 lampade al suo altare), San Giuseppe, Santa Maria Elisabetta e Sant’Osvaldo; e Messe cantate alla Madonna della Neve, San Francesco, San Carlo e Santa Francesca Romana. SI fa una questua per la Contrada l’acquisto e la manutenzione degli arredi sacri, e si predica annualmente con la spiegazione del Vangelo nelle Feste, e si tengono prediche nel Mese del Rosario … La Dottrina per i putti della Contrada è una delle più floride della zona ed il Piovano vi assiste sempre.
Circa i Preti: Don Antoniolli Domenico “Alunno di chiesa”, è torbido, inquieto e molesto con gli altri Religiosi …vaga per le varie Parrocchie, si è reso colpevole di irregolarità nel maneggio delle Messe, e di furto di un piedistallo d’argento del Reliquiario di San Giuseppe per impegnarlo. Ha negato anche in punto di morte questo addebito. E’ stato comunque sospeso dalle Confessioni ammonizione semplice, ed è stato scelto come addetto all’assistenza dei moribondi dell’Anzolo Raffael… Don Sportini Gaetano celebra, invece, altrove. Nelle festività al Botteghin del Brenta. Ed è uno scandalo e nel vestiario e nel suo operare. Abiterebbe in una casupola con una femmina da esso mantenuta, e nonostante ripetute ammonizioni non si sarebbe corretto. Dopo aver atteso all’azienda familiare conduce vita oziosa, passa per matto, ed è stato processato nella Curia nei tempi passati…”

Oggi la chiesetta non esiste più, ma fino agli anni della Visita ospitava anch’essa ben 12 Scholette fra cui quella importante di Sant’Antonio Abate del Porsèl dei Luganegheri che aveva sede sulle Zattere; le Schole solite e immancabili di Devozione del Crocefisso, dell’Agonia, e della Buona Morte; e quella della Visitazione di Maria dei Barcaroli o “Ministri da barca”, che nel 1514 pagava Cantori e Sonadori per la Festa del Patrono sostenendo una spesa di 1 ducato. Il suo Gastaldo non si fece alcun scrupolo a procedere per via giudiziaria contro i Confratelli che avendo promesso di offrire una cifra per le spese della festa firmando un apposito “ròdolo”, non avevano poi ottemperato all’impegno preso. Gli erano rimaste “sul groppone” tutte le spese della festa da pagare.

Accanto e insieme a quelle Scholette, definiamole “minori”, ne sorgeva, però, un’altra importantissima, quasi essenziale per Venezia e i Veneziani: ossia la Schola di San Costanzo degli Acquaroli. Nel 1386 le venne concesso un'area di terreno posta accanto al campanile della chiesa di San Basegio: “… affinchè i Burcèri da Acqua potessero costruire l'edificio nel quale ospitarvi l'Albergo de la Schola”. (L'edificio è ancora oggi visibile in Campo San Basiglio ridotto a Trattoria al civico 1527/A).

Burcèri ! … I “bùrci” erano grosse barche a remi e a vela capaci di risalire anche i fiumi … E siamo ancora una volta lì con i discorsi: nella zona dell’Anzolo e in quelle adiacenti c’era sempre quell’andirivieni di barche … Anche di quelle piene “d’acqua da bere”.

L’acqua potabile è sempre stata un bene preziosissimo per Venezia e per la Serenissima. Giungeva in città trasportata dai burci fin dal 1540, anno di grande siccità, e la si andava a caricare alla fonte-canale della Ceriola o Ciriola o Seriola sul Brenta. Proprio dalla Contrada dell’Anzolo Raffaele e San Basilio gli Acquaroli riuniti in Còngrega o Fraglia o Schola di San Costanzo dell’Arte e Mestiere e Devozione dei Burcèri da Acqua, provvedevano alla gestione, distribuzione e vendita all’ingrosso dell’acqua a tutti i Veneziani riparando e provvedendo alla manutenzione dei pozzi di tutta la città a proprie spese.
Si costruivano nuovi e capienti pozzi in giro per Venezia con i ricavi degli appalti di alcuni Traghetti sulle Rive del Canal Grande (quelli di Campo Santo Stefano e di Campo Santa Margherita ne sono un esempio) ... Fra 1322 e 1424 il Maggior Consiglio della Serenissima decretò la costruzione di ben 80 nuovi pozzi in giro per la città, e il restauro e manutenzione di quelli già esistenti, così come provvide a fornire gratuitamente 100 burci d’acqua annui alle Opere Pie e ai Monasteri più poveri della città lagunare.

Le Monache e i Frati che avessero provveduto a costruire pozzi nei loro Conventi e Monasteri aprendoli all’uso della popolazione dei Veneziani, avrebbero goduto di apposite sovvenzioni da parte della Serenissima … I Facchini o Bastàzi delle singole Contrade avevano l’obbligo di prestarsi gratuitamente alla pulizia dei pozzi e ai travasi d’acqua, (pena pesanti multe e carcere per i trasgressori), così come le Prostitute avevano l’obbligo di prestare il loro aiuto in caso d’incendio recandosi al pozzo più vicino della Contrada per attingere acqua finchè ce ne fosse stato bisogno.

100 Bigolanti, invece, distribuivano acqua “al minuto” per tutte le strade di Venezia. Erano esclusi però dalla partecipazione vera e propria all’Arte degli Acquaroli, ma la contribuivano obbligatoriamente offrendo 20 soldi annui a testa ... Gli stessi Bigolanti riferivano ai Magistrati alla Sanitàsulla qualità dell’acqua, così come i Piovani e i CapiContrada che provvedevano a far aprire i pozzi chiusi a chiave due volte al giorno al suono dell’apposita campana detta “dei Pozzi” ... Era fatto espresso divieto a Barbieri, Tintori, Pittori, Pellicciai, Tripperie a tutte le “Arti d’Acqua” di utilizzare l’acqua pubblica prelevandola dai pozzi: dovevano procurarsela e comprarla per conto proprio contrattandone la fornitura e il trasporto con gli Acquaroli … Una disposizione dello Stato prevedeva la presenza di una piccola vaschetta sui gradini del pozzo per abbeverare cani e gatti … All’inizio del 1800 a Venezia si contavano 6.000 pozzi privati e 180 pozzi pubblici.



Secondo la Mariegola degli Acquaroli del 1471, (donata al Museo Correr da Antonio Thomas nel 1867) gli Acquaroli: “… dipendevano per disciplina ed economia dai Giustizieri Vecchi e dai Provveditori alla Giustizia Vecchia, pell'occorrenze dei pubblici pozzi dal Magistrato della Sanità, e per le gravezze pubbliche dal Collegio Milizia da Mar”… Nel 1498 il Magistrato a la Sanità impose alla Schola degli Acquroli anche l'obbligo della fornitura annuale gratuita di 100 burchi d'acqua per le cisterne pubbliche.

Gli Acquaroli tenevano la loro festa Patronale il 23 di settembre, con messa solenne alla quale non era consentito mancare, e durante la quale tutte le attività di trasporto dell'acqua dovevano essere sospese. Stesso obbligo di presenza avevano anche per la Messa del giorno del Beato Pietro Acotanto, di San Lorenzo Martire, di San Basilio il 14 giugno, e per San Costanzo poiché per quel Santo: “… feva arder le lampade, cioè i cesendeli, pieni de acqua senza nessun liquor né oio, come nara Messer San Gregorio nel suo dialogo”.

Nel 1603 l’Arte degli Acquaroli di Venezia contava 71 iscritti di cui 62 abili e 9 inabili, e pagava 700 ducati annui per 10 anni alla flotta veneziana, prolungati per altrettanti … Nel 1672, segno di grande decadenza, gli Acquaroli erano diventati: 78, ma solo 42 erano abili, mentre gli inabili erano diventati 36 … Nel 1773, infine, si contavano 18 CapiMastro Acquaroli, 8 erano figli di CapiMastro, e 100  Bigolanti erano ancora attivi fuori dall'Arte” continuando a vendere acqua al minuto per le strade di Venezia ... Risultava inoltre che 4-5 famiglie negli stessi anni monopolizzavano il privilegio ereditato del titolo di “CapoMastro e Portatore e Venditore dell’acqua del Brenta”, e che venivano ammessi nell’Arte degli Acquaroli solo i figli dei CapiMastro in attività.

Nel 1654 il Governo della Serenissima provvedeva a rifornire di 8 burci d’acqua gli Ospedali ... Ne dava anche uno gratuito ai Frati Cappuccini della Giudecca, un altro alle Convertite sempre della Giudecca, uno alle Monache Greche, uno ai “poveri Frati Riformati di San Bonaventura a Cannaregio”, uno ai Catecumeni della Contrada di San Gregorio verso la Punta della Salute, uno alla Santa Croxe, e 86 burci venivano riversati nei pubblici pozzi ... Ancora nel 1703, a ogni famiglia spettava per ogni “campana dei pozzi”: una “Secchia”, ossia 10 litri, cioè “4 Bozze” d’acqua. Se qualcuno ne prendeva di più, fino a “un Mastello” ad esempio, ossia 75 litri cioè “una Bigoncia”, doveva pagare una pena di un Burcio d’acqua, ossia 60 “Botti” d’acqua, cioè 45.070 litri, che costavano circa 10 Lire Venete ... Secondo la Metrologia dei liquidi Veneziana: una “Botte”corrispondeva pressappoco a 10 “Mastelli” ossia a 751.1 litri; “un’Anfora”a 7 “Bigonce”ossia: 600 litri; “una Bigoncia” a due “Mastelli” ossia: 150 litri; “un Mastello” a sette “Secchie” ossia 75 litri; “un Barile” a sei “Secchie” ossia: 64 litri; “una Secchia” a quattro “Bozze” ossia: 10 litri; “una Bozza” a quattro “Quartucci” ossia: 2 litri; “un Quartuccio” a quattro “Gòtti” ossia: ½ litro circa, e “un Gòtto” a 0,16 litri ossia: “un Biccièr”.



Nel 1739 la Schola degli Acquaroli sollevò le sue rimostranze nei confronti del Piovano di San Basilio che aveva sostituito la loro pala d’Altare con i loro Patroni San Costanzo e Beato Pietro Acotanto con quella del “Transito di San Giuseppe”. Il Piovano rispose subito che il quadro dell’Altare era già stato cambiato da circa 60 anni, e che mai la Schola era stata ostacolata nelle sue Devozioni essendo rimasti sull'Altare i corpi dei loro Patroni ... Nel luglio 1747, la Serenissima decretava:  “… si faccia espresso divieto a chiunque il tradur acqua in questa città senza bollettin del Gastaldo Acquaroli e licenza del Magistrato, in pena perdita delle barche e ducati 50 di grossi … Sia venduta acqua solo della Cerinola … barche contrafacenti possino esser arrestate da qualsiasi Capitanio Ufficiale … barche quali non sono dell’Arte possino vendere soltanto a secchio …”


Nel gennaio 1750 avvenne una forte nevicata, ma poi non piove più per 6 mesi. Si precettarono tutti i peateri di Venezia perché aiutassero gli Acquaroli a portare acqua a Venezia per riempire tutti i pozzi ormai prosciugati ... Infine sei anni dopo, si sistemarono a Venezia in 10 Monasteri di Regolari altrettante macchine-pompe idrauliche per spegnere incendi mettendole a disposizione degli Arsenalotti che erano i Pompieri dell’epoca.
Intanto l’acqua salata continuava a scorrere come sempre e più che mai dentro ai Canali di San Sebastiano, di Liza Fusina e delle Contrade dell’Anzolo, di San Nicolò e Santa Marta … ma i tempi erano cambiati: si fiutavano nell’aria grandi novità.


(La Mariegola o Madre Regola degli Acquaroli di Venezia)
All’atto della “tempesta napoleonica” anche in quella zona di Venezia accadde “il putiferio” come in tutti gli altri posti della città. Chiesa e monastero dei 17 Monaci Gerolimini di San Sebastino vennero chiusi, soppressi e indemaniati. Il Patriarca consigliò l’abbattimento di San Sebastiano con lo spostamento dei dipinti del Veronese nella chiesa di Ognissanti(Ospedale Giustinian) che sarebbe diventata succursale … Per fortuna non venne ascoltato … La chiesa di San Basilio chiusa e rovinosa venne demolita dopo essere stata usata come magazzino di legname, osteria con orto ed altro. Il materiale di risulta venne usato per ricostruire il Teatro di San Giovanni Crisostomopoi chiamato Malibran, e al suo posto ne venne fuori un bel giardino.

Il Regno d’Italia soppresse e ridisegnò la configurazione delle Contrade e Parrocchie Venezianeriducendone il numero da più di 70 a 30 in tutto. Solo l’Anzolo Raffael conservò lo “status”di Parrocchia aggregandole il territorio e le Anime di San Nicolò dei Mendicoliche venne soppressa.
L’Abate Collalto esponente della Municipalità Provvisoria di Venezia propose di chiamare la Contrada dell’Anzolo, San Nicolò e Santa Marta col nome nuova di: “LA PESCA”, mentre riguardo il Piovano dei Mendicoli don Antonio Zalivanisi diceva: “E’ un Democratico Radicale.  Si è recato a rendere pubblico omaggio al nuovo Governo Democratico e per questo è stato accolto nella Società Patriottica. Ha redatto un Catechismo Democratico adottato dalla Municipalità Provvisoria di Venezia e imposto a tutte le Parrocchie indicando convergenza fra Cristianesimo e Nuova Democrazia ... Caduta la Municipalità, il Patriarca Giovanelli gli ha imposto di far esercizi spirituali presso i Cappuccini finchè si fosse capito l’effetto della nuova venuta degli Austriaci. Più tardi, sospettato e preso di mira dagli stessi, si è inteso meglio invirlo ad operare in Treviso.”



Le “Pentite del Soccorso”vennero trasferite e concentrate presso le Penitenti di San Giobbenel Sestier de Cannaregio, e l’ambiente “ex Soccorso” venne lasciato a lungo vuoto a languire fino al 1860 quando venne acquistato dal Piovano dei Carmini don Marco Battaglia che lo destinò ad ospitare fanciulle abbandonate sotto la guida di 12 Suore Dorotee Maestre. In seguito l’Istituto divenne Scuola, Asilo per l’infanzia, e poi pensionato universitario fino alla cessione in affitto alla Regione Veneto che ha continuato ad utilizzarlo tramite l'ESU fino ai nostri giorni quando tutto è stato restaurato e venduto a una Società immobiliare.
Tutte le Pizzocchere del Grande Pinzoccheraio dell’Anzolo vennero mandate via o concentrate a San Francesco della Vigna dall’altra parte della città, e tutti i loro beni vennero incamerati dal solito Demanio. La famosa "spiaggia di Santa Marta”venne cancellata per fare spazio alla nuova zona portuale di Venezia. Molte di quelle piccole Istituzioni-Ospizi vennero ridotte ad abitazioni private, oppure demolite e sostituite con i "moderni caseggiati d’edificazione popolare” ... Delle Orsoline rimase in zona solo il toponimo del Campiello de le Orsoline ... e poco altro.

Nel gennaio 1815 nella “Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia”nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti, si leggeva ed elencava circa la possibilità di vendere e comprare: “… il Locale della chiesa di San Basilio in Venezia con annessi e connessi … una bottega al n° 2460, una casa al n° 2461, una bottega al n° 2461, e un appartamento al n° 2461 in Fondamenta Barbarigo e Briatti in Venezia; una casa al n° 3187 a San Nicolò in Paluo; una caxetta a pian terreno al n° 3406, una caxetta al n° 3407, una caxetta a pian terreno al n° 3408, una casa al n° 3409, una caxetta al n° 3410 in Calle delle Pizzoccare all’Anzolo Raffael; una serie di caxette al n° 3411, 3412, 3413, una casa al n° 3414, due caxette a pian superiore al n° 3415, 3416, altre due a pianterreno al n° 3417 e 3418, una caxetta in primo piano al 3418, e altra in secondo al n° 3418; caxetta al pian terreno n° 3419; caxetta al primo piano al 3419; caxetta in secondo piano al n° 3419, pan terreno, primo piano e secondo piano al n° 3420; e caxette al 3421, 3422, 3423 a piano terreno , il tutto di proprietà del Collegio della Terziarie di San Francesco all’Anzolo Raffael … Una serie di caxette all’Anzolo Raffael in Calle Pignatella ai numeri civici dal 2874 al 2884 e al 1907 affittate a Luchetta Lucia per 90:00; una casa al n° 701 al Ponte Longo di Murano affittata a Nason Stefano per 57:108 appartenenti alla Scuola Grande di San Giovanni Evangelista … e un locale al n° 3116 appartenente al Monastero delle Orsoline di San Nicolò dei Mendicoli di Venezia ...”



Alla Visita del Patriarca Flangini alla chiesa di San Nicolò dei Mendicoli e alle Orsolinedette “Le Romite dell’Anzolo e dei Mendicoli” si verbalizzò: “La Parrocchia per numero e povertà degli abitanti esige uno zelo veramente sacerdotale. Il popolo è davvero materiale ... La fabbrica ha un debito di 1.000 lire … La casa di residenza del Piovano è inabitabile, per cui è costretto a vivere in un’altra casa di cui paga l’affitto ...La visita alla chiesa da parte del Vicario Capitolare non si fece ... Circa le rendite dei Titolati: le case sono in cattivo stato ed affittate per poco assai ... I Sacerdoti sono 10 fra cui il Piovano infermo nella cui casa si trovarono 3.420,4 lire. Altri Preti fanno il Cappellano a Santa Marta o ad Ognissanti, o sono all’Anzolo o a Santa Margherita … I Preti sono riflesso di questo popolo materiale … Più di ogni altra cosa l’ozio…don Plander cammina con affettazione…frequenta ritrovi notturni…serve poco la chiesa … Un Prete veglia costantemente presso il Piovano moribondo … per preservare il denaro…don De Piccoli frequenta ritrovi notturni e non gode di buona fama…don Lucatello è un ragazzo che forse non ha tutta la prudenza… Si celebrano 2.468 Messe perpetue, e 45 fra Esequie ed Anniversari con 50 Messe Avventizie … 12 Messe per i Defunti della Contrada, 3 Esequie per i poveri della Contrada, e 1 Esequie per i benefattori della chiesa …”

Nel 1821 alla Visita del Patriarca Pirker la situazione nella zona dell’Anzolo-San Nicolò-Santa Martanon era cambiato molto. La popolazione era di 3.300-4.000 persone per la maggior parte misera e composta da poveri pescatori, barcajoli, gondolieri, altro “barcolame”, e dalle Guardie di Finanza del Corpo del Zattelicio... Mancava l’industrialità in Contrada, e solo da poco s’era introdotto nel Circondario la Fabbrica del Gaz portatile. C’erano però ancora alcuni Squeri, soprattutto quelli dei Canziani, Fisola e Cuccoche offrivano lavoro a molti popolani, anche se ora con scarsa attività. Le donne lavoravano nella Fabbrica dei Tabacchi che occupava 600-700 abitanti della Contrada dell’Anzolo e dei Mendicoli. Su 3.600 Anime di cui 900 erano Inconfesse, 2.860 erano poveri, ossia il 79% dell’intera popolazione: “la più povera di tutta Venezia”.
C’era però l’ “Istruzione”in Contrada. In Campo dell’Anzolo Raffele c’erano le Scuole Elementari Minori Maschili e Femminili e in Contrada alcune Scuole Private. Nel 1845 nella Scuola dell’Anzolo Raffael insegnavano due Maestri e due Maestre. Nella Sezione Maschile c’erano 66 ragazzi in I° inferiore, 31 in I° superiore, 17 in II°; mentre nella Sezione Femminile c’erano 67 ragazze in I°inferiore, 21 in I° superiore e 15 in II° … Quando le Scuole vennero concentrate altrove in Contrada di Sant’Agnesee a San Silvestro, solo 4 alunni della Contrada dell’Anzolo continuarono a frequentarle ... Il confine della Parrocchia arrivava in Corte Zappa che prima si chiamava di Ca’Guoro, dove sorgeva una casa di due piani adiacente a Ca’Zenobioappartenente fin dal 1594 all’Anzolo e poi passata, invece, a San Basilio.

Sempre nelle stesse Contrade c’era: l’Ospizio delle Maddalene, l’Orfanotrofio Femminile delle Teresedove si teneva anche la Dottrina Cristiana per i numerosissimi bimbi e bimbe della zona … e c’era una Levatrice sebbene “non approvata”.

Nel 1839 il Piovano dei Mendicoli affermava che le Levatrici non si prestavano perché non venivano pagate, per cui pensava lui a pagare l’affitto ad una di loro purchè risiedesse in Contrada ed assistesse le donne povere dell’Anzolo e dei Mendicoli.

Termino scrivendo della mia brava Suocera che è stata un Anzolotta d.o.c. della Contrada dell’Anzolo dove ha vissuto per buona parte della sua vita. Mi raccontava di come soprattutto le donne qualche decennio fa vivevano quasi l’intera esistenza senza muoversi e uscire più di tanto dalla loro Contrada. “A che serviva andarsene altrove ? … Lì avevamo tutto … Non ci mancava niente di quel che era necessario per vivere … e vivevamo con poco. Qualcuno in vita sua non si era neanche mai avventurato in giro per Venezia raggiungendo la Giudecca o le parti lontanissime di Castello e Cannaregio ….”

Tempo fa ho potuto posare lo sguardo sul verbale redatto una sera da Don Marco Tessaro uno degli ultimi Cappellanidi una delle Schole dell’Angelo Raffael: “Non c’è nessuno presente all’Anzolo questa sera: stanno suonando le sirene che fanno correre i Veneziani ai rifugi antiaerei … Probabilmente questa notte Venezia con la sua zona del Porto verrà bombardata.”

Infatti accadde proprio così … ma la Fondamenta di Liza Fusina sulla Contrada dell’Anzolo e di San Nicolòormai da tempo non funzionava più.
  

“La cèsa de le Sette Madonne ... a Venezia.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 149.

“La cèsa de le Sette Madonne ... a Venezia.”

La Contrada o il posto di Venezia è di quelli singolari, è una zona carina, e soprattutto quasi nascosta dentro al cuore di Venezia. Provate a chiedere a qualche Veneziano di Castello o della Baia del Re di Cannaregio: mi sa che faticherà a dirvi dove si trova. Ditegli poi per fargli uno scherzo: “Ma dai ! … Non sai dove si trova la Contrada di Santa Cristina ! … Quella della Circoncisione ?” e lo vedrete strabuzzare gli occhi più confuso e incerto di prima. In effetti quella di cui vi sto dicendo è una di quelle Contrade piccoline un po’ dimenticate, per non dire sconosciute, perché s’amalgama completamente fino a occultarsi col resto del tessuto urbano di Venezia.

Conserva, infatti, tutte le caratteristiche tipiche “nostràne” Veneziane. In Contrada esisteva un Pestrìno per macinare manualmente o con animali semi di lino e grano, e c’è ancora oggi la Calle del Fabbro, la Calle e Sottoportego del Tintòr dove nel 1713 esistevano la casa e bottega da Tentor del Sior Domenico Anichini affittuàl de Antonio Giàmola”; la Calle del Fenestrèr, il Campiello del Spezièr, il Sottoportego del Filatoio, la Calle e Corte del Mercante, la Calle del Ràvano… e c’è perfino un ombrosissimo Sottoportego e Corte del Diavolo: perché Venezia è sempre stata un poco così … un po’ “Diavolo e Acqua Santa”insieme.

E’ stato proprio per questo, che alla fine dell’aprile 1488, il temibilissimo Consiglio dei Dieci della Serenissima emanò un urgente decreto che obbligava a chiudere il Portico antistante la chiesa proprio di quel posto, circondandolo di tavole perché: “… di notte diventava ricettacolo di varia umanità e d’imprese disoneste”. Si doveva lasciare aperta solo una portella per accedere alla chiesa di giorno, e la si doveva rigorosamente chiudere subito dopo il tramonto del sole.


“Ah ! … Gho capìo ! … A xe a cièsa de le Sette Madonne !” mi spiegò un giorno Siora Amelia.
“Sette Madonne ? … Perché ? … Mai sentito !”
“E de Sette Madonne, speravo che almànco una se ricordasse de mi … E, invènse, neanche una ! … Neanche mèzza … E vàrda dove che so, e dove che me tòcca stàr ! … Nea vita gho sèmpre creduò che quando se sèra una porta dovesse sempre vèrsise un portòn ! … E, invèsse, non se gha vèrto un bel niente … e me tòcca stàr in sto cameròn co tutte ste vècce che e se pìssa dòsso giorno e notte, e xe balènghe o mèzze fòra de zàgola (ossia: di testa. Letteralmente: “fuori dall’asola giusta della corda”)”.

Quella volta sono andato a vedere e controllare se la vecchietta Amelia della Casa di Riposo dei Santi Giovanni e Paolo avesse avuto ragione. Per far questo sono tornato e ritornato più volte a gustarmi la bella chiesetta della Contrada “còccola”, che come il solito, oggi se ne sta praticamente sempre chiusa e barricata, dimenticata un po’ da tutti, dopo essere stata: “Centro o Consultorio de questo e de quèo … e di tutto un po’” a seconda dei Preti che vi venivano collocati di volta in volta.

“Xe inutile ch’el vàrda e ch’el gìra Sior ! … I Preti gha serà bottega da un tòco ormai … e chi si è visto s’è visto !”mi ha detto un ometto seduto fuori dal suo bar, che non mi ha perso d’occhio un attimo mentre saggiavo la porta chiusa della chiesa.

“Là dentro no ghe xe più nessùn … Soltanto: Aneme … e le Sette Madonne !”

Ecco che a distanza di anni è tornata fuori ancora una volta quella precisazione ! … Siora Amelia aveva ragione.


“Sono andato a vedere Siora Amelia … Effettivamente la chiesa ha Sette Madonne … Anzi: forse ne ha anche qualcun’altra in più !”sono tornato a riferire alla nonnetta ripresentandomi a salutarla.

“Par fòrsa ! … E còssa ti credevi, che te disèsse busìe ? … O che fosse fòra come un pèrgolo ?”

“No … E’ che mi sembravano tante Sette Madonne.”

“E invesse: sì ! … Quèa cièsa là a gha Madonne de tutti i tipi … Par tutti i gusti, e par tutte le necessità.”

“Tutti i gusti ? … Come i gelati ?”

“Làssa stàr e Madone sa ! … Che no porta ben ! … Schèrza co i Fanti … Ma làssa star e Madonne e i Santi ! … Che no te vègna un rebaltòn de pànsa … Venèssia xe sempre stàda pièna de Madonne: Madonna dei Miracoli, de la Salute, del Monte, del Pianto e Addolorata … Madonna Nova e Madonna vecia … Madonna de le Grazie ...”

“Par tutte le disgràssie insomma !”

“Ancora avanti a tor in giro ti và ? … … Vàrda che a Madonna te punìsse ! … A Venèssia mànca solo a Madonna de le Savàtte … che sarìa quèa giusta par mi.”

Dentro alla chiesa di Santa Maria Materdomini nel cuore del Sestiere di Santa Croce, ma in realtà poco distante da quello che è stato lo stupendo Emporio della Civitas Realtina, ho potuto effettivamente vedere: una Madonna Annunciata del 1250 portata poi nella chiesa di San Giacomo dell’Orio; il curioso rilievo policromo bizantino dell’altra Madonna Orante del Concepimentodel 1200, con le braccia alzate in segno di preghiera. I Veneziani della Contrada la chiamavano: “La Madonna da le man sbusàe”, perché in effetti l’immagine doveva essere stata un'antica fontana rituale-benedizionale dalle cui mani sgorgava acqua. Deve essere giunta in Santa Maria Materdomini durante il Medioevo, e lì si è continuato a credere che potesse essere miracolosa, tanto da collocarla sull’Altare principale della chiesa. Sempre nella stessa chiesa ho ammirato anche la Madonna del Capitèo, e quella del Portego, la Madonna del Rosario, la Madonna del Tiepolo, quella “de la Pace”, la Madonna Regina, e un’ultima Madonna chiamata: “Madonna de Santa Maria Materdomini” … cioè: Madonna de la Madonna  !


Incredibili i Veneziani ! … Venezia è sempre Venezia.

Comunque in Contrada non c’era soltanto la chiesetta, ma come sempre a Venezia, c’era molto e molto di più: un intero piccolo mondo, un microcosmo singolare, unico, e tutto a parte, e sempre diverso.
Sembra che la primitiva “cièsa de Contrada” sorgesse orientata diversamente volgendosi verso la calle più interna. Si diceva anche che doveva essere stata costruita probabilmente nel X secolo dalle Nobili Famiglie dei Zane e dei Cappello che abitavano nel Campo centrale della Contrada. Inizialmente, e almeno fino alla fine del 1100 se non oltre, la chiesa deve essere stata titolata e dedicata anche a Santa Cristina… e che presso lo stesso Campo Santa Maria Mater Domini (dove c’è ancora una Corte de le Muneghette), esisteva fino al 1105 sul Rio de la Pergola (il nome proviene forse da una famiglia Dalla Pergola, il cui Paolo Dalla Pergola, celebre Filosofo Peripatetico, fu anche Piovano di San Giovanni Elemosinario di Rialto, e rifiutò l’elezione a Vescovo di Capodistria nel 1448) un piccolo Monastero di Monache Francescane con un Oratorietto titolato a Santa Cristina.
Ecco perché la Contrada si chiamava inizialmente Contrada di Santa Cristina o della Concezione.

Nei “Notatori” di Pietro Gradenigo si legge:“… in Venezia gli antenati nostri ebbero divozione si grande verso Santa Cristina eroina del Paradiso. Infatti la chiesa di Santa Maria Materdomini in antichi tempi fu consacrata ad onore di si Veneranda donna, et Angelo Filomato degno Piovano, restaurando il Tempio in sontuosa forma rimise l’altare con la di lei effige dipinta da Angelo Lorenzo Bregno adornandolo con figure, scolpite da scalpello quasi impareggiabile, e non senza aiuto di un certo Antonio Minello altresì di rango uguale …”

Poi come sempre capitava a Venezia, fra un incendio e l’altro tutto venne ricostruito mutando il nome di Santa Cristina in Santa Maria Mater Domini. La Cronaca Magno racconta: “Del 1150 uscì fuoco casualmente da la Contrà de Santa Maria Mater Domini, et la bruzò tuta; poi andò a San Stài, San Stin, Santo Agustin, San Boldo, San Jacomo de Luprio, San Zan Degolàdo, Santa Croxe, San Simeon Profeta e a San Simeon Apostolo, San Baxegio, San Nicolò de Mendigoli, et San Raffael, et bruxò in Venetia assai caxe”.

Una Bolla Papale di Clemente III del gennaio 1188 qualificò la chiesa come “Parrocchia di Preti”emancipandola dalle pretese del Vescovo di Castello-Olivolo: Marco I Nicolai ex Piovano di San Silvestro, al quale il Papa intimò di concedere al Clero di Santa Maria Materdomini una parte delle sue Decime.

La Contrada sorgeva a soli cinque minuti di strada, a pochi passi, dall’efficacissimo e attivissimo Emporio di Rialto. Per secoli quelli di Santa Maria Materdominifurono protagonisti quotidiani di quell’evento continuo fatto di scambi e commerci, così come i Preti di Santa Maria Materdomini con tutte le loro Madonne non mancarono di fungere da testimoni e Notai di tutte quelle intensissime e frequenti transizioni e contrattazioni, e di buona parte dell’attività Mercantile dei Veneziani.

Rialto era Rialto … e si trovava proprio lì accanto.

Nel marzo 1224 Rialto: Stefano Viaro dal Confinio di San Maurizio vendeva ai nipoti dello stesso Confinio: una terra e casa siti nella stessa Contrada per lire 675 di Denari Veneti.  E quella transizione l’effettuò proprio davanti a Johannes Bonus Prete et Plebanus di Sancta Maria Matris Domini, e venne ratificata e confermata nel giugno seguente da Donatus Sanctae Mariae Matris Domini Prete et Notarius insieme a Leonardus Vendelino Prete, Plebanus et Notarius di San Leonardo.

Soltanto quattro anni dopo, lo stesso Doge in persona: Pietro Ziani, lasciò una ruga di case di sua proprietà site nel Confinio di San Ziminiàn accanto a San Marco, alle allora “Sette Congregazioni del Clero di Rialto” fra le quali c’era anche quella dei Preti di Santa Maria Materdomini ... Nell’aprile 1235, invece, sempre a Rialto: Bellino Lugarino dall’isola di Costanziaco vendette ad Endrebona Dolfin Ministra del Monastero di San Maffio della stessa isola, una terra con casa sita nelle adiacenze del Monastero  per lire 100 di Denari Veneti. Fra i testimoni dell’atto c’erano: Johannes de Blavenus Clericus. Ancora lui ! … Era lo stesso Johannes Bonus Prete et Plebanus  et Notarius di Santa Maria Materdomini, che quindi deve essere stato un professionista parecchio ricercato e affidabile.

A giugno 1251, e ancora una volta a Rialto davanti al Notaio Dominicus Russo Subdiacono di San Canciano, Agnese figlia del defunto Domenico Viaduri da Torcello, che ora abitava nel Confinio dei Santi Apostoli, vendette a Cecilia Dolfin Badessa di Santa Margherita di Torcello, e a Palma Gradenigo risiedente nel Confinio di Santa Maria Materdomini, una terra e casa sita nel Confinio di Sant’Andrea di Torcelloper lire 115 e soldi 5 … Giacomina moglie di Giacomo della Stoppa dal Confinio di San Beneto, invece, si ritrovò a redigere il suo testamento davanti al Notaio Stefano Mauro Piovano di Santa Maria Materdomini, lasciando al nipote Leonardo un pezzo di terra nella Contrada di Santa Sofia con l’obbligo di dare ogni anno una libbra d’olio ai Preti di quella Contrada. Lasciò pure dei Legati in denaro e vestiario a diverse persone: alle Congregazioni di San Polo e di Rialto, ai Francescani di Treviso, ai Frati Minori di Venezia, e al Monastero di San Maffio e alla Monaca Benedetta di Costanziaco ai quali lasciò pure una proprietà nel Confinio di San Maurizio … sempre a Venezia.
Verso la fine del secolo, la Nobildonna Maria Cappello che era Monaca nell’isola di San Giacomo in Paludo fra Murano e Mazzorbo, consenziente la sua Badessa Maria Premarino, fece quietanza a suo fratello Bartolomeo che abitava a Venezia in Contrada di Santa Maria Materdomini della retta semestrale di 5 soldi di Grossi Veneziani che lui pagava per lei al Monastero “vitanaturaldurante”.



Insomma, come avete ben capito, nella Contrada di Santa Maria Materdominiera tutto un trafficare e commerciare … e quel fenomeno continuò ininterrottamente anche nel secolo seguente, quando Leonardo Guerzius faceva il Guantaionella Contrada, Ramino faceva il Calderèr, Antonio dall’Ogio e Lunardi Dall’Agnella erano contribuenti abbienti, e Piero di fu Zane Benedetto, che era Banchiere, fece rogare l’emancipazione di suo figlio Zanninodandogli 200 lire di grossi (2.000 ducati d’oro) per formare una Compagnia Commerciale attiva per almeno un anno “per terra e per mare”, con altri due coetanei ed amici: Marco figlio di Andrea Condulmer dalla Contrada di Santa Maria Maddalena emancipato, e Jacobello figlio del defunto Lorenzo Zane dal Confinio di Santa Maria Materdomini.

Nei primi anni del 1500 quando in Contrada vivevano 821 persone, si ricostruirono la chiesa e il campanile nelle sue forme Rinascimentali che vediamo noi ancora oggi. L’iniziativa fu del Piovano Angelo Filomati che affidò il progetto a Mauro Codussi o a Giovanni Buora. Secondo il Sansovino: “… nella nuova chiesa “a croce greca”, ad ampie arcate, con pilastri di pietra grigia, e quattro Cappelle angolari, si rimise l’Altar Grando dov’era un tempo, s’innalzò la cupoletta sull'incrocio delle navate, sebbene la facciata in pietra d'Istria risultò soffocata dai palazzi prospicienti ...”

Qualche anno dopo, sempre lo stesso Piovano con l’aiuto della locale Congregazione del Clero, e con i contributi dei Nobili della Contrada: Cappello, Pisani, Trevisan, Zeno, Contarini, Diedo e Querini, fece aprire alcune finestre a mezzaluna per dar luce alla chiesa risultata troppo buia. Già che c’era, ci fece aggiungere altri 4 altari laterali, pose su un altare la pala con “La Visione di Santa Caterina”dipinta da Vincenzo Catena nel 1520, e ornò la chiesa intera con molte altre pitture e sculture ponendo sull’Altare Maggiore anche una Pala d’Argento “alla Bizantina”con 21 bassorilievi di Storie della Passione di Cristosormontate da 12 Apostoli.

Più che curiosa la storia di quel particolarissimo pezzo di pregio e prestigio, perché non furono molte le chiese Veneziane a possedere manufatti preziosi di quel tipo. Pensate alla Pala d’Oro di San Marco, a quella di San Salvador, o a quel che resta di quella di Santa Maria Assunta di Torcello, e a quella scomparsa di Caorle. Le Pale d’Oro e d’Argento furono un bene singolarissimo e piuttosto raro presente a Venezia: dei manufatti rari e preziosissimi, difficilmente rintracciabili anche in altri edifici Italiani ed Europei della stessa epoca.

La Pala d’Argento Dorato di Santa Maria Materdomini era stata trafugata e portata a Venezia come bottino di guerra da Costantinopoli saccheggiata dai Veneziani nel 1204 durante la IV Crociata. Checchè se ne dica, i Veneziani sono stati anche predoni e saccheggiatori … sempre in nome della Cristianità !
La Pala era fatta tutta d’argento dorato finissimo, e risultò sempre presente per secoli nella chiesa della Contrada di Santa Maria Materdomini. C’era segnata nell’inventario del Piovano Francesco de Barzachis nel 1412 … Nel 1575-1579 la Pala d’Argento appariva con: “… di sopra è sentano il nostro Signore con apostoli XII et sotto quelli misteri XX che son Nascita, Cincuncisione et Innocenti … se in terza parte altri 7 Misteri …” e risultava coperta da una custodia lignea decorata e chiusa a chiave … Venne citata presente nelle Visita Pastorali dei Patriarchi Tiepolo nel 1621, Corner(1636), Morosini (1648)… e fu forse il Piovano Antonio Gerardo, nel 1660, a smembrare la Pala d’Argento facendola a pezzi ... Nel 1664 il Piovano Palazzi(il Piovano Quietista di cui vi dirò fra poco) ne fece una serie di 21 piccoli quadretti con “la Passione”, e altri 13 quadretti “con gli Apostoli”… e se ne vendette l’argento “che avanzava”… Alla fine di agosto 1700 durante la Visita Badoer si segnalò che rimanevano ancora sull’Altar Maggiore: 20 quadretti di quella che era stata l’antica “Pala d’Argento alla Greca”… Infine tutto venne trafugato nel 1797 e trasferito in Francia dove se ne persero del tutto le tracce.

Ma dai ? … Strano ? … L’illuminato napoleone non avrebbe mai permesso una cosa del genere ... Ladro ! … Vile !



Cambiando argomento … Nel 1586 Aldo Manuzio il Giovane raccontava nella “Vita di Cosimo dei Medici” di come sua madre Maria Salviati venne a rifugiarsi e a vivere con lui giovanissimo a Venezia dopo che Firenze si arrese a Carlo V: “…  ed abitò più d'un anno in casa Cappello nella Contrada di Santa Maria Mater Domini, nel Rivo detto della Pergola col Sior Bartolomeo Cavaliere, padre della Serenissima Gran Duchessa presente, et coi fratelli mentre viveva il padre …” Raccontava anche di come un giorno Cosimo, giocando e scherzando con alcuni coetanei Veneziani fosse caduto in acqua, dove sarebbe affogato se non fosse intervenuta prima sua cugina Luigia d'Appiano, che l’aiutò afferrandolo per i capelli, e poi un Frate di passaggio che lo trascinò fin sopra alla riva ... L’anno seguente, Hieronimus a Lignamine quondam Johannis, laico di 29 anni, insegnava in Contrada di Santa Maria Materdomini a 80 alunni: “… a lezer, scriver, abbaco e quaderno…”dicendo di se stesso: “… Son   Artimeticho, e tengo Scuola Publica a Santa Maria Materdomini … dove insegno el Donado, Fior de Virtù, Marco Aurelio, la Dottrina Cristiana, et altri libri che ghe da i padri; e a quei che principia la Grammatica ghe insegno i nomi, i verbi et le concordanze et che imparano a mente.”… Ancora alla Visita Apostolica del 1581, si ricordava della presenza di un antico “cimiterietto chiuso”, forse anche verticale e sovrapposto oltre che interrato, che contornava la chiesa di Santa Maria Materdomini: la “Cièsa delle Sette Madonne”.

E siamo alla vicenda singolare e stranissima di un altrettanto strano Prete che visse proprio in quella stessa chiesa e Contrada insieme alla storia di un certo Crocefisso Miracoloso, che probabilmente lui stesso mise in piedi. Il Prete Veneziano divenne famoso a Venezia, innanzitutto perché considerato un Prete Quietista. Per questo motivo diede parecchio filo da torcere sia al Patriarca di Venezia, ai suoi colleghi Preti del Clero Veneziano, ma soprattutto all’Inquisitore del Santo Uffizio di Venezia, che saltò per aria dal suo scanno quando venne a sentire circa le cose che il Prete predicava alla gente della Contrada di Santa Maria Materdomi.
Il Prete in questione era Prè Giovanni Palazzi, che fece scrivere di se accanto alla porta principale di Santa Maria Materdomini di cui era divenuto Piovano e Arciprete della Congregazione dei Clero nel 1664: “Mundo ignoti ne et Deo ora viator”, ossia: “Prega perchè quest’Anima ignota per il Mondo non lo sia anche per Dio !”.

Strambissimo uomo e Prete !

Di certo fu uno Storico di un “certo calibro”, un buon Giurista, e ricoprì pure diversi incarichi di prestigio dentro al Presbiterio Veneziano. Fra 1671 e 1699 scrisse e pubblicò a Venezia parecchi libri e Commentari Storici, sugli Imperatori del Sacro Romano Impero, e sulla Storia della Serenissima con i suoi numerosi Dogi, l’Aristocrazia Nobiliare e i suoi Cardinali. Scrisse pure: “Leo Maritimus seu de Dominio Maris”, e poderose opere di Storia Ecclesiastica. Insegnò Giurisprudenza a Venezia e Diritto Canonico a Padova, e scrisse pure Orazioni Funebri per Nobili, e nel 1681: “La virtù in giocco, overo Dame Patritiae di Venezia famose per la nascita, per lettere, per armi e per costumi”. Un personaggio eclettico, insomma.

Ma fu la pubblicazione della sua “Apologia”, delle “Meditazioni sopra la Passione”, l’“L’Armonia Contemplativa”, “Vita, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo”, e “Vita di San Pietro” di netta ispirazione e stampo Quietista che un po’ lo incastrarono procurandogli parecchi dispiaceri e molte calunnie soprattutto da parte dei suo colleghi Preti.
Nel 1678 erano accaduti a Venezia diversi contrasti fra i Confratelli dell’Oratorio della Fava(Quietisti pure loro), tanto che era giunto a Venezia anche il famoso Petrucci per mettere un po’ di pace. Negli stessi anni, invece, erano usciti alle stampe ben undici libriccini scritti dal Piovano di San Stin: Michel Cicogna, tutti colpiti immediatamente dal Santo Uffizio dell’Inquisizione con ben cinque condanne: “perché in odore d’eretica idea di stampo Quietista”. Invece di rabbonirsi la situazione, e quasi come risposta, sempre a Venezia presso la tipografia di Giovanni Giacomo Hertz, si stamparono i testi fondamentali del Quietismo: ossia le opere del Molinos, del De Cucchi, del Malfi, del Malaval e dello stesso Petrucci.

Figuratevi l’Inquisizione di Venezia !

Il Quietismo del Prete Palazzi di Santa Maria Materdomini era “sottile”“Ma pur sempre Quietismo insidioso” ribadì l’Inquisizione Veneziana. Il Piovano provò a destreggiarsi scrivendo le sue operette spirituali e teologiche mettendo solo le sue iniziali, e utilizzando un luogo d’edizione falso (Anversa) per sfuggire alle indagini. Nel suo testamento alla fine della sua esistenza si rammaricò: “Ho vissuto in Santa Maria Materdomini sine querela per 47 anni … Portai alla Chiesa: Pianete, Messali, Camici, Cotte, tutto di valore. Rifabbricai per ornamento della chiesa: Pulpito, Confessionari ed altro di mia borsa. Mantenni oltre la mia continua assistenza, anche un Curato Forestiere, e introdussi in chiesa un altro Confessore … Soprattutto ho sorpassato le zizanie de gli ingrati …”



Fu la sua esagerata ed eccessiva devozione per il Crocefisso che gli procurò critiche e grandi dissapori. Rifondò e ricostituì infatti in Santa Maria Materdomini la Schola del Crocifisso con proprio altare.

“Al nome d’Iddio e della Santissima Trinità: Padre, Figliuo et Spirito Santo et della Gloriosa Vergine Maria, et di tutta la Corte Celestiàl. Per riverire il segno della Santissima Croxe havemo elleto nella cièsa de Santa Maria Mater Domino l’altar nostro nel 1551 lo dì settimo de maggio, et lì principiato una Schola et Fraterna con ordini stabilii, come qui appar …” diceva già la vecchia Mariegola della Schola.

La nuova sede sorse accanto al vicino Ponte del Cristo: “… e la Schola de a Croxe gèra una de quelle arzille, perchè ha anche finanziato Jacopo Tintoretto circa nel 1561, per fargli dipingere un largo telero (228x508 cm) con le “Storie dell’Invenzione della Croce” insieme a tutti i Confratelli e i Gastaldi della Schola, che è stato posto nel braccio sinistro del transetto di Santa Maria Materdomini.”



Il 10 marzo 1665 il Consiglio dei Dieci autorizzò la fondazione pure di un Suffragio de la Croce che affiancasse l’attività della Schola, e ne aumentasse il numero degli iscritti. Il Capitolo dei Preti di Santa Maria Materdomini accordò ospitalità al Sodalizio, con la celebrazione di una Messa Solenne il 3 maggio, Festa dell'Invenzione della Croce, l'esposizione del Santissimo il giorno di Ognissanti, e una Processione per tutta la Contrada.

Fu proprio per adornare l’altare della Schola del Crocefisso, che Prè Palazzi comprò a Messina nel 1686 un Crocefisso che dichiarò a tutti i Veneziani: “essere Miracoloso”. Prè Palazzi raccontò di come quel Crocefisso attraversò indenne tutte le acque del Mediterraneofino a giungere a Malamocco sulla tartana “Madonna delle Vigne” guidata dal Capitano Girolamo Amerigo, per poi essere tradotto e collocato in Santa Maria Materdomini. Tutte le altre navi nello stesso tempo andavano a picco per le gravi condizioni avverse del mare e dell’atmosfera, mentre quel solo suo Cristo compiva ovunque passava “tremendissimi e superbi miracoli” per chiunque incontrava.

I Veneziani della Contrada, e non soltanto quelli, iniziarono ad accorrere in massa dal Crocefisso diSanta Maria Materdomini… e Prè Palazzi per assecondarne l’impulso e “la Devotio” mise in piedi tutta una serie di Pratiche di Pietà del Crocefisso. Organizzò per quelli della Contrada e per i Veneziani: “i primi venerdì del mese del Crocefisso”, i “5 Venerdì delle 5 Piaghe”, i “15 giorni dei 15 Misteri della Santa Croce”, i “Venerdì di marzo della Santa Croce”, e i “33 giorni della Croce in ricordo degli anni di Cristo” ... e via così.

Fu un successone, e la chiesa di Santa Maria Materdomini era sempre piena … con grande invidia dei colleghi Preti e Frati (soprattutto per la grava perdita e calo d’elemosine).

Il buon Prè Palazzi lasciò denaro, sempre per testamento, ai conTitolati Preti di Santa Maria Materdomini, alle Schole del Sacramento e dei Morti della stessa chiesa, a tre Vergini della Contrada da Monacare, al Campanaro, e istituì pure due borse di studio per due Chierici della Contrada che si fossero recati a studiare “volonterosamente” a Padova. Pensate che ancora nel 1722, il Signor Giustinian Bianza come Esator della Schola del Venerabile in Santa Maria Mater Domini, riscuoteva dei soldi dalla“Commissaria Palazzi” per sovvenire“a li poveri di detta contrada per volontà del defunto Prè Palazzi".

E bravo il dottissimo Prè Palazzi ! … Nonostante i suoi libri siano stati giudicati: “proibiti e messi all’Indice”, e nonostante si sia beccato un paio di condanne da parte dell’Inquisizione Veneziana.



Nel 1622-1629, quando a Venezia infuriava la grande Peste e Moria del Tempio della Salute, Damiano Bernardin Casarol a San Marco “all’insegna del San Girolamo”, lasciò del denaro per celebrare ogni giorno una Mansioneria perpetua di Messe nella chiesa di Santa Maria Materdomini: “sull’Altar del Cristo Miracoloso”…  Nel 1645, subito dopo gli anni della Peste, quando in Contrada erano rimaste attive solo 3 botteghe, una relazione medico-fisica sopra i sepolcri esistenti nelle chiese del Sestier di Santa Croce a Venezia dove s’erano tumulati i cadaveri infetti della “recente Morìa”, diceva: “… esser necessario di ben chiuderli et inarpesarli”. In Santa Maria Materdomini: “… ne esistevano in numero di sei …e in una Scoletta accanto (quella della Croce) in numero di quattro …Con nuova terra sia coperto quel Cimiterio, e lastricato con pietre cotte un pezzo di terreno nel Campo in cui esistono eminenze che coprono i cadaveri.” … Piano piano in Contrada si riprese la vita di sempre, e all’inizio del 1700, nel 1712 precisamente, le botteghe aperte erano di nuovo: venti.

Nel 1744 dal censimento dei 118 Casini di Venezia risultava che uno di questi era dislocato a Santa Maria Materdomini dove da sempre erano attive e risiedevano “suadenti donne di malaffare”… Nella “Cièsa delle Sette Madonne”si succedettero i Piovani don Giovanni Marchetti, dal 1754 al 1781; don Antonio Coltrini; don Ignazio Montàn e don Giuseppe Zappella… e nel 1790 in Contrada c’erano 303 persone abili al lavoro fra i 14 e i 60 anni (esclusi i Nobili che non lavoravano e vivevano di rendita, i quali ammontavano al 32% della popolazione della Contrada). La Contrada nel suo insieme contava 931 abitanti, funzionava la Spezieria da Medicine: “Il San Bernardo”, e in Contrada c’erano 30 botteghe appartenenti a ben 36 padroni !

Alla fine di febbraio 1796: “Esistevano in Contrada dei dilettanti di prosa con a capo un certo Lanza, chiamato Gnòcola, Scudiero del Doge, il quale insieme ai fratelli Moro (che non appartenevano già più al Patriziato) e due donne di casa Gritti, aveva costituito una Società che dava le sue recite in un locale presso il Campo di Santa Maria Materdomini. Le due attrici erano due civettòne sempre in cerca di amanti, e accanto alla sala dove si recitava vi erano altre camere da conversazione; forse per questo gli ammiratori correvano in folla …”



Nel settembre 1803, alla Visita del Patriarca Flangini alla chiesa e Contrada di Santa Maria Materdomini e agli Oratori privati di Ca’ Pesaro e della famiglia Sartorio, si relazionò fra l’altro: “In Contrada ci sono 900 abitanti di cui 600 miserabili, ma c’è una Levatrice ... La Cassa Fabbrica è in miseria in quanto la Rendita Fissa percepita dal Governo di 1.000 ducati non viene più percepita dalla caduta della Repubblica, e neanche i Legati a Beneficio dei Preti Titolati ... E’ ancora attivo il Legato del Piovano Palazzi di 800 ducati istituito per incrementare la Devozione al Crocifisso Miracoloso ... Le entrate della chiesa sono: 213,7 lire da Legati e Mansionerie di Messe, con uscite: 385 lire, di cui 90 per la Festa della Purificazione, e 130 lire per: ostie, vino e carbone.
Il Piovano ha come rendita: la casa di residenza in cattivo stato, ed entrate: lire 93 da contributi di Schole. I Preti Titolati percepiscono: il I° Prete entrate: 243 lire; il Prete Diacono entrate: 38,10 lire; il Prete Suddiacono entrate: 19,5 lire … i dodici Sacerdoti di Chiesa sono poveri ed infelici, e operano arbitrariamente la riduzione delle Messe … ma il Parroco da loro Messe “da poco”: 30-33 soldi, e si tiene tutte quelle da 2 lire … Manca l’elemosina di 6.000 Messe per suo difetto … ha registrato Messe non celebrate … non celebra la Messa “pro Populo” da 3 anni (era una Messa apposita dedicata alla gente della Contrada) …don Bon celebra altrove per ricevere elemosine più ricche, e non rende conto di 24 Messe ricevute dal Parroco … don Martini beve smoderatamente ed è ubriaco quasi ogni giorno con iscandalo … e con qualche parola libertina. Le correzioni non hanno sortito effetto positivo su di lui … In chiesa si lamenta molto del bisogno degli arredi Sacri che sono in rovina, come il tetto della chiesa …”



Al tempo del disastro napoleonico, invece, in chiesa c’era don Domenico Bazzanaspedito a fare il Parroco nella vicina San Cassiano, come accadde al suo successore don Ambrogio Piccioni, e poi a don Simeone Marinoni, che avevano anche loro in tasca la nomina per Santa Maria Materdomini, ma a causa del riordino delle Contrade, dei Monasteri e delle chiese di Venezia, dovettero andare ad esercitare come Piovano della vicina chiesa di San Cassàn.

“La cièsa de Santa Maria Materdomini ghà un campanil che par che gàbbia el capèo … Xe un campanìl scònto, ma bèo massiccio.” si diceva e scriveva a Venezia.


Il vecchio primo campanile in cotto alto 33 metri, con trifore e cuspide conica a pigna, era stato costruito nel 1384 a spese del Nobile Marco Cappello ... Nel 1503 venne trasformato, e vi si accedeva attraverso un portichetto buio sormontato da un monogramma “M”, da una piccola corona, e da una “Madonnetta col Bambìn” che dava direttamente anche sul Campo Santo ... In quegli anni il Piovano di Santa Maria Materdomini chiedeva alla Serenissima l’esenzione dalle tasse per la povertà della chiesa, il cui Capitolo dei Preti secondo i Catasti dell’epoca era il più povero di tutta la città di Venezia … Nel 1726 siccome il campanile era pericolante, il Piovano Giacomo Marchetti provò a farlo rinforzare dal lato della Calle, ma nel 1740 improvvisamente crollò giù tutto, e tre anni dopo si ricostruì il campanile che vediamo oggi collocandovi e adattandovi tre campane grandi provenienti da Sant’Antonio di Torcellodemolita, ed una campanella più piccola proveniente da San Canciano di Cannaregio di Venezia.

Nel 1879 don Antonio Galimberti, Vicario della “Cièsa delle Sette Madonne”dall’agosto 1865, e fra i coraggiosi firmatari di una Petizione all’Austria per far abolire la Commissione per la gestione degli ex Beni Capitolari ed Ecclesiasticiridotti ormai ad un terzo dell’originale (il Sovrano Imperatore neanche gli rispose), “fece collocare a sue spese un orologio sul campanile che mai innanzi c’era stato, e cominciò ad annunziare le ore nell'anno 1879", come ricorda una lapide ancora presente dentro alla torre attuale.



Nel 1829 intanto, s’era buttato via con un certo sdegno il barocco Altare del Crocefisso che aveva secoli prima fatto tanto discutere e contestare, pregare e guadagnare i Preti e i Veneziani. Lo si ritrovò solo nel 1960 dimenticato in una soffitta di San Cassiano, e al suo posto, sempre nel 1829, si collocò un vecchio Altare con San Francesco, San Bernardino, Sant’Antonio, Santa Chiara e Santa Elisabetta d’Ungheria finanziato e costruito dal Nobile Alvise Malipieronel 1537 (il San Ludovico [Alvise] scolpito al centro portava le sue sembianze) per la chiesa di Santa Maria Maggiore, che era stata di recente sventrata, trasformata in stalla e magazzino, e poi inglobata nel nuovo Carcere Maschile.

Fino a qualche decennio fa, se si voleva trovare qualcosa d’argento lavorato decentemente a Venezia, ci si doveva recare per forza nelle botteghe del Campo delle Sette Madonne(Santa Maria Materdomini), che era sinonimo di qualità e “buona maniera, e mano artistica”.



Provate a chiedere oggi a un bimbo Veneziano di Castello, della Giudecca o di Cannaregio dove si trova quella chiesa e quanto resta di quell’antica Contrada ? … Credo intuiate già la risposta.

Tutto è passato oggi in quel posto … come Siòra Amelia.



“Noterella simplex su le Mùneghe de San Zaccaria a Venessia.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 150.

“Noterella simplex sulle Mùneghe de San Zaccaria a Venessia.”

Vi potrà sembrare alla fine quasi impossibile, ma le Monache prima Cistercensi e poi Benedettine del Monasterio di 1° Classe di San Zaccaria Profeta e di Sant’Atanasio e San Pancrazio di Venezia

___Che era il principale, il numero “uno” in assoluto in Venezia e in tutta la Laguna …


___Che era potentissimo tanto da ospitare le figlie, la moglie del Doge (anche l’amante ?), quelle dei principali Nobili Mercanti, dei Senatori della Serenissima più ricchi e potenti come i Foscarini, i Querini, i Gradenigo, i Morosini… Il Doge stesso in un certo senso ne era il Primo Titolare, quasi il Primicerio, il Padre-Patriarca del Cenobio … Tanto che si recava spesso lì a ritirarsi e rilassarsi, talvolta a trascorrere la vecchiaia …

___Oltre a costoro nello stesso Monastero c’era un continuo andirivieni di Cavalieri, Principi, Nobili, Imperatori, Re, Ambasciatori, Abati, Vescovi, Cardinali, Badesse … e Nobildonne e Nobiluomini di ogni grado e sorta.

___Più che un Monastero, il loro Convento era in realtà una cittadella. Nei suoi tempi migliori San Zaccaria possedeva, gestiva,  e allestiva e abbelliva ben tre chiostri … Le Monache più che in Celle e Dormitori, vivevano quasi in appartamenti lussuosi … L’intero complesso era grande quasi quanto un’intera Contrada Veneziana … Aveva un suo Campo privato, e perfino un grande Cimitero senza contare tutto il resto …

___Intorno al Monastero ruotava inoltre tutto un intenso e fervido movimento commerciale e mercantile simile (nel suo piccolo) a quello di Rialto, perché al Monastero pervenivano prodotti e materiale di ogni sorta da ogni parte della Laguna e dalle Campagne, oppure ne ripartiva altrettanto per essere rivenduto, o investito e impegnato in spedizioni commerciali (gestite dalle Monache), anche salpando dal vicinissimo Molo di San Marco distante pochi passi …

___Lo stesso Monastero conteneva talmente tante opere d’Arte e di prestigio che solo con quelle potremmo mettere in piedi oggi almeno due di quelli che sono i nostri moderni Musei … se non di più.


___Sempre fra quelle robuste e vaste mura, s’intrattenevano uomini e donne di cultura, artisti e “il meglio del meglio” di quanto poteva offrire il mercato ... I migliori artisti venivano commissionati e impegnati, talvolta anche per anni, in lavori imponenti: affreschi, copertura con dipinti e teleri d’intere pareti della chiesa e del Monastero, Pale d’Altare, intarsi lignei, e lavori da Tagliapietra, scultore e scalpellino … e ritratti, e scene bibliche, e santi e Vergini di ogni sorta e di tutte le forme … e senza badare a spese: ricoperti d’oro, di colori e materiali preziosissimi … E insieme a costoro non mancavano Musici, Suonatori, Cantanti, Poeti, Letterati, Ballerini, e Saltimbanchi e Commedianti …

___E oreficerie, gioielli, e tappezzerie, e tessuti, ed arredi di ogni forma, colore e quantità e qualità …

___E se ancora non bastasse: le Monache di San Zaccaria avevano il perfetto controllo di tutto il circondario: erano di loro Diritto e Giurisdizione le due Contrade vicine e confinanti di San Provolo e San Severo di cui nominavano e stipendiavano direttamente il Piovano ...


___Le stesse Monache ricchissime e potentissime, che vivevano nel Claustro e in Clausura, ma che avevano la Nobiltà nel sangue con tutti i crismi che ne derivavano, davano da vivere e da lavorare a un intero esercito di barcaroli, domestiche, servitori e artieri di ogni sorta che giornalmente provvedevano alla manutenzione e al buon funzionamento di quella specie di paesello Monacale …

___Sempre loro … le Monache di San Zaccaria, che erano donne … ma che donne ! … Spesso “la crème” fra le Veneziane, anche se veniva loro precluso il matrimonio con loro pari, Non per questo erano donne mancate e asfittiche, ma rimanevano sempre donne “di gran classe” per nulla disposte a rinunciare al loro ruolo e ai loro costumi e abitudini aristocratici. Lì dentro, e per secoli, le Nobildonne Veneziane Monache ne hanno combinate di tutti i colori permettendosi di tutto, contrapponendosi a chiunque, comportandosi spesso in maniera spudorata e libertina, e senza paura di affrontare nessuno: Patriarca, Nunzio Apostolico, o Magistri o chi che sia … Quindi Monache da fuga, da amanti, da serenate, da Feste in Maschera e carnevale, da Marionette e spettacoli in Parlatorio, da pranzi e cene senza fine, da lussuosa villeggiatura … Da “grandeur”, insomma …


___Donne-Monache-Nobilissime ed economicamente superiori: forse fra i patrimoni più importanti e considerevoli dell’intera Serenissima: proprietarie per via di lasciti e concessioni e regalie che sono continuate per secoli, di grandi parti del Territorio Veneto e Perilagunare … Tutta Monselice, Vigne, chiese, colline e Rocca comprese appartenevano alle Monache di San Zaccaria … e questo è solo un esempio, perché poi possedevano una massa enorme di ulteriori terreni, e campi, e prati, e boschi, e case, ville, palazzi … e borghi interi, e acque piscatorie e in cui cacciare, e saline e anche qualsiasi cosa vi possa venire in mente … anche oltremare, seppure dentro al Bacino Mediterraneo.

Per gestire quella “montagna” di Patrimonio, le Monache si servivano di un’altra folla di Avvocati, Fattori, Notai, Procuratori e aiutanti che spesso le rappresentavano e curavano “in loco” i loro interessi in maniera arguta e fedelissima. Non si scherzava con “le cose” delle Monache. Chiunque aveva a che fare con loro le temeva, e sapeva che doveva osservare ogni cosa che avrebbero proposto e voluto. Più di qualche vita ruotava attorno al microcosmo delle Monache, e più di qualcuno/a utilizzava e trascorreva l’intera esistenza all’ombra e al servizio delle Monache ... alle quali poi era devotissimo.

In altre occasioni, invece, le Monache sapevano far valere i loro diritti e i loro interessi trascinando chi non li ottemperava o chi impunemente li attentava, in denunce, cause e processi che durarono: secoli !
Solo a vederlo il loro Sigillo, “el bòeo de le Muneghe de San Zaccaria de Venessia”… incuteva timore, e a volte: paura.


___Come Monache erano tenute a trascorrere parte delle ore quotidiane a pregare e cantare nel Coro, e a celebrare Messe di ogni sorta, e funzioni e ricorrenze seguendo il Calendario Monacale … E quella volta non è che certe cerimonie durassero dieci minuti: a volte “si buttava via la chiave”, nel senso che si andava avanti ad oltranza per ore … e prima c’era il digiuno di preparazione, e dopo iniziava il periodo del Ringraziamento … Ebbene: non era mai finita fra una Processione e l’altra, una Memoria per i Benefattori Defunti, e tutte le infinite scadenze anche delle numerose Schole che ospitavano dentro alle loro mura, o quelle volute dai Nobili che in certe epoche abitavano letteralmente le chiese, come fossero un salotto di casa. E in quelle circostanze si dava libera espressione a tutto lo splendore e lo sfarzo possibile mettendo in bella mostra: Miniature e Immagini, e Libri, e Abiti, Paramenti, e Oreficerie di ogni tipo.


___Le Monache di San Zaccaria, ossia quelle donne di spessore e di grosso calibro come potete immaginare, erano circa una cinquantina (decina più decina meno) in ogni secolo, e intorno a loro ruotava un altro piccolo esercito fatto di Converse, conoscenti, amiche, educande, Novizie … e chi più ne ha più ne metta.


Dove voglio arrivare ?

Volevo solo riferivi una “breve osservazione noterella” che riguardava quelle “Benedette Monache”… una delle tante che si potrebbero rinvenire circa tutto ciò che le riguardava. In certe epoche e in certi documenti importantissimi, è capitato più di qualche volta che le 48 Monache residenti nel San Zaccaria, non sapessero neanche leggere né scrivere, e che firmassero tutte, Badessa compresa, apponendo sulle carte una bella e semplice crocetta da analfabeta.

Incredibile ! … ma vero. Vivevano senza saper né leggere né scrivere.


Ma come facevano ? … … e non solo in qualche rara occasione, ma talvolta sempre, come loro modo abituale di comportarsi … anche per secoli. In quei tempi non c’erano Internet, la Televisione, né i Social, né le Biblioteche Virtuali, né il Telefono, né la Pubblicità …

Ma Venezia “girava alla grande” lo stesso, e le Monache … insieme a lei.




“El Redentor sul Monte dei Corni alla Giudecca … Veneziani creduloni ?”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 151.

“El Redentor sul Monte dei Corni alla Giudecca … Veneziani creduloni ?”

Si va ormai verso mattina, qualcuno del quartiere si sta svegliando o lo è già, e le Cicale hanno ripreso col loro solito stridente frinire infernale … Per aria poi ci sono gli altri, pure loro sempre i soliti … Come si chiama il rauco grido, lo stridulo verso dei Gabbiani ?

Gracchiano, starnazzano, ragliano ? … Che fanno i Gabbiani ? … Non saprei dirlo.

“Forse garriscono ?

“Come le bandiere al vento ?”

Qualcuno mi suggerisce che i Gabbiani: garrucano ! … Sembra sia questo il termine giusto. Insomma a quest’ora “presta” si sentono soltanto loro, un sottile pigolare di piccoli nascosti in qualche nido celato sui tetti, e quel loro sgraziato “imprecare volante”, che non smette mai né di giorno né di notte qui a Venezia ... Ormai i Gabbiani ci depongono le covate quasi in casa, tanta è la confidenza che hanno preso con questi posti … Assaltano e sventrano i sacchi della spazzatura … e arrivano perfino a planare sui gelati dei turisti.

Ascolto meglio gli ultimi momenti del silenzio notturno: si sente anche un lieve musicare. C’è qualcuno poco distante da casa mia che sta ascoltando la radio in sordina per non disturbare troppo … e intanto canticchia sottovoce. La brezza fresca e umida del mattino smuove le tende del soggiorno come vele: entra un piacevole sentore di salmastro ... Le lancette girano vorticose e mute come il solito, e rincorrendo loro i giorni si susseguono e trascorrono strappandosi dal calendario. Il nostro Mondo, il pianetone possente su cui siamo imbarcati a vita, ruota e gira immane su se stesso inventando i giorni ...  e anche il Redentoredi quest’anno è ormai passato, accaduto e archiviato … Non ci resta che aspettare il prossimo … Ancora 360 giorni, e ci saremo di nuovo !

Mi piace stavolta curiosare un poco … a modo mio … sul Redentore Veneziano.


“Che scrivo stavolta ?” mi chiedo mentre torno a lavorare in ospedale ... Un Colombo, intanto, se ne sta asfaltato e spiaccicato sulla strada … Candide campanule selvatiche penzolano in giro, Edere rigogliose si calano ovunque, strisciano palpando, s’estroflettono digitiformi sulla lingua asfaltata … Uno stormo d’uccelli scuri volteggia silenzioso sopra Venezia … Girano e rigirano eleganti formando grandi cerchi concentrici … Sembra quasi vogliano prendere confidenza con la nostra città … Turisti anche loro ? Poi improvvisamente desistono, come comandati da un invisibile segnale, prendono la via dell’est allontanandosi in faccia al Sole sull’orizzonte … e scompaiono.

Un treno bianco e blu strombazza malamente uscendo stridulo sui binari del Ponte della Libertà … Un motoscafo sfreccia sulla pancia liscia della Laguna dividendola in due da dentro un muro di schiuma e schizzi bagnati … Poco oltre procede, invece,  pigro e pesantissimo un barcone carico fino all’inverosimile che pare quasi sprofondare … Venezia si rifornisce per continuare ad aprirsi ai turisti che anche oggi stanno arrivando ... La Laguna adesso è iridescente … un arcobaleno d’acque disteso e appena pettinato dalla brezza leggera del primo mattino ...  Le “bricole” nere infisse verticali rovinano l’armonica visione, sembrano stonare dentro all’eleganza unitaria che esprime la Natura … Verso San Giuliano e la Terraferma alcuni uomini se ne stanno immersi nell’acqua fino al torace intenti a pescare … In fondo, verso le Valli da pesca, la Laguna si fa più profonda e solitaria, tutto è immoto, grondante e fragile … Le barene, i canneti sembrano trasudare silenziosi … Non sta accadendo nulla di strano e diverso dal solito, sta solo andando in scena lo spettacolo muto di un’altra nuova e ulteriore giornata.

“Mi dia la mano che l’aiuto a voltarsi e sistemarsi” sussurra una collega Infermiera alla fine della nottata verso un anziano minuto e consumato, tutto arruffato e avvolto nel camicione fin troppo largo dell’ospedale. Lui la scruta come sorpreso e incerto senza proferire alcuna parola ... Sembra dirle:“Ma chi sei ? … Che vuoi da me ? … Che ci faccio qui ?”

La collega attende un attimo, e la scena rimane come sospesa: il nonnetto osserva muto e interrogativo … Per un breve istante tenta quasi di ritrarsi sospettoso, ma è soltanto un attimo … Poi finalmente cede e acconsente: si lascia smuovere la coperta e le lenzuola … Si fida, anzi: s’affida.
“E’ sempre difficile morire !”penso osservando quella strana atmosfera quasi onirica, confusa, e dai contorni così incerti da essere quasi indistinguibili ...“E’ tutto come ieri … Come quella volta del Redentore … Anzi: con la Peste in giro deve essere stato ancora peggio a Venezia.”


Un’altra collega Infermiera “un po’ campagnola” mi distoglie dal mio rimuginare.

“E’ vero che Venezia poggia sopra a un'altra Venezia più antica ? … C’è una Venezia nascosta e sommersa che sta di sotto ?”

“Buona questa ! … Non si finisce mai di sentirne di nuove … E dove sarebbe questa Venezia ? … Sotto al fango e all’acqua ?”

“E che ne so ? … Forse sotto … Scavando un po’, e scendendo più a fondo …”

“Venezia non è come i campi della Terraferma … C’è acqua sotto, acqua intorno, acqua dappertutto che sale e scende con la Luna e la marea: … Sei ore a crèsse … sei ore a càla … Sei ore a crèsse e sei ore a càla … E’ sempre così da millenni … E’ la legge della Laguna che è tutta acqua e isole !”

“E sìtu andà in gondola l’altra notte ? … A sparonàr i fòghi del Redentor ?”


“Quest’anno: no … Coerente con la mia idea non ho assistito allo spettacolo pirotecnico dei Fuochi, né mi sono impelagato nella classica “Magnàda del Redentore” … Ho pensato, invece, un po’ da Veneziano d.o.c. di non perdere di vista “il nocciolo”, l’essenza di questa Festa tipicamente Veneziana … Il Redentore è sempre stata una delle Feste Veneziane più toste … Ho perciò deciso di recarmi al Tempio della Giudecca per rendergli in qualche modo omaggio … e sentirmi un po’ parte integrante di questa giornata tutta Veneziana.

Abbiamo percorso l’assolata Riva delle Zattere sotto a un cielo azzurrissimo, poi ci siamo finalmente avviati sopra al Ponte Votivo fatto tutto di barche ... Tutto ondeggiava piano mentre l’attraversavamo … Ci si sente come portare dalle onde … E’ come se la spinta dell’acqua ti porti onda dopo onda verso il Bianco Tempio solenne che ti aspetta di là, sulla Riva del Redentore … E’ sempre emozionante per me “camminare sulle acque” e attraversare quel Canale, che da sempre spacca in due Venezia e la Giudecca. E’ come se per un giorno soltanto le due parti della città provino di nuovo a riabbracciarsi in memoria di quell’evento che ha reso tutti i Veneziani unanimi e solidali ... Sai che i Giudecchini di solito dicono: “Vado a Venezia !” … come se andassero in gita “fuori porta”, fuori dalla loro solita zona … In realtà attraversano soltanto un canale e basta.”


Al di là dell’acqua e del Ponte ci siamo trovati davanti all’arrivo della Regata del Redentore: ha vinto “il Rosa” dei soliti intramontabili Igor e Rudi Vignotto … Ma non ho più visto quelle rive affollate di Veneziani e Giudecchini intenti ad applaudire e acclamare i regatanti. Rispetto a un tempo la fondamenta della Giudecca era quasi deserta, c’era solo il gracchiare freddo “da stadio” degli altoparlanti, e un seguito ondoso di barche e natanti che accompagnavano l’impresa sportiva … C’erano sì i palloncini colorati che ondeggiano in aria, i “balòni” del Redentor, e il solito profumo di frittole e caramello … Non mancava la Pesca di Beneficenza dei Frati, e neanche il chioschetto con i lavori delle Carcerate della Giudecca … Però mancava qualcosa … Qualcosa che una volta c’era.”

Mi ha sempre fatto molta impressione quel “doppio Tempio” che abbiamo a Venezia: quello del Redentore, e quello della Madonna della Salute. Sono entrambi dei chiesoni votivi realizzati nel giro di pochi anni … ed entrambi costruiti nel tentativo d’arginare e risanare Venezia sempre dalla Peste … che non voleva saperne di smetterla di mietere vittime in Laguna.

Due grossi eventi in meno di cent’anni circa, 1577: il Redentore… e 1630: la Salute… Anche se sappiamo bene che la Peste a Venezia, come altrove, è stata di casa per secoli su secoli. Comunque quelle due volte a Venezia la Peste ha fatto gran clamore … nel senso che ha fatto un’ecatombe di vittime.

“Due chiesoni in pochi anni ? … Ma come mai erano così creduloni i Veneziani ? … Tutto quell’andare continuo a bussare alla Porta di Dio, delle Madonne e dei Santi per trovare soluzione ai loro problemi ? … Non sapevano arrangiarsi in altra maniera ?”

“Beh … Il problema era proprio quello: non bastavano i mezzi e i metodi tradizionali ! … Pensa che sono stati i Veneziani a inventare i Lazzaretti … e ne hanno anche pensate e provato di tutti i colori … ma inutilmente … In quanto a furbizia, intraprendenza, baldanza, applicazione e orgoglio la Serenissima non è mai stata seconda a nessuno ... Venezia poi, in certe epoche prima d’adagiarsi su se stessa, se c’era un’innovazione, un’idea medica, un progetto: li faceva suoi ! … Il problema era: che proprio non c’era soluzione valida … Quelle che c’erano proprio non funzionavano e non bastavano … La “morìa” pareva proprio imbattibile … Per questo si rivolsero “Altrove, e più in Alto” … o almeno provarono a farlo.”


“Andarono a bussare alla porta dell’Impensabile … Al di là di ogni aspettativa …”

“Proprio così … Non è uno scherzetto vincere Morte e Pestilenza … A conti fatti la Serenissima quella volta comprese che quello era un Male ben peggio dei Turchi e degli Infedeli … Non si poteva combattere e saccheggiare la Morte … e neanche sbaragliarla “a suon di cannonate furbe de le Galeazze” … Non c’era strategia buona che tenesse …”

Entrato in chiesa del Redentore mi sono fermato a veder troneggiare ancora oggi dopo secoli quel Cristo scuro e muto, Nero come la Peste e la Morte tanto sofferte dai Veneziani. Se ne sta ancora lì sotto al suo copricapo fatto a corona, e sotto al mantello di velluto rosso fuoco: “Rosso come el sangue … e Rosso come l‘Amor …” mi ha sibilato accanto una vecchina della Giudecca ...“E po’ … el Redentòr no sarìa un Morto, ma un Risorto trionfante ! … un Vivo quindi !” ha aggiunto ... “El Redentor xe el rimedio de ogni Peste.”

Caspita la vecchietta Giudecchina ! … Ne sa di Teologia, quasi quanto io un tempo.



Un esile Frate Cappuccino, invece, me l’ha racconta ancora meglio: “Il Golgota era il "Monte del Teschio" perché lì la tradizione diceva che c’era stato seppellito il teschio di Adamo, ossia del primo uomo peccatore, libero, caduto, ed emancipato da Dio … Adamo è stato come il “riassunto” di tutta l’Umanità … L’Umanità ha sempre avuto necessita d’essere redenta e salvata in una maniera o nell’altra … L’Uomo non ne ha mai avuto abbastanza, ha sempre voluto starsene per conto proprio, non aver bisogno di nessuno … E’ sempre andato anche a cercarsi rogne, oppure le difficoltà gli sono capitate addosso … La scena del Cristo Moribondo in Croce è stata quindi come un remake, una clonazione della Morte a cui sono sottoposti obbligatoriamente tutti … Solo che quella Morte a sorpresa si è prolungata in Vita, in seconda chance, in nuova Umanità prolungata, rinnovata e salvata … L’Albero della Croce si è trasformato da Albero Invernale Spento in Albero Primaverile Rinato, Risorto … ossia Redento: il Redentore … una Vita ridata, restituita …”

“Caspità ! … Mi sembra d’essere tornato a Catechismo ! … Non erano banali i Veneziani di quei secoli se arrivavano in qualche maniera a considerare queste cose almeno vagamente.”

“Lo facevano … Lo facevano … Il Redentore è stato per i Veneziani: una lieta notizia, una bella sorpresa … la Soluzione insperata ai loro problemi … Un passaggio, una nuova Pasqua da Morte certa a Vita ritrovata … La fine della “morìa” insomma … Ci sarebbero tante altre cose da dire e aggiungere al riguardo … Il Redentore sarebbe un mare di significati e di simboli … “

“Cioè ?”

“C’è tanto di nascosto nell’immagine del Redentore, i Veneziani non l’hanno scelto a caso … Quando Cristo venne ammazzato c’era la Luna quasi piena, ossia una Luna a metà del suo solito percorso … Richiama una vita giunta a piena maturità, una vita trascorsa per buona parte … L’Umanità è per sua natura legata alla transitorietà, è impermanente, labile, contingente ... come la Luna che sale, splende in pienezza, e poi tramonta … In quello stesso momento della Crocefissione, anche il Sole simbolo dell’eternità immutabile, si trovava … fatalità … giusto sul mezzogiorno (l’ora sesta), cioè a metà, allo zenith del suo giornaliero scorrere … I Vangeli Sinottici parlano dell'ora terza e sesta (l’ora in cui si sovrapponevano Luna tramontante e Sole sorgente) ... L’Evangelista Giovanni, invece, che adottava altri linguaggi simbolici, parlava, invece, di pomeriggio inoltrato … Ossia le circostanze di quella strana morte di Croce erano in se un potente richiamo … In quell’epoca la vita umana durava circa settant'anni … Il punto centrale quindi dell’esistenza era circa quei trentacinque anni dell’età del Cristo … che sono stati anche quelli del Budda, dell’Illuminazione, dell’incontro col Profeta ... Tutto torna un po’ … Quindi Cristo è morto in quell’età intermedia in cui l’Eterno ossia Dio, e il Transitorio cioè l’Umanità si sfiorano e quasi si sovrappongono e incrociano ... Giusto a metà di quel “viaggio terreno”, quindi, Cristo si è trovato sbattuto sopra alla Croce: Albero della Morte e della Vita, novità tra Sole e Luna, a cavallo fra peccato e libertà, fra materialità transitoria e ultramondanità misteriosa e metafisico-ontologica fautrice di nuova vita …”

“Ehi ! … Vacci piano! … Mi sto perdendo !”


“Voglio dire che l’immenso terribile evento mistico della Crocefissione che in se è Morte, spalanca una novità benigna trascendente difficile da trascurare … L’Umanità si trova di fronte un messaggio che la lascia perplessa, ma in cui anche si ritrova e vede interpretata … Soprattutto vede una proposta, “un Oltre” a quella Porta invalicabile e definitiva … Per questo il Redentore ha ridato fiducia ai Veneziani percossi dalla Peste, e molto simili a quel “malandato” Adamo ridotto a teschio … E’ stato: la risposta che mancava … la soluzione per la Peste Mortale … Guarda quel lumino quasi spento, ma ancora acceso, posto ai piedi del grande Cristo Nero Morto Appestato … Lo vedi ? … E’ la Fede, la fiducia dei Veneziani in quell’incredibile Mistero Crocifisso e Redentore.”

Che dire e aggiungere ? … Per un po’ sono rimasto muto a scrutare quel teschio collocato ai piedi di quel Crocifisso innalzato e moribondo, e ho ripensato ai Veneziani di allora a quel loro capolinea esistenziale tragico da cui volevano ripartire ... Li ho rivisti appesantiti, stanchi e grevi, addolorati e senza parole … ma speranzosi.

“Quando i Veneziani venivano al Redentore, da grandi e spietati che erano in tutto il Mediterraneo e nel mondo di allora, si facevano piccoli e docili … Si riconoscevano ridotti a quel lumicino che vedevano ardere flebile … come oggi … ai piedi del Grande Mistero muto della Croce ... Anche il potente Doge e il Senato qui si facevano bassi e piccoli cercando Misericordia e Aiuto, e s’intendevano come spettatori di quella specie di Calvario Lagunare saturo di Morte ... Qui i Veneziani distrutti dalla Peste cantavano ai piedi del Cristo Nero della Giudecca lo Stabat Mater della Madonna Addolorata … Avevano avuto quasi 50.000 morti, fra cui anche il pittore Tiziano … Le conosci le parole di quel vecchio canto medioevale ? … Ripensale sulle bocche dei Veneziani appestati!”

Eccolo in sintesi quel vecchio testo-orazione-cantata:
“La Madre Addolorata stava in lacrime presso la Croce da cui pendeva il Figlio … Il suo animo gemente, contristato e dolente era trafitto da una spada ... Quanto triste e afflitta …Come si rattristava, si doleva la Pia Madre vedendo le pene del celebre Figlio! … A causa dei peccati del suo popolo Ella vide Gesù nei tormenti, sottoposto ai flagelli … Vide il dolce Figlio morire abbandonato mentre esalava lo Spirito ...Oh, Madre, fonte d'amore, fammi provare lo stesso dolore perché possa piangere con te …Del tuo figlio ferito che si è degnato di patire per me, dividi con me le pene … Fammi piangere intensamente con te, condividendo il dolore del Crocifisso, finché io vivrò ... Accanto alla Croce desidero stare con te, in tua compagnia, nel compianto … Che io non sia bruciato dalle fiamme, che io sia, o Vergine, da te difeso nel giorno del giudizio … Fa' che io sia protetto dalla Croce, che io sia fortificato dalla morte di Cristo, consolato dalla grazia … E quando il mio corpo morirà fa' che all'anima sia data la gloria del Paradiso … Amen.”



“I Veneziani di oggi sono di certo molto cambiati rispetto a quelli di qualche secolo fa … Oggi tutto “gira” diversamente…”

“Si … Di certo adesso sono meno “Devoti e de cièsa”, e preferiscono ricordare la ricorrenza estiva del Redentore come un bel appuntamento e una buona occasione per “Magnàr e bèver in compagnia, e gustàrse i fòghi in barca o sulla riva” ...  Solo alcuni riempiono la Festa con altri contenuti che i più considerano “tradizionali e un po’ nostalgici” … Però penso che in tutti sia rimasto un pizzico sia dell’uno che dell’altro: che sia rimasto ancora vivo il senso profondo di questa nostra Festa.”

“Magari qualcuno ripenserà a certi discorsi “in punta di piedi”, senza esternarli più di tanto … “Stare ai piedi della Croce” per noi di oggi è uno scenario che non va molto di moda … A molti non dice quasi nulla … Anzi: annoia, e provoca senso di fastidio e d’inutilità … Si pensa sia una cosa bigotta, chiesastica … o qualcosa del genere.”

“I Veneziani di un tempo, probabilmente, possedevano uno spessore interiore ed emotivo diverso ... Sapevano essere forse: più partecipi e riflessivi.”

“Noi di oggi abbiamo una consapevolezza diversa … Siamo molto cambiati … e poi non c’è più neanche la Peste …”

“Beh … se è per quello … Oggi esistono Pesti diverse … Secondo me l’umanità è sempre afflitta da qualche Pestilenza da cui non è capace di guarire con le sue sole forze.”



Basta ! … Il Redentore mi ha intasato la mente con le sue profondità … Usciamo di nuovo in strada immergendoci nella folla chiassosa e festante dei Veneziani sulla Riva della Giudecca… Sbirciamo l’intenso andirivieni sul ponte che attraversa il Canale quasi come insolito miraggio ... Le Fondamenta della Giudecca a destra e a sinistra, però, sono stranamente poco animate … Non sono più intasate di gente per ore su ore come accadeva qualche anno fa … La Festa va indubbiamente scemando, rallentando e assopendosi come tante altre ricorrenze cittadine che oggi non esistono quasi più … Certe vecchie Feste Veneziane: ci sono e non ci sono … Quasi fossero diventate qualcosa per pochi intimi coraggiosi … e forse un tantino nostalgici … Ma forse mi sbaglio.

“Tutto va bene ! … La Festa del Redentore è viva e vegeta più che mai.”, mi ha ribadito, infatti, più di qualcuno recentemente, “Non facciamoci troppe paranoie con questa nostra Venezia tutta in mano ai turisti … E’ ancora tutta nostra … E in fondo se è ridotta così, è perché gli stessi Veneziani l’hanno permesso ... Venezia comunque è ancora viva !”

“Un colpo al sèrcio … e uno alla bòtte … un colpo al sèrcio … e uno alla bòtte.”… Chi avrà mai ragione ?



Lascio scivolare via i pensieri … e toh ? … Non sarà mai ? … Notiamo spalancata l’entrata del Convento dei Frati Cappuccini in Calle dei Frati, proprio accanto al chiesone del Redentore.

“Si può entrare liberamente ! … E’ un’occasione da non perdere ! … Andiamo subito !”

Infatti siamo entrati subito … E ci siamo ritrovati dentro alla grande cittadella dei Frati, ammaliati dalla sua bellezza, e anche felici di poter ritornare a mettere piedi e occhi in quel posto Veneziano così suggestivo ... e recondito.

“Sono almeno trent’anni che non entro qui dentro !” ho esclamato contento … e anche un po’ emozionato. E’ stato come se il Redentore avesse voluto ancora una volta mettere in mostra i suoi gioielli nascosti.

“Riecco la chiesetta di Santa Maria degli Angeli ! … Ricordo i suoi silenzi deserti … L’atmosfera particolare … Era l’Oratorio degli Emeroniti !”

“Emero … che ?”

“Niente … Niente … Andiamo avanti … Ti dirò dopo … Gustiamoci l’attimo !”

Pur nella soddisfazione di ritrovarmi lì dentro, mi si accende però una domanda nella mente, che diventa sempre più pressante e invadente: “Ma dove sono finiti tutti ?” chiedo a un Fraticello giovanissimo e arzillo che sta spiegando.
“Tutti chi ?” risponde ovviamente.
“Ma … Padre Grio, Padre Moro … e Padre Gervasio ?”
“Padre chi ?”  mi risponde un po’ sorpreso.“Non li conosco … O forse li ho appena sentiti nominare …”
“Lasciamo perdere … Non importa … Sono suggestioni e nomi del mio passato.” Aggiungo. Poi rifletto fra me e me: Tutti andati ! … Non ci sono più …Spero non abbiano fatto la fine di Monsignor D’Este, il mio vecchio Professore di Morale degli Studi Teologi da Prete ? … Non l’ho più rivisto per decenni, e quando un bel giorno l’ho incrociato di nuovo nella Sacrestia della Madonna della Salute, di quell’uomo colto e raffinato non era rimasto più niente … Ci poteva anche stare che non mi riconoscesse più dopo tutti quegli anni, ma quel che più mi ha impressionato è stato il fatto che era scomparsa del tutto quella sua splendida testa, la sua lucida memoria, e la sua preziosa cultura … Dove sono allora quelle teste fine, quelli che c’erano qui ieri ?”


Il Fraticello continua ad osservarmi … Non sa che rispondermi … In realtà conosco già la risposta di cui avrei bisogno … So già che alcuni personaggi non ci sono più, come i Veneziani della Peste di ieri. Il Tempo e il Destino se li sono portati via per sempre con tutto il loro patrimonio di Cultura e conoscenze, e le biblioteche di libri rimasti oggi sono solo silenziosi testimoni pallidi incapaci di ridarci quel “tanto di Maiuscolo” che sono stati quegli uomini, oggi andato inesorabilmente perduto per sempre.

“Peccato !” mormoro pensieroso continuando a scrutare quei luoghi rimasti per me così vuoti … Il Fratino, intanto si allontana continuando a spiegare … e io continuo a rimuginare: “Dove sarà andato tutto quel prezioso cavillare … Le casistiche su cui discutere … Le complessità, le eccezioni, le regole, quell’arzigogolare in lingue perdute antichissime, le ostiche Materie antiche retaggio di pochi ? … Puff ! … Tutto scomparso ! … Tutto superato, svampato e dimenticato, perso nell’aere, sepolto dal Tempo … E’ andato perso e spento tutto quell’infilarsi fra i versetti dei testi plurimillenari svelandone e riconoscendone tutti quei significati sepolti e quasi invisibili … Che esperienze !”

Torno ad osservare il Fraticello giovanissimo, che sembra essere stato appena “confezionato di fresco”, con i sandalini che luccicano di cuoio scuro nuovissimo. Mi scruta un po’ perplesso per non dire sorpreso. Come a dire:“Ma questo qua ? … Da dove salta fuori ? … Che razza di fantasmi sta inseguendo ?”

E’ candito e paffuto il cordone bianco nuovo di zecca che gli pende dalla cintura … Non c’è traccia di quei cordoni secchi e annodati, striminziti e consunti a suon d’usarli che un tempo cingevano i fianchi dei vecchi Frati Cappuccini che conoscevo io … Non vedo più quei neri Rosari lunghissimi e penduli, pesantissimi, e vissuti ? … Con quei grani pesanti e lucidi a suon d’usarli, “tirarli, ricontarli e pregarli”.

Oggi mi ritrovo qui davanti questo ragazzetto quasi imberbe, che pare quasi un “Fraticello da latte”… Sembra gongoli e volteggi dentro alla sua ruvida tonaca Francescana nuova fiammante … Non ci sono in giro gli abiti sbiaditi, le mezze mantelle invernali dei Cappuccini di allora, le tonache smarrite e sudaticce, e le ciabattose sandalerie rumorose e cigolanti di un tempo ... A volte erano per davvero “Zoccolanti” i vecchi Frati Cappuccini e Minori … Adesso sembrano leggeri, quasi capaci di “volteggiare in aria”.

Dopo un po’ abbandoniamo il Fraticello, e ci addentriamo da soli nell’insieme godibilissimo degli altri interni del Convento. Attraversiamo i meandri labirintici e ombrosi dei chiostri, i luoghi essenziali in stile Francescano povero … ambienti senza Tempo. Infine usciamo finalmente sul retro del Convento entrando dentro al grande polmone verde naturale che si estende dietro affacciato sull’amenità della Laguna. E’ un vero e proprio podere, un fondo agricolo di una certa rilevanza, un’area ben tenuta coltivata ad orto, vigna e frutteto ampia quanto l’intera larghezza dell’isola della Giudecca … che non è pochissimo.

“E’ un luogo bucolico di delizie !  … Una vera sorpresa per gli occhi, e una bella immagine per la mente.”


Lì sembrava che la Festa del Redentore non esistesse più. Si assopivano fino a sparire gli eco del chiesone, le Musiche, le parole degli altoparlanti, e pure il brusio festoso dei Veneziani e dei turisti … Anche le voci dei Fraticelli che facevano da guida erano scomparse. Lì dominava solo: Pace e silenzio.

“E’ questa l’essenza e il tocco del Redentore di quest’anno.”

Porgo l’orecchio … Mi sembra di sentire qualcuno che sta cantando in mezzo al verde … Eccolo là ! … C’è per davvero uno con un cappellaccio di paglia in testa, e i piedi piantati sulla zappa e sulla terra dell’orto. Lo riconosco: “E’ Piero Cànta ! … Quel Giudecchino sempre presente a ogni cerimonia, che cantava sempre col suo vocione … Ha vissuto una vita intera qui dentro !”

Si volta dalla mia parte: è proprio lui, col suo ghigno tipico, inconfondibile … Strizza la faccia, dondola la mandibola.

“Quanta terra e vigna dei Frati abbiamo voltato e rigirato !” mi dice, “Abbiamo vangato queste zolle mille volte … Voltate e rigirato questa terra dell’orto come fosse un calzino … Dentro alla nebbia, sotto alla pioggia … con certe zimarre pesanti addosso …”
Non ho potuto fare a meno di riconoscere le sue mani ruvide e callose … “Che lavorate coi Frati ! … e che ciucche ci siamo presi col vinello della vigna insieme a loro … Che cantate in Santa Allegria !”

Mi volto un attimo per fare un cenno agli altri di raggiungermi, per presentare anche a loro quel personaggio così singolare … Mi rivolto di nuovo … Non c’è più nessuno. C’è soltanto l’orto illuminato dal sole … E’ stato come un miraggio … Un ricordo scappato fuori dalla mia mente.
Ho mosso allora di nuovo i passi addentrandomi in un denso boschetto dove le ombre giocavano con la luce … Anche lì tutto sembrava perfettamente immobile ... Stavolta quasi mi sono spaventato per la sorpresa: c’era veramente qualcuno. C’era, infatti, un giovane Monacoscuro, che se ne stava fermo, appartato, e ad occhi chiusi in mezzo agli alberi. La tonaca nera gli giungeva lunga fino a terra, e nella penombra delle frasche pendule risaltava il luccichio del grosso cinturone che gli cingeva i fianchi … Stava meditando e forse pregando, in attesa che giungesse il momento della grande Processione serale del Redentore.

Mi sono allontanato subito in punta di piedi, stando attento perfino a non urtare i sassi del sentierucolo per non disturbarlo … E’ una rarità incontrare persone del genere … Perciò ho inseguito ancora i miei passi fra vasi, Rose, fiori, arbusti e piante … fino a intravedere una ragazza distesa sopra a uno sdraio.

“Sta meditando pure lei ?”

“No … Quella se ne sta in vacanza a Venezia ... Ospite dei Frati del Redentore … Sta prendendosi il sole.”

“Ah ? … Bello e strano questo Convento: c’è proprio di tutto e di più … Sono proprio cambiati i tempi.”



Ci allontaniamo di nuovo, quasi smarrendoci in quel luogo simile a una scatola cinese da aprire e scoprire senza fine … Indugiamo ancora in certi angoli … Rimaniamo pure noi immobili a scrutare la Laguna che si spalanca davanti a noi … Isole su isole … Una barca che veleggia e voga, e fila via lontana … Suonano le campane del Redentore … ma sembrano lontanissime. Nell’aria c’è un sapore d’antico … un “che” di campestre: il frutteto, il vigneto, l’orto coltivato, i capanni degli antichi mestieri, la sacca affacciata sulla Laguna, la cavana con le barche dei Frati …

“Tutto è rimasto intatto e immobile qui dentro … Come se il tempo si fosse fermato per sempre ... Non sembra neanche più Venezia.”

“Ricordo un Frate mio “professore” che ci raccontava di come si dilettava a lavorare e forgiare il ferro qui in questi capanni del Redentore.”

Infine dopo lungo vagare, ritroviamo la porta del Convento … Rientriamo, e incappiamo subito in un’ombra furtiva di un Frate che passa.

“Buona sera Padre !”

Per un attimo mi è sembrato un volto familiare … Ma, invece, non lo era affatto.

“Sono Fra Francesco dal Bosco da Valdobiadene Minorita Cappuccino … che tutti chiamano “il Castagnaro” … ero un Erbolario del Convento, uno Speziale del Redentore … cioè un Farmacista di una volta …”
E quasi come un fiume in piena, senza neanche chiedergli nulla, ha incominciato a raccontarmi incontenibile delle sue ceramiche, dei mortai coi pestelli, dei bilancini di precisione, della sua fragile vetreria con “i lambicchi di Murano”, dei suoi entusiasti giovani alunni e discepoli … e soprattutto dei suoi medicamenti preziosi, dei “rimedi”ricavati dai Semplici dell’orto del Redentore ….

Fra Francesco del Bosco da Valdobiadene il Castagnaro ha pubblicato in 450 copie nel 1664 a Verona per i tipi di Giovanni Merlo: “La Prattica dell’Infermiero”Manuale empirico di rimedi arricchito da nozioni teoriche, dedicato a Tadio Morosini Capitanio di Verona.

“Sono ignorante e goffo”, ha continuato a dirmi, “Addotrino il caritativo Infermiero su come ne casi repentini possa applicare li rimedi proporzionati a mali de suoi infermi... Quella dell’Infermiero è un’Arte Longa, e per governare mediocremente bene un’Infermaria non basta una vita intera … Ne casi difficili mai ho voluto servirmi de secretucci come fanno Ciarlatani e Donnicciole … Son nato in un Castagnaio, ed acconciavo botti quand’ero nel Mondo essendo al secolo, e non sapevo far altro mestiero … Per più di quarnt’anni ho esercitato l’ufficio d’Infermiero del Convento, e che tutto son povero di lettere, con longa esperienza e prattica ero così valoroso che non solo gli stessi Medici mi addimandavano consiglio, ma anco s’accomandavano al mio parere …”

“Siamo colleghi allora ! Buon Frate Castagnaro ! … Sono anch’io Infermiero di oggi a Venezia !”

Pareva non avermi neanche sentito, e con gli occhi lucidi, fermo sui gradini a metà della scala, ha continuato a dirmi:“Ho scritto queste cosarelle e trattatelli non come Medico Fisico o Chirurgo o Chimico o Speziale, ma come semplice Prattico, nel modo e forma che sono state da me osservate e imparate da miei buoni Professori, essendo il mio istituto di vivere da povero Religioso, per mera Misericordia di Dio mutato habito et costumi, col merito dell’Obbedientia faccio l’Infermiero … Insegno come confetionar li Semplici ad personam come rimedi medicali officinali … Ho scritto l’Index Herbarum e le Tavole delle Infermità in sei trattatelli … Inizialmente ho discorso d’Urine, de Polsi, della Facoltà, degli Umori e altro … In seguito ho detto del modo di curar le Febbri e suoi Accidenti … Ho aggiunto osservazioni sui Mali del Capo, del Petto e del Ventre Inferiore … Ho proseguito a parlare delli Mali Articolari e del Morbo Gallico, e poi delle Piaghe, e dei Medicamenti Semplici o Composti a guisa di un Antidotario breve e facile …”

“La Spezieria del Redentore caro Frate …” ho provato a dirgli ancora, ma niente … era irrefrenabile.

“Vorrei pure parlarvi de mie seicento fra Albarelli, Tisaniere, Boccie, Boccali, Brocche, Orci e Vetrerie … Delle Bozze et Lambiccherie che mi hanno costrutto i Vetrai di Murano … Sapete ! … Alla fine del mio umile testo ho posto un’Orazione come chiave d’oro per aprire il Paradiso … ogniqualvolta si cada in peccato mortale … ma ho detto pure di come raccogliere in scatole di faggio. Ho detto de Semplici: di come conservarli, distinguerli e lavorarli ... Ho precisato de: sepali, de petali, de pistilli e foglie, e ho spiegato de gambi, radici, tuberi e bulbi …e di come in previsione farli divenir Rimedi ... Mi sono intrattenuto a lungo nella nostra Speziaria de Frati … e siamo ancora qua: al servizio dei Giudecchini e dei Veneziani … Questo mio posto potrà sembravi forse antro Alchemico o da Strìghe, ma è in realtà è locho d’ingegno, et casa di grande pratica caritatevole e medicatoria.”

Mi pareva di sognare, e osservavo quasi estasiato quella figura pallida di Frate apparso dal niente … Non ho perso una sola parola delle sue magistrali note, e ho apprezzato grandemente l’entusiasmo e la foga con cui mi ha messo al corrente di tutto quel suo operare fra le mura del Convento del Redentore … Era talmente preso nel dirmi, che gli sudava la fronte per il grande coinvolgimento, e l’asciugava di frequente con un largo fazzoletto candido che estraeva dalle sue maniche arrotolate fin sopra ai gomiti … Poi, improvvisamente, ho udito rimbombare dei passi poco lontano da noi: “Uno … due ! Unò-due ! Unò-due ! … Gira !”
Ho volto subito la testa da quella parte.

“Ma che è ? … Chi c’è ?” ho detto rivolgendomi ancora al Frate Castagnaro … Ma già non c’era più: era scomparso del tutto.

C’era solo nella mia immaginazione … Intorno e davanti esistevano soltanto i gradini chiari della scala che giocavano con le ombre, una porta socchiusa in alto, un bel corridoio in grezza pietra, e tanta suggestione emotiva che provavo dentro … e niente più.

Comunque non gli è sembrato vero al vecchio Frate Castagnàro che ci fosse ancora qualcuno disposto ad ascoltarlo.

“Uno … due !… Unò-due ! Unò-due ! … Gira !” continuavo ad avvertire ancora in lontananza.

Ho seguito allora la scia dell’eco di quello strano vociare, e infine li ho visti distintamente. Si trattava di alcuni Vigili Urbani Veneziani non più giovanissimi che stavano provando alcuni passi di marcia col Gonfalone di San Marco in spalla. Erano delle “mosse” da eseguire durante la Processione del Redentoreaccompagnando il Sindaco di Venezia accanto al Patriarca e le autorità cittadine. Erano intenzionatissimi a ben figurare, perciò provavano e riprovavano delle “virate plastiche” da eseguire all’unisono, e marciavano picchiando il passo sul pavimento per darsi un certo tono e una qualche solennità.

“Unò … due ! … Unò-due ! Unò-due ! … Gira ! … Proviamo ancora dai !”

“Unò … due ! … Unò-due ! Unò-due ! … Gira ! … Gira ! … Così dai ! … Ci siamo quasi.”

“Unò … due ! … Unò-due ! Unò-due !”  si è messo aripetete pure il terzo della piccola fila … e il Gonfalone di San Marco ballonzola goffamente in aria dondolando con loro: “Unò … due ! … Unò-due ! Unò-due ! … Ancora una volta ! … Dai !”

Volevano proprio apparire belli ed eleganti.

“Qui già nel 1522 Lucia Centi madre del Predicatore Francescano Bonaventura Centi, in contatto con i Cardinali Carafa e Giberti, donò all’Ospizietto della Zuecca una casa di gran valore, e molte volte migliaia di ducati … Fu ancora lei una delle Compagne devote che fondò l’Ospedale degli Incurabili sulle Zattere.” raccontava una vecchia Cronaca Veneziana.

Scriveva, invece, Flaminio Corner nel suo: “Notizie storiche delle Chiese e Monasteri di Venezia”:“Negli Annali Francescani il celebre Wadingo racconta che inizialmente sorse alla Giudecca nel 1532 su iniziativa di Fra Paolo da Chioggia, un Eremo e lòcho d’asilo chiamatosi Santa Maria Angeli … Il Ministro Generale dell’Ordine dei Minori costretto dalle premurose istanze del Procurator Domenico Trevisano e dei Cardinali Cornaro e Pisani, concesse facoltà di fabbricarvi in Venezia un Monastero dell’Osservanza, e ne costituì Commissario per l’erezione un Fra Bonaventura da Venezia (ossia fra Bonaventura degli Emmanuelli Minore Osservante Veneto), confessando poi di non sapere se veramente sia esso Convento stato istituito … Arrivando dappoi all’anno 1538, scrive, che avendo Caterina Cornara Regina di Cipro ordinato vicina a morte, che i suoi parenti della Famiglia Cornaro da lei lasciati eredi, dovessero costruire un Convento de’ Minori Osservanti presso Castelfranco, e trascurandone esse la esecuzione, Fiorenza Vedova (sorella in realtà, moglie di Pietro Trevisan) di Giorgio Cornaro, fratello della Regina, a persuasione di Fra Bonaventura Confessore della Regina stessa, acquistate alcune case con orto contiguo presso la Laguna, ivi eresse un’angusta chiesa sotto il titolo di Santa Maria degli Angeli con un piccolo convento sotto nome di Eremo nel qual egli non molto dopo vi ricevette i Frati Cappuccini …”

“… con permissione del senato nel maggio 1541 … venne consegnato al lodato Fra Bonaventura da Venezia Minor Osservante Eremita per di lui solitaria abitazione quel remoto luogo della città con angusta casa a forma di Eremo, con suo campanile e cimiterio, ov’egli con alcuni pochi compagni potesse vivere austeramente in penitenza ed in silenzio … Lì ricevette a vivere insieme un suo Fratello di nome Fausto Prete secolare, insieme con un Ecclesiatico, e altro secolare con facoltà che morendo o partendo alcuno potessero gli altri sostituire in di lui luogo un altro per ivi vivere solitariamente …”raccontano ancora le Cronache.

In seguito Fra Bonaventura rapito dalle parole di Frate Bernardino Occhino Ministro Generale dei Minori Cappuccini giunto a Venezia nello stesso 1541 per predicare Quaresimali, gli offrì in regalo il Romitorio della Giudecca. Ma poi essendo divenuto l’Ochino Apostata dell’Ordine e della Cattolica Religione, nonchè Eretico, cacciò via dal Romitorio di Santa Maria degli Angeli tutti i Frati Cappuccini senza distinzione, compresi quelli esemplari che andarono a rifugiarsi in casa di un secolare Veneziano.

Più tardi i Frati vennero reinseriti in numero di quattro Eremiti, e si formò nel 1546 una nuova Compagnia del solitario Fra Bonaventura in un nuovo “piccolo Convento di tavole nella stessa isola della Giudecca, in un sito assai abbietto detto il Monte dei Corni, per esservi ivi raccolte le Corna de’ Buoi e degli altri animali che in Venezia ammazzavansi … Ivi si costituirono nuovi Oratori e Celle dedicate a Sant’Onofrio e San Martino …”

Qualche tempo dopo, accaddero le doglianze dei due contigui Conventi di San Giacomo dei Religiosi Serviti e delle Monache Agostiniane della Croce: “… per lo pregiudizio e la troppa vicinanza di un’altra Regolare Famiglia al loro Monasterio.” Perciò ricorsero al Senato Serenissimo che decretò che quelle nuove “case de Frati” dovessero rimanere solo come “Romitaggio ridotto” per Fra Bonaventura ormai malato di Pellagra, e altri due soli compagni fino alla sua morte, dopo della quale tutto sarebbe dovuto essere abbattuto e distrutto.

Invece le cose non andarono affatto così … Nel 1552 i Frati Cappuccini presenti e attivi nell’isola della Giudecca erano 16 ... Nel 1567, ai tempi di Papa Pio V, del Doge Girolamo Priuli, e del Patriarca Giovanni Trevisan, un giovane Frate Cappuccino della Zuecca “dal vago aspetto, e tanto onesto nei costumi, venne barbaramente ucciso in Venezia da due perfide femmine, che provato a sollecitarne senza successo le Caste Virtù, non trovarono di meglio che pugnarlo a morte, e abbandonarne il corpo in una calle … Fu un probo Confessore dei Padri Gesuiti che rivelò in seguito l’arcano della morte del giovane Frate, pur mantenendo segreto il nome e l’identità delle due nefande malcapitate, una delle quali andò a implorare Misericordia Divina in Confessionale ...”

“Morto il buon solitario Fra Bonaventura, e temendo tantopiù che il debole e angusto ritiro in continuo pericolo di rovesciarsi per l’impeto dei venti a cui era esposto … Nel 1548, infatti, un impetuoso turbine urtò con violenza il piccolo recinto dei Cappuccini facendone un mucchio di rovine, i Frati furono costretti ad andarsene di nuovo. Il Senato si commosse allora per le virtuose qualità riconosciute dei Frati Cappuccini, perciò restò loro accordata la Grazia di stabilirsi in perpetuo godimento di quei luoghi ... Ivi dunque dimorando dimostrarono qual fosse il loro zelo nelle frequenti Prediche e ne Catechismi, cosicchè ristretta essendo alla frequenza del popolo la vecchia chiesa, pensarono di dilatarla, ma distratti furono nell’opera per la sopravvenuta dell’orribil Peste che desolò l’intera città …”

Nel luglio 1575, si raccontò a Venezia che in Contrada di San Marzial nel Sestiere di Cannaregio: “… sviluppòssi la terribile Peste nella casa d'un Vincenzo Franceschi, ove era stato ospitato un Trentino proveniente dalla Valsugana infetta dal morbo. Gli furono venduti i vestiti per pagargli il funerale, et furono acquistati da persone del Confinio di San Basilio a Dorsoduro dove qualche tempo dopo si cominciò a morire di Peste, così come nella casa dove morì il Franceschi morirono tre donne ...”



Sempre Flaminio Corner ricorda: “…cominciò questa(la Peste) ad infierirre con tal impeto, che avendo nello spazio di pochi giorni rapite dal mondo molte migliaia di Cittadini minacciava nella sua continuazione l’estremo eccidio di Venezia. Perlochè il Senato ansioso non men della propria, che della salute de’ suoi popoli si rivolse umile ad implorare la Divina Misericordia facendo voto d’inanzar un magnifico Tempio ad onore di Gesù Cristo Redentore …”

Fu l’epidemia di Peste che decimò un 1/4 dell'intera popolazione di Venezia, e portò al sovvertimento urbano di parte dell’isola della Giudecca con la costruzione del Tempio del Redentore.

Dopo il periodo iniziale d’incertezza quando non si era ancora deciso dove far sorgere quel nuovo chiesone: se dalle parti delle Clarisse della Croce (Piazzale Roma-giardini Papadopoli), in Campo San Giacomo dell’Orio, o in Contrada di San Vidal dove c’era un terreno libero che sarebbe poi stato consegnarlo ai Gesuiti: “Religione non meno esemplare per la probità de’ suoi costumi, anco vantaggiosa per l’educazione de’ giovani”… Alla fine il Senatore e poi Doge Leonardo Donàdecise di scegliere la Giudecca presso i Frati Cappuccini: “Religione egualmente pia e povera”, che abitava già la chiesola di Santa Maria degli Angeli, “… il che sarebbe avvenuto con minor aggravio della pubblica spesa”.

Si comperò allora il fondo necessario per l’edificazione spendendo 2.670 ducati, e altri 120 per pagare il magazzino soprastante, e altri 960 ducati ancora per un forno e alcune caxette che vi sorgevano sopra … I FratiCappucciniaccettarono di occuparsi gratuitamente del nuovo Tempio a patto che fossero escluse al suo interno sepolture di Nobili, “sebbene quelle li avrebbero arricchiti con Grazie, Lasciti, e grande numero di Messe di Suffragio” ... Nel 1561, infatti, il ricco Mercante Bartolomeo Stravizino s’era appena fatto costruire in perfetto stile Palladiano lì nei pressi, proprio adiacente a Santa Maria degli Angeli, la piccola Cappella di San Giovanni Battistanella quale dispose per la sepoltura sua e dei suoi familiari … Rimasero perplessi però circa la dimensione del nuovo Tempio che stava sorgendo con difficoltà per via dell’area fangosa e per le caratteristiche tipiche del suolo Lagunare che sprofondava. Capirono comunque che sarebbe stata in ogni caso un’opera grandiosa.

“Non è una chiesa secondo il nostro stile sobrio ed essenziale.”provarono a dire tramite Fra Gregorio Veneto“loro Guardiano zelantissimo della Regola”.

Raccontano gli Annali dei Frati Minori Cappucciniche: “Obbedite !” fu la risposta laconica che diedero frettolosamente all’unisono Papae Doge… e si mise perciò nel maggio del 1577 la prima pietra del Tempio del Redentore: “Voto Solenne affine di tener lontani li fulmini de la Pestilenza  da Venezia”accompagnando il Rito Solenne con le Musiche e i Canti composti appositamente dal Maestro Gioseffo Zarlino della Cappella Ducale di San Marco.

Nel luglio seguente Venezia risultò libera dal morbo della Pestilenza. 

Nei dieci anni seguenti per ben 18 volte e più si spesero 4.000 ducati per la chiesa, e altri 6.000 ducati per 3 calici d’argento, le suppellettili degli altari, i paramenti dei Frati Sacerdoti … e già che si era in ballo, anche per costruire un nuovo Convento e Infermeria per i Frati Cappuccini … Finchè si giunse piano piano a compimento del Tempio, al tempo di: “… Fra Leone da Verona, Guardiano dello stesso Convento della Giudecca, che si offrì al servizio degli infetti … fu vittima della Peste ... e si riposò infine nel Signore”.

Quasi a completamento di quella grande opera, e come per darle ulteriore spessore interiore, fin dal febbraio 1584 (e ancora oggi), negli spazi di Santa Maria degli Angeli“all’ombra” del Redentore, si raccolse la Compagnia degli Emeroniti o dei Devoti dell’Adorazione delle Quarantore. E’ lunga la lista dei Santi Patroni-Protettori a cui gli iscritti di quella Fraglia-Scholas’affidarono: Sant’Antonio Abate, San Sebastiano, San Giovanni Battista, San Francesco, la Madonna Immacolata, e soprattutto il Corpus Domini, ossia il Santissimo che sarebbe il Redentore stesso.

Gli associati si eleggevano un loro Priore, coadiuvato da due Confratelli, un Infermiero, un Sacrestano e uno Scrivanoche era anche Cassiere: tutta gente “Devotissima”:“… persone tutte esemplari, dotate d’invidiabile disponibilità spirituale, e d’intensa vita caritatevole e d’orazione ... Non sono accetti nella Schola: giocatori e frequentatori di osterie, né chi non accetta le decisioni del Capitolo, o manchi tre volte consecutive alle riunioni mensili ... Per entrare a far parte della Schola si dovrà avere minimo 18 anni, appartenere alla Compagnia della Dottrina Cristiana, essere impegnato nell’insegnamento della stessa, frequentare i Sacramenti e ad avere disponibilità per aiutare la Compagnia … Ciascuno pagherà una “Benintrada” secondo le sue possibilità, e dovrà trascorrere un anno come Novizio prima d’essere accettato definitivamente dalla Schola che avrà al massimo 14 partecipanti ... Tutti dovranno accompagnare con candela in mano il Funerale di ogni Confratello Defunto recitando una Corona (del Rosario) ... Per ogni Defunto Confratello si celebreranno 5 Messe all’Altare Privilegiato della Schola ... (Chi mancava agli Uffici dei Morti della Schola, o a una delle Quattro Feste Comandate della Compagnia pagava una Penalità di 1 lira) ... Le pene monetarie serviranno per pagare le candele del Solaretto dell’Esposizione del Santissimo dove dovranno esserci: 14 candelieri + altri 4 … Tutti dovranno presenziare alla Messa mensile(pena 8 soldi di multa)... e tutti saranno tenuti alla recita quotidiana di un “Salve Regina” per tutta la Compagnia, di un “Pater-Ave-Gloria” ai Patroni, un “Pater-Ave-Gloria” a San Francesco, e cinque “Pater-Ave-Gloria” per i malati che si assistono …”

La cosa più singolare però di quell’eccentrica e insolita Schola degli Emeroniti del Redentore(unica di quel genere a Venezia), era “l’Adorazionesilenziosa e orante in cui i Confratelli erano tenuti a sostare prolungatamente davanti al Santissimoesposto nella chiesuola di Santa Maria degli Angeli. L’Adorazione durava giorno e notte a cominciare dalla Domenica di Sessagesima (sessanta giorni circa prima di Pasqua, durante il Tempo di Carnevale, in cui ci si asteneva già dalle carni, e s’incominciava a prepararsi in anticipo alla Quaresima), quando: “… tutti i Compagni si raduneranno per Messa terza, e si comunicheranno a due a due cominciando dal Priore ... Il lunedì seguente si terranno le elezioni annuali della Schola ... La cena verrà servita ai primi 10 Compagni all’ora di nona, durante la quale il primo ¼ d’ora si leggerà un brano spirituale, poi si parlerà di cose spirituali; all’ora seconda di notte (subito dopo il tramonto del sole)ci sarà, invece, una seconda refezione ... Il “Dispensiere” provvederà al vitto per tutti i 14 partecipanti con piatti e tazze di peltro, coltelli, tovaglie e tovaglioli, schiavine per coprirsi nei turni di riposo notturno, e vino: uno sorso del quale verrà dato a chi ha fatto la Comunione.”… Nel 1594, chiesa del Redentore e Schola degli Emeroniti commissionarono la costruzione di una custodia per il Santissimo, la cui lavorazione durò nove anni con una spesa di circa 140 ducati … Ancora nel 1695, i Confratelli Emeroniti(figli del Giorno o della Luce) facevano celebrare tre Messe all’Altare del Crocefisso del Redentore, e altre quaranta di Suffragio per ogni Confratello Emeronita Defunto. Inoltre, la domenica successiva al Funerale di ogni Confratello Morto, si celebrava un’ulteriore Messa di Suffragio durante la quale tutti si comunicavano, e nello stesso pomeriggio tutti gli iscritti della Compagnia recitavano insieme l’intero Ufficio dei Morti.

All’inizio del 1600 i Frati Cappuccini ospitati nel Convento del Redentore erano circa 70 compreso il Padre Provinciale che vi teneva sede per comodità nei rapporti ufficiali con la Serenissima ...“Il Convento della Giudecca ampliato a più riprese conteneva: tre chiostri innestati a due chiese con pozzi, doppia fila di celle, Biblioteca, Infermaria, Speziaria, Cucina, Studentato, e Orti e Vigna con i Semplici coltivati, e Legnaia, Cantina, Lavanderia, Sartoria, Cavana per le barche, Calzoleria e Lanificio … e il Refettorio fuori del quale i Frati tenevano appese le tonache vecchie e nuove, rallegrato nel 1619-20 dall’artistico bel dipinto di: “PPPPPPP” ossia: Padre Paolo Piazza Per Poca Pietanza Pinse, che realizzò il telero in cambio di una pietanza o forse una porzione di polenta, com’è descritto sotto a una sedia rovesciata contenuta nella scena dell’opera.”

Nel maggio 1606 a causa dell’Interdetto lanciato da Papa Paolo V sopra l’intera Serenissima, anche tutti i 150 Frati Cappuccini della Provincia Veneta, compresi quelli del Redentore fra i quali s’annoveravano anche 20 Nobili o figli di Nobili, vennero espulsi dalla Laguna e dal Veneto insieme a due Padri Somaschi di Monte Rua sui Colli Euganei, a tutti i Padri Teatini, e i potenti Gesuiti… Nel 1610 si ruppe il Ponte di Barche che attraversava il Canale della Giudecca: “e fu causa d'alcune sventure” ...“Attraverso di esso il giorno del Redentore nella terza domenica di luglio, il Doge e tutta la Signoria visitavano il Sacro Tempio in segno di perpetuo ringraziamento … Venezia intera festante si riuniva alla Giudecca per acclamare il Redentore con illuminazioni, cene, ed altre allegrezze … e chiunque poteva lucrare l’Indulgenza plenaria quotidiana visitando divotamente la chiesa, intraprendendo Confessione, caritatevole Elemosina e Santa Comunione.”… Per secoli i Veneziani hanno dedicato l’intero mese di luglio alla “Pratica del Redentore”.

Durante la nuova ondata di Peste del 1630che decimò la popolazione dei Veneziani portandola da 143.00 a 98.000, la conduzione dei Lazzaretti Vecchio e Nuovo venne affidata ai Frati Cappuccini del Redentore, che già erano considerati: “… Infermieri, Erbaroli e Medicanti provetti, esperti conoscenti dell’Arte Farmacologica fin dal 1500 ... e ospitavano da loro i Frati malati dall’intera Provincia Francescana.”

In Calle dei Frati e nei chiostri dei Cappuccini del Redentore si ospitava pure la Schola di San Bernardino dell’Arte e Mestiere dei Corderi di Budella di Venezia. Gli Artieri preparavano: “corda di Minugie per strumenti musicali, o per archi e balestre usate dalla Milizia da Mar della Serenissima”… Nella Spezieria del Redentore, invece, si ritrovava fino al 1806 l’Accademia dei Filateti o Filareti o Amici della Verità fondata nel 1663 dal Patrizio NobilHomo Battista Nani: Storico e Botanico di professione. L’Accademia riservata a Nobili e Scienziati si dedicava all’apprendimento delle Scienze della Natura, e in particolare alla Botanica e alla Speziaria. Inizialmente gli Accademici si ritrovavano a pianoterra del Palazzo Nani di San Trovaso: “… là disegnavano nudi e plastiche, ma fu nella Speziaria dei Frati Cappuccini del Redentore, e negli orti del Convento che si manipolarono i Semplici, si prepararono rimedi e farmaci, e si dilatò l’esperienza giungendo a studiare e coltivare ortaglie ma anche Piante rare”.

Furono gli stessi Filateti dell'Accademia Veneziana a creare i presupposti per costituire le raccolte dell'Orto Botanico dei Semplici in Padova.

Alla fine del 1600 i Frati Cappuccini che risiedevano al Redentore della Giudecca erano: 60 … Lì Frate Fortunato da Rovigo:“benemerito e lodevole Religioso e studioso di Botanica e Semplici, vissuto e deceduto del Convento del Redentore”realizzò un prezioso Erbario descrivendo e presentando 2.352 Piante in 8 volumi… Nel 1721, come già nel 1654, la Serenissimadecretò una: “… nuova distribuzione d’acqua: alli 4 Ospedali: burchi 8; alli Cappuccini del Redentore: burci 1; alle Convertite della Giudecca: burci 2; alli Riformati: burci 1, al Soccorso: burci 1; alle Citele della Giudecca: burci 1; alli Catecumeni: burci 1; alla Croce di questa città: burci 1; alle Eremite: burci 1; alle Cappucine della Grazia: burci 2; alle Monache del Gesù e Maria: burci 2; a quelle de li Miracoli: burci 2; a quelle di Santa Maria Mazor: burci 1; alle Penitenti a San Job: burci 1.”… Due anni dopo lo stesso Senato Serenissimo decretò la fusione delle vecchie campane del Redentore ormai consunte dal tempo … Nel 1739, invece, il Padre Guardiano dei Frati Cappuccini del Redentore fu trovato in maschera a partecipare e ballare nel Carnevale di Piazza San Marco… Nel febbraio di due anni dopo, il Redentore venne danneggiato da un turbine … mentre nel giugno 1755: “… Iseppo Briatti Muranese famoso, opulento e pio Direttore della rara fabbrica di cristalli da lui introdotta a dal Senato privilegiata in Venezia … donò ai Reverendi Padri Cappuccini del Santissimo Redentore due grandi Reliquiari di vetro di vari colori e rara manifattura, degni al certo d’essere ammirati.” Nel 1750 venne ampliata aggiungendovi dei localetti per deposito e laboratorio la Speziaria-Farmacia del Redentore che ha servito per secoli non solo i Frati, ma anche buona parte della popolazione Veneziana della Giudecca …Esattamente nel luglio di dieci anni dopo, scriveva il solito Nobile Pietro Gradenigonei suoi “Notatori”: “… all’intorno del sontuoso Altar Maggiore della chiesa del Redentore furono annicchiati balaustri di noce a metodo dei Cappuccini ma di molto elegante lavoro et adornati da simboli della Passione e da chiusure a disegno di ferro, nonchè marcate dal Stemma di San Marco …”

E si arrivò all’inizio del 1800, quando i Francesi depredarono la Biblioteca del Redentore di oltre 3.887 libri, e cacciarono via i 75 Frati Cappuccini“impossibilitati di deporre l’abito in quanto sprovvisti di mezzi per comprarsi abiti civili”… Vennero riammessi al Redentore solo nel 1822 ... Nel frattempo la chiesa del Redentore con le sue 2.500 “Anime Giudecchine” venne dichiarata Parrocchia incorporando le altre 2.500 Anime Giudecchine di Sant’Eufemia della Giudecca che divenne succursale ... Nuovo Piovano fin dal 1798 fu: don Pietro Brazzoduro ex Piovano di Sant’Eufemia.

Solo nel 1866 i Cappuccini del Redentore tornarono ad essere: 97, e si occupavano oltre che dell’assistenza spirituale del Tempio del Redentore, anche di quella della Casa di Pena Maschile, dell’Ospedale Civile e della Casa di Ricovero dei Santi Giovanni e Paolo, oltre che dell’Ospedale Militare di Venezia… All’inizio del 1905 il piroscafo Aretusada 4000 tonnellate ormeggiato vuoto proprio davanti alla chiesa del Redentorevenne caricato maldestramente con mastelli di rifiuti di pirite. La nave sovraccaricata si coricò sul fondo del Canale della Giudecca, e il comandante disperato per l’accaduto si sparò un colpo di pistola in testa … Nel 1930 i Frati Cappuccini nel Convento del Redentore erano ancora 60, ed erano ancora tali fra: “Frati Sacerdoti, Frati non Sacerdotie Frati Conversi” trent’anni dopo, quando al Redentore c’era anche un Cinema quotidiano da 466 posti in cui andavano ad assieparsi tutti i Giudecchini … Nel luglio 1973, quando i Frati Cappuccini di tutta la Diocesi di Venezia erano 82, e al Redentore tenevano lo Studentato Teologico dei Frati Cappuccini, durante la Festa del Redentore un fuoco d’artificio colpì la cupola del Tempio del Redentore incendiandola … Recentissima, invece, è l’apertura in un’ala del Convento dei Frati Cappuccini del: “City Hearts Foresteria Redentore”, che: “Si propone come ottima soluzione per un soggiorno a Venezia per turismo o studio. La posizione centralissima sull’isola della Giudecca fa della struttura un ottimo punto di partenza per la visita della città offrendo un’ospitalità di base accessibile a tutti ... L’approccio famigliare e cordiale del nostro staff, la posizione invidiabile della struttura, e l’ottimo rapporto qualità/prezzo sono i tratti che ci contraddistinguono ... La nostra offerta comprende 48 camere individuali e per piccoli gruppi. Le nostre migliori tariffe sono: Singola:40 Euro/notte Doppia: 60 Euro/notte comprensive del pernottamento, pulizia settimanale della camera, e connessione internet Wi-Fi. Sono a disposizione degli ospiti una cucina comune attrezzata, e una sala per consumare i pasti o guardare la televisione.”

I tempi sono decisamente cambiati, e anche i Frati Cappuccini si sono adeguati a questa nostra Venezialand: Lunapark turistico e festaiolo dove ogni cosa è possibile e sembra permessa.

Infine siamo tornati ad uscire di nuovo sulla Fondamenta e nel Campo del Redentore assolati e pieni di festa e movimento. C’era euforia, frammistione di gente: arrivavano alcuni in alta uniforme, personalità, e signorotti eleganti … Come sempre, i Militari parevano allergici alle Cerimonie Religiose: scalpitavano, entravano ed uscivano salutandosi impettiti. Si toglievano e rimettevano i cappelli colorati, scattavano riverenti sull’attenti quando incrociano un “pezzo più grosso di loro”… Erano tutto un telefonare, parlare, chiedere, stringere mani, ordinare ai subalterni, e gironzolavano carichi di mostrine e decorazioni mescolandosi alla folla. Sembravano quasi a disagio dentro a “una guerra diversa” dalla loro.

Stava per iniziare la solenne Celebrazione del Redentore, quella più importante della giornata, con tutte le Autorità Cittadine, il Patriarca, il Clero e tutto il resto: la continuazione dell’antica tradizione del Voto del 1577 … E’ un momento che fa un po’ impressione, perché si avverte che non si tratta solo di una pallida rievocazione. Qui a Venezia ogni posto ed evento ha dietro una Storia, e c’è sempre uno spessore, un contenuto da scoprire dietro alla cornice e sotto la crosta dell’apparenza superficiale di quel che si vede e percepisce immediatamente.Davanti al dramma tragico della Peste, Venezia grande e piccola, laica e religiosa, sacra e profana, ha saputo farsi “una” unificando credo e politica, sogni di sopravvivenza e voglia di Salute e Benessere. Nella Festa del Redentore si sono sintetizzate Fede e Senso Civico superando le diversissime fattezze, perché di fronte a certe drammatiche situazioni tutto è divenuto inutile e inadatto. Quella volta è rimasta solo la forza di sperare in un “qualcosa di più Grande” che stava oltre le solite capacità umane di risolvere.

“Ecco la Processione ! … Stanno arrivando !”

“Ma dove sono tutti gli altri ?”

“Gli altri chi ?”

“Gli altri Veneziani … I Preti, i Frati, i Confratelli … tutti quanti ? … Qui ci sono solo quattro gatti in tutto a sfilare !”

“Effettivamente avresti ragione … Sono presenti solo una ventina di Preti Veneziani, e saranno forse altrettanti i Frati del Redentore … E’ una Processione magra nonostante ci sia pure il Patriarca …”

“Ma dove sono finiti tutti gli altri ? … Un tempo la Processione era lunga quanto l’intera larghezza del Canale della Giudecca ...Oggi vedo soltanto quattro-cinque Canonici di San Marco pomposi e coloratissimi che arrancano faticosamente su per la gradinata erta del Redentore … Si … C’è pure il Patriarca variopinto come il solito, con la sua “anda nostalgica e ottocentesca” … ma sembra distratto pure lui: guarda ! …Si ferma a chiacchierare con un impettito Carabiniere in alta uniforme …”

“Sembra che gli stia dicendo: “Per fortuna che ci siete voi a vegliare su di noi … a darci un po’ di sicurezza.”

“Avrebbe ragione … Di questi tempi … Non si sa mai …”

Il giovanissimo soldato gli ha sorriso timidamente mormorandogli qualcosa compiaciuto … Poi il Prelato ha ripreso “il suo passo” benedicente e sorridente, passandoci davanti a soli venti centimetri. A differenza di un tempo quando i presenti s’inginocchiavano togliendosi il cappello al suo passaggio segnandosi devoti, quelli di oggi rimangono quasi impassibili ad osservare “lo spettacolo”. I turisti curiosi scattano foto a raffica, qualche altro osserva “la parata” senza grande partecipazione.

“Non hai torto, i Preti xe proprio ridotti a quattro gatti … Metà non cantano neanche … Sembrano non conoscere neanche le parole delle canzoni della Processione … Spero almeno che non abbiano smesso d’imparare il Latino … Altrimenti siamo proprio “alla frutta” su certi argomenti.”
“Vedo che i Preti delle Nove Congregazioni sono ancora meno … Che fine avranno fatto ?”

“Qualche Prete avrà preferito dedicarsi ai turisti del Litorale che procurano maggiori introiti … Il Vecchio Redentore probabilmente sarà poco redditizio … Potrà quindi aspettare.”

“Cattiveria ! …”

“I Giudecchini però ci sono … Sono inconfondibili … Li riconosci lontani un chilometro dal loro modo di fare …”
“E’ vero ! … Hanno quel loro modo di vestirsi e atteggiarsi … Sono estroversi, singolari e talvolta anche coloriti e simpatici … Anche se non c’è più la folla “oceanica” e tutta pigiata di un tempo …”

Gli ultimi si stavano affrettando ad entrare nel chiesone mentre le campane del Redentore sembravano voler riempire tutta la Laguna col loro rimbombare festoso. Qualcuno rimanendo sulla riva senza entrare, si è limitato a brontolando:“E el Sindaco Brugnaro dove xèlo ? … El xe in spiagiòn stanco dei fòghi de stanotte ?”

“Che Redentor xèlo senza Sindaco ?” ha aggiunto subito un altro scuotendo la testa. “Xè passà tutto ormai ... No xe più tempi.”

Infatti non c’era presente il Sindaco, e dietro al bandierone di San Marco portato sussiegosamente dai Vigili “al passo”, arrancava una sua rappresentante … che di Dogale effettivamente aveva ben poco.

“Che dire ? … Sono questi i tempi … Venezia oggi “gira” così”.

“Ma perché non c’è quasi più nessuno ? … Perché non ci sono “i tanti” di un tempo ?”

“Forse perché quando si sta bene fisicamente ed economicamente si è portati a dimenticare tutto il resto … O perlomeno a metterlo da parte.”

“Per fortuna qualcuno però è rimasto … Li riconosco ! … Quello è don Paolo Socal diventato vecchissimo, che di Sant’Eufemia della Giudecca è stato pure Piovano … Era famoso fra noi Seminaristi di un tempo, perché quand’era febbricitante metteva in acqua la vecchia baleniera del Seminario della Madonna della Salute, e se ne andava a vogare nel Canale della Giudecca … La sua immagine è rimasta indelebile nei meandri del Seminario e per generazioni nei Seminaristi e nei Chierici … Ora eccolo là a camminare lentamente … e c’è pure don Bepi Costantini: Senti che inconfondibile vocione tonante che ha ! … Lui si che le sa tutte le canzoni antiche della Chiesa … Poi guarda, li conosci pure tu: ci sono i miei due compagni di classe divenuti ormai “pezzi da novanta” di questo “benedetto Patriarcato”… E poi c’è quell’altro Prete … E’ sempre uguale, sempre lo stesso nonostante siamo trascorsi decenni … Sembra eterno … E guarda quell’altro: ha il modo inconfondibile da Prete di salire la gradinata del Redentore … Si tiene il “pìnzo” dei pantaloni come se stesse sollevando la tonaca lunga fino a terra per non inciampare ... Ma non indossa più la veste lunga … Sono pantaloni ! … La forza dell’abitudine …”

Ce n’era poi ancora un altro di Prete, ritardatario e mimetizzato nella folla. Portava un fido cappellino smunto da pescatore di fiume vecchio di decenni, e la borsa di cuio di sempre con dentro il camicione per la Celebrazione … E’ incappato nel cordone dei ragazzi della vigilanza che non lo lasciavano passare:“Dove ti credi d’andar capo ? … No se pàssa ! … Ghe xe a Processiòn !”

Il Prete ha balbettato incerto qualche parola di spiegazione, quasi sorpreso di non essere riconosciuto … E come potevano quei giovanissimi ?

“Sono un Prete … Lasciatemi passare che devo andare col Patriarca … Guardate qua !” ha aggiunto spalancando la borsa e mostrando il suo “camiciotto da Messa” spiegazzato e consunto.

“El me scusa Reverendo ! … Non la conosco … Non sapevo … Non se capiva ch’el gèra Prete con quel capèo da bòvoli ... El pàssa pur avanti.”

Intanto un altro giovane pretino con i capelli a spazzola intrisi di gel attraversa frettoloso e impettito la stessa navata … Il sudore gli cola sul volto, e lo vedo infilarsi di continuo la mano dentro all’alto collare candido che forse gli stringe troppo il collo. Mentre guadagna i gradini dell’altare non smette di mostrare una smorfia di fastidio … Poi si ricompone, riprendendo l’andatura solenne, e “svolazza via” dentro alla tonaca nera raggiungendo la Sacrestia.

“Quanti volti nuovi che non conosco … Sono proprio “fuori giro” ormai !”

“E che credi sia capitato tutto ieri ? … Sono trascorsi trent’anni dalla tua fuga.”

Quando la fila dei Preti ha terminato di scorrere pigra sulla Riva del Redentore, le volte della chiesa del Redentore hanno rimbombato saturandosi di musica, canti e suoni solennissimi … I Cantori gorgheggiavano motivi sontuosi ed elegantissimi da far accapponare la pelle … Trombe invisibili squillavano dentro al Tempio che sembrava quasi rianimarsi e trasformarsi memore del suo passato … Il Cristo Nero troneggiava alto e senza Tempo sotto al suo mantello di velluto rosso coronato … C’era tutto in verità ... Ogni cosa del Redentore era al suo posto … Come secoli fa.

Abbiamo abbandonato a se stessa la Cerimonia … e ce ne siamo ritornati sulla Riva delle Zattere oltre il Ponte del Redentore.

“Anche quest’anno è fatta ?”

“E’ fatta ! … Anche questa volta il Redentore è passato.”

Il cielo era lindo, senza una nuvola, azzurro che più sereno non si può … da cartolina veneziana … Incontriamo una donna col suo bambino addormentato nel passeggino … La sua Nonna dal passo incerto e pesante le trotterella orgogliosa accanto, portandosi appresso tutto il peso degli anni ... Baci e abbracci.

“Quella Mamma era una bambina fino a ieri …”

“Sei tu che diventi vecchio !”

“Dai … Non infierire.”

“Ci hanno raccontato che ieri sera ben 60 Vigili Urbani hanno “dato malattia” e “fatto mànca” … E guarda te, proprio nella sera del Redentore … E altri 20 risultavano impegnati ad assistere i familiari invalidi e bisognosi applicando la Legge 104 ... E’ scandaloso !”

“E perché ? … Magari hanno permesso a qualche anziano disabile di godersi la Festa del Redentore ?”

“Si … i nonnetti che vanno a letto alle sei di sera con caffèlatte …”

“Cosa vuoi farci ? … Sono le nuove fragilità di questa nostra Venezia …”

“I nuovi disabili comunali ... Diverse Vigilesse poi esercitano l’obiezione di coscienza per non indossare manganelli e pistole … e di conseguenza non praticano il Servizio Serale e notturno, e neppure quello festivo … Se non vogliono far questo, perchè sono andate a fare da Vigilesse ?”

“Sarà tutto vero poi ? … O sono le solite chiacchiere da bar ?”

“Un tempo i Vigili se ne tornavano a casa immersi nella folla come persone qualsiasi … Adesso hanno bisogno della barca comunale per raggiungere Piazzale Roma e la Stazione … Non sarà mai che si debbano frammischiare con la folla dei turisti e dei Veneziani stipata nei vaporetti … Le risorse per i trasporti dei disabili però sono sempre più ridotte … Per certe cose, invece, le risorse ci sono sempre … Servirebbe un altro miracolo … che il Redentore risanasse certe teste …”

E’ passato comunque anche il Redentore 2017, e non senza lasciare qualche strascico nei pochi Veneziani rimasti …

“E’ vero però quel discorso di prima … Anche oggi si continua a morire di Peste come ai tempi del Redentore … Si muore a grappoli ogni giorno … di Pesti moderne e diverse ... ma sempre Pesti sono: servirebbe un altro Redentore a volte.”

Il campanile di San Nicolò dei Mendicoli scampanando spezza i nostri pensieri e i nostri discorsi ... Nella luce tiepida del quasi tramonto estivo Veneziano alzo lo sguardo, e osservo rilucere bianca la formella impressa da secoli sulle pietre dell’antica torre: “Lethi Vive Memor Fugit Hora.” c’è scritto (Vivi sereno e allegro ! … Ricordandoti che il Tempo fugge veloce).

Quanto può esserci di più vero e giusto di questo motto ?

Manca appena un anno perché s’affacci la prossima Festa del Redentore.





“Il mesto quanto ineludibile declino di Torcello.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 152.

“Il mesto quanto ineludibile declino di Torcello.”

Come ben sapete meglio di me, Torcello, attraversata dai suoi tre canali è stata antichissima sede Vescovile, floridissimo Porto commerciale nell'Alto Medioevo, e luogo di metallurgie, vetrerie e lavorazione di lana finchè Venezia con Rialto le hanno rubato compito, posto, affari e prestigio lasciando quelle povere terre cinte dall’acqua in mano a pochi ortolani e vignaioli, e a quel che restava dei Monaci e delle Monache di un tempo. Già fin da allora è nata quell’irreversibile quanto ineludibile decadenza di quella splendida isola, ed è tuttora questo il destino che perdura e le spetterà probabilmente nel prossimo futuro.



Riandando indietro nel tempo, mancavano ancora parecchi anni e secoli al fatidico e temutissimo anno 1000, quando già: “nelle Tumbae de la Centrega … de Ca’Bella, e di Marci Roca/Rosulam … o nella Comenzaria que vadit ad Torcellum … o nella Comenzaria Barbarani”, o lì nei pressi, sorsero uno dopo l’altro un nugolo di presidi e realtà soprattutto di natura Conventuale e Religiosa che hanno arricchito progressivamente il piccolo arcipelago significativamente. Numerosissimi documenti quasi s’accapigliano e sovrappongono nel segnalare l’indefessa presenza e attività di Preti, Frati e Monache accanto all’intensa attività del Porto Torcellano, dei Mercanti e della gente isolana che s’intrattenevano, occupavano e vivevano quel posto remoto a noi familiare.

Lì nella Piazzetta Torcellanaoltre alla grande Cattedrale,trasposizione di quanto di buono sorgeva sul margine Altinate, erano sorti anche il Battistero e il Martyrion delle “Sante Fosche” ossia abbrunite, dalla pelle mora, di provenienza orientale. Insieme a quello ogni chiesetta dell’isola iniziò ad arricchirsi di altre Reliquie insigni capaci in quei tempi di calamitare folle di fedeli e gente di ogni provenienza Lagunare. E siccome dove ci sono fiori e miele accorrono e ronzano sempre numerosissime Api, così la Storia di Torcello venne caratterizzata da un ininterrotto alternarsi di vicende, controversie, liti, contrapposizioni e lotte per primeggiare e anteporsi fra quelli che popolarono e vivevano giustapposti in quelle isolette, spesso accanto a orti e vigne rigogliosi, e fragili e basse barchette utili per pescare, cacciare e sopravvivere.



In isola sorse ovviamente fin dal 1200 (anno più anno meno) anche l’impianto Politico del Doge Veneziano: il Palazzetto del Comune, del Consiglioe dell’annuale Podestà, e la Loggetta dove si esercitava la Giustizia, si tenevano le armi, si sceglieva e applicava i Dazi, si organizzava la lotta ai contrabbandi, e si gestiva la Cosa Pubblica attraverso Magistrati, Giudici e Notai. L’autorità-giurisdizione del Podestà di Torcello si estendeva anche su Mazzorbo, Burano, Treporti, Cavallino, Cavazuccherina (Jesolo o Villafranca), Grisolèra(Eraclea), Torre di Mosto, San Donato di Musile, San Samuele di San Stino sul fiume Livenza, Altino, San Michel del Quarto sui quali vantava diritti su paludi, boschi e prati, e poi ancora: Porte Grandi, San Pietro di Terzo con Tessera, Tre Palade con l’Ospedale di San Giacomo sul Sile, Campalto, Caverniaco e Campo Castellofino alle porte di Mestre.

Pure la Nobiltà Torcellana possedeva una valenza e un peso notevole … quasi quanto quello che andò assumendo il Patriziato Veneziano della Serenissima. Solo che a Torcello bastavano soltanto 100 zecchini per potersi iscrivere al titolo nobiliare (che non erano pochi).

Nel settembre 1204 Marco Viaturi di Torcello faceva quietanza a Costantinopoli per 4 perperi d’oro dovutogli da Giovanni Querini da Torcello esecutore testamentario del defunto Domenico Viaturi da Torcello… Qualche anno dopo, nel 1228, e sempre a Torcello, davanti a Johannes Prete e Canonico Torcellano, l’altrettanto Torcellano Nicolò Marin faceva pure lui quietanza alla moglie Donata della dote di 20 Denari Veneti e della “… arcellam nuptialem cum sua capsella et rebus intro positis” che valeva altre 50 lire … Nel 1233 Mariotta vedova di Giovanni Bianco da Torcello vendeva a Pellegrino “pilipario” di Torcelloper lire 55 di Denari Veneti davanti a Domenico Natalis Notaio, Prete e Primicerio Torcellano, la metà di una terra con casa lignea sita in Torcello confinante col Rio Maggiore, la Palude di San Giovanni Evangelista di Torcello, la terra di Sant’Andrea di Torcello, e i possedimenti di Leonardo Gumbo … L’anno seguente davanti allo stesso Prete-Notaio: Gisla vedova di Pietro di Malvarnido di Torcellofece testamento nominando esecutore sua figlia Agnese moglie di Pietro Zane, e dando somme di denaro ad Agnese e Filosa altre sue figlia, oltre che alle chiese di Santa Fosca e Santa Maria di Torcello.

Sotto ai portici del chiesone e dei palazzi di Torcello, come si legge negli antichi regesti e documenti, accadeva tutto un sovrapporsi di attività e d’intensi scambi. Sotto alle pergole frondose delle case, sotto alle gallerie fiorite degli orti, e magari davanti a un “bòn gòto de vin” Torcello viveva, e mercanti, uomini d’affari, artigiani e Nobili Torcellani organizzavano e mettevano insieme spedizioni che sapevano attraversare l’intero Mediterraneo. A Torcello si vendevano e compravano case, palazzi e terreni, e si spartivano le acque piscatorie da navigare, pescare, o sui cui cacciare e primeggiare, o dove rincorrersi e superarsi premendo sui remi. In quei momenti lontani si vergavano e scrivevano documenti giunti fino a noi di oggi, magari solo segnandoli con una semplice croce, che aveva però il senso e il valore del sangue. Era per davvero un po’ “caput mundi” la Torcello di allora, o perlomeno lo era sopra le sue Lagune.



E ancora … Nel novembre 1240 a Rialto: Martinofratello del quondam Pietro Masentani già da Burano, abitante ora in Contrada di San Simòn Profeta a Venezia, fratello di quondam Tommasinavedova di Foscari Altifrando da Torcello, fece quietanza a Filippa Masentani sua madre della dote della detta sorella. L’executore del Doge Giacomo Tiepolo assegnò a Tommasina lire 170 di Denari Veneti dei beni del marito per il recupero della sua dote, e investì Martino Masentani di terre poste a Torcello già appartenenti a Dalmatina moglie di Grifo Altifrando da Torcello… Nel 1248 si andò a Torcello per rifugiarsi e scappare dalla Peste che affliggeva Venezia … così come nel 1268, su ordine del Podestà, i Torcellani e gli uomini delle isole si recarono con barche a Venezia per salutare e festeggiare il nuovo Doge Lorenzo Tiepolo.

Frugando ancora nelle carte all’indietro, era “appena” settembre 1196 a Torcello, quando Maria Waldo da Torcellodonava ad Amabile Badessa di San Giovanni Evangelista di Torcello una terra in località Zampenigo… e nella primavera di tre anni dopo, Giovanni Pitulo Torcellano traslocato a Chioggia Maggiore, dovette consegnare una terra e una casa a Torcello alla stessa Badessa Amabile perché non le aveva saldato a tempo un debito … Nello stesso anno Maria Mudacio e Maria Greco, Monache nello  stesso San Giovanni Torcellano, dichiararono che la vedova Albacara Antiqui donava tutti i suoi beni allo stesso Monastero pur di potervi entrare come Monaca … Nel primo anno del 1200, i Nobili Querini dal Confinio di San Polo e i Nobili Barozzi dal Confinio di San Moisè donarono alla temibile e determinatissima Amabile Keulo Badessa di San Giovanni Evangelista di Torcello(sempre lei !), la metà delle loro terre, ossia sette terreni siti in Trentino a Sacchetto di Vallonga in località: Ronco di Dentro, Albarellis, Salgario Gumbo, Montiano, Campo Antolino e Casale Frà Martino, l’anno seguente,avendo ricevuto dalla stessa Badessa Keulo una vigna in Canzano, si obbligò a pagarle due anfore di vino annue … mentre un anno dopo ancora, i Torcellani Prè Damiano, Pietro Longo e Marco Scandolario vennero nominati arbitri in una lite per due terre fra la solita Badessa Keulo di San Giovannie la "massara" Deodata residente a San Pietro di Casacalba. Alla fine una delle terre venne assegnata al monastero di San Giovanni, mentre l'altra venne concessa alla Massara Deodata… che bontà sua, si risolse lo stesso a donarla all’inossidabile Badessa Keulo già impegnata a contrattare e permutare altre terre Torcellane con Lorenzo Abate di San Tomà di Torcello.

In un modo o nell’altro insomma, la Badessa Keulo l’aveva vinta sempre lei.

Nel maggio 1205, invece, mentre a Capodistria Benedetto genero di Rado con la moglie Cauriscanasi obbligavano a pagare un canone annuale di 16 orne di vino e 1/2 sesterio di noci al Monastero di San Giovanni di Torcello, presente nella figura del suo Procuratore Angelo Mudacio da Mazzorbo, che aveva loro concosse in gestione alcune terre e la chiesa di San Fabiano "de capite Pontis" in Capodistria; la solita Badessa Amabile Keulo stava “spremendo” una casa in pietra sita in Torcello presso il Rio Maggiore, la palude, la proprietà di Andrea Donà e degli eredi Trecento, a Pietro Prete recluso di San Pietro di Casacalba che aveva contratto in precedenza un debito di 100 lire di Denari Veneti con Burano da Burano senza provvedere per tempo ad assolverlo.

Tremenda quella donnetta ! … Me la immagino la Badessa Keulo, un peperino nervoso di Monaca, sempre con la bocca “pontàda” e gli occhi vispi fissi addosso, secca “incandìa”, impettita dentro alla sua palandrana e il velo scuri, e sempre pronta a contarti in tasca fino all’ultimo centesimo, mai disposta a farti credito o concederti dilazioni e qualche clemenza.
A Torcello, insomma, accadeva tutto un ambaradàn e un intenso sovrapporsi d’affari e vicende di cui quel che vi ho accennato è solo un pallidissimo riflesso.

Voglio pensare e immaginare però, che a un certo punto di quella lunga e complessa Storia, diciamo in un giorno del 1420-1430 circa, si rovesciassero ancora una volta le campane dentro alla tozza torre campanaria di Santa Maria Madre di Dio di Torcelloscampanando a festa. Stava tornando in visita ancora una volta il Vescovo di Torcello(il primo Patriarca di Venezia sarebbe stato nominato solo del 1451) per supervisionare e “pascere” le sue Lagune.

“In nome di nostro Signore Gesù Cristo, durante l’impero del nostro signore Eraclio sempre Augusto, nell’anno ventinovesimo, indizione tredicesima, è stata edificata questa chiesa di Santa Maria Madre di Dio, secondo le disposizioni ricevute dal Pio quanto Devoto Signore nostro il Patrizio Isacco Eccellentissimo Esarca, e per volontà di Dio, dedicata per i suoi meriti e del suo esercito.”recita la vecchia iscrizione della Cattedrale (buona o no che sia). Quel chiesone Lagunare era un po’ il cuore di quella parte della Laguna Veneziana.



Vista perciò l’importanza di quella ricorrenza, correvano tutti in massa a raccolta per stringersi intorno al loro Ecclesiastico Signore, più che vero e proprio Pastore spirituale. Chiudevano bottega gli Artieri di Torcello andando ad appararsi da Schole, usciva dall’osteria dell’isola l’Oste togliendosi di torno la sudicia “traversa”, i Barcaroli ormeggiavano stretta alle rive la loro barca con un gesto sapiente quanto antico, i Mercantiuscivano di casa: uno tastandosi la barba profumata in faccia e la borsa gonfia legata in cintura, un altro lisciandosi l’abito di tessuto prezioso ... Accorreva la gente qualsiasi di Torcello, le belle donne Torcellane lasciando “il mastello” del bucato e la pentola sul fuoco spento; uscivano i Lavoranti dalle vigne e dagli orti sciacquandosi braccia e volto sporco, e deponendo per un attimo la loro inseparabile zappa. I Pescatori deponevano reti e remi frammischiandosi e aggiungendosi scalzi ai tanti che già s’affollavano sulla strada: quel gran chiesone stava calamitando tutti.

Ma era sulle panche delle prime file di Santa Maria che accadevano i sommovimenti e gli arrivi più strani e significativi dell’isola.

Verso quei posti quasi correvano i Borgognoni Cistercensi di San Tomà di Torcello che avevano chiesa e Convento dove forse in un evo andato sorgeva un Tempio pagano dedito a Balenus. Lì da loro forse stava sepolto il passato antico di Torcello … Il Doge Ziani nel 1212 o 1217 aveva sottoscritto davanti a Messer Michiel Bonifacio Piovan di Santa Maria Zobenigo,Nodaro Dogàl, la donazione ai Monaci Borgognoni del Monastero di Gerari nell’isola di Creta o Candia con tutti i suoi possedimenti sparsi nell’intera isola.  A quella prima donazione si aggiunsero in seguito diverse donazioni di altri privati di Creta, e dopo la quarta Crociata si aggiunsero altre terre e chiese in Costantinopoli e ancora a Candia, perciò il patrimonio dell’Abazia dei Borgognoni di Torcelloera divenuto davvero considerevole.
I Borgognoni erano uno degli Ordini Monastici pieni di esenzioni e privilegi indicati dal Papa per sostituire il Culto Greco, contribuivano alle spedizioni in Palestina con 2000 marchi d’argento, ma allo stesso tempo venivano tassati di continuo sul loro patrimonio di almeno il 0,6%.
In giro per Torcello si diceva che i Borgognonice l’avevano a morte, quasi odiavano, le Monache di Santa Margherita di Torcelloche stavano accorrendo anch’esse verso la Cattedrale per quell’appuntamento importante col Vescovo. I Monaci non avevano mai digerito la sentenza del 1246 confermata da Gregorio IX e presentata dal Vescovo di Olivolo Pietro Pino, dall’Arcidiacono di Torcello, da Pietro Querini Abate di San Giorgio Maggiore, Tommaso Arimondo Canonico di San Marco subdelegato di Wido Vescovo di Chioggia, e da Pietro Piovano di Lio Piccolo. Agnese Ministra di Santa Margherita di Torcello aveva vinto la causa contro l’Abate di San Tommaso di Torcello, perciò le Monache di Santa Margherita erano libere dalla dipendenza e dal controllo dei Borgognoni, e addirittura s’invitò l’Abate del medesimo a non molestarle più nelle loro proprietà, edifici, vigne e pertinenze ... pena la censura Episcopale e Papale (che non era affatto poco: corrispondeva a una lavata di capo, e a una bella tagliata di gambe quasi sempre irreversibile).

Che poi, non era accaduto che i Monaci avvicendatisi a vivere nel luogo dei Borgognoni Torcellani fossero stati proprio “stinchi di Santo”… Più di qualche volta si erano concesse diverse eccezioni alla Regola e alla loro condotta di stampo monastico. Quando nel 1374, ad esempio, l’Abate di Chiaravalle della Colomba si recò a visitare a sorpresa il Monastero Torcellano, non trovò nessun Monaco presente nel Monastero, tranne un vecchio sacerdote e alcuni fanciulli. I Monaci vennero perciò aspramente richiamati, s’imposero limitazioni alla gestione delle cospicue rendite, e l’applicazione rigida della Disciplina e della Regola. Il Monastero possedeva diversi beni, centinaia di campi nel Padovano, e il suo patrimonio era considerato al dodicesimo posto come importanza fra tutti quelli dei Monasteri Lagunari.

Dieci anni dopo, comunque, non è che le cose andassero meglio dai Borgognoni. Il Papa avocò a se la nomina dell’Abate, e fece poi una Commenda del Monastero che diede in gestione al Vescovo di Faenza. Sul posto di Torcello andarono e tornarono i Cistercensi alternandosi con i Carmelitani, e il Senato della Serenissima lasciava fare, confermando gli eventi come fosse distratto … Lasciò fare anche quando alla morte dell’Abate Giovanni de Cappellini venne eletto dal Capitolo dei Monaci: Giacomo Girardi. I Nobili Trevisan di Venezia pretendevano un antico juspatronato sui beni del Monastero con diritto anche all’elezione dell’Abate. I Monaci si opposero, i Nobili Trevisan “contrattaccarono”... ne sortirono liti e parapiglia, nonché i soliti processi, finchè il Senato di Venezia disse basta, e impose la nomina come Abate di Pietro Spirito Canonico di San Marco, che venne subito confermata dal Papa in persona. I Trevisan masticarono amaro, ma tornarono alla carica nel 1341 ottenendo la nomina di un “Abate di famiglia”, ossia: Giacomo Castinta già Priore di San Clemente in isola ... E la Storia andò avanti così, fra conferme e disdette Papali e Dogali, e in un turbinio di nomine, rifiuti, dichiarazioni di nullità e contronomine che si protrassero per secoli.

Quell’anno nel chiesone di Santa Maria rimase, invece, vuoto il seggiolone, “il caregòn”, riservato all’austero Priore dei Monaci Cluniacensi del Monastero dei Santi Biasio e Catoldo(verrà soppresso e passato in Commenda nel 1432 alla morte dello stesso ultimo Priore). Ancora nel 1455 Donà da Casal Maciego dichiarava di lavorare 125 campi di cui 17 boschivi sparsi in 3 località diverse. Di tutti: 36 erano suoi, 7 appartenevano, invece, alla moglie che li dava in affitto, 66 erano di proprietà di San Giovanni del Tempio di Venezia, altri 16 campi appartenevano a un Frate Minore di Maciego, mentre la rimanenza dei campi apparteneva ancora alle rendite del Monastero di San Cataldo di Torcello… e di chi ancora ne gestiva le sorti patrimoniali lungo il tempo.

S’affrettavano ancora verso la grande Cattedrale, a piedi lungo i polverosi e a volte fangosi sentierucoli dell’isola di Torcello, le Monache Benedettine di quel Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello di cui vi dicevo prima, quello della pestifera Badessa Keulo. Si diceva fosse il Monastero forse più antico dell’intera Laguna Veneziana ... o forse Torcellana.
Nel 1343 il Monastero aveva preso fuoco, ed era andato distrutto forse per la sbadatezza di una vecchia Monaca che aveva preso sonno col lume in mano. Non ci aveva però messo molto a rinascere il Monastero, ed era stato ricostruito più grande e maestoso di prima, tanto che addirittura in esso si ospitava un opificio dell’Arte della Lana. Nel secolo seguente il Monastero ospitava donne illustri della Nobiltà Veneziana come: Diedo, Contarini, Foscarini, Marcello e Morosini, e si trovava al primo posto per importanza per proprietà e rendite fra quelli Lagunari in quanto possedeva centinaia di campi di bosco a Musestre e Meolonella così detta Zosagna di Sotto del Trevigiano, e quasi un migliaio di campi nel Padovano.
Qualche anno dopo, le stesse Monache del San Giovanni di Torcello, come andava di moda, si rilassarono nell’osservanza della Regola e rispettavano pochissimo i tradizionali costumi claustrali: assomigliavano pochissimo allo scopo che dovevano avere le Monache. Il Vescovo Torcellano Girolamo Porzia si arrabbiò non poco, e fu costretto a mandare quattro Monache Osservanti dal Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo per provare a riformare quello Torcellano di San Giovanni afflitto da pesanti disordini.

Qualche anno dopo ancora, vennero eseguiti alcuni lavori di ripristino di San Giovanni utilizzando materiale abbandonato e dismesso dell’isola di Costanziaco ... Comunque nel pomeriggio di quel giorno, bene o male, le Monache di San Giovanni erano pure loro presenti nella maestosa Cattedrale, in attesa della comparsa dell’illustre Prelato: Autorità e Superiore di tutti.



Al risuonar del “sonèllo” dentro al campanile, che indicava l’imminenza dell’inizio della cerimonia, allungarono il passo calpestando il lungo ponte cigolante in direzione dello scampanio anche le Monache Benedettine di Sant’Antonio Abate ed Eremita di Torcello che sorgeva dall’altra parte dell’isola.
Nell’agosto 1359 il Monastero di Sant’Antonio non era stato a meno dei suoi vicini circa le cronache e le novità. Il Nobile Leonardo Balduin era stato condannato a un anno di carcere per una lunga relazione, cominciata 16 anni prima, con la Nobile Monaca Beatrice Falier residente appunto nel Sant’Antonio di Torcello. Da quella relazione era nata perfino una bambina, e si era dovuto intervenire perchè il Nobile Balduin intendeva far fuggire la Monaca dal Monastero per portarla a vivere insieme a lui fingendola sua schiava.

Fra l’altro c’era di mezzo anche la consistente dote che la Nobile famiglia Falier avevano versato e investito al Monastero di Sant’Antonio … e se c’erano denari di mezzo … era necessario di certo mettere a posto e sistemare ogni cosa. Ad accrescere non poco la condizione economica già considerevole del Monastero abitato da otto donne-Monache tutte Nobili, s’aggiunsero in seguito alcune Monache provenienti dal Santi Filippo e Giacomo di Ammiana, e poi quelle del Santi Giovanni e Paolo di Costanziaco: entrambi Monasteri ridotti piuttosto male a causa di un’alluvione, e “mangiati stabilmente” dalle acque alte della marea lagunare. Vennero quindi abbandonati a se stessi, e le Monache andarono ad ingrossare le fila e il patrimonio del Monastero di Sant’Antonio Torcello, che giunse perfino a far prestiti alla Serenissima in occasione della Guerra di Chioggia contro i Genovesi.

Nel giugno 1430, nel Sant’Antonio si fece spazio anche per la Badessa rimasta sola nel Santi Marco e Cristina di Ammiana. Si trattava della Nobile Filippa Codulmer, che portò con se le Reliquie del Corpo di Santa Cristina insieme a una rendita di 125 ducati anni, ma venne ugualmente accettata come Monaca Semplice. La Badessa di Sant’Antonio, invece, da quel giorno sfoggiò entrambi i titoli di Sant’Antonio e Santa Cristina ...  Verso metà secolo Sant’Antonio di Torcello possedeva alcuni boschi nella zona di Terzo d’Altino, e Bortolo quondam Stefano da Casale dichiarava di lavorare 59 campi affittati, dei quali solo due di terra arativa piantata gli appartenevano con altri 15 di bosco, mentre gli altri 42 appartenevano all’Ospedale dei Santi Pietro e Paolo di Castello, all’Abate dei Santi Filippo e Giacomo di Venezia, e soprattutto alle Monache di Sant’Antonio e Cristina di Torcello ... Qualche anno dopo la Badessa di Sant’Antonio Abate citò in giudizio davanti al Podestà di Torcello e al Nobile Giudice Cesare Malipiero uno dei suoi affittuari: il Cittadino Veneziano Gaspare Saraton. Costui gestiva le due isole di San Marco e Santi Apostoli di Ammianasaccheggiandole impunemente di pietre, mattoni e decorazioni che inviava a Venezia traendole dai dormitori, dai campanili, dai muri e dalle rive che lasciava andare sempre più in rovina.
Il contenzioso si concluse offrendo sedici ducati come rimborso con soddisfazione della Badessa … e il Saratonpotè così continuare indisturbato il suo saccheggio.

Sulla stessa strada verso il chiesone di Torcello, a pochi passi dalle Benedettine di Sant’Antonio, procedevano di fretta pure le Cistercensi di Santa Margherita, che però erano pure loro Benedettine d’ispirazione, ed avevano chiesa e Monastero pieni d’Indulgenze ed elemosine. Erano sbucate sulla strada per la Cattedrale e il centro dell’isola sgusciando fuori e tagliando via per le “scavèsse”delle vigne e degli orti che cingevano ampiamente il loro Monastero ... che però inizialmente non era stato proprio ricchissimo.  Il Santa Margherita nel 1300 s’era dovuto piegare a chiedere contributi, grazie e aiuti allo Stato Serenissimo per rimediare agli ingenti danni che aveva provocato “l’acqua magna … qua ruit propter malus tempus” erodendo le mura, le fondamenta, e perfino i dormitori del Monastero.
Poi piano piano il Monastero s’era rimesso e risollevato, e ora ospitava una quindicina di figlie della miglior  Aristocrazia Veneziana: Boldù, Valier, Foscari e Dandolo soprattutto.
A metà secolo il Santa Margherita insieme a San Cipriano di Murano, a San Marco, all’Ospedale della Misericordia, a Santa Maria dei Crociferi, alla Mansione del Tempio e a San Nicolò della Cavana di Mazzorboera fra gli enti Veneziani che gestivano lo sfruttamento della legna dei boschi della Vicineza: una pezza di terra di 184 campi boschivi di cui il maggiore fruitore era l’Abbazia di Santa Maria di Mogliano... A fine secolo, invece, il Santa Margheritadi Torcello ebbe una flessione di presenze: le Monache s’erano ridotte a otto, perciò si pensò bene di far spazio ad ospitare con relativo patrimonio e rendite le ultime Suore rimaste nell’isola di San Giacomo in Paludoprossimo a Murano. Non erano comunque felicissime del loro stato le Monache del Santa Margherita, e più volte avevano già presentato suppliche alla Serenissima e al Vescovo di Torcello per potersi trasferite a Venezia presso Santo Stefano.

Non veniva però loro mai concesso … Perciò quel pomeriggio si recavano di malavoglia e imbronciate a quell’appuntamento a cui non potevano in ogni caso mancare ... almeno per diplomatica presenza.

Anche se fra tutti abitavano più vicine al possente chiesone di Torcello che si stagliava solenne sopra alle Lagune, giunsero trafelate e quasi all’ultimo momento le Monache di San Michele Arcangelo di Zampenigodetto delle Campanelle per via di certe campanelle “argentine” che suonavano, che sembravano quasi delle pentolacce.
Era un Monastero un po’ strampalato quello di Sant’Angelo di Torcello, o perlomeno coinvolto in vicende ambigue e insolite. Si trovava talmente in crisi economica e spiantato che gli isolani si permettevano di entravi a piacimento per derubarlo di qualsiasi cosa avessero voglia di prendere. Dovette intervenire perfino d’autorità il Podestà di Torcello in persona per ordinare a tutti i Torcellani che s’erano portati a casa oggetti del Monastero di restituirli nel più breve tempo possibile portandoli nel cortile del suo Palazzo Podestarile.

Qualche anno dopo, la Quarantia Criminaldella Serenissima condannò il Nobile Francesco Mudazio in contumacia“al bando da Venezia e Dominio sotto pena di morte”. Era entrato con un servitore nella camera della Badessa del Sant’Angelo delle Campanelleche dormiva insieme con una Suora sedicenne di nome Faustina. Il servitore aveva tenuto a bada la Badessa con un coltello mentre il Nobile Padrone aveva violentato la fanciulla …. A inizio del secolo seguente, invece, Maria Zumani Badessa di Sant’Adriano o Sant’Ariàn dei Morti di Costanziaco ottenne il permesso dal Capitolo delle povere Monache del Monastero delle Campanelle di trasferirsi presso di loro lasciando le Monache di Costanziaco senza superiora fino alla loro definitiva scomparsa e soppressione accaduto nel gennaio 1439 e decretata dal Vescovo di Torcello Filippo. Le Monache delle Campanelle di Zampenigoerano rimaste solo con 20 fiorini d’oro annui di rendita, mentre le Monache del Sant’Arian fra gli altri beni portarono con se la proprietà di una casa con terreno posta in Lio Minor confinante con altri beni dei Canonici di Torcello, e rimpinguarono le risorse delle Campanelle aggiungendovi un patrimonio di 600 fiorini d’oro annui.

Nelle acque dei canali limitrofi a Torcello, stavano accorrendo spingendo di gran lena sui remi per non ritardare a quell’appuntamento così sentito: pure i vicini, ossia i rappresentanti dei Monasteri, delle Pievanie e delle isole circumvicine. Ciascuno di loro si sarebbe accomodato solenne e impettito sul proprio scanno, o più semplicemente nelle prime file di panche di Santa Maria.
C’erano in arrivo le arruffate Monache Benedettine di Sant’Angelo dei Nani che abitavano “… nella scomenzèra del Ramo de Gagiàn”, quasi in Laguna aperta e sull’acqua Pubblica del Fondazzo, in una tumba o isoletta detta Ambrosia presso un luogo chiamato Amiani presso il Canal Costanziaco. Erano anch’esse ormai prossime alla fine e soppressione del loro istituto (1438) ... Si vociferava, infatti, che Papa Eugenio IV volesse unificarle con quelle di Sant’Eufemia di Mazzorbo.

A tempo debito la ventina di Monache di Sant’Anzolo era stato uno dei nomi più illustri di quell’angolo di Laguna Torcellana e Veneziana. Nel 1195 col consenso del Vescovo di Torcello Leonardo Donà e della vicina Piovania-Monastero di San Lorenzo di Ammiana ai quali Sant’Angelo versava una decima “pro Martiatico” e 10 libbre di olio il giorno della Festa di San Lorenzo, si era costruito un nuovo Monastero-Cappella che venne beneficiato perfino dal Doge Pietro Ziani nel 1228. Dopo di lui accadde tutto un susseguirsi di volontà testamentarie che arricchirono il Monastero: Isabetta moglie di Marchesino da Mugla, Maria vedova di Giacomo Gradenigo, Miglano de Remondino da Verona, Zorzi Marsilio ... e poi tutti gli altri.
Gli Ammianesi versavano 24 solidi alle Mùneghe de Sant’Anzolo per poter pescare nelle acque del “Sukaleo”, e nella palude del “Traglum” che appartenevano al Monastero … Sofia figlia quondam Odolrico da Sant'Elena sopra il Sile(paesetto che pagava come decima annuale a San Cipriano di Murano: mezzo staio di sorgo, mezzo staio di fava), entrò nel 1253 come Monaca in Sant'Angelo di Ammiana facendo la professione di fede. In quell’occasione donò tutti i suoi beni al Monastero nella figura della sua Badessa Maria, eccetto una decima parte che legò a sua zia materna Margherita “vita natural durante”, con la clausola che alla morte anche quei beni venissero fatti pervenire allo stesso monastero … Domenico Venier da Caorle, invece, donò a sua figlia Angelera Monaca a Sant'Anzolo d’Aymano o Ammiana, la metà di una casa in pietra sita a Caorle in località Londo ricevendo in cambio a mutuo gratuito da Filippa Badessa di Sant'Anzolo: lire 40 di Denari Veneziani che s’obbligava a restituire in rate annuali pagabili in prossima della Festa di San Michele di settembre … mentre le stesse Monache s’erano comprate a Padova tramite i loro Procuratori Enrico Morosini e Almerico de' Tadi da Ottolino Sarto figlio quondam Anselmo ugualmente Sarto, 44 campi di terra siti presso Vallonga e Melàra, e altra terra nei pressi di Piove di Sacco, due terre con edifici site presso San Siro, di cui l'una con casa in località Albareda, locate in seguito per anni 12 ad Aldegerio quondam Bennato per annui 7 moggi di grano, un centenario di lino gramolato ed altri generi.

Le stesse Monache di Sant’Anzolo acquisirono anche due terre alla Mandria di Padova, e quattro terre a Cidrago "Supra Rivum"delle quali: due mansi costituiti da un sedime con casa coperta di coppi, e un’altra pezza di terra in località Campo Musari, che venne locata per tre anni a Giovanni Longo, già da Barbano, per annui soldi 40 di Denari Veneziani e la metà dei frutti ed altri generi: sei moggi di grano, 15 staia di fava, 15 staia di legumi, 4 staia di miglio e 4 moggi di sorgo ...  e in quell’occasione si aggiunse la clausola che il canone da pagare veniva sospeso: "si aliqua guerra oriretur in Paduano districtu vel inter Paduam et Vicentiam"… Nel gennaio 1294 ancora,  Bartolomeo detto Negrofigli del quondam Martino da Mandria abitante a Padova, riconsegnava una terra sita in località Cirnigo a Palmiera moglie di Antonio figlio di Zilio, figlio quondam Giovanni, che abitava "in campanea Paduana nelle case di Sant'Angelo di Ammiana lungo la via da Abano a Padova”.

Tutto d’un pezzo, quasi stucchevole, se ne stava già da un bel pezzo nel chiesone in piedi, il Priore dell’Ordine dei Canonici Regolari Agostiniani di Sant’Andrea Imani e San Jacopo di Ammianella giunto in cattedrale fin dall’inizio del pomeriggio. Era l’ultimo Priore rimasto, l’estremo nome della lista dei titolari dell’isola di Ammianellacol suo Nobile Conventino che dipendeva dalla matrice San Lorenzo alla quale pagava annuo censo di 1 libbra d’olio. L’isoletta era collegata adAmmiana da un esile ponticello, e andava fiera per le sei colonne di raro marmo rosa in essa esistenti, tanto che era stata promulgata un’apposita legge nel 1329 che ne impediva l’asportazione. Dai Santi Andrea e Jacopo Imanidipendeva anche un’altra isoletta formata da due paludi con chiesetta col titolo di Sant’Eufemia posta a poca distanza da San Nicolò del Lido e San Pietro di Castello (la futura Sant’Andrea della Certosa), e sempre lo stesso Priore di Sant’Andrea gestiva le acque pescose di Sant’Arian che dava in concessione per 550 cefali da corrispondere ogni anno nella Festa autunnale di San Michele … Dopo vicende economiche alterne, nei tempi del suo massimo splendore l’isoletta di Sant’Andrè Imani ospitava più di 70 Canonici Regolari, aveva rendite e possedimenti a San Nicolò del Lido, fra Padova, Treviso, Concordia, Aquileia, Cenedese e fino in Istria, e possedeva anche l’isoletta della Granza ubicata tra Sile e Siletto: un territorio arativo-prativo, in parte coltivato e in parte incolto e boschivo con una casa e certe teze di legno affittato a  livello ai Nobili Loredan, e dipendente dalla Diocesi di Treviso (Quando nel 1485 gli Avogadori da Comun condannarono Lorenzo Loredan per aver derubato la Cassa dell’Ufficio delle Cazude, l’isola de La Granza sul Sile venne messa all’asta e assegnata a Nicolò Morosini per 4.200 ducati).

Erano passati i bei tempi quando davanti al Notaio Matteo de Crescencio Piovano di Santa Sofia, Cristiano Abate di San Tomà di Torcello e Frate Michele Soranzo Priore di Sant’Andrea di Ammiana, locavano dopo una lunga lite fra loro ad Agnese Badessa di Santa Margherita di Torcello un orto confinante con la Pubblica via, il Rio Comune e il Monastero per lire 11 di Denari Veneti annui … Avevano ottenuto quel posto come lascito testamentario da Palma vedova di Marco Cappelloabitante prima nella Contrada di Santa Maria Materdomini a Venezia, e poi a Torcello nel Confinio di Sant’Andrea.

Adesso, invece, il Monastero era rimasto senza abitanti, rovinoso e in procinto di “chiudere bottega”(soppressione del 1436). Lorenzo Giustiniani Vescovo di Olivolo aveva già espresso l’opinione di unire le rimanenti rendite del Monastero con quello neonato di San Girolamo di Venezia che era stato da poco devastato da un incendio … e pure il Senato e i Procuratori di San Marco parlavano di trasportare i materiali della chiesa per impiegarli nella Basilica di San Marco a Venezia(Alla morte dell’ultimo vetusto Priore nel 1440, infatti, Ammianella venne abbandonata del tutto e per sempre, e lo stesso Vescovo di Torcello organizzò un traffico vendendo le colonne e le campane delle chiese di Ammiana e Ammianella).

Qualche metro più in là dentro allo stesso chiesone: vanagloriosa, quasi una statua del passato, pareva la Badessa di San Lorenzo di Ammiana… Una mummia, una cariatide adatta alle risate e alle canzonature dei ragazzini di Torcello. La Badessa di San Lorenzo era tenuta ad ospitare in diverse occasioni il Vescovo di Torcello con i suoi Canonici che l’avevano scelta e nominata, dando vita a un continuo giochetto di aspettative, precedenze, concessioni, accompagnamenti e pertinenze ... e gran “garanghèlli”.
A San Lorenzo nell’isola di Castrazio le Monache Benedettine abitavano praticamente da sempre, dal 1000 o forse da prima … La Pievania di San Lorenzo mai divenuta però Arcipretale, era divenuta poi Monastero fra i più ricchi di proprietà, diritti di Decima e vari altri annessi. Dipendevano da lei le Capellanie e i Monasteri dei Santi Apostoli, Sant’Angelo, San Marco e Sant’Andrea di Ammiana, e pure le chiesette dei Santi Massimo e Marcelliano e dei Santi Sergio e Bacco di Costanziaco(già diroccata e col solo campanile già nell’agosto 1279 la prima (?), e in gravi condizioni nel 1271 la seconda).
Fin dal 1125 San Lorenzo di Ammiana possedeva beni a Lio Piccolo e Lio Maggiore in località Perettoloereditati da Domenico Lovardo e da Giacomo Nani entrambi di Lio Maggiore. Per diverse vie giuridiche San Lorenzo venne a possedere terre e vigne, valli, barene, e specchi d’acqua come: “Pantano, Fondazzo, Traglo e il Sucaleo prossime al Scanello” per le quali percepiva censo annuale anche di 700 cefali ciascuna. La Badessa Hengelmote, altra “donna di ferro”, liberò del tutto la proprietà di tutte quelle acque a Lio Maggiore occupate abusivamente dai pescatori in cambio di un censo di pochi pesci offerti al predecessore il Piovano Marco Greco. Chi voleva pescare e utilizzare le acque delle Monache di San Lorenzo doveva pagare per davvero, non fingere di farlo dando solo un obolo.
Alle Monache di San Lorenzo che avevano protestato a lungo coi Magistrati del Piovego per i sconfinamenti continui degli abusivi nelle acque di loro proprietà, fu finalmente concesso di porre una “conterminazione di palade” per segnarne i confini. San Lorenzo possedeva praticamente tutte le acque peschive di Ammiana eccetto il Fondazzo e il Rio Lovardo … Furono ancora alcune Monache partite da San Lorenzo di Ammiana, guidate dalla Monaca Scorpioni, a fondare il nuovo complesso Ospedaliero e il Convento di Santa Marta di Venezia.

Ovviamente tutta quella presenza patrimoniale diete vita a innumerevoli liti e cause giudiziarie, come quella, ad esempio, accaduta circa i beni del Lido Bovense e Lido Bianco fra Leonardo Abate dei Santi Felice e Fortunato ed Engelmota Badessa di San Lorenzo… Ancora da lei Pietro Ziani Conte di Arbe, uno dei Mercanti più abili e attivi nel Mediterraneo, acquistò dalla stessa Badessa Hengelmota tutti i beni del Monastero posti in Laguna, e glieli donò l’anno successivo divenendo mecenate, Avvocato e protettore del San Lorenzo come lo era già anche del prestigiosissimo San Giorgio Maggiore di Venezia anch’esso Benedettino ... In seguito San Lorenzo di Ammiana recepì un rilevante patrimonio immobiliare di Terraferma: a Povegliano, Casier, Piove di Sacco con numerose esenzioni da gravezze.

Pure sul San Lorenzo pesava imminente la decisione del Vescovo Giustiniani di Castello e del Vescovo Paruta di Torcello. Era già progettata l’aggregazione, beni compresi, con le Agostiniane di Santa Maria degli Angeli di Murano ... Dell’isola non sarebbe rimasto più nulla, sarebbe stata abbandonata e lasciata andare in rovina come l’aspetto che esternava la sua decadente Badessa.

Nella seconda fila delle panche del chiesone preso d’infilata dalla luce dorata del tramonto che incendiava i mosaici, sedeva anche l’ultima Monaca reduce di Santa Maria Maddalena di Gaiàtao Gajàdache sorgeva vicino a Lio Piccolo. Ormai da qualche anno le rendite del suo vetusto Monastero erano già passate al Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo bisognoso di finanziamenti, e il luogo del vecchio Monastero risultava abbandonato e distrutto in quanto il Senato aveva concesso al Vescovo di Torcello di livellarlo per poter provvedere meglio a mantenere la chiesa e i lidi vicini. Santa Maddalena della Gaiada sorgeva sopra un’emersione della Laguna accanto a un canale, e quindi al riparo dagli impaludamenti che avevano interessato il resto della Laguna.
La sua ultima Monaca se ne stava in attesa della solenne funzione religiosa pensando con nostalgia a quando con le sue consorelle Monache occupava ben tre file delle panche di quella stessa chiesa. Tributaria di San Lorenzo col quale era legata da un intenso rapporto di odio e amore, il Monastero de la Gaiàda aveva vissuto per secoli come tutti gli altri enti religiosi vicini usufruendo dei tanti lasciti testamentari e delle donazioni dei fedeli che navigavano e vivevano nelle acque lagunari e portuali di Venezia. C’erano soprattutto certi intrepidi e ricchi Cavalieri diretti o di ritorno dalla Terrasanta che avevano particolarmente a cuore il culto per quella Santa Dama così suggestiva e misteriosa ricordata dai Vangeli. Si vociferava sottovoce che quella Santa Persona fosse stata addirittura “l’amante del Cristo”… Ma quella era un contenuto che era sempre meglio sussurrare sottovoce, perché i tempi stavano ancora una volta diventando difficili e sospettosi ... e a volte poteva bastare anche una sola parola detta male per venire perseguitati e inquisiti malamente.

Le Monache di Costanziaco, comprese quelli dello scomparso San Mauro andavano tradizionalmente ad accomodarsi sui seggioloni e le panche poste dalla parte opposta della navata della stessa grande chiesa Torcellana. Lì un tempo s’accomodavano le rappresentanti delle Benedettine diventate Cistercensi di San Matteo o Maffio di Costanziaco. Quello era un Monastero illustre e antico, se non altro per il patrimonio fondiario che possedeva ai tempi della famosa Badessa Umiltà ... Aveva beni lungo il corso del Sile nella Marca Trevigiana: a Treviso,Casier, Roncade, Casale, Musestre, Quartoe Altino ... La chiesetta dedicata a San Matteo esisteva in Costanziaco già da prima che sorgesse il sontuoso Monastero. Ben presto però s’era dovuto iniziare a svendere quel consistente patrimonio per la difficoltà di riuscire a sopravvivere in quei luoghi lagunari impervi. Si vendette al ricco San Zaccaria di Venezia un terreno sito nell’isola di Sant’Erasmo confinante con le proprietà di San Giorgio Maggiore: quello fu un segnale.
Infatti poco dopo le Monache andarono a vivere in alcune case prese in affitto dal Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello, e poi si avviò la costruzione del nuovo San Maffio trasposto nell’isola di Mazzorbo.

Poco distante dalleMonache Costanziache sedevano gli anacronistici Canonici Bigi o Bisi dell’Ospizio e Convento di San Pieretto di Casacalba che sorgeva in una vasta isola al di là del Rio Maggiore di Torcello. A vederli i Bigi di San Pieretto erano sempre come “un pugno in un occhio”con tutti quei loro rozzi tonaconi, cappuccioni e mantelloni grigi. Avevano sempre un aspetto irsuto e miserioso, spartano e trasandato, come di chi scendeva da qualche spelonca di montagna. In realtà i Bigi di Casacalba sapevano il fatto loro, e in più di un’occasione avevano dimostrato di sapersi difendere dalle pretese d’egemonia e dai soprusi soprattutto della vecchia Badessa Amabile Keulo del Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello ... Una voce forse maligna che girava per Torcello raccontava di come il Priore di San Pieretto fosse in combutta e trattativa col Vescovo di Torcello nel recuperare e commerciare le spoglie e i resti dell’arcipelago di Ammiana e Costanziaco. Si diceva che le pietre usate a Burano per restaurare San Cipriano di Buranofossero state prese, raccolte e vendute a Torcello cogliendole da un gran mucchio raccolto nei pressi del Palazzo del Vescovo. Ma forse queste erano solo maldicenze messe in giro dai soliti male informati di tutto.
Secondo documenti di metà 1400 sembra che il Monastero di San Pieretto sia andato progressivamente e velocemente in rovina. I Canonici Bigi disastrarono le loro economie, e le costruzioni del Convento andarono in rovina: crollò il tetto della chiesa, negli orti caddero e marcirono le capanne dei vignaioli, gli alberi da frutta seccarono perché le radici bevevano acqua salmastra, e i muri di cinta dell’isola vennero progressivamente erosi dalla acqua della Laguna. Sarebbero serviti almeno 100 ducati per riattivare l’isola ... Ma chi li avrebbe potuti tirare fuori ? … Nessuno … La terra incolta passò a far parte più tardi per pochi denari dell’ingente patrimonio dei Canonici di Torcello.

Strani quei due schieramenti di Monaci e Monache da una parte e dall’altra del chiesone Torcellano ! … Sembravano i rappresentanti di due eserciti l’un contro l’altro armato … Infatti il Piovano di San Martino di Burano giunto sul posto non perse l’occasione per rimbeccarsi subito con le Monache Benedettine di Santa Maria e Leonardo della Valverde di Mazzorbo per via del controllo e delle pertinenze di alcune acque da pesca che i parrocchiani pescatori in realtà non smettevano un sol giorno d’invadere impunemente. Per rimostranza le Monache ex Cistercensiquell’anno non avevano partecipato alla tradizionale Processione di San Vito a Burano, e quell’assenza s’era notata non poco nel paesetto coloratissimo. Il Piovano Buranello notandole le apostrofò subito: “Che c’entra la Devozione al buon San Vito con tutte quelle beghe e beghette da Sacrestia che tenete coi pescaòri ? … Avete fatto un torto a tutti i Buranelli devoti !”
Le Monache non si curarono neanche di lui, anzi: si voltarono dall’altra parte della chiesa senza neanche rivolgergli la parola … e tantomeno il saluto.

Ultimissimi, accaldati e affaticati, ma desiderosi di ben presenziare e rendere omaggio, giunsero trafelati e odorosi di sudore per la gran fatica di remare attraversando un lungo tratto di Laguna, i rappresentanti delle terre tributarie e suffraganee della Terraferma e dell’area della gronda lagunare. Ansimava come un mantice il grosso Vicario di San Mauro de le Tre Palade, e assieme a lui comparve pure il polveroso e striminzito Piovano di San Michele del Quarto, che sembrava malnutrito e consumato dalle penitenze e dalle ristrettezze del suo vivere in campagna.
Va detto che il Vescovo e i Canonici di Torcello possedevano fondi in Polesine e beni fin al di là del mare Adriatico: nell’Istria, così come detenevano anche quel lembo di Terraferma su cui affondava le radici delle proprie origini l’emporio Torcellano, ossia le zone agricole lungo il fiume Silee l’antica Via Emilia e Claudia, e le aree semilagunari di Campalto, Tessera, Altino, Trepalade e San Michele del Quarto.
La Diocesi Torcellana era discretamente vasta: annoverava 11 Parrocchie e 30 chiese con vari Monasteri sparsi a Torcello, Mazzorbo, Burano, Murano, Treporti e Cavallino, e arrivava a “governare” fino a Jesolo e Grisolera.
Ma chi ci arrivava fin là ? … Serviva quasi un pellegrinaggio, un viaggio per raggiungere quei luoghi così lontani e impervi, quasi abbandonati da Dio e occupati solo dagli uomini … Anche per quelle parti correva la “Sette Mari”: l’antica via lacustre romana, la mitica via semisommersa dei commercianti e contrabbandieri che correva fra Ravenna e Altino passando anche per Torcello, e giungendo fino ad Aquileia, Grado, Portogruaro e Concordia… e poi chissà dove.

“Guardali ! … Son proprio villici campagnoli quei Preti.” sussurrò una Monaca di Santa Margherita di Torcello a una consorella tutta azzimata e lisciata, e con un ricciolo birbante che le usciva fuori dalla cuffia fin troppo corta.

“Si dice che vivano delle poche offerte della Cassa dei Morti …” bisbigliò l’altra.

“Si vede che sono persone modeste, poco morali, poco zelanti, di poco criterio e negligenti nel compiere i loro doveri … Si dice in giro che s’ubriacano spesso … Che siano insolenti e sboccati … e che se ne stiano a giocare a carte e bere nelle osterie di paese …”

“Di uno di loro si dice che non sappia neanche leggere, né conosca la Dottrina Cristiana, e che ripeta a pappagallo le parole della Messa senza neanche comprenderne il loro significato.”

“Vivono con pochi Franchi di congrua in una casa canonica che è in rovina … Shh ! … Parla sottovoce che ti sentono … Guarda che si stanno avvicinando a noi.”

“Madre de Dio ! … Che strana “sièra” che i ghà !”.

“Avranno solo qualche centinaio di parrocchiani … 5-6 Battesimi l’anno, qualche matrimonio e tre quattro funerali … Non avranno neanche di che pagare un Sacrestano … Sono miserabili che vivono sul bordo delle paludi in zone soggetta a inondazioni e allo straripare del Sile”.

“La figlia del nostro Fattore mi ha raccontato che hanno la chiesa col tetto rotto, indecente per l’esercizio del culto, e che c’è uno schioppo appeso all’Altare della Madonna.”

“Madre de Dio ! … Sarà una zona tutta d’inconfessi, bestemmiadori, e zente separada fra lori e lontani da Dio e dalla Santa Cièsa.”

A dispetto però di quel loro stato dimesso, un po’ bucolico e apparentemente misero, la loro barca era stracolma di cesti di primizie, ortaggi, e “presenti e onoranze” che intendevano offrire al Vescovo e a tutti gli Illustrissimi di quel nobile consesso convenuto nel cuore di Torcello.

Sedevano malvolentieri in disparte e per conto proprio i “Mazzorbesi dalla puzza sotto al naso”, che erano sempre per metà presenti e metà no … Stavano, infatti, in un cantuccio della chiesa le Monache Benedettine delle Sante Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasmachiocciando fra loro. Scrutavano intensamente con gli sguardi tutti coloro che entravano e uscivano dal chiesone, e non mancavano di parlare fitto fitto, criticando e additando quasi con scherno prima questi e dopo quelli che passavano loro accanto. Pure quella sorta di Monache era ben dotata economicamente, perché possedeva diversi immobili in Venezia, consistenti capitali depositati nella Zecca di San Marco, e beni in terreni e campi a Mogliano e Marcòn. Al loro Monastero s’erano aggregate di fatto le ultime tre Monache del Sant’Angelo di Ammiana, e tutte insieme non erano affatto quelle “Sanctae Virgini de Maiorbio” di cui si diceva in giro, perché il Monastero della Santa Femia aveva di recente subito ben dieci processi per canti, balli, cene, fuochi d’artificio e abusi commessi con i Secolari dalle Monache da cui erano nati perfino due bambini.

Però dai … Nonostante tutto quel che si diceva su di loro, se ne stavano anch’esse presenti nella chiesa di Santa Maria per quell’occasione, e sedevano poco distante dalle Monache Cappuccine di Santa Maria delle Grazie, e da quelli di San Michele Arcangelo di Mazzorbo venuti in un’unica barca insieme al Rettore dei Santi Cosma e Damiano di Mazzorbo, che lo era pure della già soppressa chiesetta di San Stefano Protomartire di Mazzorbo. Assenti ingiustificati erano, invece, sia le Monache del Santa Caterina di Mazzorbo di certo alle prese con i loro pressanti affari. Di recente avevano integrato le loro rendite con le affittanze di centinaia di campi di bosco a Musestre e Mèolonella così detta Zosagna di Sotto nel Trevigiano, a Col di Mezzo ossia Tre Palade, e con le risorse lasciate dal completo abbandono di Santa Maria della Gaiata che erano state loro intestate dal Vescovo di Torcello Filippo Paruta insieme alle scarse rendite di San Nicolò della Cavana. Avrebbero dovuto ben presenziare a quel raduno celebrativo nella Cattedrale, se non altro per dimostrare la loro riconoscenza … Invece se ne stavano di certo in giro per la Terraferma a controllare, contrattare e amministrare in compagnia dei loro numerosi Fattori … “Prima il dovere e dopo il piacere”, aveva risposto la pingue Badessa declinando l’invito del Vescovo.
Nonostante tutto ciò il suo Monastero non navigava affatto in buone acque, tanto che di dovette perfino sollevarlo dal pagare Decime e canoni economici sia alla Chiesa che alla Serenissima. Era un peccato, perché ospitava fra le sue Monache oltre alla Nobile Badessa Franceschina Polo anche diversi nomi altisonanti della Nobiltà Veneziana che contava: Giustinian, Contarini, De Tomnasi, Valier, Celsi, Foscarini e Da Lezzeper citarne alcuni.

Mancavano inoltre nel chiesone ormai pieno di gente, anche quelli di San Pietro di Mazzorbo forse perché vergognosi di quanto in quei giorni era sulla bocca di tutti. S’era scoperto che avevano fatto scomparire il denaro Pubblico offerto per restaurare il campanile cadente della chiesa, e i fondi erano scomparsi prima ancora di allestire il cantiere.

Nelle seconde e terze file della grande aula ecclesiastica se ne stavano ancora l’uno accanto all’altro quelli e quelle della vicina isola di Burano che parevano tutti fratelli e sorelle. Erano accorsi fra i primi con grande anticipo, sempre entusiasti di presenziare e partecipare. C’erano le Monache di San Mauro e quelle di San Vito, mentre erano ovviamente assenti quelle delle Cappuccine per via della loro vita di stretta clausura piuttosto ritirata … Non mancava, invece, il chiassoso e rubicondo Piovano di San Martino che s’era presentato insieme a una nutritissima compagnia di barche piene di Buranelliche da soli riempivano quasi ogni spazio di quel che rimaneva della chiesa. Sorridenti e devotissimi stavano pressati l’uno accanto all’altro, e non c’era musica, canto o orazione alle quali non partecipassero pieni di grande entusiasmo, sempre felici di omaggiare “il Pastore di tutti”.
“Viva il Vescovo ! … Viva ! Viva !”non mancarono di gridare applaudendo impunemente quando quello comparve ieratico e pomposo sulla porta principale della Basilica Torcellana. Il gesto scomposto non mancò di suscitare il disappunto indignato di molte di quelle figure allineate sulle prime file della chiesa.

“Devono sempre mettersi in mostra e farsi vedere per quel che sono quelli di Burano.”mormorò stizzita la Badessa di San Antonio Abate di Torcello che tirò su col naso, e si portò subito un fazzoletto ricamato e profumatissimo davanti alla faccia.

“Pezzenti ! … Pescaòri morti di fame …” le sussurrò pianissimo accanto piegando la testa verso di lei, la consorella Badessa delle Campanelle, che “una tantum” le andava di sparlare delle altre.

“Non c’è nessuno da Murano stassera ?” aggiunse guardandosi intorno rammaricata fingendo stupore.

“Ah ! … Quello è un altro mondo al di là delle acque … Si sentono più affini a Venezia che alle isole … Quelli trattano e partecipano direttamente alle “cose grandi” della Serenissima, sono poco propensi a ossequiare il Vescovo di Torcello e noi poveri isolani Lagunari ... Ci considerano “servette”.

Infine, in un angolo in piedi, silenzioso accanto a una colonna e con un cappellaccio nero in mano, se ne stava quasi vergognoso di presenziare il chiacchierato Rettore di San Bartolomeo di Mazzorbo, che era come fumo negli occhi per molti di quelle contrade e isole. Poco discosta da lui e con le maniche avvoltolate fin sopra ai gomiti, se ne stava anche una delle ultime Monache di San Nicolò della Cavannabiscottata, quasi annerita dal sole e a suon di rimanere sulle rive dell’isola mettendosi in mostra a chiedere l’elemosina alle barche che passavano allungando una lunghissima canna a cui stava appeso un grazioso cestino.

“Che vergogna !”mormorò stizzita una Monaca fra le altre, “Se ne sta a gridare: “Un pane per amor di Dio !” con quel suo vocione da Coro … Dovrebbe starsene, invece, a cantare Laudi e Uffizi piuttosto che concedersi ad eccessi e bagordi di ogni sorta … Avrà subito non meno di sei-sette processi portando il disonore nel suo Monastero.”

“Che sfacciata !”commentò subito un’altra guardandola di sottecchi, “Mi sento quasi a disagio per lei solo a vederla … Mostra indifferenza, e sembra voglia scuotersi e buttarsi alle spalle la polvere untuosa di tutta quella faccenda … Ma non funziona così ! … Che svergognata !”
Era stata celebre a lungo e sulla bocca di tutti la serie delle vicende del settembre 1428 che avevano portato il Nobile Tommaso Dandolo a giudizio e a condanna a 2 anni di carcere inferiore per aver conosciuto carnalmente Suor Clara Rubeo dell’Isola della Cavannella ... Insieme a lui s’era condannato a 2 anni di carcere nelle celle inferiori anche il Nobile Fantino de Cà Pesaro che aveva avuto provati rapporti sessuali con Suor Filipa Barbarigo, e per lo stesso motivo si sentenziò la stessa pena pure per i Nobili Marco Barbo, Albano Cappello e Tolomeo Donato e per il non Nobile Jacopus Barotarius… e ancora si condannarono: Jacobys Michiel Strazzarolo, il pittore Pietro Vercio, Maneto Buco, Andrea Barbo fratello di Marco, Paolo Soranzo e  il Nobile Nicola Grioni per altre nefandezze compiute insieme a Suor Orsa e le su accennate tesse Monache. Pietro Blanco infine subì doppia pena per aver agito carnalmente con due Monache insieme: la solita Suor Filipa Barbarigo e Suor Baratella della Fontana che era pure Badessa del Convento di Sant’Angelo.

Insomma era stata un’ecatombe … un immane storiaccia.

All’ora dell’inizio della cerimonia la chiesa traboccava di persone: gente di classe e pomposa, degnissima di ogni rispetto, e folla “bassa” di popolani a cui si aggiungeva la massa raccogliticcia della Schole di Torcello con le loro cappe rituali, e il decorato “pennello da Processione”(gonfalone) che aleggiava sopra alle teste pronto a intrufolarsi sotto ai portici della Basilica al corteo dei Preti, Monaci e Canonici che s’era fatto numeroso. Quelli delle Schole erano dei bei personaggi, sempre presenti ed entusiasti, e sempre disposti ad aggiungere “un solèro”(portantina decorata con una scena religiosa), un’immagine o statua di Santo da portare a spalla, o qualche asta processionale adorna di Alloro o Ulivo per arricchire e allietare la sfiata di ulteriore colore e devoto decoro.
Per ultimissimo e davanti a tutti, proprio in primissima fila, e sopra uno scanno dorato seppure scheggiato e sbiadito e dal velluto consunto, andò a sedersi il Podestà di Torcelloattorniato dai suoi scagnozzi, e dalla solita corte petulante e vanagloriosa dei suoi collaboratori, accoliti e figuranti dalla dignità a volte precaria. In ogni caso quell’uomo era “il Primo”, ossia il diretto rappresentante della Serenissima padrona di tutto, anche di quello spicchio recondito di Laguna, che non mancava mai di presenziare.

In quegli stessi anni il Dogee il Consiglio dei Dieci della Serenissima avevano disposto di costruire e provvedere alla manutenzione di ponti e rive anche di Torcello provvedendo appositi contributi di 60 grossi. In cambio e per riconoscenza, il Podestà di Torcello non mancava di tenere unite quelle Contrade, e di organizzavano all’occorrenza di portarsi con barche ad incontrare, onorare e festeggiare il nuovo Doge di Venezia, o a rendere omaggio a qualche illustrissimo visitatore della città lagunare. Nella sua sede Torcellana, invece, non mancava di discutere e inventarsi col suo Consiglio di Statuti parlando di fedeltà al Doge e alla Serenissima, dell’uso delle armi, delle proprietà e della disciplina della caccia e della pesca. Amministrava pure la Legge e la Giustizia, a volte alta e severissima circa cause sofisticatissime, e altre volte bassa e spicciola trattandosi di questioni di gioco, misure di vino da servire nelle osterie, circa l’ospitalità nelle locande, la violazione delle Clausure, e le bestemmie verso Dio, Santi e Madonne. Il Podestà con i suoi uomini non mancavano di provare ad arginare e combattere i contrabbandi lagunari allestendo “palade”, luoghi di dazi e controlli, e applicando pene, contravvenzioni, sequestri di barche e materiali.

A dire il vero la carica di Podestà di Torcello non possedeva quel valore altisonante di tutte le altre ambitissime cariche di Stato Veneziane. Per la categoria dei Nobili sempre affamata di benefici era un po’ un ripiego, ma era pur sempre un impegno importante e di una certa dignità ... anche se collocato scomodamente in fondo alla Laguna. Infatti furono Podestà di Torcello nomi insigni: Nani, Barbaro, Zane, Contarini, Coppo, Michiel, Bondulmer, Valier, Baffo e molti altri.
La Serenissima rispondeva a suo modo tutelando quelle fragili terre grondanti dalle acque impedendone l’inopportuno e incontrollato saccheggio. Leggi del Comune di Torcelloproibivano l’asporto di beni dalle isole, minacciando frusta in piazza, avocazione di un occhio, taglio di una mano e impiccagione per i furti di valore superiore a 8 ducati ... salvo poi scoprire che era lo stesso Vescovo di Torcello il principale protagonista nell’organizzare e tenere le fila di tutto un florido commercio di rovine, marmi pregiati e manufatti spogliando la Laguna di Torcello ... Guarda te come andava la Storia !

Quando Dio volle, iniziò la grande funzione col Vescovo, e l’incenso riempì con le sue volute odorose la grande aula Ecclesiastica. Partirono i canti e la musica, e iniziò la grande Processione-Cerimonia che aveva raccolto tanti da ogni parte della Laguna. A quell’ora bisognava spingersi con forza, fare “a sportellate” per riuscire ad entrare in chiesa:“non se buttava dentro un baìn”.
In quel momento la Cattedrale pulsava zeppa, piena e occupata in ogni posto come una qualsiasi cappelletta di campagna … Il momento era solennissimo, quasi storico, e Torcello di certo viveva.

Qualche giorno fa, sotto a un cielo digitiforme di nuvole cotonate scure che non presagiscono niente di buono, stavo osservando quel bottone luminoso che brillava alto ad Oriente verso l’alba. Ho visto uccelli neri ignari solcare e seguire rotte invisibili in cielo, e di sotto sulla terra, c’erano, invece, erbe seccate cresciute in silenzio bucando il nero asfalto cotto dal sole. Tutto mi pareva immoto e uguale, come se niente fosse cambiato dentro al nostro solito scenario lagunare Veneziano. Pensavo: “Gli anni, i secoli trascorsi, non hanno affatto cambiato e invecchiato queste nostre Lagune ... Sembra tutto uguale, cambiato pochissimo ... Solo l’insulsaggine violenta, gratuita e assurda degli uomini scandisce e segna i calendari con le sue macabre performance distruttive e autolesioniste sempre nuove ... Pare essere questa l’unica novità delle età dell’Umanità, l’unico accadimento che spezza l’immobilità di questo scenario idilliaco quasi perfetto e perpetuo.”
Ascoltando rapito una rapsodia musicale arcana e senza parole, un insistente contrappunto sonoro agile, ritmico e danzante, ho colto come un pressante invito, un richiamo a tornare ancora una volta nella Laguna Torcellana, mia casa d’infanzia e adolescenza. Ho resisto un poco a quel canto ipnotico e fascinoso quasi da sirena, poi mi sono lasciato calamitare e prendere, quasi sedurre, e mi sono avviato a sbarcare a Torcello in un “dì di Festa”, molto simile a quelli accaduti ieri, l’altro ieri, ieri l’altro ancora ... e qualche secolo fa.
Insomma mi sono recato a Torcello il giorno della Festa della Madonna Assunta 2017, e anche quest’anno dentro al gran chiesone Torcellano si è ripetuto il fenomeno della visita del Patriarca. Non esistono più le tante figure Monacali e Religiose di un tempo, né c’è più tutto quell’entusiasta accorrere da ogni parte della Laguna che accadeva una volta, ma si trattava comunque di un’occasione per chiamare a raccolta.
Dei vecchi MonaciBorgognoniè rimasto solo il nome del canale, e non è neanche visitabile lo scarno cumulo delle pietre rimaste del loro sontuoso Monastero … Tutto intorno, navigatori arditi della Lagune, quasi come novelli Ulisse, lanciano sulle acque, capelli al vento e torace in avanti nel sole, potenti cabinati bianchissimi e bellissimi. Le loro barche, come mitiche creature uscite dal Mare, solcano le acque prua all’aria e “a tutta birra” incuranti dei limiti e dei divieti di velocità della navigazione … Non con uno, ma con due motori solcano e aprono le onde correndo via come su un autodromo. Le onde rimbalzano arrabbiate, s’allargano, percuotono, mordono e rubano via non solo le slabbrate bricole rimaste, ma anche le barene, e infine quel che rimane delle precarie rive delle isole … Le mura crollano ingoiate dall’acqua, e con loro quel che resta di tanta parte della Torcello e della Laguna di ieri.
Non ci sono più le lucciole a lumeggiare nei cespugli di notte lungo la strada che porta al cuore di Torcello. E’ stata pure lei rifatta e privata del vecchio selciato di un tempo ... e all’imbrunire pure i Grilli sembrano afoni e con poca voglia di farsi sentire, mentre sopravvivono le Cicale sempre in gran spolvero e capaci di furoreggiare concertando dall’alba al tramonto. In alto rauchi Gabbiani volteggiano in cielo alternandosi a sparute Rondini, mentre di sotto qualche Tortorella candida importata presenzia qua e là sulla piazza Torcellana dando pacifico spettacolo. Gli arbusti bassi che un tempo cingevano l’isola piena di vigne e orti sono ora diventati alberi selvatici e muraglia verde impenetrabile, spinosa e incolta … Dov’è finito l’ometto che un tempo sparava a sale a chi andava a rubargli le uve e la frutta nella vigna e nell’orto ? … E dove sono finiti tutti quei cani chiassosi e bellicosi che ti latravano dietro furibondi mordendoti le calcagna se solo osavi sbarcare nell’isola calcando i terreni cintati ?
Non c’è quasi più niente e nessuno: Torcello oggi deserta facta est ! … sebbene sia piena di gente.
A prima vista non si direbbe, perché tutto sembra bello e in ordine nell’isola Torcellana. Candide tende svolazzano al vento su prati rasati e pettinati scrupolosamente ... Lungo la via principale ristorantini dai menù prelibati e per tutte le tasche punteggiano la scena dove un tempo sorgeva la sola misera osteria … Fiumane di turisti di ogni sorta sbarcavano in continuità affamatissime affollando curiose l’isola da ogni parte ... A ogni ora del giorno l’aria è pregna d’invitante profumo di pesce fritto e arrosto che è andato a sostituire l’odore antico dell’incenso che si percepiva un tempo … I bimbi invadono chiassosi i prati assolati giocando sotto a un cielo azzurrissimo da cartolina, il canale principale di Torcello è intasato di barche di ogni tipo e costo … mentre ometti fanno la siesta pancia piena all’aria distesi all’ombra, e donnette vezzose, viceversa, se ne stanno a godersi il sole prendendosi la tintarella e perdendosi in infinite ciacole ...Nella Piazzetta più avanti dopo il magnetico Ponte del Diavolo(col Diavolo presente ancora oggi, sotto nell’ombra dell’acqua immota), il “caregòn de Attila”è sempre lì al suo posto preso di mira più che mai dagli scatti fotografici dei visitatori che raccontano ad amiche, amici, mogli, figli e nipotini di quando si mettevano già in posa in quel posto quand’erano bambini.
E non è tutto … In questi ultimi anni s’è ripristinato il vecchio tragitto da Altinofino a Torcello, Burano e San Francesco del Deserto tornando ad unire e riattraversare canneti, barene e tratti di Laguna fino a raggiungere i luoghi che sono stati le radici di Torcello ... Schedine elettroniche seminascoste adese ai lampioni dell’isola, leggibilissimi “QR Code” rinviano quasi magicamente a interessantissimi siti web che sciorinano un’infinità di new curiose e dati storici su Torcello e la sua antichissima civiltà. Che si vuole di più ? … Non c’è che da interessarsi e servirsi di tanta dovizia d’offerta.
Mai come oggi si è discusso, cercato, scavato, trovato, ricostruito e analizzato sulla millenaria Torcello e le sue Lagune giungendo a spaccare in quattro il capello delle scoperte, dei reperti e dei dati storici. A volte quasi ci si perde fra competenze e in diatribe sofisticatissime lontane dal sentire dei comuni“bassi mortali”. Ci si spartisce i tasselli di quel lembo di Laguna manovrando e frugando qualcuno nel fango, disquisendo e arzigogolando altri sul significato di una lapide, struggendosi altri ancora su quale sia il prezzo più adatto del biglietto da far pagare per entrare a godere delle bellezze del chiesone, o dannandosi a collocare in maniera ottimale i reperti rimasti … Non si avverte più quello scopo d’insieme, quell’anelito unitario che faceva un tempo vivere l’isola ...
Torcello è un po’ ombra di se stessa, quasi desaparecida e priva di destino, le manca l’Anima. E’ stato come vedere una potente Ferrari ancora funzionante collocata dentro a un capiente museo, un cimelio da osservare e basta. Qualcosa da patrocinare e sponsorizzare, ma non più utile, un meccanismo prezioso originalissimo, ma inceppato, senza pezzi di ricambio, non più vitale.
A riprova di questo, un vecchietto ha dato immagine della reale consapevolezza limitata e modesta che nutriamo noi di oggi di fronte a tanto prezioso spettacolo. Stanco e disinvolto si è seduto abbandonandosi sopra a un reperto antico del Museo.
“Scusi ?” lo ha apostrofato subito il gentilissimo custode, “Questo è un reperto antico ! … un po’ di rispetto per cortesia ... Si sieda da questa parte se ne ha bisogno.”
“Ah si ? … Questo coso sarebbe un reperto prezioso ? … Chi l’avrebbe mai detto ?”
Quanto “prosciutto” sui nostri occhi miopi e ignoranti !
Comunque dentro a questa specie di statica apatia, all’inizio del pomeriggio il buon erudito Marco Molin ha come dato una scossa all’isola calamitando i tanti Veneziani nostalgici e interessati come noi, inducendo tutto a calarsi dentro alle pieghe dei misteri fascinosi della storia plurimillenaria di Torcello. Col pretesto d’inseguire un insolito percorso Mariano-Torcellano, ha consolato e nutrito il nostro curioso cercare strappando dall’oblio tante cose di quest’angolo prezioso di Laguna, e ha rinverdito i lustri di Torcello rispolverando la sua storia maiuscola. Con simpatia e con quasi omiletica sapienza ha tratto fuori le vicende dimenticate di tanta parte del patrimonio artistico-storico-devozionale di Torcello, e ha attirato la nostra attenzione soprattutto sulle formelle rimaste dell’inusuale quanto preziosissima Pala d’Oro di Torcello, suggestivo resto dell’abitudine lagunare di addobbare gli altari interpretata anche nelle ricche Pale d’Argento e d’Oro presenti pure a San Salvador (ancora presente) e Santa Maria Materdomini(perduta)di Venezia, ma anche a Caorle, oltre che nella superfamosa Pala d’Oro di San Marco… Il disfattista napoleone e l’incuria degli uomini a volte hanno smembrato, venduto o buttato in un angolo di magazzino un po’ tutto ... L’ignoranza quindi non ha età né mai fine.

Oltre a illustrarci quell’impareggiabile gioiellino, ci ha mostrato e illustrato reperti di mosaico, arredi e cicli pittori di pregiata fattura di chiese e monasteri scomparsi dalla Laguna. A un certo punto del pomeriggio però il buon Marco è come volato via, punto da un’Ape invisibile, rapito e trascinato fuori da una chiamata irrinunciabile: stava arrivando il Patriarca “sul primo binario”, perciò bisognava come un tempo correre ad accoglierlo e accompagnarlo, quasi da buon padrone di casa e maestro delle cerimonie … Anche stavolta le campane di Santa Maria si sono ribaltate solenni e festose come un tempo dentro al tozzo campanile vigile sulla Laguna e sulle isole rimaste semideserte e quasi prive di gente rispetto a un tempo.

Infatti poco dopo ha fatto la sua illustre comparsa il Prelato Patriarca rivestito del suo vestitone aranciato … sembrava un bonzo buddista. E così come quella volta, il chiesone di Torcello si è riempito di folla … anche se era molto diversa da quella di quella volta. Oggi c’eravamo noi, nostalgici Venezia qualsiasi, ad affrettarci sui posti insieme agli amici, ai familiari, e agli amici degli amici dei concertisti e coristi convenuti in chiesa per l’occasione. A far più “numero”c’erano gli immancabili turisti, qualche Religioso e Prete, e qualche sparuto Torcellano rimasto. Non c’era affatto la trafila dei Monaci e delle Monache di un tempo, né le folle devote provenienti dalle isole della Laguna Torcellana. Non c’era neanche il seggiolone riservato al Podestà, a dire il vero non ho visto autorità cittadina di alcun tipo … Chissà da quanto la campanella della presenza Civico-Politica non suona più a raccolta in cima alla torretta del Palazzo Podestarile ?


Di nuovo il nostro Marco Molin ha ripreso in mano la situazione e la scena inducendo tutti a mettersi testa all’insù a fissare lo splendido mosaico del Giudizio Universale di Santa Maria. Le sue spiegazioni lo hanno fatto quasi parlare di nuovo, ne hanno risaltato i simboli, rivelato le significanze recondite, svelato i segreti arcani, e messo in luce le fisionomie e i dettagli gustosissimi. A un certo punto la parete dorata decoratissima è sembrata quasi ridestarsi dal suo antico sonno, e rianimarsi come fosse un film di oggi. Sembravano occhieggiare e socchiudersi gli occhi dei Cherubini e dei Serafini, muovere le ali gli Angeli in infradito e gli Arcangeli in babucce rosse … Le acque salvifiche della Vita Eternamente giovane apparivano scorrere sulla parete preda della luce dorata del tramonto, così come sembravano avvampare, ardere e bruciare le fiamme del fiume infernale … Brillavano, pulsavano e scintillavano le Stelle della pergamena degli avvolti Cieli e Mondi Antichi e Nuovi srotolati dall’Angelo, e tromboneggiavano possenti e acuti, quasi entusiasti, a destra e a manca gli altri Angeli che richiamavano ogni Creatura ad ab-surgere di nuovo a nuova Vita uscendo dal sonno della fatidica Morte.

Che spettacolo !

Tutti rinnovati e rinati da se stessi uscivano fuori da decrepita esistenza come di crisalide, si scuotevano di dosso il vecchio “modus vivendi”… Perfino sgusciavano via viscidi dai teschi i serpenti infernali, fiorivano come giardini le zone palustri avvizzite, e sembrava quasi che una brezza di novità fuoriuscisse da quella Biblica e Apocalittica Scenainondando e coinvolgendo tutti coloro che sostavano nel chiesone sottostante.

Dalla parte opposta dell’aula sacra gremita di facce rivolte verso l’Alto, dentro al catino absidale dorato, la grande Madonna Azzurra e Pluristellatasembrava quasi abbassare le palpebre e abbozzare un vago sorriso, mentre il Bimbo Salvifico che teneva in braccio pareva quasi accennare a un vago saluto muovendo la manina.

Ho socchiuso e riaperto gli occhi per qualche istante … Era pura magia da illusionista ? … Forse sì … ma anche un poco no. Era in parte realtà espressa davanti ai nostri occhi.

Sbadigliava intanto il Patriarca aranciato con le gambe accavallate, tenendosi il mento fra le mani … Sbadigliava pure dalla parte opposta, quasi slogandosi la mandibola, un gatto Torcellano smunto apparso sulla porta della chiesa, intento ad osservare l’inusuale spettacolo … Improvvisamente una turista entusiasma si è alzata in mezzo a tutti, e si è messa a scattare freneticamente foto a destra e a manca puntando i mosaici estasiata dopo cotanta spiegazione. Immediatamente un’energica donnina col cartellino al collo le si è fatta prossima indicandola minacciosa a dito puntato: “Ferma ! … Che fa ? … Non si può !” le ha furoreggiato impercettibilmente sottovoce fulminandola metaforicamente col dito. (Chissà perché poi nella Basilica Torcellana non si può fotografare quando ovunque nel mondo si è rimossa quell’odiosa quanto inutile limitazione ?).

La poesia del tutto si è spenta subito irreversibilmente … e la donna mortificata si è riseduta al suo posto facendosi piccola e profondendosi in scuse. S’è consumato così il magico momento della catechetica meditazione artistica ... mentre si è passati a citare Fatima e Pastorelli, inerpicandosi in discorsi e considerazioni dottrinali distanti e di certo sconosciute a quelli che hanno voluto, ideato e costruito quei disegni mosaicali meravigliosi così pregni di contenuti. 

Sembravano sbiadire certe parole moderne, non reggere il confronto con tanta bellezza e spessore dei contenuti antichi. Forse gli antichi Torcellani di un tempo non avrebbero capito e apprezzato i contenuti della “nostra buona e santa tradizione”, non avrebbero colto il senso di certe nostre convinzioni, né si sarebbero riconosciuti in certi concetti e principi della nostra Chiesa Cattolica di oggi … A confronto con l’intensità profonda e ricchissima espressa dai disegni biblico-catechetici dei mosaici, certi discorsi e certe sottolineature odierne hanno un sapore un po’ insipide, quasi da ultimo discorso della serata, quello della frutta, dell’ultima portata della serata …  Oggi dentro alle chiese sembra muoversi e parlare seguendo un’altra lunghezza d’onda, balbettando solo vaghi e poveri accenni. Si è persa quasi del tutto la forza di quel mondo tutto Quaresimale e Battesimale fondato su un grande itinerario di cambiamento esistenziale quotidiano celebrato anche nel chiesone Torcellano. I contenuti dei mosaici e delle pietre sembrano lontani, muti, quasi assopiti. Lì dentro non si celebre più in massa la grande Notte delle Notti Pasquale, la solenne Rinuncia al Male rivolti contro i luoghi bui dell’Ovest e del Settentrione … Né si entra più dentro alla chiesa con la Luce in faccia rinati nell’alba della Risurrezione, dove la Vergine dorata illuminata da mille luci fioche offre il Figlio Redentore e Salvatore fissandoti occhi negli occhi.

Ha suonato un cellulare in chiesa … Era quello di un anziano Prete accaldato e appisolato in un angolo (stava meditando ad occhi chiusi). Ha sobbalzato su se stesso e sul pancione quando gli è trillata la suoneria barocca provando a dissimulare il fatto. Poi ha risposto sottovoce trattenendo a sua volta con la mano un largo sbadiglio ... Almeno avesse avuto un bel Canto Gregoriano come suoneria.

Quel chiesone e Torcello mi sembrano un posto pieno di storie da raccontare, ma privi di chi le sappia presentare autorevolmente … Suonano sì le campane … ma è come se mancasse qualcosa e qualcuno, i protagonisti. Ci si sente come in un cinema dove non verrà proiettato alcun film, come in uno splendido teatro dove il palcoscenico rimarrà disertato e senza commedia … E’ strana la sensazione: Torcello sembra una matassa priva del bandolo, una fiaba che ha perso il suo nocciolo: una Cenerentola che ha perso l’altra scarpetta, un Pinocchio senza Fatina, con Geppetto annoiato e stanco d’inseguire quell’inutile burattino … Non sono sufficienti gli spettatori in un posto per far accadere la magia dello spettacolo.


Per fortuna il Canto e la Musica bellissimi si sono levati nella grande Basilica a pareggiare, assopire e mettere da parte i miei foschi e critici pensieri. La voce polifonica e suadente del coro, e il suono magico del flauto traverso hanno preso a volteggiare nella Basilica, arzigogolare e abbracciare le colonne, i mosaici, e salire fin sulle volte e le capriate del soffitto. L’atmosfera si è fatta “angelica”, e il momento solennissimo … Pareva d’essere partecipi di un eco preziosissima proveniente da un altro Mondo senza Tempo, un’emanazione speciale che ci avvolgeva fuoriuscendo da dove non si osa e non si riesce dire compiutamente. Una parentesi e una sensazione impareggiabili.

Alla fine tutti hanno applaudito entusiasti i musicisti e coristi … Anche il Patriarca aranciato, solenne e pomposo al centro della scena … Si respirava un senso di Festa a Torcello … anche se mi sono chiesto dov’era andato quel tempo in cui il modestissimo Patriarca Albino Luciani arrivava, quasi trasparente e schivo, andando d’istinto ad accomodarsi umile fra le persone qualsiasi lasciando vuote le sedie di rappresentanza poste al centro della chiesa.

Evitava le vesti pompose il Patriarca Luciani ... Ringraziava così calorosamente il militare che l’aveva condotto col motoscafo fino a Torcello, che sembrava essere quello la persona più importante, il protagonista del momento. Quando in quegli anni si entrava nel chiesone il giorno dell’Assunta d’Agosto era quasi sempre semideserto e vuoto ... Non c’era la folla di oggi. Però Luciani sapeva dare sostanza a quella scena con la sua genuina e pregna semplicità, sapeva come accendere il Mistero conferendogli un aspetto spicciolo, naturale, quotidiano, alla portata di tutti … Luciani sembrava un Santo Vescovo scappato fuori dal mosaico absidale in cui stava in confidenza insieme alla Vergine Blu col Figlio Amabilissimo.

Lo so … Altri tempi, altre circostanze, altri modelli … altro vento che spirava una volta su Torcello …

Oggi nel chiasso di Torcello si percepisce un gran silenzio, come un’assenza, un qualcosa che si è rarefatto. Non basterebbe però scavare in profondità nella melma del fango, nè sarebbe sufficiente scoperchiare tutte le barene intorno per ritrovare quel qualcosa che manca … Ho sbirciato per un attimo di sotto dentro alla Cripta della Cattedrale in cui tanto ho giocato e fantasticato durante la mia adolescenza e prima giovinezza a Burano … Niente ! … Sembrava un’altra, un luogo diverso, estraneo ai fatti … Ho provato allora a scrutare intensamente lo strano “Crocefisso a pioli” che domina la navata rubando la scena alla Madonnadorata del catino absidale. Non si sa mai chi guardare dei due: se Lui davanti o Lei dietro o viceversa ... Entrambi hanno qualcosa da dire, sembra si rubino la scena reciprocamente da secoli.

Sulla curva dell’abside di Santa Maria fra l’altro si legge un ’iscrizione: “… Sono Dio ed Uomo, immagine del Padre e della Madre … Dal colpevole non sono lontano, ma al pentito sono tutto vicino …” e ancora: “… Quanto alle persone Dio è trino: unica è la sua essenza divina ... Egli rende fertile la Terra; stende i Mari; fa risplendere il Cielo …”

Ma niente lo stesso … Questa sera la Mater Maria Azzurra e Stellata pareva tacere austera imprigionata nel suo mosaico … Si sente che lì dentro non c’è più un Episcopo seduto sulla Cattedra a pascere un Popolo vivo … Si avverte che non funziona più il Battistero che sapeva inventare nuovi Cristiani dai Catecumeni durante la Notte delle Notti Pasquale. Si percepisce che la Cappella Eucaristica col stupefacente Agnello Pasquale non dispensa più “Pani Santi”da condividere … Pure il sublime mosaico parietale Apocalittico del Giudizio non grida più a nessuno il suo Messaggio strepitoso … Il chiesone sembra un elegante scheletro spoglio, un cembalo che non tintinna più, un tamburo senza pelle, una chitarra senza corde, una cornamusa bucata, un piffero spezzato … un luogo dove tutto sembra assopito, come spento e distante.

Ho sentito il bisogno pressante di uscire da quel chiesone per ritornare a immergermi nell’aria fresca e dentro al tepore del sole, riassaporare la gente, e sentirmi più vivo ... Infatti sono uscito, anche se la solenne cerimonia non era ancora terminata.



In questa ennesima ricorrenza dell’Assunta mi è parso che Torcello assomigli a un arzillo pesce che salta fuori vispissimo volteggiando in aria dal suo elemento acquatico avvitandosi alto carico di riflessi scintillanti … Non è però una Laguna aperta quella che lo contiene e dalla quale salta fuori con forza, ma forse una pozza d’acqua chiusa che si sta progressivamente e inesorabilmente asciugando ... Non si avverte più vibrare e respirare Torcello seguendo il ritmo delle maree e delle ore … E’ diventato la dependance della consumistica ed effimera Venezialand di oggi. Per questo l’avverto così mesta, struggente e decadente … un liscio deserto d’acqua su cui si specchia l’azzurro del cielo solcato dagli aerei che si sparano in alto salendo dal Marco Polo di Tessera.

Ma forse è solo una mia povera opinione.




“L'ex Giustinian di Ognissanti ... fra Benedettine, Senseri e Brigate Rosse.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 153.

“L'ex Giustinian di Ognissanti ... fra Benedettine, Senseri e Brigate Rosse.”

Ai tempi che esercitavo ancora da Prete ai Carmini nel Campo Santa Margherita a Venezia nel Sestiere di Dorsoduro, la vicinanza con l’Ospedale Geriatrico Giustiniàn (ormai declassato ma ancora attivo) m’intrigava non poco inizialmente.

Il Piovano dei Carmini (ch’era il mio “capo”) però fu categorico: “Il Giustiniàn non è zona di nostro interesse,” mi disse, “Primo perché ha già i suoi Frati che prestano assistenza spirituale ai degenti … Quindi non li dobbiamo intralciare con iniziative nostre nella loro missione … magari strampalate e inutili … Secondo perché l’Ospedale non è territorio appartenente alla nostra Parrocchia, ma semmai a quella di San Trovaso … Non vorrai mica che il Piovano di quella Parrocchia si senta da noi spodestato e invaso nella sua giurisdizione e nei suoi confini ? … Sai come sono fatti i Preti: ognuno tiene molto al proprio orticello e alle proprie “pecorelle” … e non gradiscono affatto che altri vadano a pascerle immischiandosi e intrufolandosi nei loro affari.”


“Quindi Ospedale Giustinian: zona “of limits” … Giusto ? … Ho capito bene ?”

“Esatto ! … Un posto da cui tenersi alla larga, o perlomeno in cui entrare con discrezione e meno che si può … Magari solo per necessità inerenti alla nostra Professione.”

“Professione … mi piace (per niente, invece)Zona vietata quindi come le sedi dell’Università che stanno, invece, dentro al territorio della nostra Parrocchia ? … Bisogna fare come se non ci fossero, perché se ne devono occupare esclusivamente i Preti “addetti ai lavori” … Giusto anche questo ?”

“Proprio così ! … Stai dicendo bene … Niente contatti inutili con Università e studenti … e niente assistenza o cose del genere ai Malati del Giustiniàn … Per servire certe realtà servono competenze, sensibilità e doti che non è detto che tutti i Preti possiedano ... Per questo serve un apposito mandato della Diocesi e del Patriarca … E chi non ce l’ha … Ti sembra chiaro il messaggio ?”

“Clarissimo ! … Lampante Monsignor ! … Agli ordini ! … Sarò obbediente e non oltrepasserò affatto certi confini.”

“Bene … Bravo così … Vedo che inizi a comprendere come funzionano certe cose dal punto di vista pratico e concreto dentro al nostro sistema … E non chiamarmi Monsignor … perché son Don Giuseppe e basta … Siamo intesi ?”

“Certo Monsig … cioè … don Giuseppe!” e via così di questo passo. Le cose funzionavano più o meno a questa maniera fra noi due dentro alle mura chiuse della Canonica dei Carmini affacciata sull’omonimo Rio e Campo … Lui era “il capo esperto”, quello che doveva indirizzarmi,  darmi e rammentarmi le giuste direttive da seguire, mentre io ero quello che giovane e inesperto che scalpitava provando a imparare … Quello cioè che doveva adeguarsi(più o meno) e mettere in pratica gli ordini dei Superiori … E’ andata più o meno così, quindi durante i cinque anni che sono “sopravvissuto” ai Carmini di Venezia. Non ho più toccato, obbediente, gli argomenti Ospedale Giustinian e Università … anche se erano due realtà che mi calamitavano e incuriosivano non poco.

Poi si sa come andavano le cose alla fine degli anni ‘80 dentro al microcosmo dei Preti di Venezia … Vivere come ViceParroco ai Carmini non è stato affatto un giochetto semplice ma un’esperienza intensissima e vivissima. Non mi rimaneva tanto tempo libero per interessarmi o dedicarmi ad altre cose. Il luogo di Ognissanti, ossia il Giustiniàn, rimase quindi al margine della mia esperienza Sacerdotale, anche se sorgeva a soli due passi da dove vivevo e operavo.


Sono trascorsi più di trent’anni da quei giorni … Ma quella curiosità mi è ancora rimasta, seppure in maniera del tutto diversa … Non esistono più per me quelle limitazioni e quegli strani impedimenti che mi obbligavano un tempo ... Ma nel frattempo non sono neanche più Prete, né più esiste ormai da un bel pezzo quel l’Ospedale Giustiniàn di allora. Come sempre di tanta parte di Venezia rimane come lo scheletro, l’ombra del tanto che c’è stato ed è accaduto in certi posti … E nell’ex Monastero di Ognissanti di cose ne sono accadute tante.


Tutto compreso, quello di Ognissanti è stato un Monastero Veneziano che ha fatto storicamente poco clamore, e fatto parlare poco di se a confronto con altre realtà cittadine simili o superiori. Forse perché è stato in un certo senso “oscurato” da un paio di “vicini”prestigiosi come lo erano i Gerolamini di San Sebastiano e i Carmelitani Scalzi di Santa MariaAssunta divenuta poi del Carmeloche sorgevano solo qualche ponte e pochi passi più in là rispetto a Ognissanti.

Inoltre il Monastero che era stato delle Cistercensiprima, e delle Benedettine poi, sorgeva in una zona Veneziana un po’ discosta e periferica del Sestiere di Dorsoduro. Di certo la Contrada dove sorgeva Ognissantiera più modesta rispetto al grande centro commerciale-politico-religioso di Rialto, San Marco e Castello dove si concentrava la maggior parte delle realtà Religioso-Monastico-Conventuali di Venezia. Ognissanti stava dalle parti della Fondamenta delle Zattere, e occupava un’intera isoletta dell’arcipelago Veneziano compresa fra la modesta Contrada di San Basilio e quella più prestigiosa di San Trovaso. Tutto attorno le scorreva il Rio di Ognissanti (in parte interrato nel 1860) che si concatenava col Rio del Malpagà e col Rio dell’Avogaria. La zona era popolare, occupata da squeri, botteghe di Artieri, casupole di pescatori, e magazzini di Zattieri.

Ognissanti tuttavia ospitava nelle sue mura buona parte delle figlie dell’elite Nobiliare di Venezia, e come quasi tutti gli Enti Veneziani simili era “patrocinato”soprattutto da un clan Nobiliare prestigioso, che in questo caso era quello dei Nobili Barbarigo. Il Monastero di Ognissanti era come una loro “figliolanza”, una sede sicura dove monacare e collocare le figlie come in una “dependance”di famiglia.
Alla Visita del Patriarca Priulia Ognissanti nel 1594 si registrò nei verbali: “… sopra il Parlatorio grande retrovò una stanza grande con alcuni letti dove dorme Suor Valeria Barbarigo con alcune sue nepoti et dependenti … e quivi ritrovarono diversi armari con robbe diverse cioè marcantie di cusina, et una barilla di vino con qualche scandolo …”

A Venezia si diceva: “l’Ognissanti dei Barbarigo”… e comunque in zona non abitavano solo loro, ma risiedevano molti altri Nobili. C’erano i Trevisan di Ognissanti di IV Classeche s’affrettarono presto a trasferirsi nella più centrale Contrada di San Stae più prossima al prestigioso Canal Grande; c’erano i Vitturi di Ognissanti Nobili di V Classe, i Bonliniche abitavano in un palazzo rifatto poi nel 1700; i Lombardo in una casetta, dove uno di loro fondò nel 1670 l’Accademia dei Filareti: una specie di aggregazione artistico-letteraria di un certo prestigio formata da pittori, scultori e architetti. Non c’erano però presenti nei pressi di Ognissanti i grandi nomi altisonanti della Politica ed Economia che facevano grande la Serenissima.


Sempre a confronto con gli altri “colossi Monastici” Veneziani (pensiamo al San Zaccaria, al San Lorenzo, ai Frari e San Zanipolo e tanti altri), Ognissantinon brillava affatto dal punto di vista dei contenuti artistici, anche se fra le sue pareti raccoglieva opere di notevole prestigio realizzate da artisti molto in voga in certi periodi: Paolo Veronese, Palma il Giovane, Pietro Muttoni detto Della Vecchia, Pietro Liberi, Andrea Vicentino fra i tanti che potrei citare. Ognissanti, insomma, non è stato un Conventino e una chiesetta spogli, tutt’altro … perchè possedeva le sue “belle cosette”, oltre alle preziose Reliquie dei Corpi di San Maurizio e Santa Demetria trasferiti a Venezia dalle Catacombe Romane delle quali le Monache andavano parecchio fiere.

Curiosamente lo stesso Monastero di Ognissanti ha ospitato pochissime Schole d’Arte, Mestiere e Devozione: cosa molto insolita a Venezia, perché le Schole-Confraternite erano sempre fonte di sicuri guadagni per chi le ospitava. A Ognissanti ne sono “passate”soltanto due in tutto: ossia la “Schola della Miracolosa Immagine della Madonna”(che presentò una richiesta di Concessione d’Apertura alle Monache nel maggio 1505), e soprattutto la chiacchieratissima “Schola dell’Assunta dei Senseri o Sensali della Messetaria di Rialto” la cui storia andò quasi di pari passo con quella del Monastero di Ognissanti.

Più che una Schola, quella dei Senseri di Rialto è stata, invece, una vera e propria Corporazione di Mestiere che possedeva privilegi e attribuzioni importanti simili a quelle della prestigiosa Arte della Seta di Venezia che trovava spazi nella Scuola Grande della Misericordia a Cannaregio.
Le Cronache e i documenti Veneziani raccontano che nel luglio 1465 il Consiglio dei Dieci della Serenissima permise ai Senseri di Rialto di organizzarsi in una nuova Schola per“ovviare alli disordini …. et per la malicia di molti”, e che qualche tempo dopo andarono a sistemarsi in una casa addossata al Monastero di Ognissanti.


Dovete sapere che l’Arte dei Senseri era famosissima in Venezia e in tutta la Laguna, nonché all’estero, per le sue “maòne-imbrogli” da cui ci si doveva assolutamente guardare. A differenza di molte altre Schole dipendeva dai Consoli dei Mercanti Tedeschi e non dai Visdomini del Fontego che avevano funzioni di vigilanza e polizia negli affari commerciali e mercantili Veneziani ed Esteri.
L'Università ovvero l’Officio dei Sanseri Ordinari de Rialto, distinti inizialmente dai Senseri del Fontego dei Tedeschi, riuniva tutti i mediatori commerciali considerati depositari della “parola e della fede” nelle traslazioni economiche (erano una specie di garanzia alla maniera dei Notai), e possedeva l’esclusiva di occuparsi di ogni mediazione e contratto relativo a compravendite di beni mobili e immobili a Rialto e in tutta Venezia.
A Venezia esistevano Sensericioè intermediariper ogni occasione. C’erano: “Senseri da Matrimoni”, “Senseri da Camera dei Prestidi”, “Senseri da Sicurtà o Assicurazioni”, “Senseri da Formento”, “Senseri da zoggie e cambi” e “Senseri del Monte Novo” che avevano di solito “in paga”: 1 piccolo e ½ d’oro per ogni ducato trattato nelle transizioni, e continuarono fino al 1802 a tenere i loro Capitoli Ordinari ossia le riunioni di categoria rivolgendo Suppliche al Governo della Serenissima, e intentando processi e cause a Mercanti, Artigiani, Nobili e contro chiunque avesse osato ostacolare l’esercizio e gli interessi del loro particolare mestiere.


I Sensali per poter esercitare nei territori della Serenissima ricevevano dall’Officio-Magistratura della Messetaria, previo un deposito di 300 ducati, un “libretto cartado, bollato e numerado” col quale dovevano accompagnare ogni transizione commerciale. Chi non ce l’aveva o non lo utilizzava subiva la revoca dell’incarico di Sensale, mentre chi lo perdeva veniva privato dell’incarico almeno per un anno. I contratti di compravendita dovevano essere dichiarati all’Officioentro 8 giorni per poter essere registrati, e si pagava il relativo dazio obbligatorio applicabile entro 25 miglia da Venezia. I Sensali Veneziani erano però considerati furbi, e spesso abilissimi nel frodare. Più di qualche volta, ad esempio, approfittavano dalle lungaggini burocratiche dei Dazi lasciando partire i Mercanti e i Turchi obbligandoli a lasciare bloccate le merci sequestrate a Venezia … dove di che, più di qualche volta le merci “andavano misteriosamente perdute” attraverso strani “passaggi e maneggi”.

Nel luglio 1470 la Monaca Maria, figlia di Domenico Partioro e Comella Marzana, ricevette come donazione nel giorno della sua Professione nel Monastero Cistercense di Santa Margherita di Torcello tutta una serie di immobili in Contrada di San Basegio a Venezia. Per entrare però in possesso di tutti quei beni, le Monache Torcellane avrebbero dovuto fondare in Venezia un nuovo Monastero intitolato alla stessa Santa.

Due anni dopo, infatti, nonostante le tante rimostranze, e scavalcando le renitenze dei Superiori Ecclesiastici di Torcello, quattro Monache Professe da Coro, e quattro Monache ConverseCistercensi del Monastero Osservante di Santa Margherita, ottenuta l’autorizzazione del Patriarca Matteo Girardi, “ripararono a Venezia” a causa delle averse condizioni atmosferiche e dell’impaludamento della Laguna Torcellana. Guarda caso nei pressi della Contrada di San Basilio si dedicarono a fabbricare un primo Ospizio-Monastero a cui aggiunsero una chiesetta fatta di tavole dedicata a Maria Vergine della Pacee aTutti i Santi ossia Ognissanti.
Quattro anni dopo, le ormai ex Monache Torcellane elessero una di loro: Eufrosina Berengo o Belegno, come prima Badessa, e almeno fino al 1501 si dedicarono tramite i loro Procuratori: Daniele di Luca Da Lezze già Procuratore di San Marco de Supra e Antonio e Marco Barbarigo del Ramo di San Trovaso (Doge nel 1479 !) ad acquistare terreni vacui, case limitrofe, e perfino uno squero con tesa per ampliare il nuovo Monastero di Ognissanti e impinguare il loro patrimonio. 



Le Cronache degli Archivi Veneziani raccontano di Monache di Ognissanti severe, aspre, talvolta “tignòse e taccagne”. Si diceva in giro per Venezia che oltre ad essere austere e rigide, erano anche avare, “dal braccino corto … e dai cordoni della borsa stretti”, tanto che si chiacchierava che le Monache indirizzassero altrove “a cercar minestra e sussidio” la sempre incontenibile folla dei questuanti e dei miseri che s’assiepavano ogni giorno alle porte di tutti i Monasteri di Venezia … Ma forse erano soltanto voci pettegole e invidiose ... o forse no.
Negli stessi anni, il Senato della Repubblica Serenissima concesse speciali esenzioni fiscali all’ “erigendoCimiterio, Ecclesiae et Claustro di Ognissanti”, e permise alle Religiose di vendere una casa destinandone il ricavato: “in fabrica dicti Monasteri”… Lo stesso nuovo Doge Marco Barbarigo collocò ad Ognissanti le sue figlie Cassandrae Guidafacendo loro assumere il nuovo nome Monacale di Pacifica e Vienna, mentre la moglie Lucia Ruzzini lasciò alle figlie per testamento uno stranamente “povero”vitalizio di 3 ducati annui ciascuna. Pier Francesco figlio del Doge Marcofu però più splendido e munifico nei riguardi delle Monache di Ognissanti, perché lasciò per testamento alle sorelle 50 ducati, oltre che un ulteriore lascito di altri 150 ducati per il Monastero.

Secondo le stesse Cronache Veneziane, il Monastero di Ognissanti nel 1486 era già ben avviato perché ospitava 50 Monache che conducevano “vita poverissima”… Possibile (?) ... Infatti il Senato della Serenissima tramite l’Ambasciatore di Venezia Antonio Loredan si rivolse a Sisto IV Papa di Roma supplicandolo di concedere al nuovo “povero Cenobio” qualche beneficio, o almeno una rendita annuale di 300-400 ducati … per non morire di fame.
La risposta del Papa non si fece attendere, e Alessandro VI, il controverso libertino e nepotista Papa Borgia pieno di figli, aggregò le Monache Cistercensi di Ognissanti al circuito della Congregazione Cassinese Benedettina con tutte le prerogative e gli indulti che ne conseguivano ... Tradotto in concreto, significò appoggi, protezioni e danarose sovvenzioni … e le Monache Cistercensi di Ognissantidivennero Benedettine.

Nel frattempo il Senatodi Venezia fece scavare un pozzo a Ognissanti per rendere le Monache autonome nell’approvvigionamento idrico ... e si destinò come Cappellano e Confessore delle Monache un certo Prè Giovanni Piero quondam Girolamo da Farra, che s’introduceva nel Monastero da una sua casetta comunicante in cui abitava. Fu lui ad essere testimone delle ultime volontà di Agnesina Missani madre della Monaca Corona Missani, che fu stravagante Badessa di Ognissanti per ben 25 anni.

Nel 1504 le Monache di Ognissanti non dovevano essere così povere se si misero a costruirsi una bella chiesa e Monastero nuovi ... Ma a loro dire lo fecero con le generosissime elemosine dei Veneziani, che offrirono riconoscenti molti denari e sostanze:“… all’immagine miracolosa della Sacratissima Vergine che si palesò in picciola pittura ristretta sopra il coperto della fabrica di quella chiesa di Ognissanti”

“Dove ci sono fiori e miele ronzano le Api … così come dove ci sono i soldi ronzano le persone.”… Infatti problemi e malcostume non si fecero attendere ad Ognissanti. Le Cronache Veneziane raccontano di alcuni gravi fatti inscenati dalla stessa Badessa Corona Missani che iniziò a frequentare un “… tal Prè Hector Persigino homo zovene et suspecto … che dilapidava et consumava le oblation et elemosine, et altri beni immobili del dicto Monasterio facendo le miserabili Monache patir grande desasio …” A costui si aggiunse Prè Hieronimo fratello della stessa Badessa Missani, che divenne Procuratore del Monastero insieme a Bernardo figlio del Doge Marco Barbarigo che sottoscrissero alcuni loschi accordi con i Sensali di Venezia che andarono a porre la sede della loro Schola proprio ad Ognissanti.



Ed eccoci così ritornati ai Sensali Veneziani“trafeghìni e scondariòli”.

Il solito Diarista Marin Sanudo fu più che esplicito nel raccontare tutti i fatti in data 12 febbraio 1505 More Veneto: “Serpeggiò anche in esso Monasterio il mal costume … E' da saper in questi zorni fo scoperto di la Badessa di Ogni Santi qual era gravida con altre Muneghe di un Prè Francesco Persegin, el qual fo ritenuto, e cussì vi andò con gran strepito il Patriarcha ivi, e li Avogadori Francesco Orio, Hieronimo Querini, et Antonio Zustignan dottor, et con barche di Officiali intorno el Monastier, et zercorno la verità … et fo ritenuta la Badessa.” 

Non si racconti quindi che il Monastero di Ognissanti è sempre stato in Venezia un Monastero d’esemplare Santità, correttezza e generosità … Raccontiamo piuttosto come sono andate veramente nel bene e nel male le cose, senza fantasticare e senza nascondere certe magagne.

I Senseri di Venezia in quella stessa epoca si davano un gran da fare procurandosi affari e guadagni d’oro in maniera più o meno lecita. Nel tentativo di “salvarsi un puòcoda loro”, nel 1582 i Mercanti Bossinesi supplicarono la Serenissima: “… di provveder loro Senseri che sapine la lingua Schiavina.”... Così come sette anni dopo la Serenissima creò sei ViceFanti dell’Officio dei Senseri per vigilare e denunziare i Senseri trasgressori … E non fu sufficiente ad arginarne l’azione, perché ancora nel 1621 si vietò ai Sensali di ospitare direttamente a casa propria i Mercanti Turchi “per cercare d’inguaiarli meglio”.

Per essere Sensere di Rialto, del Fontego dei Tedeschi, del Fontego delle Farine o dell’Officio del Pèvare si doveva essere Cittadini Originari Veneziani, o almeno avere moglie veneziana, o abitare a Venezia da almeno 10 anni … Si riteneva incompatibile la presenza simultanea nello stesso affare di fratelli, padre e figlio: “… pena per i trasgressori di sei mesi continui serài in prisòn buia, e per i rei: bando par dièse ani dall’insula di San Marco e Rialto”… Già nel marzo 1346 la multa da 30 libbre di denaro e 12 soldi e mezzo inflitta come pena per le normali trasgressioni dei Sensali, venne portata a 50 libbre di denaro nel caso avessero permesso ad estranei d’inserirsi in qualche affare. Alla seconda infrazione il Sensale non solo perdeva per 2 anni il posto, ma veniva anche interdetto dal Fondaco dei Tedeschi e dalle zone delle insule commerciali di Rialto e San Marco fino al Ponte dell’Ogio.

Sembra che già nel lontanissimo dicembre 1096 si fosse provato senza risultato ad unire fra loro i Senseri del Fontego dei Tedeschi con quelli Ordinari di Rialto ... Si dice ancora che “originalmente”, ossia nel 1266, i Senseri di Venezia fossero 20, e trovassero posto sotto la loggia del Portico d’Acqua del Fondaco dei Tedeschi…Vista l’importanza che i Sensali avevano in tutti gli affari, nel 1317 la Quarantia della Serenissima assunse direttamente la supervisione dei Senseri di Rialto obbligandoli a subire ogni anno un vero e proprio esame che si teneva il giorno di San Michele. Veniva esaminato ogni Sensale, e chi non dimostrava di possedere le doti adatte per esserlo veniva sospeso dall’attività commerciale per due anni perdendo il posto ... Si tenevano anche altri esami “di riparazione-ammissione” anche a giugno e a dicembre, e i Visdomini della Serenissimacontrollavano di mese in mese l’operato di ciascun Sensale ... più o meno.

Sempre circa i Senseri nel settembre 1503 si decretò a Venezia: “… nel Rialto nostro siano deputati a far praticar et concluder tutti i mercadi quali per li Mercadanti nostri si Terrieri come Forestieri saranno fatti, né altri che loro detti mercadi possino praticarsi, far né conceder …”
Come potete immaginare, il pericolo della corruzione e della frode era all’ordine del giorno in quella categoria di operatori commerciali, tanto che il Governo della Serenissimanon li perse mai d’occhio lungo tutto il corso della sua Storia, adottando numerosi provvedimenti nei loro riguardi perché non alterassero e monopolizzassero la Mercatura Veneziana.

Va detto però che la stessa Serenissima ha considerato i Senseri-Sensali indispensabili per controllare gli affari del suo Mercato, rendendone obbligatoria la presenza nelle intermediazioni di molte categorie mercantili come quella degli Orefici, Diamanterie Varoteri(venditori di Pelli di Varota-Ermellino e pellami preziosi in genere). Le Arti dei Mandoleri, degli Speziali da Grosso e dei Fruttaroli, invece, ottennero speciali deroghe che li esentava dal servirsi obbligatoriamente dei Senseri per le loro operazioni e attività commerciali. 


In caso di guerra i Sensali di Venezia contribuivano “spontaneamente” ai bisogni della Serenissima offrendo “generosamente” 50 ducati mensili per tutta la durata del conflitto. In più di qualche occasione la Signoria giunse a tassare da 1 a 3 ducati ciascuno i Sensali più “capaci e attivi”, mentre tassò i redditi di tutti gli altri fino a ¼ o 1/3 del totale ricavato dagli affari ... Nel 1472 i Sensali non avendo pagato regolarmente le imposte, vantavano un debito di 1500 ducati con la Repubblica, che provvide a dilazionarne il recupero e pagamento fino all’agosto dell’anno seguente, quando i Sensali furono costretti a versare a saldo 500 ducati d’oro nelle casse della Signoria. Da allora i Sensali furono soggetti a un’imposta fissa annuale di 35 ducati, che solo in seguito venne ridotta a 18 ducati.

I 30 Senseri del Fondaco dei Tedeschinel 1300 erano una categoria a se stante che si riuniva come Schola dei Senseri di Santa Caterina nei locali dell’omonima chiesa e Monastero di Santa Caterina dei Sacchiti a Cannaregio(attuale Liceo Foscarini). Era vietato a Senseri diversi da quelli del Fondaco di mettersi in contatto con i Mercanti Tedeschi e con altri Mercanti Foresti pena l’esclusione perpetua da Incarichi Pubblici, ed esclusione da tutti i Fondaci di Rialto per un anno con multa di 50 libbre di denaro.

Esistevano tuttavia generosi indulti e notevoli sconti di pena circa le limitazioni dell’esercizio dei Sensali Veneziani, perché visto che la legge proibiva di contattare direttamente i Mercanti nel Fondaco, si stipulavano contratti con loro altrove, fuori della portata vigile dello Stato. Sembra che l’Ufficio della Messetaria di Rialto che aveva il compito di vigilare sulla stipula dei contratti e la confezionatura dei colli da spedizione, operasse abusivamente per conto proprio in accordo con gli Imballadori, e che gran parte del Commercio fosse in mano di 3 o 4 “Nobili fureghìni” che s’accaparravano gran parte degli “affari grossi” che capitavano a Venezia. Risultava inoltre, che i contratti più daziati e redditizi come erano quelli dei Panni Oro, le Sete, gli Ori Filati, le Pietre Preziose, e gli oggetti di gran valore venissero realizzati dai Mercanti Tedeschi alla fine della giornata, dopo il tramonto, e altrove quando il controllo della Messetaria era minore, ed era maggiore la presenza di Senseri di ogni sorta … soprattutto non autorizzati.

Anche per questi motivi, e per provar a porre rimedio a questi “vizi di fondo” delle Economie Veneziane, alla fine si tentò di unificare tutte le categorie dei Sensali residenti e attivi in Venezia.

Come già vi dicevo: “Sette Sanseri Ordinari di Rialto e originari di Venezia che sapessero leggere e scrivere", avevano ottenuto dal Consiglio dei Dieci fin dal luglio 1465 il consenso di poter governare l'Arte dei Senseri e riunirsi in Schola in una casetta presso il Monastero di Ognissanti a Dorsoduro… In tale occasione lo stesso Consiglio dei Dieci precisava: “… non possino essi Sanseri dar recapito in casa sua a Mercanti forestieri, né meno far maòna (impresa autonoma) in pena di privation del suo carico in perpetuo, e bandito per anni doi dall’isola de Rialto … Non è consentito far esercizio, né esser Stimadori, né Fattori di alcuno, ma solum incomber in tal Offizio. Non possino etiam far Mercanzia alcuna, né farla fare ad altri per nome suo, né aver parte, né compagnia in bottega, né con Mercanti o Botteghiero alcuno.”
Ancora in quella stessa circostanza, il Maggior Consiglio invitò il Gastaldo e il Capitolo dei Senseri a vigilare e castigare sui “contrafacentes” della categoria.

L'anno seguente i Proveditori da Comun di Venezia approvarono la Mariegola dei Senseri di Rialto, precisando che ogni anno avrebbero dovuto offrire al Doge, nella ricorrenza della Madonna Candelora del 2 febbraio, un bel cero da 6 libbre ... Solo nel 1504 però, i Senseri Realtini tramite il Notaio Francesco Mondoriuscirono a trovare l’accordo con le Monache Benedettine di Ognissantiper essere ospitati presso la loro chiesa assumendo come Patroni dell’Arte la Beata Vergine Assunta e Ognissanti. Un successivo accordo tra i Senseri e le Monache stipulato davanti al Notaio Nicolò Coruccio prevedeva che la Schola utilizzasse un’Arca per i suoi Morti in Sacrestia; che si  stipendiasse con un salario di 20 ducati annui un apposito Cappellano che celebrasse le loro Messe; che si celebrassero a pagamento varie funzioni religiose anche quotidiane a beneficio e suffragio dei Confratelli Senseri vivi o Defunti; e che la Schola potesse occupare come propria sede versando un censo annuo di 28 ducati alle Monache: "… la casa che continua dalla porta della gièsia fino alla strada".

I Senseri di Rialto, che non potevano essere complessivamente più di 100,ma che in realtà nel 1481 erano più di 200, venivano definiti “… numero infinito … uomini infimi e in gran parte forestieri …” Anche se iscrivendosi alla loro Schola giuravano sul Crocifisso: “di compiere con esattezza il loro Ufficio”, erano in realtà una categoria tumultuosa, perché nell’agosto 1490 indussero perfino il Consiglio dei Dieci a diffidare ufficialmente il Piovano della Contrada di San Zuàn Elemosinario di Rialto minacciandolo di rimozione, perchè stava provando ad attirare e ospitare l’Officio dei Senseri nella sua chiesa presso l’Emporio di Rialto per provare pure lui a guadagnarci qualcosa. In quell’occasione sorse un gran tumulto nel Mercato di Rialto, e si contestò ai Senseri di: “volèr farsi padroni del Mercato di Venezia”.

Per farvi intendere quanto valeva la qualifica di Sensale a Venezia, nel 1490 Antonio Saracco ex Piovano e Arciprete di San Pietro di Castello divenuto Vicario Generale del Vescovo di Castello Maffeo Girardi, ottenne per i suoi meriti e la sua povertà dal Consiglio dei Dieci della Serenissima una pensione annua di 200 ducati tratta dai “Benefici di Stato”. Divenuto in seguito prima Vescovo di Milopotamo a Candia, e poi di Corinto, e non avendo usufruito in tutto se non di 62 ducati annuali di quella pensione di Stato, chiese e ottenne dalla Serenissima per suo nipote un redditizio Ufficio di Sensale al Fontego dei Tedeschi… Essere Sensale a Venezia, quindi, era considerato un ruolo prestigioso oltre che sicuramente redditizio.

Tornando ancora un po’ sulle Monache di Ognissanti… Nel 1507 il Patriarca Antonio Surian fu dunque costretto ad entrare di nuovo a forza nel Monastero di Ognissanti con tre Avvogadori da Comun(fra cui Antonio Giustinian), e a rimuovere la Badessa Corona Missani prendendo il Monastero in diretta custodia. Il 23 aprile seguente nominò Angela Bernardo nuova Badessa ... e le “cose del Monastero”sembrarono prendere un indirizzo diverso … Nell’ottobre di tre anni dopo, venne eletta Badessa dal Capitolo delle Monache di Ognissanti con ballottaggio: Hieronima Coppo che superò nelle preferenze Pacifica Barbarigo figlia del Doge… Fu un bell’affronto alla Nobile Famiglia dei Barbarigo… che però aveva già intrallazzato lì dentro quanto bastava.

Sembravano essere tornate “pace e onestà” nel Monastero … Le Monache di Ognissanti sembrarono essere diventate così oneste e disciplinate che alcune di loro vennero inviate dal Patriarca Antonio Contarini a riformare il turbolento Monastero dei Santi Biagio e Cataldo della Giudecca(situato sul posto dove sorge oggi l’Hotel Hilton Molino Stucky) dove: “In questi zorni a San Biaxio Catoldo … seguite certa questione fra loro Monache e si treteno i libri intesta adeo andoe el Patriarca (Antonio Contarini veniva chiamato “Luctus” dalle Monache di Venezia per la sua smania di riformarle) ed ivi udite le loro querele et scoperse come vivevano inhonestamente, et trova a una Faustina Manolesso una peliza damaschin bianco foderà di martori la qual si dice l’à fata Sier Cristoforo Capello Savio ai Ordini di Sier Francesco el Cavalier …”
Qualche tempo dopo, visto il successo delle “Provvide Monache di Ognissanti”, vennero inviate a riformare anche le cento Monache Benedettine del Santa Croce della Giudecca sulle quali prevaleva la gestione e l’influenza del clan Nobiliare dei Patrizi Da Molin.

Intanto, sempre per via della loro innata povertà, le Monache di Ognissanti nel 1511-1513 rinnovarono gli ambienti claustrali con “pière, terra di sabiòn e chalzina …”, si costruì: “… la sofita della fabrica nova, si zeta terazo, napa de marmo del camin novo, albergo de Madona la Badessa, Oratorii, Chonfession apreso el Parlatorio vechio, el lavatorio, la fermaria …” Sui lati del chiostro a sette campate si realizzò la Sala Capitolare, e dalla parte opposta il Refettorio, “… et si spese per il Graner che varda sopra la vigna”... Si lastricò il campiello antistante la chiesa, si restaurò il ponte in legno verso San Barnaba, e “… si compràron 100 coppi per coprir la giesia pagandoli a Piero Murer”... Infine si pagarono i Mureri Zorzi, i Marangoni Domenico ed Andrea, e Simoneper la fornitura di legnami da parte di Zaccaria Trevisan(che approvvigionava l’Arsenale con il legname del Cadoreessendo in diretto contatto col Doge Barbarigo. Nel 1520 lo stesso Trevisan fornì legname anche per costruire le celle del Dormitorio dei Monaci Benedettini dell’isola di San Giorgio Maggiore), e il Nobile Marco Michiel altro fornitore di legnami (uno dei suoi figlio fornì legnami anche alle Monache di Santa Maria Maggiore), che era anche Procuratore e finanziatore-benefattore di Ognissanti.

A completare l’opera, sette anni dopo una parte del Maggior Consiglio destinò alle Monache di Ognissanti “in grandissimo numero e poverissime … che hanno principiato la chiesa già tanti anni et non poter quella finir”,il legname di una “Galia Grossa innavigabile da mazza”, cioè dismessa. Il ricavato della vendita doveva essere utilizzato: “… per metter la ditta soa chiesa a coperto … e le Monache dovranno pregare Dio per il felice stato della Repubblica nostra.”

La contabilità del Monastero di Ognissanti era tenuta dallo stesso Nobile Marco Michiel coadiuvato da Prè Piero Piovano di San Vidal e Confessore delle Monache, e da Antonio Paolucci ricco Drapièr abitante in Riva de Biasio, che aveva acquistato all’incanto metà della Draparia Granda di Rialto(ed ospitato pericolosamente l’eretico-eterodosso Fra Girolamo Galateo). In cambio le Monache concessero al Michiel di costruirsi nella chiesa di Ognissanti una Cappella di famiglia da decorare secondo il suo gusto ... Alla morte di Marco Michiel presero a ricoprire l’incarico di Procuratori di Ognissanti: Giacomo di Giovanni Alvise Duodo, Angela Contarini, Santo Barbarigo e Girolamo di Lorenzo Priuli la cui madre Paola Barbarigo, sorella dei Dogi Marco e Agostino, si lamentò del fatto che volendo spendere per i Monasteri di San Salvador e Ognissanti solo 10 ducati, si ritrovò a doverne spendere ben più di 100.

Si pagò infine Julio Fabbro per lavori fatti e ordinati dallo stesso Marco di Antonio Michiel, i Tagiapjera per tutti i lapicidi utilizzati e lavorati in chiesa e nel Monastero, e Mastro Zuane a Andrea Bora che avevano bottega in Campo Santo Stefano. I Buora percepivano 1 lira al giorno, cioè 20 soldi in più rispetto a quanto percepivano i Mastri Pezin e Di Luca. E’ curioso notare che venivano pagati anche con beni di consumo: letti, lenzuola, e perfino con un maialino.

Ancora nel 1542 una parte del Senato esentò le 72 “pòvare” Monache Benedettine di Ognissanti dal pagare alcune Decime per “compier la fabrica di esso Monasterio”… Cinque anni dopo un’altra parte del Consiglio Dieci fece pervenire alle Monache alcuni proventi dall’Officio all’Armamento: “perché siano impiegati alla fabrica e reparatione di quella chiesa” ... e anche il Nobile Girolamo di Andrea Marcello divenuto Procuratore de Citra sborsando 15.000 ducati, offrì 100 ducati “per el Choro et Barcho de Ognissanti”.

Quando Dio volle, la costruzione della nuova chiesa di Ognissanti fu portata a termine e riconsacrata da Girolamo Ragazzino o Righettini Vescovo di Caorle. Risultò in tutto e per tutto incredibilmente simile a quelle di Santa Maria Maggiore, San Cosma e Damiano della Giudecca, Santa Croce della Giudecca e San Giuseppe di Castello. La facciata possedeva misure simili in larghezza, lunghezza e altezza con uno scarto di solo qualche decina di centimetri.


Per completare l’opera iniziata dalle “sempre angustiate e dimesse Monache di Ognissanti”,Alvise Michiel Procuratore di Ognissanti pagò a Paolo Veronese 100 ducati per la stupenda pala dell’ “Incoronazione della Vergine” e 3 scudi per la portella del Tabernacolo ... Pagò anche 112 ducati a Antonio Intagiadòr per l’intaglio della cornice, e altri 120 ducati a Gerolamo Indoradòr del Campo Santa Marina per la doratura del Tabernacolo e il completamento della cornice della pala del Veronese … Si costruì l’organo sull’abside su disegno di Francesco di Bernardino Smeraldi prendendo accordi col Marangon Zuanne di Battista da Feltree quello venne a costare: 120 ducati. Si pagarono inoltre Alessandro Pallazo Vesentin Organer, e l’Indoradòr Ottavio Da Lin che aveva già completato le balaustre in chiesa, e il Marangon Filippo per altri lavori minori d’ornamento delle canne dell’organo. Allo stesso Paolo Veronese venne commissionato di dipingere le portelle dell’organo che ultimò nel luglio 1586 collocandole sul “Poggio dell’Organo” dove già c’erano vari chiaroscuro, e al di sotto un: “Padre Eterno con Angeletti”.



Era il 1591 quando si aprirono nel Presbiterio due finestre per illuminare meglio le tele collocate … e Andrea de Michieli o Vicentino consegnò due quadri posti ai lati della pala del veronese: “Annunciazione” e “Fede e Speranza” per le quali guadagnò 40 ducati. Qualche tempo dopo ne consegnò altri due: “Le nozze di Cana” e “Cristo entra in Gerusalemme” per i quali percepì altri 120 ducati.



Le Monache di Ognissanti (come le altre) avevano molti modi per procurarsi denaro: oltre a farsi intestare donazione e lasciti, “Mansionerie di Messe” da celebrare a pagamento senza fine, fiumi d’elemosine dai Veneziani devoti, doti di Nobili figlie da Monacare, e sostanziose rette di “Figlie a Spese” da educare, si preoccupavano anche d’inviare di continuo suppliche alle Autorità dichiarandosi “miserrime” e chiedendo sempre ulteriori elargizioni. Quelli della Serenissima non è che fossero creduloni, ma ci tenevano a finanziare le Monache che spesso erano loro figlie e parenti. Perciò le Istituzione di Venezia spesso elargivano, ma qualche volta anche no.

Le Monache di Ognissanti, ad esempio, chiesero al Doge 500 ducati da investire nella costruzione del nuovo campanile interrotto alle fondazioni per mancanza di denaro. Ma la supplica venne disattesa …. Il campanile venne ovviamente costruito lo stesso, e le Monache di Ognissanti pagarono tranquillamente 500 lire tramite il loro solito Procuratore Alvise Michiel per il legname al Murer Cristoforo, ad Andrea Zuliani dal Ligname, al Marangon Filippo e a Stefano Palliaga per le forniture edili.

Un altro modo che le Monache utilizzavano per procurarsi soldi, era quello di affittare o vendere spazi della chiesa per le sepolture dei Nobili. Nel 1580 si permise alla Nobile Famiglia Savorgnan di porre una loro lastra tombale in chiesa, un’altra la misero a pagamento ai piedi dell’Altar Maggiore quelli della Famiglia Marcello passandola poi ai Nobili Vitturi. Giacomo della Seda e Nicolò Battaglia si aprirono un “Conto Spesa” per farsi seppellire in chiesa, e in apposita Cappella. Battaglia lasciò 500 ducati per quello scopo: “… far la sepoltura et il suo salizado intorno simeli a quella del Chiarissimo Migiel. Item far li suoi banchi simile alla sudetta chapella del Migiel … mensa in pietra viva e l’alzato si farà di legno fento di pietra et questa tal spesa per finimento della ditta chappella monteranno ducati 300.”(L’opera venne completa nel 1611)… In chiesa esisteva anche uno spazio mortuario riservato al Nobile Giovanni Battista Bernardo, e c’erano Cappelle e Altari e Arche e Sepolture dedicati … ed ogni cosa aveva un suo prezzo, e ogni devozione, presenza, celebrazione e suffragio delle Monache … un altro.

Fra 1606 e 1609 la Badessa Girolama Bragadin tramite il Proto Smeraldi eseguì:“… lavori per vari fabricati all’interno del Monastero. Si spesero 220 ducati per conzàr il luogo novo delle Fie a Spese … 970 ducati per conzàr li colmi de la gièsia e del Monasterio, e per assicurar il muro dell’orto … per la fabrica del dormitorio et lavandaria ...”



Nel 1610 alla Visita del Patriarca Francesco Vendramin ad Ognissanti si ordinò alla Badessa di macellare tutti i polli privati che vagavano per il Monastero condividendo la carne con le altre Monache nel Refettorio comunitario ... Si osservò inoltre: “… che la predella dell’Altar Maggior era ancora da salizar con marmi … che la Madre Badessa et le Monache procurino che si seguiti de finir l’altar della Capella de Cà Battagia con le debite immagini, parapetti, tovaglie et altri ornamenti necessari al Culto Divino, facendoli le banche con li suoi pozzi di noghera attorno … avendo lasciato 500 ducati per questo Nicolò Battagia … Che si accomodi la predella dell’altar de San Michiel … la predella dell’altar della Visitazione … dell’altar dell’Annunciazione de Cà Lazaroni … Che come saranno accomodate le stanze nuove sopra la lavanderia le Monache Converse ci dormano dentro … mentre le Figliole a spese non dormano a capoletto delle Monache da Ufficio ma nei luoghi suddetti nella stanza granda … Si rifabbrichi in muratura il Parlatoio in legno o di stuore non più usabile fino al ripristino.”

Gli Esecutori Sopra alla Bestemmia,inoltre, posero una lapide sul campanile che intimava a non praticare più giochi nel Campiello antistante la chiesa di Ognissanti, né nella Corte dei Parlatori del Monasteroche doveva essere considerati Luoghi Sacri a tutti gli effetti … anche dalle Monache.

Una caterva di pretese, insomma, da parte del Patriarca e di tutti gli altri … Perciò le Monache di Ognissanti si rivolsero ancora una volta a chiedere aiuto“a chi potèva”, cioè al Senato della Serenissima, che concesse 300 ducati. Si provvide perciò subito a spenderli: “… per restaurar il muro del nostro orto … per il terazo fatto da novo nel luogo delle Fie a Spese … per il pozo per benedir le acque in chiesa … per il pergolo … e la nuova finestra di chiesa sopra la sagrestia.”



Ma al di là di questi piccoli episodi, pareva andare tutto bene nel Monasterio d’Ognissanti che necessitava semmai solo di qualche piccola correzione … Un paio d’anni dopo, infatti, l’Inquisizione di Venezia fu costretta ad avviare un processo “per frequenti visite nei Parlatori, di un certo Frate”… ma oltre a queste quisquilie …

Nel 1531, l’Officio dei Sensali si trovò in difficoltà economica “per la penuria de’ tempi e la guerra”, perciò si ridusse a restituire alle Monache di Ognissanti “il solèr di sopra” della loro Schola … Quasi per ripicca forse, nel settembre 1594 il Patriarca Lorenzo Priuli ordinò di non celebrare più Messa: “… all’esterno della chiesa di Ognissanti dove c’era l’altare in legno della Schola dei Senseri di Rialto  ... Nel 1531 infatti i Senseri sono stati allontanati dopo alcune ambiguità accadute col figlio del Doge.”… Un documento della Schola dei Senseri ricorda che pur avendo rinunciato i Senseri ad utilizzare i locali delle Monache di Ognissanti, vollero continuare ugualmente a fornire le cere necessarie per la Festa di Ognissanti, e spendere pure un ducato per pagare i Trombettieri.

Solo un secolo dopo però, l’Università dell’Offizio dei Senseri ormai decadente abbandonò definitivamente “i luoghi di Ognissanti” andando a trovarsi una nuova sede presso la chiesa di Sant’Aponal di Rialto… Nell’occasione si riformò laMariegola dei Senseri provando a rafforzare la categoria e difendendola dalla concorrenza sempre più incalzante degli Ebrei del Ghetto ... Nel 1674-75 Giovanni Maria Fermetti mise in vendita la sua carica di Sensale. Nell’occasione fece presente che i Sensali di Venezia erano 380 divisi in 7 gruppi, mentre altri 117 erano “mediatori generici” non subordinati ad alcuna Schola o Regola: 200 erano i Senseri Ordinari di Rialto, 30 quelli del Fontego dei Tedeschi, 36 i Senseri alle Biave, 25 i Senseri ai Cambi, 40 i Senseri ai Vini, 24 i Senseri attivi nel Ghetto degli Ebrei, e 25 i Senseri da Turchi… Nel luglio 1683, finalmente tutti i Senseri di Venezia si unirono in un’unica Schola, compresi iSenseri del Fondaco dei Tedeschi.



Le Monache e le Badesse di Ognissanti intanto proseguivano la loro strada. Provvedevano a far redigere scrupolosamente ogni volontà e determinazione delle Monache nell’apposito Registro dei Capitoli o Convocati, così come si segnavano meticolosamente tutte le voci inerenti l’Amministrazione del Monastero e il mantenimento delle Educande a Spese. Un Registro delle Monache elencava i “Capitali di ragione del Monastero di Ognissanti” depositati in Zecca di San Marco, registrando tutte le terminazioni e i passaggi di capitali che le Monache depositavano con interessi annuali del 3 ½ e 3%. Un altro Registro raccontava di quanto le Monache depositavano nella Cassa delle Obbedienze, e in un altro ancora metteva agli atti i “crediti di dadie nella città di Padova”dovute al Monastero di Ognissanti.
Accanto a tali Libri Contabili, esistevano: Quaderni delle Scossioni, Inventari e Catastici dei Beni, Registri degli Stabili e delle Affittanze posseduti in Venezia, Mirano, Scaltenigo, Scodavacca e Revis nella Terraferma Veneta e successivamente nel Dipartimento del Tagliamento e dell’Adriatico, e Mensuali di Spesa, Libri dei Riceveri, Tanse e Decime, Squarzi de Beni, e Libri delle Mansionerie e delle Messe Obbligate del Monastero.


Una serie impressionante di carte, faldoni e registri, documentava invece, tutti i numerosissimi Processi Giudiziari intentati dal Monastero di Ognissanti di volta in volta contro l’Abbazia di Moggio, i Nobili Badoer col le consorti, contro Domenico Barbaro, Zuanne Bernardo, la Schola Granda e la Fraterna dei Poveri Vergognosi di Sant’Antonin, i fratelli Mangilli, Antonio Ruggeri, Antonio Regazzoni, Giacomo Zennaro e molti altri … Tutto venne ordinato, conservato e documentato diligentemente fino alla fine della Serenissima e all’arrivo esagitato e distruttore dei Francesi.

Alla nuova Visita Pastorale, il Patriarca Giovanni Tiepolo dovette costatare che la Cappella Battaglia in chiesa d’Ognissanti non è stata ancora terminata; e che c’era ancora in chiesa l’Altare della Visitazione con l’Immagine Miracolosa della Madonna del 1504 non dotato di adeguate Mansionarie di Messe Quotidiane e Perpetuein grado di sostenerlo. Da quando era stato tolto nel 1626 agli eredi dei Paolucciche non pagavano le spese, “l’Altare Miracoloso è rimasto in balia di se stesso”.



Per sopperire a quella vergognosa negligenza del Monastero, si offrì subito di contribuire a mantenere l’Altare Francesco d’Abram che aveva la figlia Eccelsa Monaca in Ognissanti, e si associò a coprire le spese pure Pacifica Corteloza Monaca pure lei in Ognissanti. Si potè così finalmente provvedere a pagare Tagiapjera e Pittore perchè realizzassero una bella pala nuova per rinnovare l’Altare della MadonnaMiracolosa.

E si giunse così ai tempi della Peste del 1630, quella che portò la Serenissima alla costruzione del Tempio Votivo della Madonna della Salute. Mentre a Venezia la gente moriva “a flotte, e come Mosche in autunno”, le Monache di Ognissantiavvertivano, invece, un bisogno impellente e irrinunciabile di aprire nuove finestre nella loro chiesa: “… per dar libero sfogo all’umidore miasmatico che vi ristagnava dentro forse a causa della moria”. Durante il triennio di governo della Badessa Elena Priuli, utilizzando le donazioni di quattro Monache e altri 200 ducati offerto da Eccelsa d’Abram, si rifecero le cornici della chiesa, s’aprirono appunto quattro finestroni ad arco sui fianchi dell’edificio accecando le antiche monofore e cambiando l’illuminazione interna della chiesa, si rimaneggiò il soffitto ligneo a specchiature, si aprì “l’occhio del timpano” in facciata, e una “mezzaluna” sopra il portale d’ingresso spendendo più di 1.000 ducati … L’anno seguente se ne spesero altri 400 per rifare la cuspide del campanile impiombandovi dentro la croce che in precedenza era rovinata sul colmo della chiesa ... Già che si era in spesa, si consacrò pure l’Altare della Visitazione spendendo altri 18 ducati, e la nuova Badessa Teodora Sansonio fece decorare la volta della Cappella del Santissimoda Giacomo Grassi e Agostin Literini spendendone altri 150 ducati.



L’ulteriore nuova Badessa Laura Bembo, si ritrovò piena di debiti appena dopo la sua elezione. Non le rimase che andare “a bàtter cassa nuovamente” presso tutte le Autorità competenti.  Racimolò, infatti: 25 ducati dal Patriarca Gianfranco Morosini, 36 ducati dalla Camera del Purgo, e 200 ducati dal Senato della Serenissima... meglio che niente.

Fuori della porta e nei dintorni del Monastero di Ognissanti intanto, fin dal 1563 al Ponte, Calle e Fondamenta dei Cortellotti agli Ognissanti esisteva un Magazzino da Vin condotto dalla ricca famiglia Cortellotto dei Salvioni che erano Mercanti possidenti molti beni soprattutto nel Bassanese ... Sempre in zona Ognissanti, in una casa privata fra Campo e Rio degli Ognissanti, esisteva un secolo dopo un “Teatro alle Zattere” in cui si tenevano forse spettacoli di Marionette fatte muovere con meccanismi mentre i Musicisti cantavano e suonavano dietro la scena. E’ documentato uno spettacolo realizzato da Leandro di Francesco Antonio Pistocchi su libretto di Camillo Badoer… Nel 1681, invece, un altro fulmine colpì il campanile di Ognissanti che venne quasi subito ripristinato dalla Badessa Donna Laura Paulucciche gli feceaggiungere un tamburo ottagonale e una cuspide spendendo ancora 1.350 ducati …


Qualche anno dopo la Badessa Donna Maria Andrianna Imberti fece rifare in pietra gli altari lignei della chiesa che erano rovinosi e cadenti restaurando l’intero edificio, e rifece pure il muro che circondava tutta l’isola col Monastero. Spese prima 2.100 ducati e poi altre 8.150 lire pagando il Tagiapiera Agostino Canciani, lo Scultore Francesco Bonazza e il Pittore Galdiascalli per alcune statue e una pala collocate sull’Altar Grando … Francesco Olivieri, intanto, provvide alla stesura di un nuovo Catastico dei beni e delle Mansionerie del Monastero di Ognissanti che dedicò alla Badessa Regina Donati ... tanto era stata lei a finanziarlo durante tutto il suo lavoro di riordino.

Si può dire, insomma, che anche all’Ognissanti i soldi in un certo senso “piovessero abbondanti dal Cielo”.  

Il Monastero possedeva una vigna a Treporti, e diverse rendite da immobili siti in Venezia soprattutto in Contrada di San Boldo, e nei primi decenni del 1700 per incrementare ulteriormente il proprio patrimonio acquistò alcune case in giro per Venezia, che erano state dei Riccobon e Cinasei… In quegli stessi anni, i Birri, gli Spioni e gli uomini della Serenissima debellarono una congrega di ladri cappeggiata da Francesco Pezzi Pubblico Sensale giungendo a trascinarli tutti a pubblico processo e condanna … Rieccoli perciò all’opera i Sensali Veneziani !

Nel 1768, invece, quando i Sensali Veneziani tenevano ancora ogni lunedì, mercoledì e venerdì, le solite riunioni del loro Capitolo nell’Officio de la Seda a Rialto Novo, i Cinque Savi alla Mercatura della Serenissima ridussero a soli cinque i Senseriattivi in Venezia “a causa dell’eccesso d’abusi che avean fatto di quella professione”. Tra i cinque Sensali rimasti c’era pure un Armeno, che trattava direttamente con i Turchi, e qualche tempo dopo se ne aggiunse un altro “esperto in pellami”… Nel 1804, tuttavia, i Sensali Veneziani in attività erano di nuovo 220, e trattavano tranquillamente in Rialto di: “… sete, lane, gottoni, ferrarezze, pellami, ogli, droghe, spezie, cere, biancherie, merci di Fiandra, cambi di Zecca, vini e liquori nonchè di vetri”.

Nel gennaio di due anni dopo, Maria Fontana Correr Badessa di Ognissanti scriveva al nuovo Governo di Venezia lamentando che le sue Monache: “… sono bisognose di generi di sussistenza … sprovviste principalmente di farine e legna da fuoco.” Come era abitudine delle Monache implorava: “… un pubblico sussidio di 4.000 lire per poter pagare le imposte di cui siamo gravate.”

Erano però cambiati i tempi, e anche molto … anche se la Badessa e le Monache ne erano ancora poco consapevoli.

Nel marzo seguente giunse la “civica risposta” del Governo: “Tutte in strada !”… e il Monastero di Ognissanti venne soppresso disperdendone e soprattutto incamerandone tutti i beni … Le 25 Monache Benedettine vennero traslocate e concentrate con quelle del Monastero dei Santi Biagio e Cataldo della Giudecca(sito dove sorge oggi l’Hilton Stucky Hotel), mentre le ragazze “Educande a spese” vennero dirottate all’Istituto delle Zitellesempre della stessa isola della Giudecca.
Al posto delle Monache Benedettine di Ognissanti, si fecero insediare le Cappuccine Concette di Santa Maria e Antonio di Castello cacciando via le Cappuccine delle Grazie di Mazzorboche s’erano prontamente appropriate del posto lasciato libero dalle Benedettine. La sede delle Concette di Sant’Antonio Abate di Castelloera stata demolita per costruire i Giardini Pubblici di Castello(lì le Suore Concette gestivano un Collegio d’Educazione Femminile fondato nel 1668 da Francesco Vendramin).

Quattro anni dopo, comunque, le 42 Monache Concette (fra Coriste e Converse)approdate ad Ognissanti vennero anch’esse buttate in strada, rimandate a casa propria dai loro parenti, e costrette a deporre l’abito da Religiose ... Il Monastero venne in parte demolito, modificato e sopraelevato, riaprendolo e riciclandolo nel 1816 come Educandato Femminile Cittadino capace di ospitare ed educare 36 Fanciulle Venezianee Venete.
Dieci anni dopo l’Educandato languiva con sole 5 Fanciulle presenti, e palesando un significativo sbilancio economico di cassa ... Si tentò allora d’incrementare di nuovo il numero delle Monache richiamandone dieci, e soprattutto chiedendo loro di portare con se una buona dote di almeno 1.530 fiorini … In quel modo si raggiunse allora il pareggio economico dell’Istituto, le Monache ricrebbero di numero … ma le Educande rimasero ugualmente in tre.



Nel 1848 non c’era più nessuna Fanciullanell’Educandato … anche se la Badessa Teresa Eletta continuava imperterrita a rivendicare dal Governo Austriaco “per il mantenimento delle povere Nobili Figlie”, la restituzione del capitale di 100.000 ducati che le Monache di Ognissanti avevano un tempo versato e investito nella Zecca di San Marco ... Non avevano perso l’abitudine le Monache, sebbene non esistesse più chi fosse disposto “a foraggiarle gratuitamente”.

Fra 1866 e 1888, le Cappuccine Concette dell’Educandato di Ognissanti, che non esisteva più, tornarono ad essere 40 … Le Educande: una sola, e per di più dalla presenza precaria … Si rifabbricò il Ponte di Ognissanti andato distrutto, e la Calle dell'Indorador laterale alla Calle lunga di San Barnaba venne rinominata come “Calle degli Ognissanti”perché tramite quel ponte ci s’immetteva verso quella chiesa ... In quello stesso anno Elisabetta Michiel moglie del Senatore GiovanBattista Giustinian, già Podestà e Sindaco di Venezia, istituì per testamento e finanziò una nuova Opera Pia per Malati Cronici e Poveri di Venezia ... Nel 1900 il nuovo Ente Assistenziale trovò opportuna sede e collocazione nell’ex chiesa e Monastero di Ognissanti messo a disposizione gratuitamente dal Comune di Venezia.

Addio per sempre alle Monache di Ognissanti !



Quattro anni dopo si pose la prima pietra del nuovo Ente Geriatricocostruendo un edificio a pianta quadrangolare di tre piani sul posto dove sorgeva il Monastero di Ognissanti in gran parte abbattuto. Le pietre dell’ex Monastero di un certo valore e significanza: fra cui un caminetto con bassorilievo, un pregevole lavabo antico, e la “cucina superiore delle Monache” vennero trasferite al Museo Correr per ordine del Sindaco Filippo Grimani… ma scomparve tutto “strada facendo”, così come andarono dispersi l’organo e gli arredi dell’antico Barco Vecchio”, ossia il “Poggio-Cantoria sopraelevato delle Monache di Ognissanti” ... Le portelle d’organo dipinte dal Veronese con dentro l’“Adorazione dei Magi”, e fuori: “Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio e San Girolamo” ricomparvero “misteriosamente”collocate alla Pinacoteca di Brera di Milano, mentre nella piccolaSacrestia di Ognissanti trovarono posto alcuni arredi lignei intagliati e intarsiati del 1500-1600 provenienti dalla Farmacia dell'ex Ospedale Psichiatrico di San Clemente in isola un tempo sede dei Monaci Certosini.


Nel 1962 l’Ospedale Geriatrico Giustinian appartenente all’ULS 12 Veneziana ospitava 180 degenti maschi e 320 malate femmine ... Ed ecco l’ultima nota secondo me curiosissima e un po’ paradossale. Da quel che ho letto in giro, sembra che proprio nell’Ospedale Giustinian di Venezia negli anni ’70-’80 avesse sede, base o covo o quel che era, la Brigata Ospedaliera delle Brigate Rosse di Venezia composta soprattutto da Infermieri e Infermiere provenienti da altre zone d’Italia.

Altro che Monache di Clausura oranti ! … e assistenza amorevole ai vecchietti ! … Di certo i militanti delle pentastellate B.R. pur di mantenere integra la loro copertura, non avranno fatto mancare gentilezze e premure agli ultimi vecchietti Veneziani ospitati nell’ex Monastero di Ognissanti. Paradossale appunto il fatto che il “terrorismo rosso”trovasse connubio, andasse a braccetto indirettamente, e desse in un certo senso continuità e prosecuzione a quell’antica storia Monastica.

Erano agguerrite le Monache di Ognissanti … ma di certo non fino a quel punto.

Oggi l’ex Ognissanti viene ancora gestito dalla nuova ULSS 03 Serenissima, che ha affittato una sezione del complesso all’Università di Cà Foscari di Venezia ... Mi raccontano che negli edifici dell’ex Monastero di Ognissanti abiti ancora oggi il fantasma di una delle antiche Monache che considera ancora suo quel luogo, e per questo continua ad aggirarsi rabbiosa in cerca dei soliti Sensali inadempienti e disturbatori ... Neppure napoleone è riuscito a cacciarla via, e ogni tanto si dice si diverta a spaventare e sgambettare qualche ignara impiegata o qualche traballante vecchietto di passaggio.




“Ciò giòvane ? … Spòstite ! … Ti xè incocaìo ?”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 154.

“Ciò giòvane ? … Spòstite ! … Ti xè incocaìo ?”
Fògo, fiamme … Tagiapièra, Fonteghèri, Zucchero e una cièsa prisòn a Sant’Aponal de Rialto.

Proprio così mi ha apostrofato qualche giorno fa una vecchia Veneziana piena di sporte mentre me ne stavo davanti alla chiesa chiusa in Campo Sant’Aponàl poco distante da Rialto.

“Ciò giòvane ? … Spòstite ! … Ti xè incocaìo ?”

Pareva pure lei rigonfia come una sporta piena. Inutilmente ho provato a dirle: “Siora … So Venesiàn anca mi.”

“E allora ? … Spostite lo stesso ! … Cossa ti fa qua impalà in pìe … fermo come un Cocòl su una bricola ? … Non ti vèdi che gho da passàr  col carèto e a spesa ? … Ti xe come i turisti, sempre col naso par aria … Incocaii … Dai bèo ! … Ch’el sol màgna e ore.”

Che aggiungere ? … Ho zompettato subito a lato provando a sogliolarmi sulla vetrina della bottega accanto … e la megera ciabattosa e iraconda ha potuto così riprendere indisturbata e non intralciata il suo difficoltoso cammino lungo le strettoie Veneziane.

Ogni giorno transitano migliaia di persone per Campo Sant’Aponàl a Venezia andando o tornado da Rialto verso San Polo e viceversa. Le strade e le callette strette sempre intasate di gente, forse la chiesa chiusa e i pochi negozi accattivanti, impediscono quasi sempre di fermarsi e sostare un attimo per gustarsi la scena tipicamente Veneziana. Di là si passa quasi sempre di fretta, e si tira quasi sempre dritto … un’occhiata e via ... Più di qualche volta vi ritorno a posta per pensare e osservare: compio un breve giro intorno alla chiesa per vedere un po’ meglio … ed è stato in una di queste occasioni che sono incappato nella vecchiaccia.

(corte del Tagiapiera e un Capitello delle colonne di Palazzo Ducale)

Alcuni giorni dopo, invece, durante una mattinata di fitta pioggia autunnale: “Acqua sotto, acqua sòra, acqua ovunque ... Te pàr de sentirte dentro a un sècio … Un pàn bagnà.” … Le Fondamente, i Campi e le Calli erano allagati, l’acqua scivolava giù copiosa dentro ai canali … I turisti senza più occhi a suon di guardarsi intorno, scivolavano inzuppati, ma divertiti, dentro alle pozzanghere … Alcuni Veneziani d.o.c., pensionati e panciuti a dire la verità, reduci da una buona bevuta e mangiata in un vicino Bàcaro di Rialto, hanno sostato un attimo “per tiràr el fià, e smaltire un poco”, rimanendo sotto all’ombrello in un angolo dello stesso Campo Sant’Aponal.

Fra do parole, una “sbetonegàda” e un’altra si è ingannato e ingarbugliato il tempo, e fra di loro sono emerse memorie e pensieri:

“Se se podèsse rancuràr tutta sta acqua … Non ghe sarìa più siccità.”

“Ti gha sentìo ? … Assolto ! … Non condannà … Innocente.”

“E no ! … Reato in prescrissiòn ! … Xe diverso, non xe a stessa ròba … Non vol dir che no ti gha commesso el fatto … Solo che xe scadui i tempi per giudicarlo.”

“Che Giustizia spontàda che gavèmo … Xe una vergogna … Tutti che màgna …”

“Lassèmo stàr che xe mègio … Ma Sant’Aponàl, el nome de sta cièsa e de sto Campo, che nome sarìa ?”

“Sarìa: Sant’Apollinare … So stà a Ravenna anni fa, e el ghe gèra dappertutto: Sant’Apollinare qua, Sant’Apollinare de là, in Classe, in Piazza, sulle strade e sui muri … ovunque.”

“I Veneziani se o gavarà portà via anca quèo … I o gavarà portà qua a Venessia, e messo qua in Campo e in cièsa.”

“Ma el càsca ancora sto campanìl pièn de lapidi e de pière scolpìe ?”

“E che ne so ?” rispose uno della combricola.

“Se sa … Non se sa … Pol anche dàrse … Starèmo a vèder …” continuò un altro.

“Cossa dìseo el Piovan ?”

“Cosa ti vol ch’el dìga ? … El gha sempre tanto da far … El xe come una trottola che gira senza sosta de continuo da Rialto fin alla Prisòn de Santa Maria Maggiòr … Nol xe mai fermo … El ghà altro par la testa ... Làssilo stàr ! … Lu, e anca el campanil.”

“Spostèmose più in là allora … Che no se sa mai ... Che no ne vègna tutto in testa.”

“Ti gha paura de finir sotto ? … Spostite allora ! … Ciàpa un’altra strada … Va par de là !”

“Magari quella del campanìl che casca xe solo una pensàda par attirar l’attensiòn sui restauri de la cièsa vècia e seràda che casca … Ghe piovarà dentro come su una passabròdo …”

“Me ricordo quando i a gha seràda sta cièsa l’ultima volta … Ormai no ghe andava quasi nissùn … Ma i gha seràda dalla sera a la mattina, lassando quasi e candelette impissàe su le rosticcerìe davanti ai altari … El Comune gha fatto Archivio de le carte …”

“Ròba da matti ! … Ancùo cièsa, domàn: magazèn !”

“Dopo co i anni, i a gha sgomberàda de nòvo perché cascava tutto … e a gèra anca pièna de sòrsi che rosegàva e carte …”

“Ti sa che un secolo fa sta cièsa gèra deventada una prisòn ?”

“Orco !”

“Si … Ti vedi tutte quee finestre aperte in facciata e sui fianchi ? … Prima no e ghe gèra. Le gha vèrte i Francesi per far un Carcere Politico par i Veneziani.”

“Bògia lori !”

“Sant’Aponàl  xe stà de tutto co i Francesi e dopo de lori: ricovero notturno pai poarètti, officina, magazzèn, falegnameria, carcere, deposito e spaccio di carbone, e bottega da rigattier de David Zacuti ...”

In fianco alla cièsa ghe gèra i Terasseri anni fa ? … Me pàr.”

“No … Ghe gèra quei dei baànse (bilance) !”

“Sì … ma tardi … Prima in Calle del Campanièl, tacà a la cièsa, ghe gèra i Tagiapièra … Vàrda ! Se vede ancora i Santi dei Tagiapièra ficài in muro.”

(l'altare dei Tagiapiera oggi a San Silvestro, e la sede della Schola dei Tagiapiera a Sant'Aponal)

In effetti è verissimo. Giusto in Campo Sant’Aponal, nella Calletta del Campanièl attaccata a chiesa e a ridosso del campanile, a pochi metri dal “Sottopotego del Papa Dormi”(clicca qui sopra per saperne di più) non si può non notare infissa in muro un’opera abbrunita dal tempo con incisa l’epigrafe: “M D C L I I  - SCOLA DI TAGIAPIERA”. Quella è stata proprio la sede della Schola dell’Arte dei Scalpellini e Tagiapiera di Venezia, che comprendeva anche gli Intagliadori di pietre e capitelli: Arte apprezzatissima in tutta Europa e nel Bacino Mediterraneo per l’originalità, la policromia e la grande capacità d’ornamento.

Ad essere precisi, nel 1514 la Schola dei Tagiapiera che esisteva già dal 1396, si spostò a Sant’Aponal da San Zuane Evangelista dove si trovava e dove s’era preso l’impegno col Priore dell’Ospedaletto Badoer di fare elemosine e gestire le Tessere di Carità dei Poveri della zona. L’Arte dei Scalpellini e Tagjapiera riunita come Schola dei Quattro Martiri Coronati: Nicostrato, Claudio, Castorio e Superiale(martirizzati al tempo dei Romani per essersi rifiutati di scolpire idoli pagani) figurava fra le Arti e le Corporazioni Maggiori di Venezia rappresentate sia sugli Arconi della Basilica di San Marco, che sui capitelli delle colonne di Palazzo Ducale di Venezia. Questi Artieri erano fra coloro che avevano maggiormente contribuito a rendere grande e quel che era la Serenissima. 

Nello stesso anno la Schola tramite il suo Gastaldo(Pietro Lombardo ?) approvò un progetto per la costruzione del proprio nuovo “Albergo in soler” (a più piani) su un'area presa in concessione di 10 passi x 4: "posta sora el portego de la chiesa, cominciando da la Schola de San Gottardo”. I Tagiapierapresero perciò accordi col Piovan del Capitolo de Sant’Aponal, per ottenere oltre “ad un'Arca e un Cassòn de marmo” vicino alla porta della chiesa dove poter collocare i propri Morti; un Prete che ogni lunedì doveva “dir Messa e recitar l’Officio dei Morti sulle tombe dei Confratelli”; e l’uso dell’Altar de San Gottardo con la Pala di San Nicolò per celebrarvi quante Messe intendessero, ovviamente dietro congruo pagamento.
Al pianterreno accanto al portone d’ingresso, sull'architrave di un finestrone da cui è stata tolta la primitiva inferriata, si può ancora leggere distintamente l’iscrizione: “NEL TEMPO D(E) SER ZVANE DE LOVI PISTOR A SANT’APONAL GASTALDO E COMPAGNI - MDVII A DI II DE MARZO”.

I Tagiapiera alloggiavano al soler” ossia al secondo piano, mentre al primo piano veniva ospitava la Schola dei Spitieri da Grosso. Nel 1685 una apposita Bolla Papale concesse alla Schola dei Tagiapierail raro privilegio di celebrare le loro Messe su un altare privato dedicato ai Quattro Santi Coronati”Patroni dell'Arte collocato dentro alla propria sede … Le Contrade Veneziane erano piene di Campielli, Corti, Sottoporteghi e Calli dedicate ai Tagiapiera e agli Scalpellini: la Celeberrima opera e veduta: “Il Cortile dello Scalpellino a San Vidal” realizzata nel 1728 da Giovanni Antonio Canal detto il “Canaletto” (il cortile era un tempo sito di fronte alla chiesa e Schola Grande di Santa Maria della Carità, l’attuale Galleria dell’Accademia appena al di là del Canal Grande), le riassume tutte.

Tagliapietra divenne perfino un cognome molto diffuso a Venezia.

I Tajapiera erano dediti a “consàr pietre”, ed erano Artigiani che dipendevano dai “Giustizieri Vecchi”, dai “Provveditori della Giustizia Vecchia”, e per gravezze e livelli dal “Collegio della Milizia da Mar” … Gestivano a Venezia più di 30 botteghe sparse in tutte le Contrade e Sestieri ... Non erano però Scultori come erroneamente si è spesso pensato, (anche se per un certo periodo gli Scultori ne fecero parte prima di istituire una loro Accademia specifica), ma erano operai e artisti che scolpivano elementi lapidei per porte, finestre, balconi, scale. Producevano: soglie, piane, gradini, lesene, scafe, ornie, grondaie, condoti, cornici, caminetti ed altri elementi decorativi per palazzi, monasteri e chiese.
L’Arte tutelava in varie maniere i Tajapiera iscritti: ad esempio, sembra che quando morì uno dei Bon cadendo dall'impalcatura di San Giovanni e Paolo, la sua vedova abbia ricevuto già il giorno seguente la pensione utile per allevare il figlio e per poterlo poi inserire, compiuti i quindici anni, nella bottega dei Dalle Masegne… Molto spesso l’Arte dei Tagiapiera era un’Arte di famiglia tramandata di padre in figlio, e i Tagiapera-Scalpellini venivano remunerati a giornata come i Muratori, i Fabbri e i Marangoni … I Tagiapiera giungevano a Venezia anche da zone lontane: dall’estero, come i Laghi della Lombardia o i Grigioni Svizzeri, tanto che più di metà degli iscritti all’Arte erano dichiarati: “Foresti” ... Per entrarvi a far parte, bisognava superare la “proba per divenir Mastri Tagiapiera”, che consisteva nell’essere abili a scolpire “una base attica su colonna” disegnandola, scolpendola e completandola senza alcuna sagoma di riferimento.

(L'Arte dei Zuccarieri e San Gottardo dei Spicieri da Grosso)

Zanini descrisse così l’attività dei Tagiapiera: “Le pietre dure si lavoreranno a questo modo. Si disgrosseranno con i scalpelli non da taglio, come si fa con le pietre tenere, ma che siano fatti a punta di diamante, lavorate che saranno con quelli, si batteranno con la brocca, e con martelli da denti, si tritureranno a perfezione poi si fregheranno con un pezzo di mola con l’acqua fin che sia levato i segni, avvertendo di non consumare troppo la pietra, di poi con un pezzo di pietra pomice, leggera, perché la aspra segna, fregar ancora il marmo over pietra macchiata, con l’acqua fino a che si levino li segni lasciati dalla mola; poi si lustrerà con la spultia bagnata nell’orina, strofinandovela sopra benissimo a due mani, con un pezzo di canevazza, fino che il marmo sii ben unito, per finire di dare il lustro, per più schiarire la pietra, si taglia il tripolo in polvere quasi umido , buttandone un poco per volta sopra il marmo, over pietra, fregando con un strazo di tella, et per farle ancor più chiare, si fregarono con il stagno abbruciato con una pezza, che sia umido che dette pietre resteranno lucidissime.”

Tagiapiera e Scalpellini erano documentati attivi in Egitto e Mesopotamia fin da 3000 anni prima di Cristo, e per questo erano considerati una delle professioni più antiche del mondo. Del Re Salomone, si diceva nella Bibbia: “… aveva settantamila operai addetti al trasporto del materiale e ottantamila scalpellini a tagliar pietre sui monti.”… e nel Medioevo fu tutto un fiorire assiduo di costruzioni di Chiese, Cappelle, Cattedrali, Basiliche, Palazzi, Castelli e Monasteri: "Era come se il Mondo stesso, scrollandosi di dosso la sua vecchiezza, si rivestisse d'un bianco mantello di Cattedrali", scriveva Rodolfo il Glabro Monaco e Cronista dell'XI secolo.

Venezia ovviamente non fu da meno degli altri, e anche qui come altrove i Tagiapiera si associarono e riunirono in Schola, Fraglia o Fraterna ovverossia in Loggia(dal nome delle baracche di legno poste vicino ai cantieri, dove depositavano arnesi, consumavano pasti, e qualche rara volta anche trascorrevano la notte. Era anche luogo ideale per scambio d’opinioni, idee, consigli, e trucchi professionali).

La Schola dei Tagiapiera di Veneziaè stata una delle più antiche e longeve della città, la sua Mariegola risale al 1307.

I Mastri Tagiapiera, detti anche: “Paroni da Corte” per via dei depositi e cortili all’aria aperta dove custodivano i materiali e realizzavano i lavori più grossi e ingombranti, consigliavano i clienti sui migliori modi possibili, e ispezionavano le botteghe almeno una volta al mese per reprimere eventuali frodi o imitazioni ... Era proibito il lavoro notturno per la rumorosità del lavoro, e si utilizzava in parte Pietra di Verona, Porfidi, Serpentini, Pietra d’Orsena e Trachiti Euganee ed altre pietre mischie, ma soprattutto la durevole Pietra d'Istria BiancaFine o Cerenita proveniente soprattutto dalle cave di Pola, Parenzo e Rovignomentre per le fondazioni, le difese a mare e le rive, veniva impiegata una pietra di qualità meno pregiata, detta: "Grigia o Fumigata". Entrambe le qualità venivano trasportate con i “Marani” della Serenissima dalla portata di più di duecento tonnellate, che facevano la spola più volte l’anno con Venezia. In alternativa si riciclavano e modificavano blocchi già scolpiti venduti o prelevati da chiese, Palazzi Nobili e Conventi provenienti in gran quantità dalle rovine di Altino, Jesolo, ConcordiaSagittaria, Torcello e isole limitrofe, oppure marmi antichi già lavorati provenienti dalla Greciae dall’Oriente… Secondo gli Statuti del 1307: non si potevano mescolare pietre diverse nella stessa opera, ciascuna pietra veniva marchiata dal Tagiapiera che la lavorava (esistono più di 9.000 marchi inerenti a Tagiapiera e Scalpellini antichi), e si doveva specificare il luogo di provenienza al momento della vendita e messa in opera. Si puniva chi usava “pietre d’aspetto simile e di ben diverso pregio … o ardiva lavorare pietre de man bianco (sconosciute e di dubbia qualità).



L’Architetto Vincenzo Scamozzi scriveva: “Si cavano pezzi di smisurata grandezza, e peso, e gli huomini del paese sono molto pratichi, di maniera che li maneggiano con grandissima destrezza, e facilità, poiché le conducono al canale vicino alla marina, per spaccio d’un miglio, per strade molto pendenti e con slitoni posti sopra alcuni letti fatti di legnami, i quali si chiamano stasini, o sbrisse tirate con buoi; e nei luoghi difficili ed erti vanno misurando e compartendo il peso con alcuni capi di funi molto grosse e legate alla parte di dietro dei letti, e raccomandate agli alberi, ovvero ad altra cosa permanente e cosi procedono di mano secondo il bisogno”.

In Contrada di Sant'Aponal si passava di notte soltanto se si era "Tagiapiera o Scultori” in servizio, e c'era un servizio di ronda che sorvegliava le botteghe e l’attività ... Ancora nel 1715 la Fraglia e Schola dei Tagiapieraeffettuava una grande Processione con imponente concorso di popolo lungo tutte le Calli della Contrada di Sant’Aponal prima della celebrazione della prima Messa il giorno della Festa dei loro Patroni(08 novembre) ... Al tempo della soppressione napoleonica, quando a Venezia si contavano ancora 195 iscritti Tagiapiera con 33 CapiMastri, 5 Garzonie 157 Lavoranti fra cui anche qualche donna, la sede dell’Arte dei Tagiapiera divenne casa e tipografia Merlo… e in quella che è stata la sede della Schola dei Tagiapiera è finita con l’abitare la mia Professoressa di Psicologia ai tempi in cui studiavo Teologia e da Prete a Venezia.

“Ma non ghe gèra i Zuccarièri a Sant’Aponal ? … quei de la carta da Zuccaro blu ?”

“Ghe gèra anca lori, coi Mandolèri … a pianoterra dello stesso edificio ... i gèra i Speziali da Grosso.”

“Ma nol veniva da Cuba el Zuccaro ?”

“Macchè ! … Non bisogna dimenticare che Venezia veniva detta la “Drogheria d’Europa” per via del commercio delle Spezie (soprattutto per il Pepe, Cannella, Noce Moscata, Chiodi di Garofano, Zafferano), ma anche dello Zucchero.”

(la Mariegola dei Tagiapiera e il Segnale dell'Arte dei Tagiapiera)

La maggior parte dello Zucchero Veneziano veniva importato già raffinato in grosse quantità da Cipro e da altre regioni del Mediterraneo. Nell’uso comune lo Zucchero non aveva sostituito il Miele come dolcificante, ma serviva soprattutto nella Farmacopea e nella Speziaria ... A Venezia s’importava soprattutto “polvere di zucchero” ed “estratti di succo di zucchero” che venivano affidati per la raffinazione a raffinerie locali che lavoravano per conto terzi producendo dei “pani di zucchero finito” che venivano poi immessi nel mercato, smerciati e venduti … Memorie Veneziane raccontano che il primo a fondare una Raffineria di Zucchero a Venezia nel 1598, fu il Portoghese Rodrigo di Marchiano, quando ad Anversa c’erano già 19 Raffinerie da almeno cinquant’anni ... Giovanni Battista Gallicciolliricordava e scriveva che un tempo nella vicina Contrada di San Cassiano, in Corte e Calle della Raffineria, esisteva un laboratorio per raffinare lo Zucchero ... Ma diceva anche, che fin dal 1366 la ricca famiglia dei Nobili Corner di San Luca possedeva delle concessioni nel distretto di Piscopifortemente irrigato e coltivato a Canna da Zucchero, dove utilizzava: schiavi, servi e coltivatori dipendenti per lavorarla. I Corner spremevano la canna e la trasformavano industrialmente utilizzando dei mulini ad acqua, e inviavano i succhi a Venezia dove venivano bolliti e raffinati in colossali caldaie in rame.

Anche gli Spizieri da Grosso si erano spostati ormai da tempo dalla Contrada di San Mattio di Rialto: “In quanto i luoghi erano pieni di persone disoneste e meretrici … e succedeva scandali”, e avevano preso posto e sede nella Calle presso Sant’Aponal occupando il piano inferiore del fabbricato dove avevano Schola i Tagiapiera al piano superiore … L’Arte del Zùcaro a Venezia era uno dei “Colonnelli” ossia delle “sottosezioni-ramificazioni” degli “Spezieri da Grosso”, ed ebbe lungo i secoli notevole attività finchè poi decadde progressivamente superata dalla concorrenza delle raffinerie di Ancona, Triestee altre città Venete limitrofe ... Ogni Raffineria da Zuccaro Veneziana ricava 1.000 libbre di zucchero al giorno dalla cui deposizione si formava il “mielàzzo”. Si depurava lo Zucchero mescolandolo con uova, scolandolo attraverso tela separando feccia da puro, e filtrandolo in stampi dopo rimestolatura al fuoco.

I Zuccherierifacevano quindi parte della Schola dei Santi Gottardo e Claudio, ossia dell’Università dei Spicieri da Grosso e deiMandoleriche producevano e vendevano al minuto e all'ingrosso: Mandorle, Olio di Mandorle, e vari tipi di Frutta Secca. Fin dal lontano 1330, a Venezia si distingueva fra Spicieri da Medicina cioè Farmacisti(gli Spetiarii Inclitae Repubblicae Venetiae era famosi e punto di riferimento per tutta Europa)e Spicieri da Grosso ossia: Confettieri, Droghieri, Venditori di cerada candele e cera lavorata, Raffinatori di Zucchero e Fabbricatori di dolci di Mandorle. Anche quella Schola o Arte va quindi annoverata fra le più antiche di Venezia.

Un decreto Veneziano del 1574 ordinava: “… Eleutari, Rabarbaro, Mana, Cassia, Scamonia falsa et altre simili false, rancide, vecchie, pessime e non sufficienti, Peppe d’India, Caselle di Gradamono, Terra Gialla, scorzi di Noci Moscate, biscotto pesto e farina d’Amito non possano esser tenute in luogo alcuno sotto verun pretesto né meno in minima quantità. Pepe Rosso montan affatto proibito eccetto nelle Speciarie Medicinali, in pena perdita et incendio robbe e di ducati 50 grossi.”

Solo dal 1675 i Mandoleri poterono separarsi dagli Spitieri da Grosso e dai Zuccarieri con i quali si alternavano ogni anno nell’occupare la carica di Gastaldo della Schola, e si misero in proprio fino alla soppressione del 1806 … Nel 1713 la Raffineria di Zucchero di San Cassiàn era ancora condotta da Francesco Astori… Circa gli Speziali da Grosso, ancora nel 1717 a Venezia si ordinava fra l’altro: “… non possano vendere ad alcuno cosa veruna corrosiva e venefica eccetto a Speziali o altre Arti a cui si renda indispensabile come a Vetrieri e Tintori l’Antimonio, agli Orefici l’Arsenio e Sublimato e ciò solo a Patroni e “giovani di botteghe” conosciuti ... Incaricati a registrar sopra un libro in nome e cognome e professione de compratori. Inibito a suddetti a comprarne per altri, nemmeno a dispensar del loro ... Cose tali siano custodite sotto chiave, proibito a garzoni il maneggiarle e venderle ... In caso contraffazioni dichiarati delinquenti li padroni stessi …”

A Venezia nel 1773 c’erano ancora attive sette “Officine da Zuccaro”dove s’impiegavano: 77 Capimastri,42 Garzoni e 71 Lavoranti … e dalle statistiche dello stesso anno, quando in maggio al Municipalista sotto i Francesi: Tommaso Pietro Zorzi, ricco fabbricante di Liquori, Dolci, Zucchero e Caffè venne saccheggiata la casa dal Comitato Veneziano delle Sussistenze, risultava che i Droghieri a Venezia erano 63 in tutto (20 Capimastri, 19 Garzoni e 24 uomini a salario), i Mandoleri erano: 231 (173 Capimastri, 30 Garzoni e 28 Lavoranti), e i Raffinadori da Zucchero: 41 (4 Capimastri, 6 Garzoni e 31 salariati Lavoranti)… Viceversa circa vent’anni dopo, nel 1797, ormai alla fine della Storia della Repubblica Lagunare, gli iscritti all’Arte degli Spizieri da Grosso erano 246, di cui 144 erano: “Rafinadori da Zùccaro” attivi in 90 botteghe, e in 4-5 Raffinerie site nelle Contrade di San Canzian, San Marcilian e San Cassian.

Circa Zuccaro e Zuccarieri, c’è una cosa utile da chiarire e sottolineare.L’Arte degli Zuccarieri non si riferiva ed esauriva affatto solo alla produzione e raffinazione dello Zucchero, quello da addizionare alla tazzina del Caffè o della colazione. Con lo Zucchero a Venezia, come altrove, si facevano tantissime altre cose artistiche, e non solo culinarie, cose tutte che oggi non si fabbricano più e sono quasi del tutto dimenticate.

Dovete sapere che i pranzi dei Nobili come quelli delloStato e dei Principi, del Doge per intenderci, erano una delle più grandi espressioni del proprio “Status”, ricchezza e prestigio. A differenza di oggi che quando i grandi Politici o Governanti s’incontrano fanno un “pranzetto o una cena di lavoro”, un tempo quella del pranzo o cena era come un rito, e una delle massime occasioni per mettere in mostra e sfoggiare tutta la propria magnificenza, grandezza e potenza. A tavola si esternava tutto quel che si era, e si usava oltre alle preziosissime tovaglie, le stoviglie e tutto il resto, soprattutto e proprio lo Zucchero, oltre alla Gelatina, il Burroe la Cera, così come il Vetro, il Cristallo, la Porcellana, il Legno, fino ai Metalli preziosi e il Marmo per costruire un’infinità di Trionfi, e Sculture Ornamentali, e scenari complessi davvero suggestivi e vistosi. (Si racconta che alcuni “desèri” (dessert) realizzati per i conviti Veneziani erano grandi fino a otto metri e composti da centinaia di pezzi fra statue, fontane, balaustre ed altri elementi monumentali).

Con lo Zucchero si inventava e creava un “gran colpo d’occhio” che aveva lo scopo d’immagare e impressionare gli ospiti, oltre che di “parlare”in un certo senso indirettamente di se, e di quanto si aveva a cuore, e si voleva e doveva sapere e intendere.

Per far questa “grande parata” s’impegnavano i migliori artisti disponibili sulla piazza. Noi siamo abituati a pensare i grandi pittori, scultori e artisti tutti compresi a realizzare grandi teleri, ritratti e pale d’altare. Dobbiamo pensarli, invece, anche dediti per molto tempo e molti giorni anche a realizzare tutta quella dovizia di soggetti ed “dolci opere” effimere, che andavano ad arricchire le tavole, e si susseguivano di continuo nei banchetti dei Grandi e dei Nobili.

Era come una specie di film continuo che accadeva sopra alle tavole dei commensali. Senza badare a spese, si cambiavano le scene insieme alle portate dei pranzi e delle cene, e si realizzava tutto un linguaggio, un messaggio esplicito e talvolta sub liminare nel presentare tutto quel “ben di Dio” che non era solo da mangiare, ma conteneva anche un significato. Spesso le tavole imbandite erano più “da vedere, comprendere e interpretare” piuttosto che gustare. Gli artisti realizzavano vere e proprie rappresentazioni di Miti Antichi, Leggende, Storie, o celebrazioni di Personaggi e avvenimenti, ma si usava anche tutta una simbologia ricchissima “per darla ad intendere” ai commensali, e per esprimere quelle che erano le Doti, la Sensibilitàe le Virtù, le propensioni e i desideri del Padrone di casa, ma anche le intenzioni, i propositi o le aspirazioni e le manie di grandezza.

Il Doge, il Principe, il Papa, il Cardinale o Vescovo, il Nobile o la Nobildonnae la Badessa, ad esempio, sedevano isolati o attorniati da tutta una serie di decorazioni, “portate”e addobbi che al solo vederli ne decantavano: il Blasone e la Nobiltà, o ne suggerivano lo splendore e le qualità “uscita dopo uscita”. Molto spesso certe convivialità diventavano uno spettacolo continuo e una successione di scene, e i commensali si ritrovavano attorniati di fiori, figure allegoriche, Santi e Madonne, scene marine e mitiche, carri trionfali, putti, corone, Pavoni, Uccelli, palazzi e castelli e quanto altro. Ogni pranzo e ogni cena era un tripudio, un teatro, appunto si diceva: una serie di Trionfi, che erano fatti a base di Zucchero.

Immaginatevi quindi quanta abilità, manodopera e profusione di risorse, impegno e persone erano necessari. Per certi Nobili Veneziani “di gran pregio” a volte era necessario impiegare più di metà degli iscritti della Schola dei Zuccherieri.
Nelle Cronache Veneziane d’Archivio, si trova annotato di una famosa “scenografia zuccherina” realizzata nel 1574 nell'Arsenale di Venezia per un banchetto offerto a Enrico III Re di Francia, dove: piatti, forchette, frutta, tovaglie, salviette e pane erano tutti fatti di Zucchero ... e come “tocco dolcissimo” finale il Re incontrò, conobbe, e poi divenne amante della Cortigiana Veronica Franco. Il convito in un certo senso raccontava, suggeriva e “parlava”, e da quel genere di banchetti spesso conseguiva di tutto.

Gian Lorenzo Bernini ad esempio, il celebre autore barocco di tante architetture e statuarie memorabili soprattutto di Roma, trascorse ore su ore e giorni e su giorni a disegnare e realizzare sculture ornamentali di Zucchero o Pasta di Mandorle per le mense dei Papi... Spesso si regalava agli ospiti la copia, il disegno di quelle realizzazioni artistiche che avevano visto troneggiare e favoleggiare sopra alle tavole imbandite dei Sovrani. Certe cene e pranzi a Palazzo rimanevano per forza “memorabili”: erano dei veri e propri eventi spettacolari sui quali il Nobile-Padrone di casa, investiva anche parecchio denaro. Le liste delle spese di certi banchetti, infatti, furono impressionanti non tanto per le compere di alimenti, le carni, il pesce, i vini e altre cose commestibili, ma proprio a causa delle spese accessorie dovute ai grandi addobbi delle stanze, e alle decorazioni scenografiche collocate sulle tavole.

Dovete sapere che a tavola spesso si susseguivano più di trenta portate ... Si dovevano rispettare decine su decine di regole di “buon comportamento e galateo”, ci si portava spesso le posate personali da casa, e c’era un’infinità di protocolli da rispettare  … Ci si sedeva spesso a tavola al tramonto rialzandosi a notte fonda, anche dopo quattro-cinque ore, dopo tutto un susseguirsi spesso ininterrotto di Musiche, poesie, balli, giochi e canti. Alla fine si andava a letto talmente “pieni e addizionati ed esausti”, che si dormiva seduti per digerire meglio, e per non soffocare a causa di eventuali rigurgiti. (non è vero che i letti di un tempo erano piccoli perché uomini e donne erano bassi di statura, dormivano piuttosto seduti, appoggiati alla testiera del letto, che era rialzata oltre che decorata pure quella.)

“Zuccarieri ? … Vàrda che ti te sbagli … Ghe gèra i Cereri a Sant’Aponal.”

“Xe a stessa ròba … I Zuccarieri fasèva e vendeva anca cera lavoràda e candele.”

“Che gran confusiòn !”

C’è però un altro fatto ancora è da ricordare: nel 1514 prese fuoco per l’ennesima volta tutto il vicinissimo Mercato di Rialto. Ovviamente ci fu tutto un fuggi-fuggi, grande distruzione e un gran casino: mezza Venezia fu ancora una volta tutta in subbuglio e devastata dalle fiamme. Ognuno, come potete bene immaginare cercò di porre in salvo tutto quel che poteva, oltre che la pelle, e ci furono migliaia di Veneziane e Veneziani che a titolo diverso spostarono, presero, arraffarono e mossero cose e persone contrastando con gli uomini che l’incendio volevano soprattutto domarlo.
La fine dell’incendio non completò quell’intensa opera di spostamento, anzi: fu solo l’inizio di tanti traslochi. Ci furono diversi Veneziani che cercarono di spostare la propria attività un poco più in là, in attesa che Rialto riprendesse di nuovo vita (come i Gatti, che di vita ne hanno più di sette) … In ogni caso, niente avrebbe fermato quell’innata voglia di Venezia di autodeterminarsi commerciando e vivendo su quelle isole Lagunari che fungevano da trampolino per tutto il resto del Mondo. Rialto, infatti, risorse poco dopo: più florido ed efficiente e ricco di prima.

Durante e dopo il gran subbuglio e riordino dovuto all’incendio, ci fu anche un’altra Schola che si spostò nel 1528 con l’immancabile approvazione de Consiglio dei Dieci da San Silvestro di Rialto a San’Aponal. Fu la Schola della Natività di Maria dei Fontegheri o Farinari che andò a mettersi dentro alla Sacrestia della chiesa del solito Sant’Aponàl, proprio a ridosso dell’abside della chiesa. In quegli anni l’Arte dei Farinanti comprendeva pure quella dei Tamiseri o Setacciadori de Farine, ed era guidata da un ricco “Compagno Mercadante de Malvasia", che per  far notare la presenza dei Fontegheri in quel nuovo posto fece collocare accanto alla porta principale della chiesa un  bassorilievo in marmo greco con la “Crocefissione”, che si può vedere ancora oggi, anche se quasi completamente consumato e perduto.

(La Schola dell'Arte dei Fontegheri, e il Crocifisso dei Farinanti)

La figura di quel Gastaldo doveva avere un gran peso e significato all’interno dell’Arte dei Fontegheri perché le disposizioni della Mariegola precisavano che i nuovi iscritti dovevano essere da lui accolti personalmente davanti all’Altare della Schola per prestare giuramento di rispetto a tutte le Regole dell’Arte, e soltanto dopo di lui: "tuti i Compagni li debbano tocàr la man"(dargli la mano) al nuovo iscritto appena accolto.

Come sempre accadeva a Venezia, anche la Schola dei Farinanti erogava assistenza, sussidi in denaro e medicine e Medico per gli iscritti (eccetto che per i mali incurabili, e per chi non fosse stato trovato a letto nel corso della visita d'ispezione nei giorni di malattia ! ... Niente di nuovo sotto al sole.) … Lo stesso Gastaldo stipulò, inoltre, un accordo col Piovano di Sant’Aponàl per avere in uso in chiesa un paio d’Arche per i propri Morti come quelle dei Tagiapiera, celebrando per loro una Messa al giorno come per i Tagiapiera, sull’Altare della Madonna a fianco di quello dell’Arte dei Tagiapiera ... Rieccoli qua !

I Farinantinon volevano né dovevano essere da meno dei Tagiapiera… Si era proprio a Venezia.

In quelle stesse circostanze concitate, insieme a quelli delle Schole si spostarono più in là dal bruciacchiato Rialto anche le Prostitute. Erano, si diceva a Venezia: “… le donne di malaffare dedite al Meretricio e al mestiere del godimento, l’impegno più antico del Mondo”. Avevano dovuto anch’esse abbandonare la zona del “Castelletto di Rialto” andato rovinato … e i vari Lupanari di San Mattio composto da ben 34 volte, magazzini, botteghe e Osterie come quella della Stella, Al Figher, Alla Croxe e Al Gambaro dove le donne stavano di giorno fuori appostate in mostra e cercando d’accattivarsi sempre nuovi clienti”. Trovarono posto nelle vicine case delleCarampane(nome che indicherebbe prostitute sfiorite), ossia nei pressi di Cà Rampani, proprio nella zona della Contrada di Sant’Aponal.

Secondo il solito Diarista Marin Sanudo, nel 1500 c’erano a Venezia circa 11.654 Prostitute dette: “Contesse e Mamole” ma anche “Donne del peccato e Dèdite”. Erano un po’ tantine: una folla se guardiamo a quelle stime del Sanudo … Immaginate la concorrenza … Ma consideriamo anche il fatto che corrispondevano a un decimo dell’intera popolazione di Venezia ...

Sarà stato proprio così ?

In ogni caso la Serenissima le favoriva in molti modi, quasi precorrendo certi tempi, perché oltre a tenere buoni e soddisfatti tutta una serie di Marinai, Mercanti, Forestieri e uomini di Mare, erano pure una fonte pressochè inesauribile di contatti e informazioni riguardo a tutto quanto accadeva in quel loro largo mondo, e non da ultimo su tutto ciò che succedeva nelle case, nei palazzi e dentro alle vite di tanta parte dei Veneziani Nobili, Cittadini e popolani qualsiasi ... e ancora di chissà quanti altri personaggi di passaggio.

I registri della Giustizia Veneziana raccontano: “… Giacomo Davanzago, ex Capo Sestiere, venne chiamato da due meretrici sue amiche per aiutarle a resistere allo sfratto esecutivo da una casa in Corte Pasina in Contrada di Sant’Aponal presa in affitto dal Nobile Federico Michiel … il Davanzago giunto sul posto si mise a menar fendenti di spada contro il Nobile Michiel e i suoi amici, gli strappò le chiavi della casa dalle mani, e rimise dentro le due donne … Venne processato, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e condannato a 100 lire di multa …”

Variopinto il microcosmo che esisteva nella Contrada di Sant’Aponal …

“Ti savèvi che Bianca Cappello moglie di Francesco De Medici e Granduchessa di Toscana venne dichiarata nel 1579 dal Senato della Serenissima: "vera et particular figliola della Repubblica” ? … Pensa che Bianca Cappello quindici anni prima abitava proprio qua in Contrada de Sant’Aponal a Venezia, e che a sedici anni scappò via da suo padre e dalla Laguna in compagnia del Cassièr di una Banca Fiorentina. La Repubblica di Venezia in quel momento decretò: “… che fosse vituperosamente bandita, e che se vi venisse a Venezia fusse fatta morire"… Ma quando dopo qualche mese Bianca intrecciò una relazione amorosa con Francesco de' Medici, il Cassièr morì assassinato misteriosamente, e il De Medici la sposò che era ancora in lutto della moglie appena morta, la Serenissima cambiò parere.”

“Interessante … No lo savevo .”

“E ti savevi che in sta Contrada de Sant’Aponal fra 1651 e 1661 ghe gèra in Corte Petriana un piccolo edificio da Musica, un Teatrin de Sant’Aponal con un certo gioco prospettico all’interno, dove se eseguiva “Opere in Musica” su libretti de Giovanni Faustini e con la direzione artistica de Francesco Cavalli ? … Tutta l’attività gèra finanziada dai Nobili Alvise Duodo e Marc'Antonio Correr.”

“No savevo neanche questa.”

“E ti savevi che tanto per cambiare, nel gennaio del 1815: “… i locali della cièsa de Sant’Aponal in Venezia compresa: Sacrestia, caxetta e Schola di San Gottardo e dei Mandoleri erano nella Lista delle vigne, orti e beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti ...” ?”

 “No …”

“Ma insomma … Non ti sa niente ! ... Ma andemo a beverse un’altra “ombretta” che se megio ... Prima che sta piova ne immarsissa come e bricole de la Laguna.”




(Corte Petriana dove sorgeva il Teatro Sant'Aponal)

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