Quantcast
Channel: #unacuriositàvenezianapervolta
Viewing all articles
Browse latest Browse all 357

"L'ISOLA DI POVEGLIA "

$
0
0

“UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA”– n° 45.

“POVEGLIA”

Credevo e speravo, visto che in questi giorni l’isola di Poveglia è sulla cresta dell’onda della cronaca per la sua acquisizione, che la maggior parte soprattutto dei Veneziani conoscesse le sue vicende storiche. Alcuni degli esigui lettori del mio nuovo romanzo mi hanno fatto sapere che forse non è così. Infatti, per pura casualità e coincidenza una parte del “Il Tempestario” si richiama proprio alle vicende di Poveglia narrandone alcune di salienti, ovviamente non tutte. E’ con piacere perciò che condivido quanto ho scritto mettendo a disposizione alcune delle cose di cui sono a conoscenza su Poveglia sperando siano per qualcuno l’ennesima “CURIOSITA’ VENEZIANA”. 

 ***
(…) = omissione di parti del romanzo.

 ***
“ (…) Il nome dell’isola  (…)  era stato più volte storpiato dagli uomini (…) La denominarono di volta in volta: Pogli, Pomiglia, Poppea, Poviglia … mentre per tutti i veneziani di sempre era semplicemente: Poveglia o Poveggia nella laguna sud di Venezia, stretta fra larghi bassifondali, secche, barene, ghebi e il canale omonimo di Poveglia, quello che porta all’isola di Santo Spirito, e quello dell’Orfano e di Malamocco, fra il Bacino davanti a Piazza San Marco e il litorale Lidense.
Un’isola nostra, di pochi ettari e quasi abbandonata, anzi, dismessa del tutto dopo (…). Dalle immagini disponibili degli ultimi decenni si poteva notare un’isola selvaggia, piena di spazzatura, rovine e materiali sparsi, anche se una parte era tenuta bene e coltivata da quel vecchio giardiniere custode che la abitava.
“L’isola dei fantasmi !” la chiamava qualcuno nei libri e nel web, per via di una certa sua fama ricorrente, ogni tanto rifomentata e riproposta da qualche visitatore nostalgico e fantasioso.
(…) storia fascinosa di quello “sputo di terra scampato al mare”.
In uno srotolarsi storico efficacissimo, il Tempestarius vide dapprima le notizie più antiche su quel sito fangoso insignificante.
“Xe vero che suppiando la marina,
El sirocco n’ha fato trattegnir
Delle ore a Poveggia e a Pellestrina …”
Recitavano i versi antichi di una vecchia cronaca plurisecolare in riferimento a quel minuscolo frammento emergente in laguna, forse attraversato dal console romano Popilio Lena, che seguiva la Via Emilia diretto ad Aquileia.
(…)
 “L'isola di Poveglia Popiliasi chiamava così forse per la quantità dei pioppi che un tempo la ricoprivano, ed era la nona isola per importanza fra le dodici principali dell’Isolario di Venezia. Fu inizialmente rifugio per le popolazioni della Terraferma che fuggirono da Monselice, Padova ed Este in seguito alle invasioni barbariche fondando il centro lagunare dell’antica Venezia nei pressi di Malamocco. Per due volte fu sgombrata durante la guerra di Malamocco e quella di Chioggia, disabitata e abbandonata trasportando la gente alla Giudecca e nelle contrade di San Trovaso e San Agnese piene di case vuote e con poca gente, e poi ripopolata nuovamente dei suoi abitanti.
Secondo la tradizione l'isola fu occupata da duecento famiglie al servizio del Doge Pietro Tradonico ucciso a sorpresa, eludendo la guardia ducale in campo San Zaccaria, da dei congiurati delle famiglie Candiani, Gradenigo, Falier e Caloprini nascosti in burci di sabbia ormeggiati sulla riva degli Schiavoni. I quasi duecento servi, che lavoravano al servizio del Doge ucciso con le loro famiglie, si barricarono armati per quaranta giorni nel Palazzo Ducale per chiedere giustizia e sistemazione. Il nuovo Doge Orso Partecipazio concesse allora alle famiglie: privilegi, terre arative e da pascolo, valli da pesca e da caccia, e di andare a vivere a Fine di Livenza o occupare l'isola di Poveglia.

Come segno di questa particolare attenzione del Doge nei loro riguardi, i Povegliotti ottennero anche il privilegio di ormeggiarsi al Bucintoro, la barca dogale, il giorno della festa della Sensa, mentre le altre barche lo accompagnavano intorno solo a distanza. In cambio gli isolani lo omaggiavano attraverso il loro Tribuno, Gastaldo Ducale o Podestà, e i sette anziani rappresentanti dell’isola s’inchinavano offrendo per colazione ciascun Giovedì Santo prima di Pasqua alcuni cesti di frutta e di pesce: passere e rombi. Il Doge li ricambiava con un bacio simbolico di pace, e il martedì dopo pasqua offriva a diciassette Povegliotti tramite un suo Cavaliere il “Disnàr honorevole del Doge” regalando: “ … quattro secchi di vino bianco dolce, due libbre di pevere (pepe), e ventiquattro paneti da quattro bagatini l’uno…” Alla fine il Cavaliere riceveva un omaggio di ventisei lirazze da parte del Gastaldo dei Poveggiotti.
Sembra che per un certo tempo l’isola sia divenuta un borgo abitato da ottocento persone con un castello, e vigne e saline intorno. Nell’isola esisteva la chiesa di San Vitale arricchita nel tempo di bellissimi altari di marmo, di uno splendido pavimento, di tante opere d’arte e dipinti alle pareti, e dall’organo. Il suo Piovano riscuoteva: “Ova e galline e parecchi diritti su valli da pesca e da caccia direttamente dall’Arciprete Vescovo di Malamocco”.
In una certa epoca, quando si eleggeva un nuovo Doge questi donava alla barca dei Poveggiotti: dodici scudi d’argento e quaranta pani con dodici secchi di vino.

I Povegliotti erano gente fiera e rissosa tanto che ogni tanto se ne doveva rinchiudere qualcuno, ma erano anche attivissimi nel difendere i lidi veneziani, tanto da ricevere privilegi, esenzioni da tasse e dazi, dai servizi militari, e dal remare nelle galee. Si costruirono anche un Ottagono e un Forte di difesa accanto all’isola e al canale di Mandracchio collegandolo con un ponte levatoio di legno.Gli isolani di Poveglia potevano condurre e accompagnare in laguna le galee e le navi che entravano dalla bocca di porto di Malamocco, rifornendole di viveri, ancore, e cordami. Le famiglie di pescatori e salinatori Povegliotti dei: Musso, Boyso e Barbalongolo possedevano attività e interessi fino a Chioggia e a Pellestrina, e i pescatori di Poveglia che avevano più di sessant’anni d’età avevano il diritto di comperare a un prezzo stabilito tutto il pesce proveniente dall’Istria e venderlo nel pubblico mercato di San Marco.

Si andava dicendo che i Povegliotti vivevano più di cento anni a causa dell’aria salubre e del vento che soffiava sempre sull’isola purificandola dall’umidità e dalla presenza dei morbi di qualsiasi malattia. Un Povegliotto giurava di avere più di cento e dieci anni.
Col passare dei secoli e le modifiche idrodinamiche della laguna, l'isola vide diminuire di molto la sua superficie a causa dell’erosione“riducendosi a cinquecento passi di giro”. Subì la violenza di “…un potente uragano sciroccale, procella terribile che sommerse le isole della laguna con somma altezza di acque di mare e fece salire l’acqua a venti piedi distruggendo vascelli, uccidendo molte persone, e procurando danni per un milione di zecchini…” Inoltre, nei secoli alcuni terremoti danneggiarono gravemente le arginature e i lidi.

L’isola di Poveglia divenne in seguito una caserma per soldati, e un fornito ed efficiente cantiere navale della Serenissima con tanto di magazzini e Tesa per calafatare le navi.
Durante la peste l’isola rimase con sole otto persone, e si tentò senza successo di attirarvi l'Ordine dei monaci Camaldolesi per costruirvi un convento eremitaggio. Era stato il Papa Clemente VII a dirottare i monaci sopra a un monte vicino a Roma.

“Perché favorire quella reproba Venezia infedele ed eretica punita da Dio con la peste ? ”
L’isola fu allora trasformata in luogo di quarantena per navi, sospetti, e merci provenienti dal Levante e da luoghi infetti, che gettavano l’ancora nei vicini canali di Fisolo e Spignòn. Nell’isola circondata da barche armate si eressero alcuni caselli in legno:

“ … per gli infetti e le robbe da spurgare: colli di mercanzie, balle di cotone, telerie, pezze, mazzi e colli di seta, sciali di cascimir, manufatti di valore, sementi, granaglie, lame di ferro alla rinfusa, mucchi di denaro, monete d’oro, cassette di perle fine...”
E si costruirono anche altri catapecchi per i guardiani d’ispezione, custodi, militari, e per i “… bastazi impegnati nell’espurgo e maneggio delle mercanzie e nell’estrazione dell’insuscettibili …” Mercanzie e passeggeri si mandavano, invece, con barche e peate scortate dai Fanti del Magistrato alla vicina isola del Lazzaretto Nuovo.
Poveglia era anche l’isola del “Cristo miracoloso” che attirava “Grande concorso di devoti, soprattutto in certi momenti dell’anno in cui si celebravano speciali ricorrenze … Ogni volta che i bastimenti passavano accanto all’isola salutavano il Crocifisso del Santuario di Poveglia sparando numerosi colpi di cannone …”

Nel milleseicento nell’isola di Poveglia era vissuta per un lungo tempo la monaca Angela Poveggiotta, che entrata come conversa in un monastero della città era stata cacciata perché irrimediabilmente affetta da crisi frequenti di malcaduco.
In realtà la sua era melanconia e noia di vivere che lei combatteva e sfogava facendosi prendere dall’ansia, dal pianto continuo di un’inguaribile insoddisfazione, e dalle convulsioni che l’affliggevano fin nel cuore della notte, e anche quando si trovava in meditazione nel coro delle monache. Un frate confessore esperto, chiamato a valutarla finì col definirla malata, o meglio “ispiritata e indemoniata”, perciò il Capitolo e la Badessa delle monache finirono col rimetterla in strada e rispedirla nella sua isola di provenienza.
La donna, nel frattempo divenuta monaca di un altro Ordine, che la cacciò ugualmente, ritornò a vivere nella casa di sua sorella a Poveglia, e la si sentiva cantare spesso ad alta voce nelle stanze più nascoste dell’isola come se si trovasse in chiesa. Quando morì carica di anni, si diceva che il suo fantasma continuasse a vagare per le stradine e le stanze delle casupole dell’isola, e che in certe notti chiare di Luna fosse possibile vederla passare canticchiando con occhi infuocati come di brace, e il lungo vestito bianco da monaca Si diceva anche che era meglio per chiunque evitare di chiamarla e incontrarla perché avrebbe potuto comunicare a chi le parlava quel male che si portava dentro.

Per molto tempo Poveglia fu considerato un “Porto della salute”. Nei pressi dell’isola si continuava a mettere alla fonda le navi sospette: una “Santo Stefano” polacca ottomana guidata dal capitano Demetrio Cocavi proveniente da Smirne, Ipsara e Scio; la “Bella Sultana” turca proveniente da Scutari; il brigantino inglese “Sir Thomas Meithland” respinto da Malta e dai porti pontifici, capitanato da Stefano Vulovich ammalatosi di carbonchio al petto e morto in navigazione assieme al direttore: Metto PIacinich morto di peste. Il nostromo di bordo aveva inchiodato le porte delle camera con tutti gli effetti personali dentro fino a Poveglia dove tutto fu spurgato e risanato; i brigantini austriaci “Palimir”, “Giunone” e “Apollo” dei Capitani Scopinich e Prospero Marangunich giunto da Alessandria d’Egitto dove c’era la peste. I marinai s’ammalava con bubboni e morivano entro pochi giorni, alcuni si gettavano ad annegare in mare per la disperazione, altri giunti allo spurgo di Poveglia, si ristabilirono fino a guarire. Subito dopo Poveglia ospitò settecentodue bastimenti in contumacia durante la diffusione del colera a Odessa, Tangarock, Alessandria, Costantinopoli, Smirne, Londra, Groenoch, Jaffa, Beirut e altri posti. Alcune navi che arrivavano scortate da navi da guerra avevano per davvero il colera a bordo, e ci furono ancora una volta: ammalati, morti e guarigioni.
A Poveglia sbarcò anche un arabo con alcune capre e la giraffa che il Viceré d’Egitto regalò a Francesco I d’Austria. In molti accorsero a visitare l’isola e per un certo tempo a Venezia si vestiva “alla moda della giraffa” prima che il povero animale finisse a morire a Vienna.

Durante gli ultimi conflitti mondiali Poveglia divenne una Batteria armata con quattro cannoni antiaereo. Alcuni bombardieri tedeschi attaccarono più volte, incendiarono e distrussero vicino all’isola di Poveglia il transatlantico “Conte di Savoia” che finì di bruciare completamente agli Alberoni.
Dopo l’epoca delle pesti e dei grandi contagi l’isola rimase un complesso sanitario di convalescenza e cronicario casa di riposo. Si raccontava di malati psichiatrici curati con cure non ortodosse, di persone che dicevano di continuare a vedere gli spiriti degli antichi appestati e della monaca Angela Poveggiotta. Perfino un direttore dell'ospedale si suicidò buttandosi dalla torre del campanile convinto d’essere inseguito da uno di loro. Alla fine, l’isola rimase abitata solo dalla famiglia di un ortolano e da quella dell’oste, meno di una decina di persone in tutto. Fu demolita la chiesa di San Vitale dove da tempo non si celebrava più nessuna Messa, e il campanile divenne un faro per la navigazione. Poveglia fu utilizzata come terreno agricolo che alla fine della fine rimase in mano ad un unico guardiano ortolano (…).”

(…)

Ultimamente l’isola era divisa da un canale largo alcuni metri che divideva la parte verde coltivabile di orti e vigne da quella degli edifici con la ex casa del Direttore, del Cappellano, e della famiglia dell’ortolano e dell’oste. Un altro canale più piccolo largo pochi metri sulla parte delle abitazioni era quasi interrato, a volte in secca. Un tempo erano dei veri e propri confini che distinguevano fra malati e sani, fra vivi e destinati alla morte di peste. 

Vista da lontano, Poveglia sembrava appoggiata su di un magico vassoio a specchio, come sospesa fra acque e cielo. Solo il riflesso ondeggiante del campanile e delle sagome degli alberi e degli edifici diruti sull’acqua diceva che esisteva per davvero e non era un miraggio. Su quel quadro immoto, (…) vide scorrere piano in alto le nuvole rincorrendosi, sovrapponendosi in mille giochi cangianti. Di sotto vide l’acqua muoversi lentamente, sembrava quasi non volesse disturbare. La vide ripetere i disegni del cielo, sovrapporsi alle ombre del fondo variegato, mentre mille tonalità di grigio e azzurro coloravano l’intera scena. Quando faceva capolino il sole fra le nuvole, allora le tonalità si alteravano, si vivacizzavano e viravano verso chiarori e colori più tenui come tratti da un mazzo di pastelli invisibili.

(…) osservò alberi esuberanti e non più potati, dalle chiome ampie e frondose, platani, robinie, acacie, cipressi. Ovunque vide: erbacce, rovi, arbusti, rampicanti, tutta la possibile gamma di piante selvatiche che possono crescere incontrastate aggrovigliandosi a casaccio fra loro, contendendosi luce, acqua e nutrienti. Sopra, dentro e sotto avvertì vibrare, strisciare e volare un altrettanto abbondante massa d’insetti liberi e variopinti, che dominavano l’aria dell’intera isola, incontrastati, a nugoli talmente numerosi che a volte oscuravano l’aria, come formando tenui veli di nebbia.
In un angolo dell’isola il Tempestarius notò che spuntavano dall’acqua le tozze mura in pietra dell’Ottagono, ultimamente spianato e liberato dall’erba ad opera di qualche volontario volonteroso. Su una riva si alzava ancora il becco ad ibis di una vecchia gru rugginosa, saldamente piantata su di un massiccio blocco di cemento. Un tempo pescava su dalla laguna con doppia ruota di manovra: un gioiellino per l’epoca. Una lunga catena di ferro a larghi e robusti anelli scendeva ancora dalla carrucola in alto fino ad immergersi a pescare nel fango, dove da tempo immemore, nessuno l’ha più tratta. Vide anche che accanto a una delle punte estreme dell’isola si innalzava ancora un esile fanaletto posto sopra un altrettanto fragile balaustra in pietra d’Istria, che un tempo contornava quasi tutta l’isola, come un vezzo di semplice eleganza.
Un buco per terra ricordava, invece, il posto in cui si trovava sommersa dal verde selvaggio invadente di edere e rovi una vera da pozzo rubata. Era stata trasformata in fontanone con inciso un vistoso leone marciano ad ali spiegate e ampia criniera, col libro aperto in segno di pace e non di guerra per Venezia. Tutto intorno erano stati scolpiti gli stemmi dei magistrati veneziani in carica in quel periodo.
Accanto, (…) osservò altre buche a volte profonde, lasciate scoperte. Qualche volta si trattava di vecchie tombe profanate, scoperchiate e svuotate, altre volte erano invece vecchi scoli, fossi e discariche di rifiuti riempite d’acqua piovana e stagnante. Sul tetto delle case abbandonate, sulla torre dell’acquedotto, e sul largo fumaiolo di una ciminiera conica stremata verso l’alto, vide (…).

Le finestre arcuate contornate di pietra bianca del campanile e i quattro occhi dei quadranti dell’antico orologio erano stati tutti murati per garantire maggior stabilità a quel che restava dell’antica torre, mentre la cuspide a cono era stata rattoppata in più punti con tiranti e rinforzi in pietra.
In un altro angolo dell’isola, poco discosto da un gabbiotto in pietra e cemento su cui stava infisso una specie di faro per segnalare la posizione dell’isola nei giorni di nebbia, (…) notò che sorgeva ancora la bassa costruzione piramidale in pietra e marmo di una delle vecchie polveriere della Serenissima.
L’isola di Poveglia era contornata da una serie di pali e bricole che segnalavano le secche, gli approdi più o meno sommersi e distrutti, e i canali ancora navigabili. A certe ore del giorno, quando l’acqua era più bassa, spuntavano mozziconi di palo ritti e obliqui, ricoperti da pendule e grondanti alghe verdi continuamente sommerse, avvolte e flagellate dalle onde sollevate dalle barche di passaggio. Dalle rive sfondate e franose, o scivolate giù in acqua spuntavano altri pali di vecchie condotte dell’acqua potabile, della corrente elettrica e del telefono ormai inutili e strappati. Qualcuno aveva sparato come a un bersaglio al caratteristico pallone nero posto in cima a un pilone semi divelto. Gran parte dell’isola era contornata come una cornice da un alto bordo obliquo in pietra traforato da tante strette finestrelle come postazioni di difesa che impedivano alle acque di corrodere e mangiarsi pezzo dopo pezzo quel che restava della terra emersa cancellandola.

(…) fra i meandri dell’isola, ed entrò negli interni cadenti dove l’isola mostrava la sua parte più intima. Osservò che sopravviveva un ampio stanzone con due grandi vasche doppie in pietra chiara con tavolazzi in marmo dove si lavava la biancheria. In un angolo permaneva rovesciata una rugginosa carrozzina a tre ruote con la guida davanti, abbandonata e inzozzata. Ovunque in un mare di pattume e mucchi di foglie marcite portate dentro e fuori dal vento attraverso le finestre sfondate prive di vetri e d’infissi, s’arrampicava e pendeva una selva di tubi, rubinetti, manopole e robusti raccordi che fuoriuscivano da grossi serbatoi vuoti che raccoglievano acqua. Una vecchia lampada di metallo a pera, penzolava scoppiata dal soffitto, e dondolava appena mossa dal vento. I muri dipinti di chiaro fino a mezza altezza grondavano umidità che s’allargava dappertutto in larghe chiazze scure fino al soffitto. Da ogni parte: crepe numerose, calcinacci e tracce di malte applicate in strati successivi per rimediare a buchi dei muri mai chiusi per sempre. La parte inferiore dei muri, invece, era quasi dappertutto dipinta di scuro quasi a voler nascondere sporco e untume spalmato ovunque. Un portellone di ferro di mezzo metro chiudeva una cassa di controllo elettrico incassata nel muro mezza fulminata di nero. Era chiusa a chiave, inapribile e bloccata, e mazzi di vecchi cavi elettrici volanti penzolavano da ogni parte legati precariamente sui tubi e sui muri, o appesi a grossi chiodi storti.
Un’alta e larga finestra opaca sporchissima posta accanto al soffitto illuminava lo stanzone di luce soffusa tetra. Comunicante con la lavanderia sorgeva uno stretto loghetto di disbrigo. Sopra l’andito d’accesso senza porta stava infissa una lampada in plastica bianca lunga e stretta, un finestrello altrettanto stretto illuminava il posto da un lato. Il pavimento era tutto occupato da una vasta chiazza di calcinacci, intonaci e pezzi di canne, il soffitto era crollato, e c’erano ammucchiati alla rinfusa ciarpami vari, stracci marci e puzzolenti, pezzi di legno divelti e spezzati, appuntiti e pieni di schegge e chiodi. Su tutto troneggiava una grossa tanica in plastica alta un metro e mezzo, scura, annerita, unta e bisunta, probabilmente usata per portare combustibile o olio da macchina. Un lato intero dello sgabuzzino era occupato da una serie di tavoli impilati l’uno sull’altro, scrostati, marci e mangiati dai tarli. Avevano perso qualche zampa e sostenevano un armadietto alto e stretto con un portellino davanti. A ridosso di questo, posta in piedi ma sghemba di lato, stava una rozza bara in legno nero col coperchio ornato da una croce gotica bianca tutta scrostata. Accanto ad essa c’era la rete di un letto in legno e metallo, un altro armadio sfondato più capiente, un mucchio di mattoni, resti di casse di legno, bottiglie di vetro chiaro o scuro intere o spezzate, in piedi o rovesciate. Anche qui dentro i tubi s’arrampicano dappertutto entrando e fuoriuscendo dai muri. Appoggiata in un angolo, stava riposta quasi ordinatamente una robusta grata in ferro battuto, costruita a curiosa raggiera divelta da una finestra. Sembrava la ruota di guida e manovra di un vecchio battello o la tela geometrica di un vecchio ragno. Di fronte, totalmente brunita dalla ruggine e coperta da uno spesso strato di polvere, c’era una tozza scaffalatura a quattro ripiani, inchiodata al muro. Sopra uno dei ripiani sussisteva ancora un piccolo marchingegno di metallo d’uso incomprensibile, tutto manici, giunti e tozzi pulsanti. Una grossa leva col manico di legno gli spuntava da un fianco. Chissà a cosa serviva … (…) quel mondo “scoppiato” e distrutto (…) comunicava un senso di pregnante vissuto trascorso.

La sentiva quasi ancora pulsare quell’isola morta.

Vide ancora che la parte più bassa dell’isola sul bagnasciuga era invasa da ciottoli, alghe e fango, dove si arrampicavano in continuità animaletti e crostacei che gli uccelli s’avventuravano a beccare, mentre sui ruderi e sui muri s’intravedevano fuggevoli lucertole che si rosolavano al sole. Ogni tanto vide passare qualche grosso ratto frettoloso, che nuotava e scompariva infilandosi frettolosamente in buche e tane nascoste. Osservò l’acqua della marea salire e scendere schiaffeggiando tutta l’isola, e le onde arrivare di corsa schiumando ed esplodendo, sbattendo, sfaldarsi sulle rive coprendole, bagnandole e riscoprendole di nuovo in un gioco senza fine che veniva incrementato col passaggio delle veloci barche a motore…”


Tratto dal capitolo 20 del: “IL TEMPESTARIO” di Stefano Dei Rossi – Venezia 2014 – www.webalice.it/stedrs


Viewing all articles
Browse latest Browse all 357

Trending Articles