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“LA PESTE "IN GITA" DA VENEZIA A CAPODISTRIA … NEL 1630.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 126.

“LA PESTE "IN GITA" DA VENEZIA A CAPODISTRIA … NEL 1630.”

Nel 1630 Capodistria e Venezia divennero quasi del tutto simili, anche nel modo in cui si pregava dentro alle loro chiese: “A Peste, fame et bello libera nos Domine” (Liberaci o Signore dal flagello della Peste, della fame e della Guerra). La Peste infatti s’era affacciata anche lì oltre l’arco marino dell’Adriatico, e sembra sia stata portata proprio da Venezia … sempre per quella fame insaziabile dei Veneziani di andare e venire a Mercatare ovunque … anche con la Peste indosso.
Detto da qualcuno in maniera forse un po’ banale: “… fu come se la Peste fosse andata in gita portando se stessa dentro alla Galee da Mercato dei Veneziani … quasi come regalo insolito messo accanto ai beni coi quali la Serenissima s’era fatta grande ormai da secoli.”
Capodistria (oggi Koper in Slovenia) era un’isola costiera dell’Istria Occidentale, una cittadina divenuta Veneziana fino al midollo. Caput-Istriae era di fatto un porto e base militare di Venezia affacciato sull’Adriatico, utile anche per le sue Saline che sorgevano giusto fuori della città nello specchio lagunare di Valstagnon o Stagnòn(oggi non esistono più in quanto sono state interrate unendo Capodistria alla terraferma)
All’inizio Capodistria non s’era lasciata sottomettere docilmente dalla Serenissima perché nel 1145 fu proprio lei a rivendicare l’autonomia dell’Istria capeggiando la resistenza anche delle città vicine … ma fu tutto inutile perché alla fine dovettero capitolare nel 1279 diventando il Regimento Veneziano di Capodistria.
A dire il vero, la fine dell’indipendenza di Capodistria era già stata annunciata e decretata da un pezzo, perché già quarant’anni prima Capodistria era finita sotto il controllo diretto del Patriarca di Aquileia.
Inizialmente Capodistria si chiamava: Aegida ed era passata sotto l’influsso dei Bizzantini ospitando in seguito i profughi Romani in fuga da Trieste invasa dai Longobardi. In onore dell'imperatore romano d'Oriente Giustiniano II s’era ribattezzata come Giustinopoli, ma alla fine prevalse l’altro nome latino molto più semplice e pratico che la identificò come: Capris, Caprea, Isola delle Capre o Caprista ossia terra di capre dell’Istria: Capridistria.
Buona o no che sia l’etimologia del nome, alla fine del 700 Capodistria passò in mano ai Franchi, e già nel secolo seguente iniziò i primi approcci e commerci con la neonata Venezia pur rimanendo “città imperiale” come confermato ancora da Corrado II nel 1035.

Fu però Venezia ad allungare lo zampino fino a marchiare in maniera indelebile la Storia di Capodistria, perché in un certo senso la città visse un’intensa “figliolanza della Serenissima” che la portò a imitare, quasi “scimmiottare”in tutto e per tutto, i modi, le cadenze, le tradizioni, l’organizzazione che ostentava Venezia appena al di là del mare. Capodistria divenne una specie di Venezietta Istriana perché si addobbò di chiese e palazzi in stile gotico Veneziano (Palazzo Pretorio), adottò l’uso dei soprannomi come si costumava nelle isole della Laguna di Venezia, ospitò diverse comunità di Frati, Monaci e Monache, si organizzò e distinse nei ceti sociali dei Nobili e Mercanti che si radunavano sotto alla Loggia cittadina, fondò diverse Schole d’Arte, Devozione, Carità e Mestiere dette anche “Le Pie”, si fece governare da un Maggior Consiglio come a Venezia dove sedevano i Nobili più ricchi e potenti ricoprendo le cariche di: Cancelliere, Notaio, Avogador e Auditore da Comun, Provveditore e Sindaci di Terraferma... tutto esattamente come si faceva a Venezia.

Infatti era la Serenissima che comandava a Capodistria perché sopra al Consiglio governava con leggi e Magistrature molto simili se non uguali a quelle Veneziane il Podestà e Capitanio scelto e inviato dalla Repubblica Lagunare che stava oltremare. Perfino la nomina del Medico di città fu di pertinenza diretta di Venezia fino al 1452 quando il Maggior Consiglio di Capodistria iniziò a scegliere direttamente “uomini di valore” a cui affidare la “condotta medica, la polizia sanitaria, nonché la visita dei detenuti e l’assistenza dopo la tortura da parte del Tribunale”… Ma chi scelse e nominò ? … quasi sempre Medici formati a Padova, Feltre, Udine e Venezia … chissà perché ?

Sempre come a Venezia, a Capodistria erano attivissimi gli Ebrei.  Lì non esisteva un Ghetto come a Venezia, ma già dal 1386 il Tedesco David Veynar prestò denaro su pegno con regolare contratto notarile lucrando parecchio insieme a Salomon de Crucilach. Dal 1391 al tempo del Podestà e Capitano Michele Contarini, dopo l’allontanamento per motivi politici dei Banchieri Toscani esuli da Firenze, si fecero ufficialmente i primi patti e accordi direttamente con gli Ebrei. Costoro dovevano abitare presso il Castel Musella in Belvedere, in un terreno recintato a loro spese che doveva servire loro anche come cimitero privato, dovevano inoltre portare sul petto: “… una “O” per contrassegno e una cordella zalla larga un digito della grandezza di un pane da quattro denari”, non avevano la facoltà di acquistare case nè di stabilire livelli su beni stabili, ma la città garantiva loro rispetto e protezione anche se prestavano con interessi da usura che andavano dal 12 al 20% se non molto di più.

Gli Ebrei a Capodistria però “funzionavano”perché nel 1416 anche Trieste mandò a comprare denaro presso i Banchi di: Abramo di Libermano, Moisè di Samuele, Samuele di Salomone, Jacob Jiudeo, Abramo da Mestre ed altri ancora.
E ancora nel gennaio 1437 fu la Serenissima stessa nella persona del suo Podestà e Capitano Jacopo Venier a confermare sotto la Loggia Nuova in Piazza a Capodistria l’affidamento della “Condotta del Banco” agli Ebrei Mandulino e Marco, figli di David Veymar dietro il versamento di adeguata tassa.
A seguire accadde tutta un’intensa storia di intrallazzi, prestiti, disdette e rinnovi di fiducia reciproci fra gli Ebrei e Veneziani che videro coinvolti in successione fino all’inizio del 1600 i Podestà-Capitani ossia i Rettori di Capodistria: Zanetto Calba e Bernardo Balbo e Domenico Moro, il Comune di Venezia nella persona del Nobilhomo Lorenzo Minio, e l’Avvocato da Comun di Venezia Delfino Venier.
Solo nel 1608, il Podestà e Capitano di Capodistria autorizzò la costituzione del Sacro Monte di Pietà pubblico limitando di fatto l’attività degli Ebrei che rimasero però presenti e operanti in città fino al 1613.

Come vi dicevo, Capodistria cercava d’essere in tutto e per tutto simile a Venezia: nel 1579 il Vescovo di Verona Agostino Valier che la visitò ne elencò ben 38 fra chiese, cappelle e oratori: “... oltre al  Duomo dell’Assunta col Battistero di San Giovanni Battista risalente al 1100, Capodistria possiede la chiesa di San Giacomo Apostolo il Maggiore, quella di San Basso o Biagio costruita su un luogo dell’antico Ospizio del 1318, la chiesa di Santa Marta dei Frati Cappuccini, la chiesa e Monastero di Sant’Anna degli Osservanti, e il Cenobio Cassinese di San Nicolò d’Oltra fondato dai Monaci Benedettini di San Nicolò del Lido di Venezia ...”

Esistevano inoltre: San Domenico e San Gregorio abbattute con i loro chiostri in epoca napoleonica, Santa Chiara delle Monache Francescane e San Francesco: sede dell’Inquisizione di Capodistria che venne attivata dopo strani discorsi su certi tunnel sotterranei che collegavano fra loro i Monasteri maschili e femminili della città. L’Inquisizione di Capodistria giunse perfino a giudicare come eretico il Padre Guardiano dei Frati Francescani Fra Giulio Moratocostringendolo a ritrattazione e firmare l’atto di pubblica abiura. Nel 1558 fu titolare del Santo Uffizio di Capodistria: Fra Felice Peretta da Montaldo che trent’anni dopo divenne Papa di Roma col nome di Sisto V.

E’ curiosissimo notare che nel 1263, tre anni dopo la fondazione del Convento di San Francesco di Capodistria, fu la Nobildonna Veneziana Aurelia Falier Badessa di San Giacomo in Paludo vicino a Murano, a concedere alla neonata comunità un orto a Capodistria di proprietà del Monastero Lagunare; e l’anno seguente fu il Patriarca d’Aquileia Gregorio a concedere al Convento un altro pezzo di terra per allargare “il Brolo del Convento”.

Ogni chiesa era ricca d’opere d’Arte: fra le tante quella più famosa fu di certo la pala per l’altare della chiesa di Sant’Anna di Capodistria consegnata nell’inverno del 1513 “verso Nadal” da Gian Battista Cima da Conegliano e arricchita da cornici di legno intagliate e dorate da Vittorino da Feltre.
L’opera conservata ancora oggi è composta da 10 dipinti su tavola disposti simmetricamente su tre piani rappresentante tutti i Santi Protettori di Capodistria e una Madonna con Bambino, venne commissionata per conto dei Frati dal Procuratore Alvise Grisoni per il prezzo di 70 ducati. Per darvi un’idea del notevole “giro d’Arte” presente in Capodistria si giunse perfino a congetturare che il famoso pittore Vittore Carpaccio attivo a Venezia fosse nativo della città, e ci si affrettò anche ad individuarne l’abitazione … Era una grossa balla ovviamente.

Inerente alle chiese di Capodistria è interessantissima la figura troppo taciuta e quasi dimentica di Pier Paolo Vergerio Vescovo di Capodistria.

Una personalità di certo singolare non solo perché nato proprio a Capodistria nel 1498, ma soprattutto perché dopo essere diventato Vescovo della stessa Capodistria divenne, invece, Riformatore Protestante e Luterano. Inizialmente Vergerio era uno stimato Teologo e un rinomato Vescovo Cattolico affiliato al Papa di Roma: aveva studiato dal 1517 al 1524 Giurisprudenza a Padova, dove s’era laureato e aveva insegnato. Esercitò con un certo successo l’Avvocatura a Verona, Padova e Venezia, ma dopo la morte precoce della moglie Diana Contarini si diede del tutto alla carriera ecclesiastica.

Nel 1530 accompagnò alla conferenza di Augusta il Legato Papale Lorenzo Campeggi, e tre anni dopo venne inviato come Nunzio Papale presso il Re Ferdinando I di Germaniaritrovandosi nel bel mezzo della contrapposizione storica fra Protestanti e Cattolici. A Wittenberg conobbe e frequentò di persona Martin Lutero tentando inutilmente di farlo ricredere sulle sue posizioni anti Papali e anti Cattoliche. Il Papa Paolo III nonostante l’insuccesso e la non riconciliazione con Lutero lo nominò prima vescovo di Modruš in Croazia e poi Vescovo di Capodistria. Dieci anni dopo Vergerio continuò la sua febbrile attività diplomatica a favore della Chiesa Cattolica andando al seguito del Cardinale Ippolito in Francia, e in seguito andando come rappresentante del Re Francesco I di Francia alla Conferenza religiosa di Ratisbona in Germania dove scrisse anche il trattato: “De unitate et pace ecclesiae”.
Alla fine, forse per invidia, venne imputato da molti, soprattutto dal Cardinale Gasparo Contarini, d’essere troppo accondiscendente con i Protestanti. Allora Vergerio si ritirò dalla carriera di rappresentanza e se ne tornò a studiare a Capodistria dove però giunse alla fine a sposare apertamente le idee della causa Protestante insieme a suo fratello Gianbattista Vescovo di Pola.

Figuriamoci il Papa e l’Inquisizione ! … Andarono fuori di testa di fronte alle “posizioni inquietanti” di quel Vescovo di Capodistria.

Fra 1536 e 1539 a Capodistria accadde un episodio curiosissimo che forse fece perdere del tutto la pazienza all’Inquisizione scatenandola contro Vergerio. Durante una sua visita alla chiesa di Sant’Anna di Capodistria, Vergerio trovò un letto sospeso a mezz’aria appeso al soffitto della chiesa in onore di Sant’Anna protettrice delle partorienti e anche dai pericoli delle onde e delle punture nocive dei pesci velenosi. Vergerio fece togliere immediatamente quel “profano quanto inutile letto sospeso” suscitando lo sdegno di gran parte dei Frati Osservanti e di gran parte della popolazione molto devota a Sant’Anna ... perciò scattò la denuncia all’Inquisizione che probabilmente non aspettava altro.

Vergerio venne subito indagato e inquisito dal Santo Uffizio dell’Inquisizione di Venezia che provvide anche ad arrestarlo e sottoporlo “ad attento esame” prima di rilasciarlo. Nel frattempo, approfittando del fatto che non era stato formalmente assolto del tutto dall’Inquisizione, il Cardinale Marcello Cervini(futuro Papa Marcello II) lo escluse dalla partecipazione al Concilio di Trento che Vergerio aveva a lungo preparato.

Poi accadde una sorta d’escalation degli avvenimenti: Vergerio da una parte assunse via via toni sempre più Antiromani e Antipapali, mentre dall’altra parte l’Inquisizione e la Chiesa tradizionalmente sempre molto disponibili duttili, accoglienti, dialogici e concilianti (per niente), giunsero a minacciarlo apertamente col Nunzio Apostolico di Venezia Giovanni Della Casa: “se non ti allineerai alla posizione ufficiale della Dottrina Ecclesiastica … Ti faremo fare la fine di Spiera”.

Francesco Spiera era stato un eclettico Giurista e Avvocato di Cittadella(Padova) con 11 figli a carico, che era diventato a sua volta Protestante terminando tragicamente la sua vita. Visto che negava l’esistenza del Purgatorio, il Culto dei Santi, i Giubilei, le Indulgenze, le Reliquie, l'autorità del Papa e soprattutto la Giustificazione mediante le opere oltre che con la sola Fede, venne denunciato col nipoteBartolomeo Facio per Luteranismo e processato a Venezia nel maggio 1548.

Nel giugno seguente venne condannato a pagare una multa salatissima, ad ordinare una Messa da celebrarsi nella festa del Corpus Domini, e soprattutto venne costretto ad abiurare solennemente le sue convinzioni prima nella Basilica di San Marco davanti allo stesso Legato Pontificio Giovanni Della Casa, e in luglio nel Duomo di Cittadella. Tutto ciò lo mandò in profonda depressione, in “Melancolia”,fino a lasciarsi morire, e questo Vergerio l’aveva visto di persona.

“… di poter rihavere et ricuperare i doni che mi sono stati tolti, ma non è in mia libertà di potergli ricuperare. Dio me gl'ha tolti in pena del peccato ... et so et sento che non me gli vuol restituire, et già mi ha dannato, et già sento le pene dell'inferno…”  lo sentì dire Vergerio. “… Non crediate che lo esser christiano sia una cosuccia leggier, et che consista in esser battezzato et andar a sollazzo, et in legger un poco dell'Evangelio, et in tener una certa via mescolata et intricata, la quale partecipi un poco di questo et un poco di quello, chi vuole esser christiano bisogna che si pensi esser una cosa robusta et salda, una cosa netta e schietta, semplice et aperta.”

Vergerio quindi non ebbe altra scelta che fuggire dal Tribunale dell’Inquisizione di Venezia e Capodistria andando a Sondrio e Chiavenna in Valtellinaossia nei Grigioni Svizzeri. Lì a Vicosoprano in Val Bregaglia divenne Pastore Protestante e polemista, a Poschiavo presso lo stampatore Dolfino Landolfi pubblicò nel 1549 un Catechismo: “Institutione Christiana”,e a Basileai “Dodici trattatelli” o le “Otto difensioni” dove riassumeva la sua posizione teologico-dogmatica.

L’Inquisizione di Roma, Venezia e Capodistria risposero avvelenando a morte suo fratello, processandolo in contumacia, deponendolo dalla carica di Vescovo Cattolico, proibendogli di partecipare alla Conferenza di Poissy e al Concilio di Trento, lo dichiarò eretico condannando apertamente le sue 34 tesi, e ordinò di arrestarlo appena possibile ovunque si trovasse.
Vergerio salvò la vita girando più che potè alla larga dall’Inquisizione: si recò in Germania, viaggiò in Austria e Polonia contattando e interagendo con i Protestanti della Slovenia, della Croazia e della stessa Istria.
Fu quindi un personaggio singolare di Capodistria da non dimenticare.

In epoca più tarda si giunse a contare all’interno delle mura di Capodistria fino a 40 Confraternite oltre alle chiese soprattutto monastiche. (Ancora nel recente 2006 erano presenti e attive in città 16 fra chiese, cappelle e oratori e dei 6 Conventi di un tempo oggi è abitato solo quello di Sant’Anna gestito con la chiesa omonima dai Frati Francescani.)

Le Schole di Capodistria erano numerosissime con i Confratelli che vestivano cappe diversamente colorate, e portavano in processione preziosi fanò”, “segnali”, “stelle”, “selòstri” di legno intarsiato e dorato, e pennelli”di grande valore artistico. Altrettanto numerose erano le Schole anche nel Capodistriano: non meno di 106, tutte con bilancio in pareggio o addirittura in attivo, mentre quelle della città di Capodistria erano quasi tutte indebitate col Conte Michele Totto che concedeva prestiti a tutte con interessi davvero rilevanti.

Ancora nel 1797 l’elenco delle Confraternite di Capodistriacomprendeva 17 “Aggregazioni Pie” alcune delle quali (6) ancora attive nel 1945:
  • Pio Ospitale di San Nazario e dell’omonima Confraternita di San Nazario.
  • Confraternita di Sant’Antonio Abate abbinata al Pio Ospitale omonimo fondato dal Vescovo Corrado nel 1262, e completamente in decadenza e abbandono nel 1454 quando venne affidato in gestione alla Schola. Si trovava nei pressi del convento di San Domenico nella cui chiesa la Confraternita aveva altare e arche per le sepolture, ed era una delle Schole più importanti e ricche della città perché gestiva beni, case, vigne, prati, saline, magazzini, lasciti e legati testamentari, denaro liquido e prestiti (concessi anche al Pio Monte di Pietà). E’ rimasta in vita e attiva fino alla soppressione napoleonica del 1806.
  • Confraternita del Santissimo Sacramento o Arciconfraternita del Corpo dei Nobili.
  • Confraternita di Sant’Andrea dei Pescatorifondata il 12 dicembre 1574 nella chiesa di Sant’Anna da “ventuno boni homeni”pescatori di Bossedraga riuniti in Capitolo Generale. I Pescatori di Capodistria si spingevano a pescare fino al di là dell’Adriatico andando a litigare per l’uso delle acque marine perfino con i pescatori di Chioggia.
  • Confraternita di San Nicolò dei Marinai.
  • Confraternita di Santa Maria Nova presso il Collegio Cittadino.
  • Confraternita di San Cristoforo e Santa Barbara del Corpo dei Bombardieri di Capodistria.
  • Confraternita della Beata Vergine della Rotonda.
  • Confraternita di San Giacomo.
  • Confraternita della Santa Croce
  • Confraternita di San Sebastiano.
  • Confraternita di San Francesco.
  • Confraternita del Santissimo Nome di Gesù
  • Confraternita di San Tommaso.
  • Confraternita della Beata Vergine del Carmine.
  • Confraternita dell’Immacolata Concezione.
  • Confraternita della Beata Vergine del Rosario.

A favore di una di queste non specificata esisteva una contribuzione versata dalla Camera Fiscale per l’assistenza prestata ai quattro condannati ad esecuzione capitale.
Inoltre in città esisteva anche un Ospitale di San Marco” che forniva alloggio gratuito a un piccolo numero di “femmine vergognose indigenti”.

Ma torniamo finalmente alla Peste del 1630 …

Capodistria non era affatto insolita ad ospitare epidemie e pestilenze in città. Si potrebbe dire che era quasi abituata a conviverci vista l’alta frequenza con cui veniva visitata dal morbo epidemico: in brevissimo tempo si contarono ben sette Pesti: 1511, 1527, 1553, 1554, 1556, 1573, 1578.
Non a caso il Medico di Capodistria Giovanni de Albertis già nel 1450 fu famoso per aver dissertato sulla peste bubbonica associando la diffusione dell’antico flagello alla presenza dei topi.

Con la Peste del 1553, ad esempio, Capodistria aveva subito una bella batosta: i suoi abitanti da 10.000 s’erano ridotti a soli 4.000 (tornati poi in breve tempo ad essere 5.000).
Nel 1573 altro anno di Peste, invece, il Maggior Consiglio, accogliendo le istanze dei cittadini di Capodistria fece voto pubblico d’erigere nella Cattedrale un suntuoso altare in onore di Santa Marta e Maria Maddalena per impetrarne l’aiuto contro la Peste. Ma la città in condizioni disperate non fu in grado di espletare il voto perché passava continuamente di epidemia in epidemia, perciò anni dopo, nel 1611 al tempo delPodestà e Capitanio Candiano Bollani, il Maggior Consiglio di Capodistria cercò di compensare provando stavolta a fondare una chiesa con un Convento da affidare ai Frati Cappuccini utili per pregare e per dare eventualmente una mano con gli appestati. Ma il tutto nonostante l’acquisto dei terreni e diversi finanziamenti andò un po’ a rilento … e venne un’altra ondata di Peste: quella del 1630.

Le Cronache dell’epoca descrivevano Capodistria come città porto di mare, non certo un bijoux per igiene e pulitezza: “...c’erano scafe e scoli delle Concerie e degli Scorzeri ovunque, vasche e torchi e fornelli da seta, in giro per la città vagavano cavalli e muli che entravano per abbeverarsi nelle fontane e nelle vasche pubbliche e per portare dentro e fuori ogni tipo di merci su carri e carretti di ogni tipo. Per le strade di Capodistria scorrazzavano maiali grufolanti che scavavano i selciati e assalivano i passanti, ovunque c’erano scoli sotterranei, colatoi e gallerie. Si buttavano e riversavano in strada in grandi quantità di acque luride e urine, i contenuti dei mastelli dei tintori, dei lanieri e drappieri e della concia, e si lasciavano gli escrementi ammucchiati in giro per poi usati come fertilizzanti. Ovunque c’erano acque putride, alghe ammuffite, strame e paglia e cose putride e fermentate ... L’aria era ammorbata e piena di esalazione … i gàtoli non erano sufficienti a far defluire quella schifezza sparsa, le donne buttavano per strada i bigatti della lavorazione dei bachi da seta, e i resti dei garùsoli marini mangiati … perciò la peste trovò ambiente ideale per espandersi e diffondersi sempre di più.”

La Peste approdò in Istria provenendo dalla Repubblica Veneta scendendo dalle Galee da Mercato ormeggiate nel Porto. In seguito la Peste superò silenziosa e invisibile la cerchia delle mura attraversando la Porta Maggiore o della Muda … prese poi la via della Ruga di case della Calegaria o Gallegaria: la Contrada dei Calegheri piena di botteghe, mercanzie, magazzini e gente. (a imitazione del nome della principale strada di Costantinopoli).

Il 20 settembre 1630 morì in casa sua a Capodistria Mazzoleni Francesco Genella: “per accidente”, arrivato da poco da Venezia, dove il morbo infuriava già da giugno provocando più di 46.490 morti.
Dieci giorni dopo moriva nella stessa casa la figlia del Mazzoleni, Lauretta, “di malattia fortemente sospetta”, tanto che venne subito ordinata la chiusura della casa. Subito dopo crebbe il numero dei morti in città, per cui il Podestà e Capitano Alvise Gabriel col Collegio della Sanità formato dai Nobilhomeni: Girolamo Zarotti, Almerigo Petronio e Giacomo del Tacco fece un accertamento ispezionando i cadaveri. Vide subito un bubbone sulla coscia dell’Orefice Giovanni Michiel, perciò la diagnosi fu ufficiale: era di certo Peste bubbonica.

Presto si morì a grappoli anche nella promiscuità stretta dei Conventi: morirono diverse Monache Agostiniane e Clarisse, poi fu il turno di 5 Frati Cappuccini, di 4 Santanesi, 2 Padri Domenicani, 3 Terziari di San Gregorio, 1 Padre Servita e del Frate Guardiano del Convento di San Francesco.
Il morbo si diffuse durante l’inverno nel Rione di San Marco ossia di San Martino vicino al Porto, dove alla fine di gennaio 1631 si contarono 44 persone morte. Nel vicino Rione di Porta Maggiore i morti furono 12, a Porta Pusterla: 19, a Porta Ognissanti: 6, a San Tomà: 2. Nel mese di febbraio l’epidemia si diffuse ulteriormente nei Rioni di Porta Brazzòl e di Bossedraga; in marzo la Peste era giunta a Ponte, poi a San Pieri, finché in aprile l’intera città era coinvolta ovunque.
Con l’arrivo del caldo in maggio ci furono altri 188 casi di malattia, in giugno 581 e in agosto ben 716. Un’intera famiglia Del Bello fuggita a rifugiarsi in campagna perì completamente: padre, madre e i 4 figli.

I morti della città vennero sepolti nel prato di Semedella, e si attivò il Lazzarettoa tre miglia fuori dalla città dove si fecero raccogliere gli appestati delle campagne e dei villaggi fino a Muggia.

Solo in agosto la Peste cominciò a perdere virulenza: i morti furono 71, che scesero a 17 in settembre-ottobre e   finalmente soltanto a 4 in novembre quando si rimase in attesa col fiato sospeso.
Tutto venne accuratamente annotato in un Libro iniziato l’8 aprile 1631: “Libro nel quale si notano le case che giornalmente si sequestrano per sospetto, d’ordine degli Ill.mi Sig.ri Prov. et medesimamente si notano tutti quelli che muoiono alla giornata di mal contagioso tenuto per me Domenico Del Bello Canc. del Sindacato”.
Si contarono 1.990 decessi di cui 104 al Lazzaretto su 2.300 persone colpite dal morbo, ossia il 49% dell’intera popolazione di Capodistria di 4.200 Anime.

Il Senato della Serenissima ordinò al Podestà-Capitanio e al Provveditore alla Sanità Nicolò Surian di non abbandonare il luogo, di garantire l’ordine pubblico, di garantire gli approvvigionamenti, di prestare tutti i soccorsi e gli aiuti possibili, e di sgomberare e seppellire i morti. Il Dogedi Venezia inviò a più riprese aiuti economici: prima 600 ducati, poi altri 800, destinando ai soccorsi il ricavato di ogni multa pubblica.
Il 4 aprile 1631, il Maggior Consiglio di Capodistria interpretando il volere comune fece voto solenne … come si faceva anche a Venezia col Redentore e con la Madonna della Salute … di erigere almeno un altare in Duomo chiedendo alla Provvidenza di salvare la città dalla Peste.

Nel frattempo era morto anche il Marmoraro ossia il Tagiapiera, e i marmi messi da parte per quello scopo erano stati impiegati in altra maniera. Il Maggior Consiglio di Capodistria dispose allora nell’agosto 1639 di edificare una chiesetta sul cimitero di Semedella dedicandola alla Madonna delle Grazie. Si diede l’incarico a Mastro Nicolò Carpaccio Murer e al Marangon Pietro Isdrael, e si acquistarono pietre in una cava di Rovigno trasportandole a Capodistria tramite due barcaroli di Pirano. Si commissionò anche una pala d’altare al pittore veneziano Guido Guidotti spendendo 50 ducati usufruendo delle offerte volontarie di Pietro Corte e Carlo de Carloe dei legati testamentari di campi e di vigne lasciati da Caterina vedova Veronese e da Simonella Cocever.

Quella del 1630-1632 per Capodistria fu una Peste davvero drammatica … fu una strage, e la città divenne un luogo fantasma.

Il 17 agosto 1632 il Provveditore Veneto Nicolò Surian relazionò a Venezia: “Finalmente, dopo le continuate incessanti diligenze a fermare il corso al male, piacque al Signor Iddio et alla Beatissima Sua Madre, che ne seguisse la liberatione di quella città nella quale sono stati li morti in tal calamità per la metà et nel suo territorio per il terzo”.

Il Santuarietto della Madonna di Semedella venne consacrata dal Vescovo Pietro Morari con immane festa e grande Processione degli abitanti di Capodistria il 24 aprile 1640. Anche Papa Urbano VIII si affrettò a concedere l’immancabile “l’indulgenza plenaria” legata a chi “visitava piamente il miracoloso Santuario producendo adeguata e dovuta elemosina”.

Passata la Peste, Venezia controllò Capodistria e se la tenne stretta a braccetto fino al suo declino definitivo, ossia il 1797.

Gabriele D'Annunzio saturo di romantiche nostalgie poetiche cantò Capodistria nel suo “Alcyone”:“Settembre, il tuo minor fratello Aprile fioriva le vestigia di San Marco a Capodistria, quando navigammo il patrio mare cui Trieste addenta co' i forti moli per tenace amore.
Capodistria, succiso adriatico fiore!”


Il Santuario e il cimitero di Semedella rimasero in uso fino al 1811 … A Capodistria non tornò più la Peste che forse s’era stancata “d’andare in gita” in giro per il bacino dell’Europa e dell’intero Mediterraneo. Quelli di Capodistria hanno continuato ugualmente per secoli a rivolgersi lì “perpetrando salvezza dai pericoli del Mare e della Terra”. Ancora nel 1944 si continuava ad appendere ex-voto sulle pareti della chiesetta … poi forse qualcosa si è assopito, o forse spento del tutto … come la Peste.


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