#unacuriositàvenezianapervolta
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Un colpo di Peste a Venezia nel 1490
Gli Arimondo o
ArtiMondo o Raimondo, o se volete ancora chiamarli: Arlimisti o
Arizini furono una famiglia di ricchi e Nobile Mercanti giunti a Venezia
dall’Abruzzo passando prima per Aquileia.
A Venezia fin
da subito furono capaci di essere presenti fra quelli che contavano: furono Tribuni,
e seduti nel Maggior Consiglio al momento della famosa “Serrata”
... Nicolò Arimondo nel 1080 era Capitano delle
navi da guerra dell’Imperatore Bizantino Niceforo III Botaniate che
andò a combattere in Puglia contro il Normanno Roberto d’Altavilla
detto il Guiscardo.
Si dice che a
Venezia gli stessi facoltosi Arimondo siano stati tra i promotori
della prima costruzione di San Geremia nell’omonima Contrada
di Cannaregio, e che abbiano ampiamente finanziato il suo restauro
nel 1280.
Maria Arimondo vedova di Missier
Giovanni nell’autunno 1238 regalò una casa sita in Contrada di San
Vidal alla Congregazione dei Preti di San Luca, e un’altra in Contrada
di San Marcuola ai Preti della Congregazione di Santa Maria Mater
Domini, e terre e altre case a tutte le sette Congregazioni dei Preti
Veneziani ... Sempre in mezzo il Clero quando si trattava di soldi.
In quegli stessi anni Tommaso Arimondo
era, infatti, Canonico di San Marco, SubDelegato di Wido Vescovo di
Chioggia e Piovano di Lio Mazòr. Venne scelto proprio lui per andare a
calmare e dirimere la furibonda lotta legale sorta fra i Monaci di San
Tommaso di Torcello guidati dal Priore Solimano e le agguerritissime Monache
di Santa Margherita della stessa Isola.
Lo stesso Tommaso Arimondo, apprezzato per
come sapeva comportarsi in quelle situazioni, divenne addirittura Vescovo
di tutta Venezia… e si era nel 1260.
Gli Arimondo poi andarono come Cavalieri a Gerusalemme e in Terrasanta con
alterne fortune. Da una parte vennero esaltati per le loro gesta e la Carità,
dall’altra vennero ingiuriati, perseguitati e messi da parte.
Antonio Arimondo fu uno dei Capitani
delle Galee Veneziane durante la Guerra di Chioggia
contro i Genovesi.
Piero
di Giacomo Arimondo lasciò nel
1382 ben 120 ducati in elemosina agli stessi Nobili, ma soprattutto a Orfani,
Vedove e vecchie menomate e bisognose di Venezia: “A loro siano dati due
terzi della mia Carità: 3 ducati a persona ... L’altro terzo: un ducato a
persona siano dati a popolani … Assicuratevi che siano veri bisognosi, e non fate
tramacci, né preferenze per conoscenze e amicizie.”… più o meno recitava
così il suo testamento.
Lo
stesso Piero Arimondo ancora vivo nel 1399 ottenne facoltà di
porre un Banco in Piazza San Marco, e di allestire e armare una
sua Galea per condurre Pellegrini al Santo Sepolcro ... anche
quello era un modo per far affari.
Tramontato
poi quasi del tutto il sogno di Terrasanta, negli ultimi anni del
1400 gli Arimondo risultavano iscritti al Libro Nobiliare
della Balla d’Oro con 3 Padri e 8 Figli. Gestivano allora in Città un “Banco
di scritta” che portava il loro nome: una Banca insomma,
una delle famose quattro che c’erano allora a Venezia: Banco Lippomano, Banco
Garzoni, Banco Agostini e Banco Arimondo.
Messi
insieme quei Banchi erano capaci di alimentare e gestire un giro
d’affari superiore a un milione di ducati … Erano la sintesi visibile della
stagione economica fortunata che stava vivendo la Serenissima.
Giustamente
siamo abituati a considerare quelle del Redentore e della Salute
come le grandi Epidemie di Peste che misero a soqquadro l’intera
Città Lagunare mietendo migliaia di morti e mettendo risorse e persone in mano
a Pizzegamorti e Monatti che depredavano chiunque, e violentavano
le donne buttandole ancora vive nelle “fosse da làsagne” dove
stavano impilati i cadaveri degli appestati.
Accanto
a quelle storiche immagini tragiche, le Cronache Veneziane
raccontano però anche di altre “Epidemie minori” accadute quasi
in punta di piedi in Laguna … La Peste era la Peste, ma a volte non riusciva a mettere
in ginocchio, fermare e flettere del tutto Venezia.
La
Peste vagava di continuo per tutta l’Asia e l’Oriente, e da lì si travasava
tramite le Galee, le Carovane e i viaggi d’affari in tutto il Bacino del Mediterraneo
giungendo di volta in volta anche in Laguna. Erano gli stessi commerci fortunati
a procurare la rovina dei Veneziani, in quanto importavano con la ricchezza anche
“il Morbo”.
Nel
1490 Venezia e l’Estuario dei Lazzaretti, Ospizi e Hospedaletti
non sembrò in grado di tenere testa alla nuova ondata del Contagio. Come noi di
oggi col Covid, gli Hospedali Veneziani andarono presto in grande
affanno risultando incapaci di gestire il nuovo flagello.
I
Veneziani iniziarono allora ancora una volta a morire “a grappoli”,
e chi poteva permetterselo iniziava a fuggire lontano provando a trovare scampo
da qualche parte. Così fecero i Nobili Aloisio (Alvise) e Fantino
Arimondo che abitavano in Contrada di Santa Maria Nova(vicino
ai Miracoli a Cannaregio), che vista la mal parata dell’Epidemia, pensarono
di lasciare la Capitale Veneziana per andare a rifugiarsi “fuoriPorta”
in Terraferma finchè non fossero tornati tempi migliori.
Fatti
i bagagli quindi, pensarono di nascondere il loro tesoro di famiglia in un
anonimo magazzino in Contrada di San Trovaso… poi partirono da
Venezia.
Un
loro fido “Barcarolo de Casada”, che così fidato in realtà non
era, era a conoscenza di quei nascondimenti preziosi. Affamato di denaro, contattò
due uomini di Treviso: Santo Mascarello “homo iniquo già bandito per
omicidio”, e suo cognato Giovanni, e tutti insieme si
attivarono andando nottetempo a far razzia e saccheggio del tesoro degli Arimondo.
La
cosa ebbe successo: divennero ricchi … ma Venezia Serenissima, si sa: “dormiva
sempre con un occhio solo”, le bastava un sommovimento sospetto, un
dettaglio, una piccola traccia, l’occhiata sbadata di uno che passava di lì per
caso … Infatti dopo breve indagine pizzicò tutti e tre i malviventi.
“Alla
Veneziana” li appesero subito
alla corda della tortura perché spiegassero e ammettessero “liberamente e
spontaneamente” i fatti. Infatti, un tiro di corda dopo l’altro, mentre
cedevano dolorosamente spalle e ossa, quelli confessarono tutto ammettendo ogni
addebito. Il tesoro degli Arimondo quindi venne salvato.
Solo
il Barcarolo de Casàda sembrò non curarsi della dolorosa “tiratura”,
perché, come raccontano gli atti del Processo: lo trovarono addormentato appeso
alla corda della tortura … Poco cambiò: vennero condannati tutti, e si restituì
il malloppo a chi di dovere.
Poi
la Peste passò ancora una volta, e ogni cosa tornò al suo posto … eccetto le
ossa rotte dei ladri.
Gli Arimondo rientrarono in Laguna riprendendo i
loro voluminosi affari. Insieme ai Nobili Trevisan e Priuli nel 1515-1516
acquistarono dallo Stato Serenissimo le terre confiscate ai “ribelli
Borromeo” a Lissaro e Arlesega nel Padovano e Vicentino. Stessa cosa
fecero i Tiepolo con le terre che erano state dei Lion a
Conselve, e i Lando con le terre dei Bagarotto a Lozzo.
L’operazione ebbe un grande successo, perché alla fine gli Arimondo
con i Nobili Pisani dal Banco, Cappello e Dolfin si comprarono il 71,8% delle
terre confiscate da Venezia in Terraferma, cioè ben 2.200 ettari, versando
nelle casse sempre vuote della Serenissima: 85.000 ducati … Venezia con Doge,
Senato e Grandi Patrizi gongolarono non poco.
Nel 1526 infine, per via della negativa congiuntura economica il Banco
di Andrea Arimondo fu costretto a chiudere per fallimento. In luglio la
sua moneta di banca valeva un 15% in meno di quanto dichiarava ... Il passivo
fu grande: 27.000 ducati di cui 16.000 legati ad assicurazioni, e 11.000 definiti
come debiti.
I Nobili Arimondo non si arresero … Come possedimenti
“attivi” avevano ancora diverse Mercanzie in
viaggio per somme non determinate ... Avevano: Allume e Potassio depositati
in magazzino per 1.500 ducati … Titoli di Stato per altri 1.500
ducati, e proprietà immobiliari e gioielli per un valore non determinato ma
sufficiente a saldare immediatamente più di 6.000 ducati.
Gli Arimondo insomma in qualche modo riuscirono a salvarsi
e a galleggiare lo stesso sul palcoscenico storico Veneziano ed Europe, anche
se nell’ottobre di quello stesso anno Andrea Arimondo morì “da
melinconia del Banco”.