“I PAOLOTTI DE CASTEO … A VENEZIA, OVVIAMENTE.”
Forse non ci crederete, ma prima di scrivere questo nuovo post ho voluto tornare proprio a sedermi dentro alla chiesa di San Francesco di Paola nel Sestiere di Castello… la chiesa che è stata dei Paolotti. Entrando dentro l’atmosfera è più o meno sempre la stessa … quella di un tempo andato, ed è di certo diversa da quella che si può accendere nella mia mente rileggendo carte e libri. L’ho trovata come me la ricordavo, con la sua penombra ombrosa e l’aria di chiesuola popolare di Contrada … e col suo orologio finto dipinto in facciata eternamente fermo sulle nove e mezza.
Segna sempre un’ora che non c’è.
Mentre me ne stavo anonimo seduto in panca, è passata l’immancabile vecchierella ad accendere l’altrettanto immancabile candeletta sotto gli occhi vigili dell’altra donnona appollaiata “di guardia” in posizione strategica a cui non sfugge nulla non solo di chi entra ed esce dalla chiesa, ma anche di tutto quanto accade nell’intera Contrada di oggi.
Alle pareti e sugli altari ho riconosciuto le stesse pale e teleri di sempre (Tintoretto, Tiepolo, Giovanni Contarini, Jacopo Palma, Malombra:l’ennesima chiesa Veneziana bijoux)… però li ho trovati un po’ più scuri e affumicati, tanto che ho faticato a comprenderli e gustarli come le altre volte.
(Interno di San Francesco di Paola nel Sestiere di Castello)
Anche i Santi sparsi in giro sono sempre gli stessi … sono Santi Poveri, del popolino e delle devozioni spicciole di ieri … forse un po’ superate, con certi immagini e statue a cui forse oggi non ci si affida quasi più. Sembrano tante Anime disoccupate … come in attesa dentro ad una stazione in cui i treni non arrivano quasi più. Si sentono ancora tintinnare in giro campanelle, come quelle di un passaggio a livello … fremono perfino le preghiere come i binari, ma il treno stenta ad arrivare, ritarda, o forse non arriverà più. Sembra tutto immobile … compattato e congelato nel tempo.
Comunque sono sensazioni mie … Non badateci più di tanto. Piuttosto se potete andate a vedere un attimo quel posto di Castello … che è sempre e ancora là, e merita di certo d’essere visto e goduto.
Vi dicevo, infatti, che quella parte del Sestiere di Castello di Venezia era un tempo una zona popolare, anzi, popolarissima. Quella di San Francesco di Paola stretta attorno a quella che oggi si chiama Via Garibaldi, ma che fino al 1807 era, invece, Strada Eugenia(in onore del Vicerè d'Italia Eugenio Beauharnais) o Strada Nuova dei Giardini(inventati da Napoleone abbattendo un intero quartiere) era una Contrada più che vispa e vivissima.
(Via Garibaldi a Castello, l'antico Rio interrato, l'ex Strada Eugenia.)
Non che mancassero i Nobili: accanto ai Corner di San Francesco di Paoladi V classe, infatti, abitavano in Ruga i Badoer, i Priuli e i Balbi, mentre i Dolfin abitavano in Rio della Tana poco distanti dagli Erizzo. Alcuni rami secondari dei Nobili Patrizi Giustinian abitavano in Riello, Querini e Marcello risiedevano in palazzi modesti in Calle del Caparozolo, Boldù in Calle San Girolamo, i Donà nei pressi di San Domenico, i Contariniin Corte del Soldà e infine i Marcorà stavano verso il Bacino di San Marco. Erano comunque i popolani i protagonisti della scena Veneziana, ma soprattutto gli Ecclesiastici e le Monache … tanto per cambiare.
Comunque oltre a popolani, Nobili, Preti, Frati e Suore non potevano mancare ed esisteva tutta una serie numerosissima d’Ospizi, Istituti assistenziali, Schole, Case-Hospitali-Hostelli che contribuivano ad affollare ulteriormente il Sestiere che sorgeva e sorge a soli due passi dal famosissimo Arsenale della Serenissima… anche lui ovviamente con la sua bella chiesetta inclusa: Santa Maria dell’Arsenale.
In Contrada, infatti, esisteva l'Ospissio del Prete Zuane o Hospeal de Comun per i vecchi Marineri (marinai)della Flotta di Stato sia Veneziani che Foresti infermi, o divenuti impotenti per cause di servizio. Curiosamente detto Ospissio della Marinarezza, era gestito dalla Procuratia de San Marco de Citra, e venne realizzato investendo un cospicuo lascito del Piovan della chiesa di San Lunardo del Sestier de Canaregio che lasciò parecchio denaro a favore dell'Ospissio Orseolo per povere donne con sede in Piazza San Marco. L’Ospissio dei Marineri consisteva in un originale complesso collettivo, una “Ruga” di cinquantacinque caxette ricavate soprattutto sopraelevando antichi magazzini del Molo di San Marco, assegnate con apposito bando, e disciplinate da preciso regolamento.
Nel 1566, vista l'impellente necessità dei Marineri reduci e mutilati, la Serenissima decretò che fossero costruite in corte colonne altre caxette, anche se andò a finire che non tutte le caxette vennero destinate a soddisfare i bisogni dei Marineri, ma furono vendute o destinate ai soliti raccomandati ... anche la Serenissima aveva le sue “pecche”.
(le caxetta della Marinaressa)
Oltre “all’Hospitio dei Marineri dal capottòn grosso”, c’era anche l’Ospizio di San Domenico costituito da sette caxete di proprietà dei Nobili Da Ponte che s’affacciavano sul Campo de le Furlane … c’era l’Ospizio Locatello fra il Riello e il Ramo dell’Erba, e un ulteriore Ospeàl delle Putte di San Bartolomeo spostato davanti alla chiesa dei Paolotti per allargare il loro Convento.
Ospeàl delle Putte di San Bartolomeo era sorto nel 1312 grazie alla generosità del Doge Marino Zorzi per ospitare donzelle orfane o povere che “… venivano accolte per essere educate e preservate dal loro misero destino di tribolazioni da cui spesso erano reduci.”
Per un certo periodo l'Ospissio venne governato dalla Priora Cassandra Fedele, “… che era donna dalla tempra formidabile, lesse in Medicina nello Studio di Padova, disputò in Teologia coi migliori studiosi del tempo, cantò versi latini all'improvviso, compose opere e fu celebrata da molti letterati.”
Riuscite adesso a focalizzare meglio e immaginarvi un poco com’era quell’antica Contrada di Castello ?
Spero di sì … almeno un pochetto. Ma non vi ho detto ancora quasi nulla e tantomeno tutto.
Dovrete adesso compiere un ulteriore sforzo con la mente e dimenticare innanzitutto la bella Via Garibaldi assolata e spaziosa, larga e lunghissima, piena di bancarelle, mercatini, esercizi e bottegucce che oggi conduce nel cuore di Castello. Al suo posto immaginate, invece, un lunghissimo Rio o Canale che attraversava completamente la zona per lungo dividendola in due parti ben distinte. La famosa Via Garibaldi di Castello di oggi altro non è che l’ennesimo Rio Terrà, ossia un canale interrato, una strada che una volta a Venezia non esisteva ... in quanto era “via d’acqua”.
(San Francesco o San Bortolo dei Paolotti e oltre il ponte San Domenico dei Domenicani Inquisitori)
Quella parte di Venezia era molto diversa da com’è “ridotta” oggi. Dovete pensarla come un densissimo assembramento di Chiese, Monasteri e Conventi stipatissimi di Preti, Frati e Monache pieni di idee, energia e vitalità ... e soldi, e “borezzo”, a cui quelle clausure andavano di certo strette. Non esagero … in pochissime centinaia di metri esisteva un numero elevatissimo di complessi ed edifici religiosi tanto che quell’area di Castello si poteva definire una vera e propria “Cittadella Ecclesiastica”irta di campanili e di mille campane e campanelle chiacchierine che suonavano e sbattacchiavano ad ogni ora del giorno e della notte.
Era tutto uno scampanare, un ticchettio, uno scandire e battere le ore, un suonare e convocare in continuità Veneziani e Pellegrini Foresti a devozione d’ogni tipo. Quella zona di Castello era quindi tutt’altro che tranquilla, a volte era un vero e proprio putiferio e microcosmo straordinario insieme, dove quella gran abbondanza di tonache, Regole, clausure e devozione finivano spesso per litigare per spartirsi i beni e le rendite, ma anche per avere l’esclusiva di utilizzare gli spazi, la precedenza nelle processioni, o la prerogativa di ben figurare e accaparrarsi i migliori privilegi ed elemosine.
Raccontano le cronache:“Nel 1710 alla fine ci fu lite tra i Padri di San Domenico e i Canonici della Cattedrale di San Pietro di Castello per le numerose processioni che i Frati Predicatori organizzavano lungo le fondamente del Rio di Castello ... Dovette intervenire energicamente contro entrambi il Patriarca … e minacciò perfino di farlo anche il Doge se questi non fosse stato in grado di risolvere la faccenda da solo ... Dopo numerosi alterchi e battibecchi si concluse di fare una bozza con i vari itinerari e le frequenze lasciando tutto alla decisione del Patriarca…”
E questa è una … Poco distanti da questi eterni litiganti, sorgeva il Monastero di Santa Maria Nascente o Santa Maria in Gerusalemme delle Vergini con ben 70 Monache Agostiniane Conventuali … Si trattava delle ricchissime nonchè disinibite “figlie dei Nobili, dei Senatori e dei Dogi” che: “… una ne combinavano e mille ne pensavano di peggio …” Nel 1513 il Doge Leonardo Loredan tornò come ogni anno a “sposare” simbolicamente la Badessa delle Vergini Clara Donà baciandola sulla bocca, e questa in segno d’affetto gli donò una rosa di merletto intessuta di fili d’oro … Ma questa è un’altra storia che vi racconterò un’altra volta. A dirla diversamente, fra patrimoni immensi assurdi, debiti, eccessi e storiche rivolte, il Monastero era fulcro dell’attività scatenata e sacrilega dei Muneghini veri e propri “cacciatori e conquistatori di Monache” … Le Monache lì dentro si diedero per secoli alla “bella vita”, e l’ultimo dei loro pensieri era di certo quello della spiritualità e della sana devozione.
Visti gli eccessi, nell’aprile del 1518, si inasprì la lotta contro i Monasteri: il Patriarca Contarini e il Vescovo di Torcello chiesero aiuto alla Serenissima, e pretesero provvedimenti adatti dal Senato contro i Muneghini.
Giunse perfino da Roma Altobello Averoldo il Nunzio Apostolicoinviato dal Papa, che ottenne la lista dei Monasteri più turbolenti e il 21 maggio si recò dritto dalle Monache delle Vergini intimando alle Conventuali di ritornare all’ordine. Come risposta le Monache lo lasciarono fuori della porta e tirarono pietre sugli uomini del suo seguito.
Però le Monachelle !
(il Sestiere di Castello nella carta del De' Barbari durante il 1500)
Alla fine, siccome i tentativi diplomatici di riordino non ebbero alcun esito, il Patriarca con l’aiuto della Serenissima sfondò la porta e deliberò di dividere il Convento in due parti: una per ospitare alcune Monache “Obbedienti alla Regola, Ortodosse e Osservanti” immesse dal vicino Monastero di Santa Giustina, e l’altra per trattenere le “Conventuali ribelli”.Come potete immaginare, la cosa non piacque alle Conventuali delle Vergini. Ecco le loro parole di protesta e sollevazione:
“… qua comenza la cagnara … una opera dolorosa chiamata luctus di tutte le Monache dei Conventi di Venezia, per le novità volute dal Patriarca Contarini … e da quel figlio d’un giudeo, asino, artefice diabolico che è il suo Vicario Generale Ottaviano Brittonio l’attuatore delle così dette riforme.”
A qualche decina di metri di distanza, sorgeva poi il Convento di Sant’Anna delle 40 Monache Benedettine … Tremende anche quelle ! …Fra di loro c’erano anche le figlie di Jacopo Tintoretto tutte impegnate a realizzare un pagliotto d’oro per l’altare su disegno del loro padre pittore famoso. Fra loro c’era anche la famosa Monaca Arcangela Tarabottiautrice dell’altrettanto famosissimo testo: “Le mie prigioni”… no, pardòn ! “L’inferno monacale” che è più o meno la stessa cosa. Arrabbiatissima e frustratissima, scrisse anche “Il Purgatorio delle mal maritate”,“La semplicità ingannata” e la “Tirannia paterna” ovviamente incazzatissima col padre che l’aveva rinchiusa lì dentro.
Solo più tardi negli anni, smaltita probabilmente la carica ormonale della gioventù, e rappacificata con se stessa, si ridusse a scrivere accettando la sua condizione monastica opere come: “Il Paradiso monacale” che però sottolinea ugualmente le costrizioni morali che si subiscono nel chiostro, “La luce monacale”,“La via lastricata per andare in cielo”e “Le contemplazioni dell’anima amante”… e poi dicono a me che scrivo tanto ! … Ancora nel 1717 nel visitare il Sant’Anna il Patriarca Barbarigo raccolse l’informazione che a Carnevale le Monache rimanevano a lungo a giocare a carte e si facevano mascherare ... che c’era di male in fondo ? … Tante così dette riforme non erano servite a niente.
Comprendete allora quale clima di gossip e notizie si viveva in quella zona di Venezia. Il giorno di Natale del 1497, infatti, solo qualche anno dopo la scoperta dell’America tanto per avere un riferimento, Fra Timoteo da Lucca predicò in San Marco davanti al Doge e a tutta la Signoria presente dicendo fra l’altro: “… quando viene qualche Signore in questa terra di Venezia li mostrate li Monasteri di Monache, non Monasteri ma postriboli e bordelli pubblici.”… e anche il Vescovo di Chieti parlando di Venezia nel 1530 non fu tenerissimo: “Quelli di Venezia son bordelli …”
Ancora a due passi da li, nei pressi del ponticello fra San Francesco dei Paolotti e i Frati di San Domenico … c’era ancora sul Rio della Tana proprio di fronte alla sede del Vescovo, il Monastero di San Daniele delle Canonichesse Bianche.
Lì inizialmente tutto era andato bene: la Nobile Famiglia Bragadin aveva fondato la solita piccola chiesa dedicata all’antico Profeta San Daniele, e Giovanni Pollani Vescovo di Olivolo-Castello ne aveva fatto dono nel 1138 a Manfredo, Abate di Fruttuaria della Congregazione Cistercense di SanBenedettoche in breve arricchì all’inverosimile il Monastero di possedimenti, saline, acque piscatorie e molini. Penso sappiate già tutti di quale grande fama godeva in quell’epoca quella Congregazione potente.
Poi a San Daniele giunsero le Monache … e cambiò tutta la storia:
“Alla Visita Pastorale del 1604 il Patriarca Zane condannò il fatto che il tempo delle Monache dedicato alle devozioni personali era troppo spesso usato per perseguire profitti personali in contrasto con gli ideali di povertà della comunità. Le 79 Monache, infatti, erano in continuità dedite a cucire e ricamare vestiti, fazzoletti e accessori di lusso che vendevano fuori dal Convento per tutta Venezia …”
E questa è un’altra vicenda, ma non è ancora tutto.
Ancora poco più in là … pochi passi ancora, un ponte e una calle rispetto al solito posto, sorgeva il Convento di San Antonio Abate dei Canonici di Vienna… Frati intriganti, fastidiosi, tanto che il vicino Vescovo di Castello pretendeva di cacciarli via e demolire la loro chiesa e tutto il resto. Finirono a processo ovviamente, e alla fine del 1347 venne emessa sentenza favorevole ai Canonici contro il Vescovo che dovette anche permettere ai Monaci di celebrare Sacramenti per i familiari di casada. Padre Giotto, il Priore dei Canonici di Vienna, se la cavò pagando alla chiesa di Castello una multa di 25 ducati d’oro.
Già prima che arrivasse Napoleone a Venezia, la Serenissima non ne poteva più di queste beghe e beghette, per cui il Monastero mezzo cadente e bisognoso di restauri, chiesa compresa, venne sgomberato e dato a Luigia Pyrker Farsetti che spendendo 1500 ducati per il riordino s’inventò un istituto per raccogliere e istruire nell’arte di filare e tessere 70 povere figlie della città e della Contrada.
Poco più in là, al di là del Ponte Longo, sempre pressappoco nella stessa zona, c’era San Pietro di Castello la famosa Contrada del Vescovo Castellano di Olivolo con tutta la Cattedra e la “batteria dei suoi prebendati e beneficiati Canonici di lustro al seguito.” Su questo non mi dilungo, ne parlerò un’altra volta.
Poco distante dal luogo dei Paolotti, c’era anche la chiesa di San Nicolò di Bari accanto all’ Hospedaletto di Messer Gesù Christo… Inizialmente il posto era una chiesa-ospedale, poi venne trasformato in luogo del Seminario, fucina dei Preti Ducali affidati ai Saggi e acculturatissimi Padri Somaschi sotto la Giurisdizione e tutela spirituale del Primicerio di San Marco.
Credete che abbia finito ? Macchè ! … Ancora a ridosso degli stessi posti, a soli cinque minuti di passeggiata, c’era l’altro Monastero di San Giuseppe o Jseppo delle 65 Monache Agostiniane Professe … un’altra potenza d’età secolare nel cuore del Sestiere di Castello.
Mentre Suor Paola Gabrieli delle Monache dichiarava e ripeteva di continuo nel 1653 d’essere povere e scarse di risorse, completamente dipendenti, nonostante le Mansionarie delle Messe, dai ricavi dovuti all’ospitare e insegnare alle educande “… se non fossero queste, non s’avrebbe da vivere … Vivemo, si può dire, di tener fiole a spese.”
In realtà le uscite del Monastero superavano le entrate a causa delle feste dispendiose che prosciugavano le casse e davano alle Monache fama di vita irrequieta. La Badessa del San Jseppo, infatti, confessava: “Purtroppo questo Carneval vi sono state maschere a disturbar il Monasterio … ma pezzi grossi che bisogna taser et haver patientia.” SI trattava del figlio del Provveditore Foscarini, del NobilHomo Tribuno Memmo e dei due fratelli Barbarigo di Barbaria delle Tole che mesi dopo dipinsero un cartello osceno e vergognoso sulla parete del parlatorio dedicandolo proprio alla Badessa Madonna Clara Buttacalice.
Ancor quarant’anni dopo, il Patriarca Badoer in Visita al Monastero di San Jseppo, rimproverava le Monache: “… nel tempo dell’estate vestono senza maniche et con abiti trasparenti con scandalo dei secolari et vilipendio del sacro abito … Compiono abuso di tener nelle celle argenti et altri monili di valore … indumenti di gran lusso e alla moda … anche belletti …”
Tutto questo per rendervi un’idea di quale clima socio-religioso accadeva in quella stretta Contrada … Ma tornando a noi e al dunque, cioè ai Frati Paolotti, c’è da dire che proprio di fronte alla chiesa e Convento di San Francesco di Paola che c’interessa, “di fàsa” ossia al di là del ponte e del canale, sorgeva il Convento di San Domenico con altri 40 Frati Predicatori Domenicani di cui vi dirò fra poco. Domenicani e Francescani di Paola erano un po’ come il bianco e il nero … il semplice e il complesso … l’orgoglio e l’umiltà … e quindi erano sempre contrapposti fra loro per non dire l’un contro l’altro armati … divisi talvolta solo da quel ponticello sul Rio.
Più di una volta se le sarebbero date di santa ragione se per fortuna non ci fosse stata l’acqua a dividerli in mezzo …
Sapete bene com’è: l’acqua ha effetto rinfrescante, perciò il canale che divideva le due Contrade ha sempre avuto un effetto rappacificante per i bellicosi e focosi Veneziani della zona e di entrambe le rive.
Perciò: Francescani Minimi Paolotti di qua … e Padri Domenicani Inquisitori di là.
La chiesa di San Francesco di Paola dei Minimi o Paolotti sorse all’inizio su finanziamento, anzi su lascito dei Nobili Querini, precisamente di tale Bartolomeo Vescovo di Olivolo-Castello: “… che volle chiesa e Ospedàl dedicati al suo nome per sedici infermi fornito di rendita nel Trevigiano e in Papozze nel distretto di Ferrara, e gestito da Rettor, Chierico e serventi e con biancheria da letto e arnesi occorrenti alla cucina.”
I Veneziani ovviamente plaudirono l’idea e clonarono subito in maniera più pratica il nome di San Bartolomeo in un più sintetico di “San Bortolo mio”. Eravamo alla fine del 1200, e si sa che quasi un secolo dopo la stessa famiglia provvide a rifare tutto perché gli edifici erano ormai cadenti e quasi in rovina.
Di là del canale, invece, sorgeva il complesso Monastico di San Domenico di Castello fondata nel 1317 per volere del Doge Marino Zorzi che per testamento ordinò di comprare un fondo per costruirvi un Convento per 12 Frati dell’Ordine dei Predicatori o Domenicani con annesso un Ospizio per raccogliere orfani abbandonati. Due anni dopo Fra Tommaso Loredan Aiutamicristo Frate Domenicano dipendente dal Convento di San Zanipolo ossia dei Santi Giovanni e Paolo ne prese possesso, e vi rimase lì come Priore fino a quando morì di peste nel 1398.
Ne 1333 i Frati Domenicani del Convento divenuti ormai 40 acquistarono horti, una velma di terra dietro alla chiesa, una lunga serie di case abitate da Marangoni e poveri operai dell’Arsenale, e interrarono un vicino canale. Il Senato della Serenissima da parte sua aggiunse in dono altri due lotti di terra per allargare ulteriormente il convento, e fu così che giunto il 1560, San Domenico divenne la sede dell’Inquisizione di Venezia affidata ai Domenicani togliendola alla direzione dei Frati Francescani.
Il primo Inquisitore Domenicano fu Fra Tommaso da Vicenza e fu con lui che sul ponte che attraversava il Rio di Castello fra le due chiese di San Bartolomeo e San Domenico gli Inquisitori iniziarono a bruciare ogni 29 aprile tutti i libri proibiti raccolti in giro per Venezia durante l’anno.
In realtà furono i Frati Domenicani, sostenuti nella loro opera dalle quotidiane litanie di litigi e pettegolezzi delle donne Terziarie Pizzocchere di San Domenico, a iniziare le baruffe e le discussioni con i Frati Paolotti d’oltrecanale.
Tutto iniziò nel 1585, quando arrivarono i Minimi di San Francesco di Paola che andarono ad occupare il cadente Ospizio di San Bartolomeo lasciato libero di fronte a San Domenico chiedendo al Senato Serenissimo di poter costruire Chiesa e Convento.
I Domenicani, forse inviperiti perchè nel frattempo avevano fatto acquisti infelici di terreni vallivi, paludosi e boschivi, infruttuosi e malgovernati a Codopè di Tiezze in contrada Prata, passati da un affittuario all’altro con continue usurpazioni, tanto che non si trovava nessuno che li volesse; videro l’arrivo dei Minimi Paolotti come fumo negli occhi. Infatti ricorsero immediatamente a Roma dichiarando e dimostrando che per Disposizione Apostolica nessuno poteva costruire e fondare nuove comunità a una distanza inferiore a 140 canne dal loro Convento. I Minimi erano presenti a sole 20 canne … ossia c’era solo un ponte fra le due comunità … perciò … il Papa doveva farli sgomberare al più presto.
Il Pontefice Sommo infastidito, dapprima non rispose neanche, ma siccome i Domenicani gli presentarono più di un ricorso, alla fine disse che un Rio era più che sufficiente per dividere e tenere a debita distanza le due comunità.
Fu nel 1586 però, che un grosso scandalo coinvolse i Frati Domenicani Castellani: “… nel mese di febbraio si fece una rappresentazione della Virtù e del Vizio dalli Padri di San Domenico di Castello con il concorso di tutta la città, dove Fra GiovanMaria da Brescia, mascherato da facchino, in scena sparlò in mala maniera della Religione, dicendo che ruberebbe il tabernacolo del Santissimo Sacramento al Papa et che lo scorticherebbe, et delli Senatori Veneti, con dire che metterebbe volentieri quegli delle vesti purpurate in galea al remo (essendo presenti infiniti Senadori), per il che fu cacciato fuori dalla scena e si formò processo contro di lui dal Nuntio di sua Santità et delli Signori Capi dei Dieci. Et di ordine del sudetto Nuntio Pontificio, fu affisso alle porte della chiesa di San Domenico un cedolone, et lo citava a comparire entro il termine di 2 giorni, il quale non comparve altrimenti, et fu detto et attribuito ciò alla pazzia che alle fiate regnava in quel Padre.”
Nonostante tutto, nel maggio 1724, quando in Contrada “la Spezieria Al Basilisco” sopra la riva del Rio di Castello verso San Domenico era gestita da Angelo Giberti, e si trovava nella lista delle Speciarie di Sestiere presso le quali si trovano gli strumenti inservienti al ricupero de sommersi annegati”, un Frate Domenicano Inquisitore vissuto a Castello di Venezia presso il Convento di San Domenico divenne Papa Benedetto XIII dopo essere stato anche Vescovo di Benevento. Riconoscente, inviò come dono al Convento di San Domenico di Castello: 6 candelabri d’argento e una croce usata nella sua Cappella privata.
Giunto infine il tragico 1807, i 14 Frati Domenicani rimasti vennero concentrati ai Santi Giovanni e Paolo, s’inviò a Padova 13 casse con 2194 libri della biblioteca di San Domenico di Castello che possedeva 5.110 preziosi volumi, mentre si vendettero come scarti mediocri gli altri 2.916 libri rimanenti, e la Ditta Fratelli Pigazzi acquistò per lire 392 l’organo e le cantorie della chiesa insieme a quelli di diverse altre chiese soppresse (SS.Vito e Modesto di Burano, San Marco e Andrea di Murano e San Maffio di Mazzorbo). Chiesa e Convento di San Domenico vennero prima trasformati in caserma per ospitare un Regimento di Fanteria della Veneta Marina, poi tutto venne demolito per costruire i Pubblici Giardini per i Veneziani … “Busti di Medici, Filosofi, Inquisitori, Vescovi, Monumenti Funebri di Dogi, Priori, Famiglie Nobili e Patriarchi e numerose iscrizioni che arricchivano il chiostro in numero superiore a 100 furono venduti a scalpellini soprattutto ad un certo Fadiga come materiale da costruzione … 10 preziose reliquie disperse … 11 altari in marmo, mirabili angeli di bronzo, e una ventina di dipinti dei soffitti e delle pareti andarono perduti ...”
Viceversa, i Frati Paolotti dall’altra parte del canale erano di stampo e si comportavano in maniera completamente diversa. I Paolotti provvidero nei secoli a numerosi abbellimenti e successive modifiche della loro chiesa creando un unico ambiente ricco di pitture e con un bel Barco o Coro Pensile originale posto sopra tre cappelle per lato … una cosa singolare e rara.
Fra 1756 e 1761 il cronista Gradenigo scriveva nei suoi “Notatori” che: “… li Padri Frati Minimi di San Francesco di Paola s’accingono al tramutare una terrazza nel loro chiostro contigua con l’infermeria, in loggia coperta con tre finestroni ... Poi riducono elegantemente l’ingresso del Convento o sia porteria, ornata di quadri rappresentanti li Prelati et Vescovi del suo Ordine incassati con ornamento de stucchi … sempre intenti alla pietà, consueta del proprio Ordine, nonché all’abbellimento della loro frequentata chiesa in Venezia, prendono l’assunto di ridurre meglio decorosa la Cappella Maggiore, mediante moderno lavoro di stucchi, quadri e soffittato di non infelice pennello ossia di Michele Schiavoni autore …”
Circa negli stessi anni, l’organaro veneziano Giovanni Antonio Placcacercò di piazzare ai Frati un organo pomposo che aveva costruito per Zero Branco nel 1759, ma quelli lo rifiutarono trascinandolo in una lunghissima controversia, finchè si risolsero a chiamare il migliore organaro in circolazione, ossia Gaetano Callido e i suoi figli, che costruiscono per la chiesa “un organo come si deve”(opera 366)che venne collocato sulla parete sinistra della chiesa “in cassa barocca”.
Tanto per non cambiare, come era consuetudine per quasi tutte le chiese Veneziane, quella dei Paolotti ospitò oltre alle consuete Compagnie di Devozione della Beata Vergine del Rosario e di Santa Maria Maddalena, anche alcune Schole e Sovegni molto interessanti. Erano quelle degli Schiavi di Santa Maria del Soldo delle Maestranze e degli Stampidori della Pubblica Zecha che riuniva i 62 CapiMastri e i Lavoranti dediti a coniare moneta per la Serenissima e la Shola di San Bartolomeo dei Remeri dell’Arsenale.
(Fusione e conio della Moneda in Zecca a San Marco)
Nel 1675 la Schola dei Monetieri che associava Stampidori e Cuniadori, Ovrieri, Massari, Mendadori o Revisori tornitori che aggiustavano il peso delle monete, Sazadori, Rafinadori e Intagliadori prestava denaro a persone indigenti “…perché si potessero sostentare con la sua famiglia in queste santissime feste di Natale.” … ma si dovettero anche revisionare i conti dell’Arte perché si scoprì che il Gastaldo rilasciava sussidi per malattia a piacimento e a malati dubbi, mentre lo Scrivano donava candele a chi voleva.
(Mariegola dei Monetieri o Stampidori in Zecca)
Gli Artieri dei Remeri, invece, producevano una grande quantità di remi e forcole in faggio, e preparavano anche timoni e pennoni per le famose Fuste e Galee del mitico Arsenale.
Essendo considerati maestranze pubbliche i Remeri dell'Arsenal non pagavano tasse, e la Giustizia Vecchia ordinò nel 1380: “che nessun Remer delle 20 botteghe “de fuora” o “da dentro” o de l'Arsenal lavori dopo il suono della campana “marangona” dell'Ave Maria del sabato sera e tutta la domenica successiva, come pure nelle feste solemni comandate per lo Comun de Veniezia".
Nel 1461, la Schola stabilì che: “… nella festa del Patrono tuti del mestier che sia in stà tera, debia venir al cancelo dell’altar a tuor el so pan et pagare la luminaria” ... Nel 1480, invece, la Schola strinse accordi con il Capitolo dei Frati ottenendo “un'arca subtu porticu" per seppellire i propri Confratelli Remeri … e nel 1539 dovette stipularne un altro per un posto "dalla banda sinistra della cappella granda" vicino all'altare del Santissimo, perché la vecchia tomba sotto al portico era stata invasa dall'acqua alta.
A proposito di remi, Rematori e Vogadori: “Durante lo stesso secolo, il Senato Serenissimo venne a sapere che gli Ufficiali della Flotta toglievano ai Rematori la legittima quota di bottino battendoli e ingiuriandoli per appropriarsene. Gli Avogadori da Comun allora, dopo aver ascoltato tutte le proteste dei Rematori, stabilirono che gli Ufficiali colpevoli venissero esclusi dal loro ed altro incarico per 5 anni e ripagassero quanto avevano sottratto ai Rematori con l’aggiunta di un 25% a favore degli Avogadori da Comun.”… Nel 1597 la Schola spese 588 ducati per abbellire l'Altare commissionando una pala, due quadri laterali, le finestre e i due "doppieri grandi" per la chiesa, e secondo l’inventario dell’epoca possedeva: “… un penelo (stendardo) dorato con un’impronta d'argento, un altro penòn de cendado con asta e fodera; due bandiere da trombetti; due bandiere de cendado zalo; e oltre a Mariegola Vecchia aveva anche una Mariegola Nova "fodrada de veludo blavo, varnida d'arzento", riposta in una custodia di cuoio”... Poco dopo l’inizio del 1600 quando i Remeri attivi nell'Arsenale erano 120 e altri 20 lavoravano in cantieri privati, la Schola si autotassò per coprire le spese per il rifacimento dell'Altar Maggiore della chiesa che divenne di sua proprietà, tanto che anni dopo potè rivenderlo alla Schola del Santissimo per 1800 ducati.
Ancora nel 1773, secondo la ormai straconosciuta statistica urbana: la Schola annoverava 244 iscritti fra Capimastri e Garzoni.
Di solito le cronache di Venezia riportano i tristi fatti della soppressione Napoleonica in maniera molto essenziale, fredda e sintetica. E’ curioso costatare, invece, che nel caso dei 12 Frati Paolotti concentrati e trasferiti altrove si descrisse una reazione singolare delle mille persone della Contrada che insistettero con Governo Francese perché non venissero allontanati i Frati:
“Il trasferimento dei Frati Paolotti … piomba fatalmente sul cuore di questa Contrada; e lacrimanti il padre, il figlio e le mogli gemono squallidi e sconsolati … Dediti fin dal 1585 al comun bene, anche di tutta la città … da confessionari, pergami e dalle scientifiche cattedre e con l’assistenza indefessa a poveri infermi e moribondi …”
Ma non ci fu niente da fare … La biblioteca dei Frati Paolotti venne depredata di un patrimonio di 1.726 libri fra cui 559 “nobili testi” che vennero spediti a Padova in 4 casse, gli scaffali venduti come legna da ardere, il convento divenne caserma, e in seguito fu demolito e ricostruito come pubblica scuola d’educazione primaria: l’attuale Scuola Elementare Gaspare Gozzi, mentre la chiesa venne eccezionalmente restituita ai riti pubblici e all’uso della Contrada nel 1852 nonostante fosse stata già prevista la sua demolizione. La chiesa dei Paolotti si distingueva fra le altre perché: “… oltre a predicare il Quaresimale come in altre 37 chiese di Venezia, lì si faceva discorso e si adorava il Santissimo in Riparazione dei danni del Carnevale mentre i tori impazzivano in Piazza San Marco, fin nel cortile del Palazzo Ducale, e nei Campi di San Polo e San Giacomo dell’Orio …”
In conclusione e a dire il vero, la storia Veneziana è un po’ avara sulle vicende di quei Frati Minori Paolotti … Proprio per questo mi piace ricordarli, soprattutto perché si sono distinti da quel vasto contesto di pollaio ecclesiastico e monacale con tanti galletti esagitati che popolavano il Sestiere di Castello.
“Si dice che durante il 1700 sul retro del Convento dei Frati Minimi Paolotti esistesse una breccia nel muro da dove nottetempo i discoli e i miseri della Contrada entrarono più volte per rubare galline, frutti e ortaglie dalla dispensa dei Frati. Si racconta anche che i Frati erano ben a conoscenza dei fatti, così come sapevano bene i nomi di quei ricorrenti “visitatori notturni”, ma che “per Amor di Dio” lasciassero fare, e non riparassero mai quel buco disonesto.
“La fame è una brutta bestia !” dicevano “Ma la Provvidenza non lo è.” aggiungevano.
A tal proposito, nella stessa Contrada c’era l’abitudine di dire a qualcuno: “Sei un Paolotto !” per affermare che era un sempliciotto, un po’ tonterello e facilmente gabbabile ... Tuttavia dire “Paolotto” significava anche indicare persona semplice e da bene, generosa e caritatevole verso chi ne aveva bisogno, disposta a dare senza pretendere nulla in cambio.”
Mi è piaciuta allora quella presenza semplice e discreta, povera d’apparenza, ma capace di ben figurare a favore della gente misera della Contrada. Paolotti … Brava gente, insomma ! … Bravi i Frati Paolotti quindi !
(dettaglio del soffitto di San Francesco dei Paolotti)