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Povere de Palàsso Ducal … Poveri al Pèvare, Poveri al Passo.

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Povere de Palàsso Ducal … Poveri al Pèvare, Poveri al Passo.

Secondo quanto raccontano certe Cronache Veneziane non antichissime, le “Poverette de Palàsso” erano dodici donne … tutte attempate. Stavano là per via di un particolare privilegio del Doge che aveva concesso loro il diritto“di stendere ad altrui la mano anche dentro a Palazzo Ducal”. Si trattava quindi di questuanti che in qualche modo e per qualche perché nascosto” erano state privilegiate.

Le stesse Cronache continuano a descriverle: “Per la frequenza dunque del Popolo, ma ben più per la conoscenza de vecchi Patroni, e per quella illimitata di qualsivoglia mena del mondo (erano femmine più scaltrite di uno Zingaro) quotidianamente le saccocce loro empivansi di danari a ribocco, di guisa che vivendo in una vera agiatezza eran povere soltanto di nome; e non diventavano povere di fatto se non quando ordini nuovi ai vecchi della Repubblica sottentrarono.”

Ecco tutto spiegato chiaramente … Le solite raccomandate parassite per qualche motivo riuscivano a intrufolarsi dentro “al cuore del Sistema Veneziano”. Fingevano una povertà che non avevano. Anzi: erano ricche piuttosto che povere, un po’ come certi e certe di oggi che sembrano crepare per strada da un momento all’altro oppressi dalla Storia e dall’abbandono, mentre un attimo dopo deposta la stampella claudicante e l’aspetto da miserevoli, se ne vanno a vivere dentro a roulotte confortevoli doratissime … Ieri come oggi: è solo finzione, organizzazione e sfruttamento di carità pubblica e privata … però nel caso della Serenissima: con debita protezione e accondiscendenza dello stesso Sistema Statale.

Non è cambiato niente lungo il corso dei secoli, e penso neanche cambierà … e non solo qui a Venezia. Ancora oggi c’è chi “si riempie a ribocco qualche saccoccia”, mentre la gente comune deve spezzarsi la schiena per raccattare e guadagnarsi quattro soldi fragili, che più che spesso bastano appena per vivere.

Ma torniamo ancora alla descrizione delle vecchie Cronache: “Non ha pari una Marcolina, sola sopravvissuta alle sue sorelle, vecchia assai, cenciosa, schifosissima, errar vedevasi ancora, quasi ombra, per quelle logge, per quelle scale, lamentandosi del Fato della sua Repubblica, e chiedendo un obolo al forestiere.”

 

E non è tutto … Sempre gli stessi vecchi documenti fanno un po’ luce e raccontano anche dei Veneziani “Poveri al passo”: “Per poter a pubblica notizia riferir chi siano questi Poveri al passo (cosi diceva Francesco Gritti Inquisitor Sopra i Dazi in una sua Scrittura il 05 gennaio 1699) et con qual fondamento sia fatta questa corrisponsione ho desunto da scritture vecchie che vi fosse un Officio intitolato del Passo, nel quale s'impiegavano alcuni vecchi poveri impotenti, stando alla custodia della Camera dell'Officio stesso, di altra Camera del Fontico dei Todeschi, et ai cortili della Messetaria dove misuravano tele, terlise, panni et altro, e per ciò havevano tenue limitata mercede.”

Inizialmente si trattava quindi di persone che prestavano un servizio modesto di pubblica utilità: “che alla direttione all'ora de loro impieghi e mercedi sopraintendeva l'Officio de Consoli de Mercanti; che l'anno 1457 a 28 marzo dall'Ecc.mo Senato fu deliberato, che le “Grazie del Passo” siano fatte a poveri homini, e li fosse accresciuto li sette dinari e mezzo die per ogni centenaro havevano a dinari 10 per ciascheduno.”

I Poveri del Passo avevano quindi quasi un ruolo e un’identità ben riconosciuta e precisa. Erano cioè altri “figuri tradizionali” raccomandati ben accetti dentro al meccanismo commerciale ed economico della Città Lagunare: “Osservo che questi Poveri al Passo sieno in preciso limitato numero di 40, ma vedo pur anco che al presente la metà sono femine, e tall’una di queste ha due, e tre di questi luochi e benefìzii, e ne sono sino al numero di 5 in una sola famiglia ecc. Dietro questo ragguaglio fu pronunziata la legge seguente: 1699 9 gennaio in Pregadi: “Quanto alle grazie destinate dalla pietà pubblica alli Poveri al Passo, che s'intende rilevano lire trecentoquarantauna valuta corrente all'anno in tutte rappresentando esso Inquisitore che nella distribuzione non s'osservi più l’instituto di beneficare quaranta persone con le quaranta gracie alcuna de quali sono assegnate ad una sola famiglia. Sia concesso all'Officio de Consoli de Mercanti nei casi delle vacanze che anderanno succedendo delle Gracie suddette d'osservare le Leggi in questo proposito, acciò siano distribuite alle persone capaci et nel modo prescritto”.

Come potete intendere, si era consapevoli a Venezia che quelle “Grazie”erano in realtà un privilegio ingiusto e un utilizzo improprio del pubblico denaro. Così come si sapeva che c’erano in giro furbetti e opportunisti.

Esplicano ulteriormente le righe della stessa Cronaca sulla presenza a Venezia anche dei “Poveri al pèvare”: “Per legge 29 luglio 1386 nel Maggior Consiglio l'Officio di Sensale di Pevere solitamente veniva concesso “nostris bonis Venetis originariis, antiquis ex pauperibus qui fuerunt homines maris navigatores, aetatis annorum sexaginta, vel inde supra, et expendiderint juventutem et dies suos, ac vitam suam in honorem, et statum nostri Dominii, et per senium, vel impotentiam sint personae egentes.”

 

Il titolo di “Poveri al Pèvare” era quindi una sorta di onorificenza e di sussidio offerto a chi era almeno un sessantenne “buon Veneto”d’origine, che aveva servito onorevolmente la Repubblica navigando e commerciando, ed ora si trovava in stato d’“impotenza”, cioè di povertà ... Quella dei “poveri al pèvare” quindi era una specie di previdenza, di I.N.P.S. e pensione di ieri insomma: “Successivamente da questa pietosa consuetudine nacque una Confraternita detta dei Poveri al Pèvere, soggetta agli Officiali alla Messetaria, ristretta ultimamente a ottantadue persone, le quali però doveano avere tutti i requisiti determinati dall'anzidetta legge. Le elezioni per l'ammissione alla Confraternita si facevano nella giornata del martedì santo, e l’utilità che ne veniva a ciaschedun individuo era di lire dieci al mese, pagabili dai Magistrati dell’Uscida, dell'Entrada e del Fondaco dei Todeschi.”

Che ve ne pare ?

Venezia Serenissima a modo suo intendeva un po’ rendersi sussidiaria e assistenziale, anche se in maniera non sempre del tutto equa ed adeguata. Si sa: chi a Venezia non riusciva a intrufolarsi in qualche modo dentro a certi meccanismi non viveva vecchiaia tanto serena e agiata. Di solito uomini e donne Veneziani erano costretti a “tataràr via”, cioè a improvvisarsi e ingegnarsi “a vita e fin che potevano” in lavori e lavoretti al fine di poter sbarcare in qualche modo il lunario.

E la Serenissima ? … Beh: ieri come oggi il Governo dal suo alto scanno: vigilava, dava indicazioni, “faceva paterna ombra”, ma anche e soprattutto latitava … accontentandosi di proteggere e dare “concreto sussidio” a chi più gli aggradava o gli conveniva.

Non è cambiato niente vero ? … Sono solo trascorsi i secoli.

Già … purtroppo.

Nel “Soggiorno a Venezia di Edmondo Lundy”, che in realtà era il pseudonimo letterario di Pasquale Negri, che pubblicò a Venezia nel 1854, si legge: “La quantità dei poveri in Venezia è attualmente assai grande. Costoro sono divisi in più classi. I poveri erranti, che per lo più cantano divote canzoni; i poveri fissi, che stanno fermi agli angoli delle vie o vicini a qualche santa immagine, oppure agl’ingressi delle chiese o nel loro interno, il che è una specie di privilegio dato dai vicini o dai Preti, e che altri questuanti non possono usurpare; ed i oiveri ammalati, che temporariamente si gettano sui gradini dei ponti, facendo schifosissima mostra di piaghe dolorose; non che altri che sono guidati per i rivi entro a barche ed in aspetto assai orribile e ributtante.

Molti poveri si postano nell’atrio della chiesa di San Marco, e là fanno mostra di neonati e bambinelli in sommo bisogno. I ciechi, paltonieri assai compassionati, girano, parte sonando il violino o cantando orazioni: altri stanno fissi in alcuni luoghi della città; e non pochi vicini alle pile di San Marco e sul ponte detto della Pietà.

Havvi un’altra classe di questuanti, detta Poveri Vergognosi, DI questa classe di uomini escono per lo più di sera e portano un velo nero che loro asconde il volto. Le donne misere di questa classe indossano il zendà e la veste; ma questo abito è in così cattivo stato e così male rattoppato, forse con artifizio, da lasciar tosto trapelar la loro condizione di questuanti. Queste povere vergognose sono però dotate di molto orgoglio, perché si vantano di buona nascita e pretendono perciò soddisfazione pronta alle loro domande; ed anco che sia a loro fatta elemosina con buona maniera.

E’ inutile il dire, che oltre alla loro disgustosa vista, alle loro continue importunità, hanno quasi tutti i poveri l’uso di gridare pietà e soccorso nelle forme le più commoventi. Sorprende assai come questo grandissimo numero di accattoni trovi ogni giorno da vivere, ma i Veneziani sono per verità molto caritatevoli.

Però fui assicurato che in questa gran torma se ne trovano di quelli che non hanno reale bisogno ed esercitano il paltoniere per pura poltroberia. Altri fingono dei mali che non soffrono, e mi si disse che alcuni hanno abilità di pingersi piaghe marcite e sanguinose, e tanto in apparenza veraci da ingananre l’occhio più esperto.

Ho veduto io stesso, in remoto viottolo, un povero farsi di nascosto una ferita non piccola sur un piede, e ciò per aver un più forte motivo di eccitare l’altrui pietà. Vidi alcune miserabili circondate da tre o quattro bambini, e fui assicurato non aver quelle figlioli, ma che pagano per questa a loro utilissima finzione alle vere madri uno stipendio o noleggio giornaliero. Una vecchia povera portava coperto un occhio con un pezzetto di taffetà con tinta marciosa.

Io la credetti per gran tempo offesa in così delicata parte. Colei cangiò di stato per un terno al lotto toccatole, ed allora il suo occhio apparve libero e serenissimo come l’altro.

Ma a Venezia chi vuol vedere zoppi che ben camminano, ciechi che ben veggono, attratti con membra non più guaste, vada di sera in certe basse osterie, da questa gente soltanto praticate e vedrà tale portentosa trasformazione. Questi accattoni non hanno riguardo fra di loro di palesare la furberia adoprata; ed in quelle basse osterie, cianciano, giuocano, mangiano e bevono lautamente.

Una sera mascherato e in compagnia di due amici, volli entrare nella bettola detta il Mondo Nuovo, uno dei ridotti principali dei questuanti, e vidi quanto bastava per assicurarmi che vi erano in molti e nella loro miseria e nelle malattie non poca impostura. Risi molto al vedere dei ciechi che giocavano fra loro alla mora. Con la sinistra mano tenevano afferrata la destra dell’emulo giocatore ed in questo modo non potevano essere ingannati.

Fra questuanti e questuanti sono frequenti i matrimonii. Ma l’importante della dote della femmina consiste principalmente né suoi difetti, cioè s’è guercia, gobba, sciancata, ecc, i quali difetti sono capitali fruttiferi, e vieppiù se unisce voci e modi atti a ben destare l’altrui compassione... “

Curioso vero ?

Mi piace concludere questo quadretto Veneziano di ieri con una piccola aggiunta doverosa, per dire che non tutti i Veneziani sono stati così interessati, esosi, clientelari e parassiti societari, o miopi e limitati nel considerare le situazioni sociali.

Nel 1782: il Setificio Zaniboni attivo a Venezia nei pressi del Monastero di Santa Chiara e dei Tre Ponti dove sorgerà in seguito la Manifattura Tabacchi, previde un lascito annuale di 75 ducati correnti: “Due terzi della somma verrà distribuita fra i poveri della Contrada di Santa Croce di Venezia. Il rimanente andrà ai poveri della Contrada di San Martino di Treviso dove opera parimenti la tintoria della società … La suddetta elemosina sarà col mezzo del direttore Zaniboni pagata in mano de Parroci o delli Presidenti di Fraterna per tal oggetto…”

E nel 1804 … I quattro eredi di Giovanni Luigi Occioni firmarono la stesura programmatica della loro azienda attiva a Venezia: “… venga messa l’impresa sotto la protezione di Dio signore…così non cessando d’invocarla per meritare in qualche modo la sua benedizione, convengono essi fratelli che il negozio che vanno ad istituire abbia ogni anno da supplire l’elemosina congrua per la celebrazione di 100 Messe, e da esborsare parimenti 30 ducati correnti all’anno da essere distribuiti ai poveri …”

Anche oggi capita questo vero ? … Magari !

Altri tempi e modi a Venezia.

 


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