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“TROVATO IL COLPEVOLE DELLA PESTE DEL 1348 … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 118.

“TROVATO IL COLPEVOLE DELLA PESTE DEL 1348 … A VENEZIA.”

Si parla sempre delle grandi Pestilenze che hanno coinvolto Venezia: quelle del 1600 con i grandi “Voti di Stato” e l’edificazione dei grandi templi votivi del Redentore alla Giudecca e della Madonna della Salute affacciata sul Bacino di San Marco. In quelle occasioni si sono innescate tradizioni secolari che coinvolgono ancora oggi i Veneziani, sebbene si siano metabolizzati, ridotti e mutati il senso e “il sentire originale” di quelle ricorrenze annuali diventate tipicamente Veneziane.

Il fenomeno delle Pestilenze a Venezia e in Laguna è ben più antico, e non si è affatto esaurito in quegli episodi così eclatanti. C’è stato come un “continuum” di pestilenze e calamità che ha pervaso senza discontinuità l’intera epoca Medioevale interessando spesso l’intera Europa oltre che i luoghi e le genti della Serenissima. Le Cronache antichissime di Venezia ricordano che già durante il 1100 accaddero in Laguna ben 12 epidemie di Peste, mentre altre 8 si succedettero durante il 1200, e ne capitarono altre nel 1301 e 1343 … e nel 1348 che è l’anno di cui c’interessa raccontare un poco.

A dire il vero e ad essere precisini, già fin dall’inizio del 1340 c’era stato una specie di annuncio e presentimento perché era iniziata a circolare per Venezia una strana leggenda che raccontava di: “… una certa Galea carica di Diavoli e forze ostili della Natura che volevano sommergere Venezia con una mareggiata di straordinaria violenza ...”
La stessa Leggenda raccontava che Venezia sarebbe stata salvata dall’intervento unitario dei Santi: Nicolò, Giorgio e Marco divenuti per questo: Protettori dell’intera area Marciana e portuale della Serenissima.
S’avvertiva quindi che:“… qualcosa stava per accadere e incombeva nell’aria”. Si presagiva che stava per succedere di nuovo qualcosa di brutto e letale per la città Serenissima.

Ma andiamo per gradi … Per capire meglio quell’epoca, bisogna ricordare che nel 1343 il Nobile Andrea Dandolo detto “il Cortese per il suo modo grazioso di fare”, venne eletto a soli 37 anni 54° Doge della Repubblica di Venezia. (lo rimarrà fino alla morte nel 1354). Si trattava di un uomo potente e dottissimo: un Procuratore di San Marco, uno scrittore di “Cronache veneziane”, un raccoglitore di Statuta”e atti diplomatici. Fu il primo Doge di Venezia a laurearsi e addottorarsi all’Università di Padova dove fu anche insegnante di Diritto … inoltre fu anche amico del Petrarca, e mecenate di diversi letterati.
Andrea Dandolo faceva parte di un gruppo di grosse Famiglie Patrizie che a Venezia primeggiavano su tutte le altre. I Dandolo erano politicamente considerati: “Apostolici e filopapali”, molto uniti nelle loro Ramificazioni di consanguineità parallele, e anche molto legati con vincoli matrimoniali e d’amicizia con le Nobili famiglie dei Marcello, Longo, Bemboe Bragadincon i quali spesso si schieravano nel Maggior Consiglio sapendo bene di poter contare l’uno sull’appoggio degli altri.
Storicamente i Dandolo furono la quinta famiglia ad occupare il maggior numero di cariche di governo della Storia della Serenissima: furono una famiglia di Dogi in quanto prima di Andrea c’erano già stati alla guida della Repubblica Veneziana: Francesco, Giovannied EnricoDandolo... I Dandolo, insomma, erano quasi sempre Dogi.

In origine erano Mercanti provenienti da Altino, e s’erano insediati prima a Torcelloe poi a Rialto nell'Insula di San Luca dove con gli altrettanto Nobili Pizzamanofinanziarono ed edificarono la nuova chiesa della Contrada. Ricchi di possedimenti e di feudi fin nelle Terre del Friuli, in un certo senso i Dandolo erano simbolo della Venezia ascendente, spregiudicata, ricca e sempre più potente gestita dalla sua oligarchiamercantile. S’impegnarono fin da subito in attività mercantili oltremare con l'Oriente Bizantino dove possedevano numerosi interessi commerciali e beni a Costantinopoli e nei feudi di Gallipolie Andros.
Domenico Dandolo, considerato il capostipite del Casato dei Dandolo, si diceva avesse portato a Venezia il corpo-reliquia di San Tarasio donandolo al sempre più prestigioso, ricco e potente Monastero delle Monache Benedettine di San ZaccariaQuando nel 1201, il Papa bandì la Quarta Crociata, l'anziano Doge Dandolo la indirizzò prima su Zara conquistandola dopo lunghi anni di rivolte, e poi sulla stessa Costantinopoliprendendola nel 1204(pensate che in fondo i Bizantini erano Cristiani come i Veneziani: altro che Crociata per la Religione ! … quella era solo una scusa per arricchirsi)

Infatti quel gesto permise a Venezia di assumere il controllo dell'intero Mare Adriatico e d’iniziare il suo vasto Impero coloniale in Oriente accanto al neonato Impero Latino.
In quell’occasione i Dandolo si costruirono il proprio palazzo sul Canal Grande con i marmi saccheggiati a Costantinopoli. Il saccheggio era abitudine comune dei Veneziani: basti pensare che metà dei quadretti racchiusi dentro alla famosissima Pala d’Oro della Basilica di San Marco, come gran parte dei suoi marmi, proveniva dalle ruberie perpetrate a Bisanzio e in Oriente. A tal proposito è curioso ricordare che l’altra metà dell’Iconostasi da cui furono tratte quelle stupende “storie di smalto e preziosi” racchiuse poi dentro alla Pala d’Oro è rimasto ancora in Oriente.
Venezia e i Veneziani quando conquistavano qualcosa o qualcuno sapevano essere rapaci, voraci e insaziabili come e peggio degli altri. Nel caso delle scene dorate che diverranno parte integrante della Pala d’Oro di San Marco, nella foga folle e sanguinaria del saccheggio rubarono e strapparono dalla chiesa di Costantinopoli solo una parte, metà di ciò che era esposto davanti all’altare lasciando pendulo sul posto tutto il resto (che si trova oggi ancora lì).

Tornando ai Dandolo, se non “esercitavano” da Dogi sedevano stabilmente al vertice dei Consigli Dogali, o in alternativa facevano i Vescovi o almeno il Patriarca di GradoSempre per mantenere un certo livello di prestigio, gli stessi Dandolo fecero sposare Anna Dandolo con il Gran Zupano di RasciaStefano Nemagna divenendo con lui la prima Regina dei Serbi e madre di ben due Re: Stefano I° Vladislav e Stefano I° Uroš ... e si racconta che un altro Dandolo sconfitto nella Battaglia di Curzola, si tolse, invece, la vita fracassandosi la testa contro il remo a cui era stato incatenato: “… perché Venezia non subisse l'onta di veder condotto a Genova da schiavo il discendente di colui che aveva dato un impero alla Repubblica.”

Andrea Dandolo, come vi dicevo, venne eletto dunque Doge dopo molte votazioni andate a vuoto, e il suo schieramento politico conservatore si contrappose a quello di Marin Falier progressista e più propenso a un tipo di governo Comunale e democratico non legato alla Signoria oligarchica di pochi Nobili Mercanti. Non a caso Marin Falier venne condannato alla “damnatio memoriae” dopo la sua presunta congiura e un tentativo di colpo di stato. In fondo quello del Falier fu il partito dell’opposizione, l’antagonista dei Dandolo, che rappresentava anche un generale quanto fastidioso malessere delle classi popolari e mercantili estenuate dalla prolungata crisi economica e dallo sforzo della guerra contro Genova. Bisognava liberare Venezia da tutto quel fardello pesante di proteste e di novità che avrebbero potuto disorientarla e rallentare la sua crescita, perciò i Dandolo eliminarono e cancellarono i Falier anche fisicamente ed economicamente, oltre che politicamente … in quei tempi si costumava così.

In quegli stessi anni Genova e Venezia guardavano all’Oriente commerciale preoccupandosi delle vicende italiane solo in funzione dei propri interessi e della propria ascesa ed espansione economica. Venezia provò anche ad allungare il suo zampino sul sale, sulle terre e sulla via commerciale e fluviale del Po dei Duchi diFerrara ritraendolo subito dopo essendosi scottata perdendo la guerra malamente. Si raccontò a lungo in giro per Venezia dei Veneziani risparmiati dai Ferraresi e rimandati in Laguna accecati per raccontare come erano stati sconfitti e annegati nel Po ben in 6.000. Inutilmente i Veneziani tentarono gesti di vendetta e rivalsa su Ferrara organizzando qualche incursione nei suoi territori provando ad alleviare il peso della sconfitta. Con molte galee si recarono nel Ravennate fino a Sant’Albertodando alle fiamme molte case prossime al distrutto castello di Marcamòe bruciarono diverse navi dei Ferraresi che trasportavano Pellegrini Tedeschi diretti a Roma ... ma fu evidente a tutti che quelli erano solo gesti di frustrazione senza alcun esito politico utile.

Ma com’era Venezia in quegli anni lontani ? Che cosa si faceva in Laguna verso la metà del 1300 quando la Repubblica non era ancora diventata del tutto la grande Serenissima ?

Semplice ! … A Venezia si viveva e soprattutto si cresceva in ogni senso ... Di certo la città e la Laguna erano diverse da come sarebbero diventate nelle epoche dorate successive come nel Rinascimento, nel Seicento e nel Settecento. Per molti versi però Venezia era anche molto simile a se stessa: quell’epoca era come l’inizio, l’annuncio di un successo futuro che stava già incominciando. La città lagunare era perciò vivissima, già splendida, con un fascino e un’attrazione che già allora erano invidiati e appetiti da molti se non da tutti.

Nella Sestiere di San Polo erano attivi diversi Pellicciai non ancora relegati con tutta la loro categoria d’Arte e Mestiere nell’isola della Giudecca ... L’Abate Pietro di Sant’Ilario di Fusina concesse terre, molini sul corso d’acqua “Botte dei Bianchi”, e un bosco a Fiesso a Rolando Magister Miniator del fu Goto di Padova abitante in Contrada di San Polo dove essendo accaduto a Venezia nel 1343 un grosso terremoto nel giorno della Festa di San Paolo ossia San Polo le cui scosse si prolungarono per ben quindici giorni: “… seccossi il Canal Grande e caddero mille case”,si cominciò a dire del Santo: “San Polo dal terremoto”.

Lo stesso Sestiere di San Polo ospitava il sempre più organizzato Emporio di Rialto in grande espansione: gli Ufficiali Sopra Rialtochiesero l’allontanamento dei Bastazi(facchini) dalle aree prossime alla chiesa di San Zuane Elemosinarioperché facevano troppa confusione e creavano troppo disordine … In Contrada di San Mattio di Rialto, il Maggior Consiglio condonò all’Oste Corozato da Modena la pena di 3 lire inflittagli dai Giustizieri Nuovi perché vendeva “pane da fuori” non consentito nella sua Osteria … ridusse anche a 40 soldi di piccoli la condanna di 10 lire di piccoli impartita a un altro Oste: Rosso Bon per aver tenuto nella sua osteria 28 letti invece di 30 … concesse a Giovani Sacharola di condurre sempre in San Mattio di Rialto una Taverna con sala da ballo e 8 letti ... ridusse a 8 lire la pena di 20 lire di piccoli inferta ad Anastasia “Ostessa della Zucca”in Rialto multata per aver ospitato stabilmente nella sua Osteria due meretrici … e a 100 soldi la pena di 30 lire imposta a Bilantelmo “Oste alla Serpa”per aver fatto la stessa cosa con altre 3 prostitute.

Fuori delle Osteria-Locanda di Rialto: “Al Melon”, “Al Saracin”, “Al Bo” e “All’Anzolo” sostavano le meretrici durante tutto il giorno a caccia di clienti ... Ma anche l’“Ostaria del Camello”, l’“Ostaria del Vaso”, quella “Al Cavalletto”, “Alla Colonna” e “Alla Corona” erano considerate e nominate fra “i lupanari di Rialto”.
Nei pressi di Rialto funzionavano gran parte delle 16 Osterie, Taverne, Alberghi o Hospitalia esistenti in quell’epoca a Venezia: una di queste era proprietà dello Stato, due delle Monache fra cui quella “All’insegna della Scimmia”, e tre di privati bene in vista come i Sanudo, i Foscarie i Soranzo. Buona parte degli esercizi dell’Emporio di Rialto non godevano affatto di buona fama perché erano frequentati da giocatori d’azzardo, gente turbolenta, “Gaiufi e gabbamondo”, millantatori d’arti magiche, e da puttane con i loro temibili ruffianiche occupavano per farle esercitare le“volte”contigue alle Osterie facendole sembrare normali botteghe.
Le Locande di San Zuane Elemosinario come “Alla Campana”, “Alla Spada” e “Alla Stella” erano, invece, più raccomandabili: a pianoterra o “pepiàn”c’era il banco, la cucina, una sala da mangiare o da ballo; mentre di sopra nel mezzanino o “mezado” c’erano parecchie camere da letto affittabili a giornata o anche a ore. Più di qualche Locanda possedeva anche una stalla per i cavalli.

Sempre a Rialto, poco lontano dalla Statio Draparie di Marino Carlo era attivo il tavolo del Banchiere Marino Storlado che durante la peste da infermo fece testamento nominando 4 Commissari fra cui il banchiere Soranzo. Lasciò 300 ducati al Monastero del Corpus Domini dove era monacata sua figlia Maria Sturiòn o Storlado.
Come racconta il “Libro Mastro Nero” della ditta fiorentina di Duccio di Banchello & Soci attiva all’epoca a Venezia, i Banchieri presenti a Rialto erano fra 8 e 10. A Venezia ogni anno si esportava per 10 milioni di ducati d’oro e s’importava per altrettanti con un guadagno netto di 4 milioni: 2 sulle esportazioni e 2 sulle importazioni ossia il 20% dell’intero capitale.
Per realizzare tale consistente guadagno si utilizzava un naviglio di 3.000 bastimenti con 17.000 uomini, 300 navi con 8.000 uomini e 45 Galee con 11.000 Marinaicostruite da 3.000 Marangoni da Nave e 3.000 Calafati. Le navi molto spesso appartenevano allo Stato che le appaltava a Mercanti privati “per divisum” mettendole “all’incanto o nolo”. Il Senato decideva il numero dei navigli ammessi, determinava le rotte e il “viaggio in carovana”, sceglieva il Capitanio che guidava la Muda, ispezionava il carico, organizzava razioni ed equipaggi, e decideva se lungo il percorso le navi avrebbero dovuto ingaggiare azioni di guerra “a nome di San Marco”.

Ogni singola “Galea grossa da mercato” caricava di solito merci in stiva per 140-250 tonnellate, ed era governata e condotta da circa 212 uomini compreso un cuoco e un Medico di bordo ... Chi partecipava alle “Mude delle Galee e delle navi tonde della Serenissima” versava anticipatamente una cauzione di 10 soldi per milliarium  o un pegno di 2.000 libbre per garantirne la partenza.
Diverse “Compagnie di Galea” che in genere erano “Fraterne familiari” fornivano capitali privati per noleggiare, assicurare, caricare ed equipaggiare ogni singola galea. Ogni Compagnia di Galea era suddivisa in 24 Caratio Partecipazionidette Parcenevoli che sborsando ciascuno cifre come 7.000-8.000 ducati avevano influenza sulla scelta del “Patròn della Galea”.
Il Patronus o Patròndi Galia era perciò un funzionario di Stato, e oltre a guidare la flotta o la singola nave gestiva “un fondo pubblico”, supervisionava e annotava meticolosamente tramite uno Scrivano il caricamento e l’entità delle merci, controllava frugando nelle stive, fra la paglia, le casse e le balle che non vi fossero merci nascoste, e chiudeva a chiave i boccaporti della nave quando era fuori bordo o assente.Il Patrònera tenuto ad imbarcare ogni Mercante che avesse caricato almeno 10 balle di merci o che avesse pagato almeno “20 solidi di grossi” di nolo. A ciascun imbarcato sulla nave concedeva uno spazio largo 2 piedi col consenso di portare a bordo: una coperta, un materasso di peso non superiore a 30 libre, un baule, una valigia e armi per se e un servitore. Chi contraeva debiti con i Patròn di Galea senza assolverli poteva finire in prigione o incatenato a remare per sanarli … Era però possibile navigare anche liberamente, da privati, e a proprio rischio e pericolo … ma spendendo meno.

Negli stessi anni, dopo tante proibizioni, l’Arte della Lana di Venezia aveva iniziato con grande fatica e grandi proteste dei Mercanti a lavorare le lane in Laguna invece d’importarle e basta come s’era fatto a lungo anche con le pelli, lo Zafferano e l’Argento … Un opificio dell’Arte della Lana si trovava nel Monastero di San Giovanni Evangelista di Torcello .... e i Lanarolidi Venezia contestarono apertamente alla Repubblica il Dazio sui Panni Lana mandati a lavare nelle acque dolci dei folli di Treviso, Portogruaro e Padova chiedendo di poterli lavare liberamente a Venezia o in almeno in una zona più comoda e vicina … Poco dopo, infatti, il Maggior Consiglio concesse anche a Bernardus Fustagnarius di poter lavare i propri fustagni ai Bottenighi e nel “luogo della Tergola di Mestre” ma senza disturbare il lavoro di quelli che lavavano la lana ... i Laneri di Venezia erano stati accontentati.
Dopo gli anni della peste però, i Gastaldi dell’Arte della Lana furono costretti a chiedere al Governo di poter mandare a filare le lane fuori di Venezia per la scarsità della manodopera delle filatrici rimaste vive, in quanto erano passate quasi tutte ad altri mestieri più redditizi.

La maggior parte delle botteghe degli Oresi, degli Argentieri, dei Diamanteri e Zogellieri di Venezia era concentrata “sotto alle Volte di Rialto nella Ruga degli Oresi o Ruga Vecchia di San Zuanne di Rialto”, anche se non mancavano botteghe altrove come in Spadaria, nelle Merceriee in Piazza San Marco. Gli Oresi non dovevano essere ricchissimi perché davano alle figlie doti solo da 100-200 ducati.
Nel 1340: “… l’Orese Leonardo Rosso reo confesso d’aver venduto come buoni oro e argento alterati e di bassa lega venne condotto legato e con un cartello al collo che diceva la sua colpa da San Marco fino a Rialto. Gli fu inoltre proibito di esercitare ancora la sua Arte in Venezia, e gli fu comminato di scontare un anno di carcere.”

In giro per Venezia esistevano più di 80 Inviamenti da Olio… però tutto l’olio convergeva a Rialto da Zara, dall’Istria e da tutti gli altri posti dovendo pagare una tassa di 2 piccoli per libbra alla Tavola della Ternaria dell’Olio che molto spesso comprava tutto l’olio per lo Stato rivendendolo a prezzo maggiorato o calmierato: due appositi Stimatori da Comun andavano a misurare l’olio con mazze segnate, tenevano un “registro grande” della produzione e vendita di tutto l’Olio di Rialto, e gestivano un giro di 30-40.000 ducati annui … I Pestrini di Venezia, invece, macinavano semi di linovendendo l’olio prodotto a 20-26 denari alla libbra. Producevano 720.000 libre annue che però non potevano vendere ai nemici delle Serenissima … come i Padovani, ad esempio.

Sempre nell’Emporio di Rialto, per pesare Grano e Carbone si usava come misura lo “staio”o le“libbre grosse o sottili”, mentre altrove si usavano misure varie come le “mine, metà, staia, quartari e quartini”, oppure misure strane come il “raso scodelle”, “colmo scodelle”, “quartucci delle 12” e “quartucci delle sedici”. Per misurare i liquidi, invece, a Rialto si usavano “le secchie” divisibili in “caraffe” e “boccali”, mentre all’estero si suddivideva in “pinte, fiaschi, barili, zaini, mezze, brente, inguistate e bicchieri”. Le superfici delle stoffe si misuravano a “braccia da seta o braccia da panno o braccio da tela, piedi o braccio da muro, pertiche o cavezzo o trabucco”, mentre altrove si misuravano in “quadri, canne, miglio, passetto, once, atomo, minuto e decimo, catene, palmi e braccio da tessitore”.
In giro per i mercati Italiani tutte quelle suddivisioni e misure creavano un vero casino e una grande confusione, mentre “… a Venezia si era più essenziali, pratici e ordinati: si sapeva commerciare meglio” … lo dicevano gli altri, i Mercanti provenienti da tutta Europa e oltre.

Già fin dal 1312, ogni anno a Natale, la Scola di San Giacomo dei Terneri e Casaroli di Rialto dovevano offrire al Doge 100 libre di buon formaggio dolce … Le Arti dei Gallineri, Buttiranti e Ovetari (venditori di uova)avevano, invece, l’obbligo di fornire allo stesso Doge: un paio di buone Oselle grandi e 30 denari a Natale, una buona gallina a Carnevale, e una buona colomba di pasta farcita con 14 uova a Pasqua.

Sempre nei pressi dello stesso Emporio di Rialto, nellaContrada di San Bortolomio o San Bortolo, appena giù dal Ponte Realtino, dove ieri come oggi sorgeva la Calle della Bissa” che portava quel nome per le tortuosità del suo percorso: “Vicus qui, in anguis speciem retortus, anguineus dicitur”, il Vicario della chiesa che rappresentava il titolare del Beneficio ossia il Patriarca di Grado(residente nella vicina San Silvestro) era proprietario dell’ “Osteria alla Cerva presente in Rialto”.
Papa Innocenzo VI nominò come giudice Marco Bianco Vescovo di Jesolo sulla controversia sorta fra Fortunato Vaselli Patriarca di Gradoe Nicolò I Morosini Vescovo di Castello per le “Decime mortuarie”percepite nella chiesa di San Bartolomeo di Rialto nel cui mercato: “… accadevano furti, percosse, omicidi e altri malefizii con disonore della città e danno dei Mercanti. S’erano rubate merci alla Stadera del Comune, alla Riva del Ferro, a quella dinnanzi la Beccheria, e casse d’ova … Ed era naturale, perché i Capitani con cinque soli compagni ciascuno mal possono far la guardia; e i custodi degli Uffizii sono vecchi ed impotenti. Si aggiungano adunque quattro guardie per ciascun Capitano di Rialto, col salario di 6 lire al mese, le quali vadano di notte ai luoghi sospetti, ed ivi si mettano cesendeli e lampade …” 

Anche nel Sestiere di Dorsoduro, in Contrada di Santa Margherita dove Marino Civran era Plebanus della vecchia chiesa Collegiata abitavano e lavoravano diversi Pellicciai, e c’erano diverse Chiovere di Tintori di Panni ... Nella stessa Contrada abitava una certa “Bisina o Risina Vendramin solitaria ed eremita” che si era fabbricata un’angusta celletta nel campanile della chiesa da dove entrava per assistere dall’alto ai riti tramite un pertugio fin dentro alla grande cupola dorata che sovrastava un tempo la chiesa sostenuta da quattro grandi colonne di marmo portate dall’Oriente (di tutto questo non esiste più niente). La “Pizzoccara” usciva dal suo romitaggio solo per recarsi a San Marco il giorno della Festa dell’Ascensione per potere lucrare e acquisire le numerose indulgenze che venivano lì concesse in quel giorno speciale.
La Bisina-Risina”in quel giorno spendeva a San Marco un patrimonio in elemosine e per comprare indulgenze, tuttavia ci teneva a precisare che versava un regolare canone di 8 grossi annui al Capitolo di Santa Margherita per l’uso della sua celletta e di un piccolissimo orto nelle vicinanze della chiesa.

Un campo e un ponte più in là, nella vicina Contrada di San Barnaba accanto alla chiesa tutta decorata a mosaico (oggi andata distrutta e ricostruita) si costruì il nuovo campanile in cotto e per la prima volta il Ponte dei Pugni in pietra ... Poco distante avvenne una lunga contesa fra il Nobile Raffaele Ghezzo della Contrada di San Pantalon e il Capitolo di San Basilio di cui era Piovano Prè Barnaba Dalla Fontana per la proprietà e l’uso di una stretta calle che correva fra chiesa e campanile. Secondo i Preti del Capitolo era privata in quanto conteneva le fondamenta della chiesa, mentre per il Ghezzo era pubblica perchè confinante con la sua proprietà che aveva acquistato dai Pino. I Giudici sentenziarono salomonicamente: “Sarà pubblica salvo che si dimostrasse il contrario”.

Poco distante da lì, in periodo di peste, il Mercante Marco Arian Capo Contrada ossia “Major” dell’Anzolo Raffael lasciò: “… a li vivissimi de la Contrada … per i bisogni al povolo e a boni homeni de la Contrada” un legato di 300 ducati per la costruzione di due pozzi con le loro “vere in piera”.Morì anche lui di peste facendosi seppellire in una tomba della chiesa dei Carmini, le sue intenzioni vennero incise sui pozzi, mentre il suo testamento veniva letto due volte l’anno davanti alla porta della chiesa dell’Anzolo Raffael.

Qualche ponte e qualche passo più in là, il Gastaldo di San Nicolò dei MendicoliMarco da Cavarzere e Pietro Rosso da San Moisè supplicarono e ricevettero dalla Serenissima l’uso di alcune acque “a palata Tregolle usque a Botonigum” dove poter costruire mulini a patto di non nuocere all’equilibrio delle pubbliche acque.
Nel settembre 1343 l’alta marea o “Acqua magna” attaccò i muri del Monastero Benedettino delle Monache di Santa Marta come era appena accaduto l’anno precedente a quelle di Santa Maria in Valverde di Mazzorbo, Santa Caterina di Chioggia e nell’isola di San Clemente che ottennero ciascuna dallo Stato “un marano di piere” del valore di lire 124 di piccoli per sopperire ai danni “propter maris impetum”.
Sempre lo stesso Monastero di Santa Marta dotato di un Ospizio e di diverse risorse e lasciti testamentari da parte di Jacobina ScorpioniMonaca a San Maurodi Burano(ma originaria di San Nicolò dei Mendicoli), acquistò terre e casali a Russignago, e s’allargò verso la Laguna inglobando e prosciugando 20 piedi di palude verso l’isola di San Giorgio in Alga, e altri piedi verso l’interno consolidando le rive ed espandendo anche il proprio giardino. Dovette però lottare non poco contro le pretese di Filippo Salamon e della sua famiglia che bramavano d’esercitare il proprio Juspatronato sul Monastero ... Le stesse Monache del Santa Marta bonificando e costruendo muri e muretti, e pali di confine litigarono non poco con i Preti di San Nicolò dei Mendicoli per competenze, allargamenti e sconfinamenti, e per la gestione delle proprietà … e “sbaruffarono a son de Avogadi”perfino con i Magistrati del Piovego per l’occupazione degli spazi pubblici e delle rive finendo più volte a processo con relative sentenze.

Dall’altra parte del Sestiere di Dorsoduro, in Contrada di San Trovaso abitava Bertuccio Israello “Paron de nave” e suocero dell'architetto Calendario, che per ripicca e vendetta contro Giovanni Dandolo pagatore alla Camera dell'Armamento divenne complice di Marin Falier “suo pubblico innimico”.

Più avanti, nella Contrada di Sant’Agnese dove da poco era stata consacrata la nuova chiesa a cura di Giovanni Zane Vescovo di Caorle, Giovanni Magno Vescovo di Jesolo e Ottonello Vescovo di Chioggia col consenso del Vescovo di Castello Giacomo Albertini, Lucia moglie del Cittadino Nicoletto Alberti residente nella stessa Contrada di Sant’Agnese comperò dai Canonici di Torcello un terreno di 6 campi “… confinante a mane con altre sue proprietà; a meridie con la Scomenzera per la qual si va al Lido del Mar; a sera col Monastero di Sant’Arian; a monte col Monastero de San Marco de Amiani.”

Procedendo più avanti ancora, siccome il terreno della chiesa di San Vio stava sprofondando, il Senato assegnò per riattare la chiesa col suo portale sussidi e marmi tratti dalle case atterrate dopo la sua congiura a Bajamonte Tiepolo ... La chiesetta col Priorato della Santa Trinità(nell’attuale Campo della Madonna della Salute o del Seminario) appartenuta un tempo ai Cavalieri Templari e sempre frequentatissima dai Veneziani e dai Pellegrini per via delle sue numerose indulgenze Papali che lì si potevano ottenere facilmente, venne lasciata andare in decadenza dai Cavalieri Teutonici che erano subentrati ai Templari. I Frati-Cavalieri Teutonici trasferirono la loro residenza a Mariemburgo in Prussia ma costruirono sulla punta estrema dell’isola una serie di magazzini paralleli cinti da mura e con una torricella. In seguito la Repubblica prese in gestione il luogo adibendolo a Deposito del Sal e poi a Dogana da Mar spostandola dalle Rive di San Biagio dei Forni sul Molo di San Marco … Sempre nello stesso luogo, presso il Nobile Andrea Lippomano Priore della Trinità e suo amico andò ad abitare Girolamo Miani(poi dichiarato Santo) che aveva appena fondato una “Casa per poverelli” in Contrada di San Basegio.

Oltre il Canale fra il Sestiere di Dorsoduro e la Giudecca sorge appunto l’isola della Zuecca. Lì i Monaci del Monastero di San Giacomo della Giudecca iniziarono una lite e un contenzioso giudiziario senza fine con Gratiabona e Mora e i loro eredi per dei beni in Contrada di San Barnaba e in quella di Sant’Eufemia della Zuecca che durarono fino al 1682.

Nell’ottobre 1343, invece, al Monastero di San Biagio e Cataldo della Giudecca e alle Monache di Sant’Angelo di Contorta venne dato un sussidio di Stato perché i Monasteri aveva subito danni gravissimi a causa delle inondazioni che ne avevano sommerso e intaccato le fondamenta. Si dovette costruire attorno ai Conventi delle “palade a difesa”…. come si fece anche a San Piero in Volta ch’era stato ugualmente danneggiato dal mare … al pari del Convento di San Leonardo di Malamocco.

Nel Sestiere di Cannaregio, dall’altra parte di Venezia, già da qualche decennio s’era assegnato per abitare ai Tintori Lucchesi le Contrade di San Giovanni Crisostomo, San Canzian e Santi Apostoli … in Contrada di San Lunardo i Carmelitani Marco e Morello e i Vescovi Domoceno, Francesco ed Urense consacrarono la nuova chiesa nel maggio 1343 … Il Maggior Consiglio autorizzò l’Arte dei Filacanevo ad acquistare una casa dove poter lavorare la canapa per conto del governo in Contrada di San Geremia in una zona di squeri e saline gestite dal Monastero di San Secondoin isolaNella Contrada di San Marcuola dove da poco s’era consacrata anche lì la nuova chiesa, il Maggior Consiglio graziò Marco Tagjapiera da San Salvador, Pasquale e Diamonte Teutonico da San Marcuola, e Margherita Boltremo da San Marcilian condannati dagli Ufficiali del Dazio del Vino per non aver pagato la tassa su quanto avevano esportato e venduto a Mestre … Nella stessa Contrada Cristoforo quondam Stefano Lanarius acquistò un manso di 36 campi ossia quasi 18 ettari a Casale sul Sile nel Trevigiano: “… cum una domo magna murata de cupis…” e altri edifici, con 24 staia annue di frumento ossia 20 quintali e metà del vino, che riscuoteva come affitto.

Poco più avanti in direzione di Rialto, Frate Guido Vescovo di Ferrara dopo la riconciliazione di Venezia col Papa investì a Bologna di un fondo indivisibile a Formignana e Trisigallo trasmissibile a eredi maschi Filippo Corner e il nipote Zanino Cornaro quondam Marcodella Contrada di San Felise… dove Parisino Parsio da Lucca esercitava da Tintore … Giusto nell’anno della peste, il 1348, Lucia della Contrada di Santa Sofia faceva “la vendrigola” ossia la “rivendugliola di strazzarie” ... e qualche anno prima la Serenissima aveva stabilito dei Commissari per ripartire i costi dell’ampliamento della strada pubblica fra San Bartolomeo dell’Emporio mercantile di Rialto, il Fondaco dei Tedeschi e San Giovanni Crisostomo abbattendo alcune case e un campanile. Anche tutti gli abitanti del Sestiere di Cannaregio avrebbero tratto beneficio da quella nuova operazione edile, perciò si tassarono tutti i residenti delle Contrade e Parrocchie fra Santa Lucia e San Giovanni Crisostomo. Chi beneficiava maggiormente pagava di più: San Giovanni Crisostomo e Santa Sofia pagavano 2 soldi, 6 denari per ogni valore di 1000 lire di proprietà, mentre da San Marcuola a San Felicela quota era di 1 soldo, 6 denari, e per la zona di Santa Lucia – San Leonardo: 1 soldo. Solo la Contrada di San Bartolomeo di Rialto era esentasse.

Nel cuore pulsante di Venezia, ossia il Sestiere di San Marco: il Piovano Francesco Carello della Contrada di San Samuel, dove abitavano anche Ser Marco dalla Carta, Stefano dalla fornaia e Zuanne da Carole, venne condannato più volte a pene detentive per adulterio e amoreggiamenti con Orsa moglie di Zanin Diedopartito per Corfù. Costei fece bottino di tutto quanto c’era in casa, e abbandonati i figli andò a convivere col Piovano. Condannata a prigione a vita, in seguito ottenne la grazia e fu rimessa in libertà. Non pentito, né redento fu, invece, il Piovano Carello perché con un'altra sentenza venne in seguito condannato a due anni di carcere per aver commesso adulterio stavolta con Lucia moglie del Nobilhomo Marco Barbarigo figlio del defunto Maffeo che le fece perdere la sua dote maritale.

Intanto nella Zecca di Piazza San Marco si coniava 1 milione di ducati d’oro l’anno, 200.000 monete d’argento e 80.000 di rame. Il Ducato d'oro di Venezia detto anche Zecchino era già famoso e molto utilizzato nei commerci internazionali fin dalla conquista di Costantinopoli sotto il Doge Enrico Dandolo. Competendo col Genovino d'oro e il Fiorino andò a sostituire il vecchio “matapàn” d’argento di Venezia ... A Venezia si usava per commerciare “denaro piccolo” soggetto a inflazione per le transazioni locali, e “denaro grosso” molto stabile per le transazioni internazionali di valore come per il mercato della seta greggia, dell’olio e del burro.

Poco distante da Piazza San Marco, i Frati Eremitani di Campo Santo Stefanoacquistarono ulteriore terreno per allargare il cimitero attorno alla loro convento e alla chiesa che dovette essere riconsacrata più volte a causa di ben 6 ferimenti successivi che vi accaddero al suo interno … Uno avvenne nel giorno di Pentecoste proprio dell’anno della peste quando Girolamo Bonifazio ferì il Nobilhomo Marco Basadonna fratello di Fra Francesco Basadonna.
Nello stesso Convento, alcuni anni dopo la peste, si scoprì che Fra Benedetto degli Eremitani di Santo Stefano era colpevole di passare informazioni segrete a Moncorso e Bernardo di Lazara che a loro volta le trasmettevano al Carrarese di Padova. Reo confesso Fra Benedetto ammise che erano implicati in quell’intrigo anche altri quattro Nobili di Venezia che avevano accesso ai Consigli segreti della Serenissima. Venne perciò condannato a prigione a vita dal suo stesso Priore, allo stesso modo del Nobile Alvise Molin Avogadore da Comun, di suo genero Leonardo Morosinimembro della Quarantia, di Pietro Bernardo Consigliere Dogale e di Francesco Barbarigouno deiCapi dei Quarantacondannati però entrambi a un solo anno di prigione ed esclusione permanente dai consigli segreti e dalle cariche inerenti ad essi.Comunque anche dalla prigione gli interessati cercarono ancora di corrispondere con Padova attraverso Fra Bonaventura, il Padre Provinciale dei Francescani e il Nobile Ramusio Dolfin ... ma vennero prontamente intercettati dagli accorti uomini della Serenissima.

In Contrada di San Zulian verso San Marco, dove Giovanni Traverso lavorava da Pestrinaio e risiedevano almeno 55 persone considerate abbienti, abitava anche il Nobile Romeo Querini le cui proprietà terriere e rendite a Papozze e Trisigallo nel Ferrarese avute in concessione dall'Abate di Pomposa erano malridotte e non affittabili dopo la sconfitta veneziana di Ferrara ... Nella stessa Contrada "in una bottega in Ruga" esercitava l’attività di deposito e prestito lo Spicièr Nicolò Sturiòn che applicava sui prestiti un tasso variabile intorno al 12% annuo ... Altrove si arrivava ad applicare tassi anche del 24% ... Nella stessa Contrada lavoravano: Anzolo dei Manègi, Andrea, Michiel, Vielmo e Gabriel dell’Avorio, Azo Curamèr, Bortolo e Nani Balestrai, Corado Spicièr, Francesco Spadèr, Giacomo, Zuanne e Polo Curacèri, Lorenzo Cassellèr, Lorenzo Tintor, Lunario Scarselèr, Marco Rosso Carozèr, Marco Bon Strazaruòl, Marco “dalle ore”, e Nicolò Tedesco che faceva il Massèr comeZuanne de Andrea Tommaso nella bottega “All’insegna della Campana”.

Al di là delle acque del Bacino di San Marco, il Monastero di San Giorgio Maggiore nell’Isola di Santo Stefano dei Cipressi figurava nella lista dei Monasteri Benedettini doppi ossia promiscui come quello di Santa Maria Celeste di Castellodetto “la Celestia” dove era giunta dall’Oriente un’immagine della Vergine Madonna. Negli anni della peste Nicolota vedova di Giacomo Venier nominò la Badessa della Celestia tra le esecutrici testamentarie del suo patrimonio facendo molte donazioni al Convento.
Qualche anno dopo, invece, Ysabeta Falier vedova di Andrea Da Mosto che aveva una sorella Monaca alla Celestia e una nipote Monaca a San Giovanni Evangelista di Torcello, lasciò 2 grossi ciascuna a ogni Monaca della Celestia e 1 candela da 10 libre ciascuna alle chiese dei Frari, San Zanipolo, Santo Stefano e Santa Maria dei Servi.

Spostandosi altrove, nel più periferico e lontano Sestiere di Castello: Zanni Bianco faceva lo Spicièr in Contrada de San Martin… La dotazione economica dei Canonici della Cattedrale della Contrada del Vescovo di San Piero de Castèo era così povera tanto che non si riusciva a finanziarne adeguatamente le singole prebende … Perfino la sede del Vescovado di Castello rimase per un certo periodo vacante perché nessuno la voleva in quanto scarseggiava di rendite … Alla fine l’accettò Angelo Dolfin Canonico di Castelloche la mantenne fino alla morte del 1336.
In quegli stessi anni il Vescovo di Castello si lamentava che il Canale di Carbonera giungeva a rosicchiargli le mura del palazzo scorrendo con troppa e violenta corrente verso il Porto di Sant’Erasmo che sarebbe stato meglio interrare … Era stato costretto a costruire anche lui degli speroni di riparo per il suo Vescovado … così come aveva subito danni per 600 ducati sempre a causa delle stesse acque anche la “Clausura e il Laborerium portus nostri”del Convento di Sant’Anna di Castello. Il Governo di Venezia contribuì prima con 100 ducati, e poi con altri 300 per porre palate e pietre attorno al palazzo del Vescovo … e perché risultarono anche ulteriori danni ai dormitori e a tutti i muri portanti dello stesso Convento di Sant’Anna.
Qualche anno dopo fu il turno del poco distante Monastero delle Vergini che subì danni nei suoi granai collocati sempre verso lo stesso Canale di Castello… Anche lì si dovette costruire un muro a protezione lungo la chiesa delle Monache spendendo 1.000 lire … Sfruttando però la stessa violenta corrente delle acque che entravano e uscivano dalla Laguna, Bonavisa Falegname e Mastro Zonta Ferrarese ottennero dalla Serenissima un prestito di 1.000 ducati da restituire 150 ducati l’anno, per costruire 4 mulini “su sandoni” collocandoli proprio dietro al Palazzo del Vescovo.

Poco distante da lì, la Casa dell’Arsenal era già presente e in continua espansione conglobando una zona “qual’era tutto palludo et acqua”. Venne incaricata di“… refar e concàr lo faro di piera lo quale è signàl del porto de Venexia.” ... I Magazzini da Sal della Contrada di San Biagio dei Forni allo sbocco del Rio dell’Arsenale vennero trasformati in Pubblici Graneri come i vecchi cantieri di Terranova accanto all’allargata “Ripa Sancti Marci” poco lontano dalla Piazza San Marco che venne selciata e collegata alle vicine Contrade tramite nuovi ponti in pietra.

Nel già potente quanto ricchissimo Monastero di San Zaccaria governava la Badessa Ursa Magno coadiuvata dalla Priora Ysabeta Menguolo. Il Monastero vendette le terre che possedeva a Ronco d’Adige nel Veroneseacquistando terre più comode da raggiungere e controllare a Casale sul Sile nel Trevigiano ... Il Piovano col Capitolo di Santa Maria Formosa acquistarono alcuni possedimenti con diritti di caccia e pesca a Pellestrinaconfinanti anche con una palude di proprietà Rivo Longo, e una “Cona d’acqua” vicina all’isola di San Secondo.
La stessa Parrocchia litigò parecchie volte con le Parrocchie circumvicine per questioni di giurisdizione e “di cura d’Anime”, ma soprattutto “guerreggiò a suon di processi” con Santa Marina per le prerogative economiche contendendole alcune abitazioni ubicate su terreni recentemente bonificati … Santa Maria Formosalitigò anche con San Bartolomeo per via dei funerali di Betta di Francesco Quintavalle moglie di Pietro Da Lezze della Contrada di Santa Maria Formosa. Il Parroco Filippo Da Monte di Santa Maria Formosa affermava che la donna era stata sua parrocchiana, mentre il Capitolo di San Bartolomeodichiarava che essendo morta nel loro territorio spettava a loro il “diritto di decima” del suo funerale con tutto ciò che ne derivava.

Chi avrà vinto alla fine ? … Non lo so ... e poco importa.

Sempre la stessa Piovania di Santa Maria Formosa era inoltre “chiesa matrice” sulle chiese filiali dei Santi Apostoli, San Felice, San Giovanni Crisostomo, San Giovanni in Oleo, San Lio, Santa Maria Assunta, Santa Marina, San Provolo e Santa Sofia ... e nell’anno della peste, il 1348, il suo Piovano B.Francesco Querini Dottore  e Maestro in Teologia e Sacra Scrittura divenne prima Vescovo di Capodistria, poi di Candia, e infine Patriarca di Grado fino alla morte del 1372 quando venne sepolto nella chiesa dei Frari … e ancora: Pietro Lufri da Asburgo fece quietanza di una certa somma che gli doveva il fu Leonardo Contarini da Santa Maria Formosa a saldo di un affare: “racionis tellarum” vendutegli per lire 107 soldi 6 4 di grossi e piccoli 14, tra cui 25,240 braccia di tela comprate a lire 18 di piccoli il 100.

Sarebbe lunghissimo dirvi tutto, queste sono solo “briciole curiose” spulciate qua e là in giro per la Venezia di quasi metà 1300: “… Ogni tanto audaci armati su barche valicavano i confini doganali rompendo le palificate o palade, e talvolta ferendo e uccidendo i Gabellieri della Serenissima ... Viceversa i pescatori lagunari ponevano sulle acque graticci fatti di canne palustri, contribuendo a provocare l’interramento del porto e dei canali. Perciò se ne proibì l’infissione concedendo però deroghe “ai miseri pescatori di San Nicolò dei Mendicoli e della Contrada di Sant’Agnese”.

E venne allora il terribile anno 1348 … Oggi quasi nessuno lo ricorda, se ne parla e scrive pochissimo, ma a Venezia in quell’anno accadde un’immane tragedia: fu una delle più gravi pestilenze della sua Storia secolare, anzi ormai plurimillenaria. A dire il vero, l’intero anno 1348 fu per Venezia un anno drammatico, un anno “sfigatissimo” e maledetto perchè prima dell’ondata di peste nera accadde anche un violentissimo terremoto che procurò numerosi danni, crollo di edifici e centinaia di vittime.

Sopra la porta della Scuola Grande di Santa Maria della Carità(oggi l’Accademia) si leggeva in una iscrizione scolpita sulla pietra: “In nome di Dio Eterno e della Biada Vergene Maria i l’anno dell’Incarnazion del Nostro Missier Giesù Christo MCCCXLVII a dì XXV de zenèr, lo dì de la Conversion de San Polo cerca ora de bespero fo gran terramoto in Venexia e quasi per tutto el mondo, e cazè molte cime de campanili e case e camini e a glesia de San Baseio, e fo si gran spavento, che quasi tutta la zente di diverse malattie e nazion moria, e alcuni spudava sangue per la bocca, e alguni veniva granduxe sotto li scaii e al mezere, e alguni vegnia lo Mal de Carbon per luegaine e pareva che questi mal se piasse l’un dall’altro, zoè li san da li infermi, et era la zente in tanto spavento, ch’el pare non voleva andar da fio, né el fio dal pare. Dura questa mortalitade de cerca mesi VI e sì se diseva communamente che’l ira morto de le do parte della zente de Venexia, et in questo tempo se trova esser Vardian de questa Schola: Missier Piero Trevisan de Barbaria, i mie circa mexi due e morì, e lo Guardian e cerca X de soi Compagni, e con plu de CCC de queli de questa Schola, e fo la Schola in gran derotta e può, a dì XX de zugno, fo fatto Vardian Missier Iacopo Bon da la Zudeca. Ancora in quest’anno avè li fedel Christiani una grandissima grazia da Misser lo Papa che in zascaduna parte chi li moria, contriti de li soi peccadi dal dì dela Ascension de Christo infina al dì de Sancta Maria Maddalena, senza pena andasse alla Gloria de Vita Eterna ala qual sinde conduga lo Onnipotente Dio, Pare, Fiol e Spirito Santo qual vive e regna in saecula, seculorum, Amen.”

La Peste bubbonica giunse in Laguna dalla base commerciale di Caffa in Crimea dove si acquistavano dai Mercanti Asiatici: grano, cera, pellicce, pesce salato, caviale, e schiavi e schiave. Fu per davvero un evento orrendo perchè dal marzo seguente, e per diciotto mesi di fila andò a morire quasi due terzi dell’intera popolazione di Venezia che era considerata in quei tempi una delle città più popolose d’Europa con più di 100.000 abitanti. Il morbo proveniente da qualche luogo arcano, remoto e ignoto delle Steppe dell’Asia aveva infettato quasi tutto l’esercito Tartaro che assediava la città, e probabilmente s’imbarcò per Venezia su di una Galea che approdò sul Molo di San Marco nell’autunno 1347.
Poi accadde “la mattanza” perché oltre alla grande massa del popolo, morirono anche 950 persone della categoria dei Nobili Patrizi di cui più di 1.000 erano capaci di disporre di rendite da 200-500.000 lire annue. Si sfoltirono, smembrarono e morirono più di 50 interi storici Casati prestigiosi: vennero spazzati via e cancellati per sempre. Primo fra tutti fu quello dei Da Rosa che ebbe ben 70 morti in famiglia, ma i Blani ne ebbero 64, i Barisanfamiglia di Notai e Senatori: 56, Papacizza: 46, Pemon: 37, Bricco: 33, Bolovier: 32 come i Da Zara, Tanisti o Tonisti Consiglieri Dogali e Podestà di Verona e Chioggia: 28, Vidor: 24, e i Mastalici detti Mori Mercanti di spezie originari della Morea-Peloponneso residenti fra il Rio della Madonna dell’Orto e il Rio della Sensa dove avevano un Fondaco all’insegna del Cammello, subirono nel Casato ben 22 decessi.
Sorte non diversa toccò a vari: Agrinal, Agadi, Adoaldi, Bonomospesso Rettori di Trieste, Balistieri, Baibola, Barbuini, Cotanto, Calasei, Costantini, e i Carosi antica famiglia di Tribuni Aquileiesi che ebbero incarichi di governo nella Serenissima, e con Alberto Caroso dai Santi Filippo e Giacomo faceva parte del Maggior Consiglio come riconoscimento per aver represso la congiura dei Querini-Tiepolo. I Caroso furono: Senatori, Avvocati alla Corte del Forestier, Savi agli Imprestidi, Rettori dell’Istria, Giudici nel Tribunale della Quarantia e alla Corte dell’Esaminador. A questi s’aggiunsero i Caresini, i Calergi che ebbero Michele Vescovo di Venezia e vari nomi nel governo Veneziano, ma anche un ribelle di nome Leone cucito in un sacco e buttato ad annegare in mare. E ancora perirono in gran numero: i Canio, Canzanigo, Dal Sol, Dente, Da Ponte, De lorenzo, Franco, Gallina, Ganizzi, Mazzaman, Miolo, Mengolo, Massolo, Marmore, Orsiolo o Orisolo, Polo: Mercanti di rame e ferro da Belluno, Pantaleo, Pentilo, Quintavalle, Ragusin, Ravagnin, Sisibolo, Sesendolo e Tolonighi. Di fatto si azzerarono quasi del tutto le liste nobiliari di Venezia.

Nel settembre di quell’anno il Clero di Venezia col Vescovo di Castello Nicolò Morosini concordarono col Comune la gestione delle “Decime sulla fiumana dei Morti” causate dalla peste in quanto c’erano esagerate pretese da parte dei Preti sulle parti delle eredità spettanti al Vescovo, al Clero, alla Fabbrica della chiesa e ai poveri.
I morti erano davvero tantissimi … e al di là dei nomi altisonanti in città accadde un vero e proprio disastro: un eccidio efferato, capillare e devastante. La Peste fu un carnefice spietato, e i Veneziani disperati accorsero in massa presso i Notai Pubblici per esprimere le loro ultime volontà e per presagire in qualche modo un qualche nuovo futuro migliore e diverso.

In Venezia esisteva una vera e propria folla di Notai Pubblici. C’erano: Egidio e Avanzo Preti in Santa Sofia, Nicolò Prete ai Santi Gervasio e Protasio, Albano Prete in San Felice, Domenico Prete in San Basilio, Antonio Prete della chiesa di San Bartolomeo, GiovanniPrete in San Giovanni Battista in Bragora, Pietro Canonico di Castello, come DamianoPrete della Contrada di San Severo a cui si rivolsero Alvise dalle Fornase, Antonio Borsèr, Marin Stanièr e Zulià Cambiadòr che erano persone abbienti.
Viceversa Marco Dalla Vigna era Piovano di San Giovanni Crisostomo oltre che Notaio e Cancelliere Dogale. Divenne poi Vicario Generale del Vescovo di Castello Ramberto Polo, Arciprete del Capitolo di San Pietro di Castello e infine Patriarca di Grado ... Marco Bianco“Alunno di chiesa” della Collegiata di San Geremia fu anche Notaio dell’Avogaria da Comun e Notaio Veneto, e divenuto Vescovo di Jesolo continuò ad esercitare la professione notarile fino alla morte anche mentre “era a Gesolo”.
Anche Donato, Paolo e Vettor Preti esercitarono da Notai nella Contrada di San Cancian dove Andrea faceva il mugnaio… Notaio fu il Piovano Nicolò Renio che fu anche Cancelliere Dogale … e sempre Notaio fu: Amizo Piovano della chiesa San Moisè di cui Ser Nicolò de Zane vasaio era il Procuratore. Nella stessa Contrada di Moisè in tempo di peste Donna Francesca faceva la Scudelèra, Marcamanus faceva il Bechèr e Nicolò Donado il Casaruòl.

Ancora oggi nell’Archivio di Stato di Venezia si conservano ben 2.073 testamenti di Veneziani morti di peste nel 1348. In quell’anno ci fu un picco di rogiti notarili fra aprile e giugno quando quasi 1.500 persone si rivolsero ai 74 Notai attivi in Venezia beneficiando figli, mogli, mariti e congiunti oltre che le istituzioni statali, religiose e caritatevoli della città Lagunare.
Al Notaio Lorenzo della Torre Piovano della Contrada di Sant’Anzolo si rivolsero 22 suoi Parrocchiani, altre 17 persone della vicina Contrada di San Maurizio; 6 di quella di San Vidal, 5 di Santa Maria Zubanigo, 4 di San Salvador e altri di San Patergnan, San Samuel, San Beneto, San Trovaso, San Moisè, San Marcuola, San Giovanni in Bragora, San Gregorio, San Fantin, San Zimignan, San Polo e Santa Margherita.

Insomma: tutta Venezia era tempestata e infestata da quel morbo fetente e disgraziato ... Dal Notaio Niccolò Rosso Prete della Contrada di San Simeone Apostolo si recarono per deporre e dettare il proprio testamento Veneziani di San Simeone Piccolo e San Simeone Grande o Profeta, e poi delle Contrade di Santa Croce, Santa Lucia, San Giacomo dell’Orio, San Zàn Degolà, San Pantalòn, Sant’Agostìn, San Cassiàn, San Barnaba e San Zuanne de Rialto.

La grande mattanza pubblica pettinò letteralmente ogni Contrada di Venezia seminando Morte indiscriminata ovunque. Venezia intera era palcoscenico di uno scenario allucinante oltre che deprimente: tutti cercavano uno scampo che non esisteva per nessuno.
Il Destino fu padrone di lasciare la vita in mano ad alcuni, mentre per molti altri non ci fu niente da fare: Nicoleto Zecler della Contrada di Sant’Anzolo nominò in fretta e furia suoi esecutori testamentari Ser Ivan, Ser Stefano Zecler e Ser Giacomo Scudelèr lasciando soldi a sua nipote e altre persone … Michele figlio del già defunto Pietro Micherosso della Contrada di San Vidal nominò sua Commissaria la sorella Monaca a San Nicola lasciando denaro a sua cugina e ad altri due amici … Marco Videto da Santa Margherita ordinò al Commissario Nicoletto de Fineto di distribuire il resto del suo patrimonio a beneficio della sua Anima … Giovanni Lico da San Giacomo dell’Orio ordinò al cognato Nicola Foscolo e alla sorella Caterina di dare al Prete della sua parrocchia 50 soldi di piccoli perché costui pregasse per lui … Bertuccio Tasso lasciò come eredi la madre Betta, il suo Barbiere Soligo e la Serva CaterinaDonata vedova di Bartolomeo da Sant’Anzolo lasciò tutto a sua madre: Donna Cissa ... Francesco Del Carro lasciò tutto a sua moglie Caterina e ai suoi figli Nicoletto e OrsaTommaso Venier da San Samuel consegnò all’amico Ser Prosdocimo Falier le sue volontà testamentarie: “Voio che sia mie Comesari lo dito Prosdeçimo Falier e Ser Antonio Bonçi e mia muier Dona Bonaventura”… mentre Lucia da San Salvador nominò suo unico erede: “Liberalem virum meum dilectum.” come Margarita da Sant’Anzolo.
Allo stesso modo di un’altra Margherita moglie di Nicoletto Piliçario da San Samuel, anche la Nobile vedova Maria Barbarigo lasciò 4 Libre per far celebrare “le Messe de San Grigol per l’Anema de mio marido e per l’Anema di mia figlia Franceschina e di mio figlio Andriol ... Lascio anche libras VIII a Sofia schiava di suo padre … e le rimanenze dopo delle vendite dei miei beni a Margherita sclava che sta a Sen Chaxan in la chorte da Chà Michiel.”
Franceschina moglie di Pietro figlio di Ser Bonomin lasciò scritto: “… che tuto el rexidio sia de Piero mio marido ch’el posa far tuto quelo che i plaxe. Et se de queste spexe alguna chosa avançase, sia tuto de mio marido Piero. Et Chomesario laso mio marido Piero…”

Maddaluccia moglie di Pietro Testa da San Maurizio lasciò detto a suo marito che poteva cercare e risposarsi con un’altra donna, e affidò alla madre Lucia Boali la cura dei suoi figli che avrebbero potuto disporre dei suoi beni solo una volta raggiunta la maggiore età … La stessa cosa deliberò anche Nicoletta moglie di Benedetto Adanis di San Polo, che lasciò “soldos decem grossorum” da riscuotere “ad etatem legitimam”.
Francesca moglie di Graziano de Caceris da San Simeon si preoccupò del futuro della figlia Antonia lasciandole “libras quinque grossorum” per sposarsi o monacarsi … Cristina moglie di Antonio Buteglario da San Maurizio cercò, invece, di tutelare la propria madre temendo che il proprio marito Antoniopotesse “molestarla” non ridandole la “repromissa” della sua dote … Viceversa Vincenzino Preco da San Patergnan come Francesco Del Carro da Sant’Angelo nominarono la moglie erede patrimoniale a patto però che non si risposasse, altrimenti non sarebbe stata sua Comissaria né avrebbe potuto godere della sua “repromissa di cento libbre di piccoli”
Cristina vedova di Ser Andriolo Zane da Sant’Anzolo lasciò alla figlia Cataruccia 1.000 libbre di denari veneziani disponendo che li investisse nella Camera degli Imprestidi lasciandoli lì finchè non avrà un figlio o una figlia, salvo che lei non rimanesse vedova, senza figli, e in necessità.

La Nobildonna Giacomina Contarini moglie “domino Stephani Contareni” donò alla serva Rina che abitava con lei “… libras tres grossorum pro suo maritare …” lasciando detto che: “afranchentur ipsam et si ipsa erit bona femina suis corporis”… ossia che sarebbe stata liberata dalla schiavitù se avesse fatto buon uso del proprio corpo !
Giovanna vedova di Ser Filippo Tessitore era affezionatissima ai propri domestici: “…se Francisco, mio “famulus” volesse prendere in moglie Chataruciam “famulam meam”, voglio che lei abbia come sua dote quanto residua di tuti i miei beni ... E se Francesco la vuole prendere in moglie, voglio che riceva sette soldi di grossi dei miei beni di cui cinque potrà tenerli per se, e due li userà “pro Anima mea” … come Caterina, vedova di Ser Michele Morosini, Francesca Petracha moglie di Ser Nicoletto Petracha che lasciò tre ducati alla sua domestica Agnesina: “per la mia Anima e per il servizio che mi ha reso durante la mia infermità …”

Infine: Prete Giacomello Nannolo di San Zàn Degolà lasciò al suo servitore Gregorio:2 ducati d’oro e numerosi abiti di valore.

Potrei continuare a lungo … ma avete di certo già capito tutto quanto accadde in quell’anno a Venezia. La città lagunare fu una delle poche realtà europee che nominò una specie di “Comitato di Sanità e di crisi temporaneo” per sopperire alla peste: scelse e nominò tre Nobili come “Provveditori sopra la Salute della Terra”… ma inutilmente.
Allora si era convinti che la Peste polmonare e bubbonica fosse dovuta al morbo che aleggiava nella corruzione delle arie e dell’atmosfera, come pensavano i medici di quel tempo: “… In quest’anno prima l’Italia e poi l’Europa tutta fu crudelmente affitta dalla peste. Cominciava a divenire naturale in oriente dov’è divenuta una malattia quasi abituale … Alcuni vascelli mercantili ne portarono il lievito da Costantinopoli in Sicilia et in Toscana … divenne infinito il numero dei malati; di 100 infetti solo 3-4 si salvarono … morivano ogni giorno a migliaia et abbandonati. Nessuno aveva il coraggio di accostarsi alle case infette, li stessi medici ricusavano il loro ministero per il pericolo e per essere inutili a moribondi. Per tre mesi non vedevasi che pianti, spavento, desolazione et impossibilità di trovar fra vivi bastanti braccia a seppelir i morti. Rimasero estinte più di 50 case di gentiluomini, il Gran Consiglio composto prima di 1250 nobili fu ridotto a 380. al fine cessò dopo di aver tutto consumato. Venezia si trovò quasi senza abitanti …”

Durante la peste i piccoli cimiteri di Contrada non bastarono più perché traboccavano di corpi come le arche e le tombe dentro alle chiese e nei chiostri. Perciò si andò a seppellire gli appestati in fosse comuni al Lido e nelle isole di San Lazzaro(poi degli Armeni) e di San Leonardo e San Marco in Boccalama collocate a 100 passi di distanza dalla via acquea commerciale da e per Venezia sulla foce del fiume Brenta dirottata sul Volpadego. Le isole erano state ormai abbandonate dai Canonici Regolari o Agostinianiperché considerate insalubri e lasciate andare dopo un tentativo di ripararne la cavana in rovina.
I Lazzaretti di Venezia in quegli anni erano ancora da inventare: erano solo isole con chiesetta occupate da pochi Monaci, o piccoli Ospizi per Pellegrini, o rigogliose vigne affittate a contadini.

Alla fine, dopo aver braccato Venezia come un animale ferito, e quasi bloccandone quel suo formidabile meccanismo e quell’istinto indomabile di crescita, la Peste si spense e terminò ancora una volta lasciando un’immane desolazione. Ma Venezia non era stata domata … anzi !
Superata la tragedia il Maggior Consiglio decretò l’interramento di alcune “piscine d’acqua” della città dando i terreni risultanti in concessione per costruire nuove abitazione e imbonire così quei siti paludosi che conteneva “miasmi pestilenziali” Le “colmate”dovevano lasciare un Rio di 4 passi di larghezza ... S’interrò in molti luoghi diversi, soprattutto in Contrada di Santa Fosca, San Barnaba, San Pantalon, San Nicolò dei Mendicoli, Santa Margherita, San Basilio, San Vio, San Trovaso e si prosciugò anche il “Lago dell’Anzolo Raffael” ... mentre ai Capi Contrada di San Samuel venne proibito d’interrare la Piscina di San Samuel che venne salvaguardata e conservata con apposita sentenza del Piovego.

Detto questo … qualcuno doveva pur essere colpevole di tutto quello scempio e di tutta quella grande rovina !  Qualcuno doveva pur pagare ed essere riconosciuto come “causa prima”.
Tutti quei morti dovevano pur avere un comune denominatore, un innesco mortifero. Ci doveva pur essere da qualche parte un qualche “dannatissimo colpevole di tutta quella moria.”
Infatti fu così … Probabilmente a Venezia e nelle sue isole “… dove si moriva a grappoli” non ne sapevano niente ... Non so se alla Serenissima sia giunto al riguardo qualche dispaccio o una qualche lettera d’informazione … In ogni caso in Laguna in quegli anni avevano ben altro a cui pensare. Sappiamo però che Venezia sapeva tutto di tutti … quindi è probabile che possa anche aver saputo dei fatti accaduti in quello stesso anno nel Delfinato ossia nella lontana Savoia. Furono vicende davvero interessanti e curiose … proprio perchè riguardavano Venezia e soprattutto il riconoscimento dell’autore, del colpevole di quella grande sciagura che l’aveva così tanto devastata.
Nella Savoia-Delfinato vicino al confine col Regno di Francia era accaduto che nel 1322-23 trovasse rifugio una numerosa comunità di Ebrei espulsa dalla stessa Francia. L’epopea del popolo Ebraico la conoscete, e ogni secolo della Storia ripresenta quasi sempre l’accanimento atavico, ingiusto e gratuito perpetrato verso questo popolo predestinato. Non aveva importanza se anche gli Ebrei morivano di Peste, o se la pestilenza si presentava in luoghi dove gli Ebrei non c’erano, o non erano neanche passati per caso.
Venivano sempre e comunque considerati colpevoli di ogni nefandezza, e quindi anche della propagazione del morbo della peste. Prendersela con gli Ebrei era un po’ ovunque“un classico”, anche nei Paesi che si consideravano più evoluti e santi.
Accadeva qualcosa di diverso e strano da qualche parte ?
Erano stati di certo gli Ebrei … Sempre loro: “… quelli che sapevano fare metamorfosi e trasformarsi in topi … e assaltavano i bimbi nelle loro culle per cucinarli e farne unguenti da usare durante i loro riti notturni che erano orgiastici … banchettavano, danzavano intorno al loro “Magistrello”, che sarebbe stato il Demonio in persona … Calpestavano sotto ai piedi la Santa Croce, non veneravano l’Ostia consacrata … ma ossequiavano quell’Orso Nero, quel animale Satanico che era aberrante caprone dagli occhi infuocati …”
Perciò scattò ancora una volta l’inchiesta, il processo, la cattura, la persecuzione, la tortura … e la condanna finale spesso a morte e al rogo che doveva essere liberatoria dopo tanti inutili e insulsi patimenti e umiliazioni.
Quanto assurda è stata a volte la Storia! … anzi: troppo spesso, e sembra anche che non abbiamo imparato nulla da tante vicende accadute.
Persino Papa Clemente VI da Avignone provò a stemperare i toni e salvaguardare a modo suo gli Ebrei: emise ben due Bolle Papali di seguito provando a scagionarli … ma niente da fare, forse perché lo fece anche in maniera troppo blanda e poco autorevole. Infatti, gli Ebrei vennero massacrati a migliaia in Provenza dove folle inferocite li cercarono, assaltarono e “matarono del tutto” a Carcassone,Narbonne e altrove.
In realtà i primi segni della peste erano comparsi a Messinagià l’anno precedente nell’autunno del 1347, e a catena dalla Galee Genovesi di ritorno da Costantinopoli con nelle stive il bacillo della Peste indossato dai topi, “la moria” si sparse rapidamente interessando l’intera Europa. Gli Ebrei ovviamente non c’entravano nulla.
L’assalto agli Ebrei iniziò comunque nel Ghetto di Tolone nell’aprile dell’anno seguente verso Pasqua, durante i Riti della Settimana Santa. Il quartiere Ebraico venne saccheggiato, dato alle fiamme, e 40 persone fra uomini, donne, vecchi e bambini vennero gratuitamente massacrati ignari nel sonno. Il Governo rimase a guardare, non mosse un muscolo. Anzi, visto che gli Ebrei sotto tortura confessavano i loro misfatti, era palese che dovevano essere considerati colpevoli ... e perciò puniti.
Il fenomeno persecutorio si diffuse in breve a macchia d’olio: Hyeres, Riez, Digne, Manosque, Forcalquier e fino a La Baume dove in maggio tutti gli Ebrei vennero sterminati eccetto uno solo che si trovava casualmente fuori città.

E siamo al dunque: fra metà settembre e l’inizio di ottobre un gruppo di dodici Ebrei fra cui undici uomini e una donna confessarono sotto tortura presso il Castello di Chillon. Tutti costoro abitavano a Villeneuvepresso il Lago Lemano e avevano ammesso dopo una certa resistenza la loro colpevolezza descrivendo con abbondanza di particolari la cospirazione a cui avevano preso parte per spargere la Peste in giro per tutta l’Europa. L’ispiratore di tutto era stato il Chirurgo Balavigny abitante a Thononche a sua volta aveva ricevuto il veleno da un Ebreo di Toledo insieme con una lettera d’istruzioni preparata da un Maestro della Legge Ebraica. Lettere analoghe erano state spedite anche agli Ebrei di Evian, Montreaux, Vevey e Saint Moritz e di altri paesi e città.

Ed eccoci qua ! … Una di quelle lettere fu data anche al Mercante di Seta Agimetcon l’incarico di spargere il veleno anche a Venezia dove si recava spesso per affari come in Calabria e Puglia. 

Ecco chi era stato il colpevole della Peste di Venezia del 1348 !

Gli imputati descrissero anche le polveri dei veleni che erano rosse o nere, contenute in sacchetti di cuoio o di pelle o dentro a imbuti di carta. Era sufficiente solo una piccola quantità di polvere per scatenare “la moria”, bastava: “una noce, un uovo, un pugnetto” e si sarebbe inquinato un luogo, una fontana, o una città intera.

Il Castellano di Chillon si preoccupò d’informare con un documento scritto le autorità superiori diStrasburgo precisando che “nell’impresa criminale” erano coinvolti tutti gli Ebrei complici di Lebbrosi e di Bande contadinesche di finti Pastorelli, e anche bambini di appena sette anni apparentemente innocenti, nonchè diversi Cristiani che erano stati scoperti, adeguatamente puniti e mandati al rogo.
A seguito di queste informazioni autorevoli, in decine di città lungo il Reno fra cui Magonza, Strasburgo e Basilea, nella Germania Centrale e Orientale: Breslavia, Francoforte, Eifurtebbe iniziò una violentissima caccia all’uomo, anzi: “caccia all’Ebreo” con roghi e stragi. Inutilmente qualche voce sparuta provò a richiamare: “…al buon senso, alla ragione e alla discrezione cercando di non dare credito alle dicerie popolari …”

Duemila Ebrei vennero uccisi … compreso “il malefico artefice della Peste di Venezia del 1348”.

“Giustizia fu fatta !” si disse in giro per tutta l’Europa e forse anche a Venezia.

Che grande squallore in realtà ! … ma questa fu la Storia.




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