“UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA. “ n° 42.
IL LINGOTTO DELLE MONACHE
Si chiamava Leòn … come “el leòn de San Marco”… e affermava d’essere Spagnolo. Era apparso dal nulla nella folla eterogenea, variopinta, colorata ed eterogenea della sontuosa Corte di Spagna. Lì si trovava anche l’Ambasciatore di Venezia in compagnia della sua figlia maggiore.
Si era verso la fine del XVI secolo.
E’ importante ricordare che quella figlia aveva raggiunto il nobile padre in quel luogo lontano dalle lagune veneziane viaggiando per conto proprio e tutto a sue spese. Non si dovevano confondere a Venezia affetti e politica, spendere “del pubblico” per convenienze private. Si poteva invece mescolare politica ed economia, viaggi per il governo con affari e mercandia privata, perché Venezia Serenissima era fondata soprattutto sui commerci e il vendere e comprare.
A giochi fatti, ed esaurite le “ … cose che contano per il Governo Serenissimo della Repubblica di San Marco …”,il padre aveva introdotto la figlia nel luccicante mondo delle feste di corte. E fu in quel contesto, che la giovane donna venne a conoscenza nel mare di gente che ruotava intorno ai sovrani, di quel cavaliere pomposo e solitario. Uno dei tanti, caratterizzato però da un’affabile presenza e maniera.
Le raccontò che era stanco di viaggiare e rincorrere l’avventura in giro per i mondi, correndo per terre e solcando i mari. Con una delicatezza galante aveva espresso il desiderio di scendere da quella giostra dorata e faticosa per mettere su famiglia e riempire l’incipiente vecchiaia che si stava avvicinando.
“Il Cavaliere aveva familiarizzato molto con la bella e giovane ragazza-dama veneziana, e in breve se ne invaghì compiacendosene non poco…”
Poi lei era ripartita col padre per le lagune Venete, e lui era rimasto nella Spagna, però con quel desiderio acceso, e il bel ricordo di quella donna italica e Veneziana.
“ Per lungo tempo i due intrattennero un intenso e prolungato scambio epistolare, che via nave correva dalla Spagna a Venezia e viceversa…”
Poi accadde qualcosa, e le lettere del Cavaliere non ottennero più risposta. Senza motivazione di quell’assenza inattesa, passato un certo tempo, il Cavaliere si determinò di partire per andare a vedere di persona che fine potesse aver fatto quell’amore corrisposto e interrotto. Decise di recarsi a Venezia e di concretizzare lì i propri sogni chiedendo la donna in sposa al patrizio nobile Ambasciatore. Sperava di ritornare in Spagna portandosela dietro come moglie.
Il Cavaliere spagnolo giunse così a Venezia in compagnia di un suo fido servitore dopo più di un mese di viaggio per mare. Fu grandissima per lui la meraviglia di sbarcare sul Molo di San Marco.
“Una città bella e fascinosa quanto le sue donne …”
Era autunno inoltrato, e in città lo notarono subito tutti per la sua affabilità e per il modo gentile, oltre che per il portamento solenne e gli abiti sgargianti e originali.
“El par un orso vestito di peli ! “
Commentava la gente per strada notando il suo grosso giubbone di pelliccia lavorata.
Fu una mazzata quasi mortale per lui scoprire che la donna per cui aveva attraversato l’Europa e il mare non c’era più. La peste se l’era portata via con la madre e altri componenti della nobile famiglia, al pari di tante altre donne e uomini veneziani. Il dolore e la confusione per quella perdita immane aveva impedito al padre Ambasciatore di darne notizia a quell’amato lontano di cui praticamente ignorava l’esistenza. Il giorno in cui il Cavaliere andò a bussare alla porta del palazzo e del fontego di famiglia dell’Ambasciatore che dava su uno dei canali più navigati e trafficati di Venezia, fu un giorno di grande mestizia. Quella visita andò a riaprire una ferita mai chiusa, rinnovando ancor più il dolore della famiglia per quelle perdite recenti.
Perciò il Cavaliere si ritrovò presto per strada con un unico indizio utile: l’indirizzo del monastero in cui viveva una delle giovani sorelle sopravissute della dama che lui aveva conosciuto alla Corte di Spagna.
Accadde perciò che il Cavaliere si spinse fino all’isola di Mazzorbo in un angolo discreto della Laguna di Venezia, per andare a far visita a quel che restava dei suoi sogni per provare a ritrovare almeno nei lineamenti di un’altra donna quelli della dama che aveva irrimediabilmente perduto.
Fu grandissima la meraviglia delle monache del piccolo convento lagunare nel ritrovarsi di fronte quel personaggio particolare.
La monaca Maria Elisabetta Bon canevera, che anni dopo raccontò la vicenda in una sua lunghissima lettera alla nipote Eufemia, scrisse che il Cavaliere non nascose la sua grande delusione nell’incontrare la sorella monaca della sua “amata perduta”. Era una donna completamente diversa da quella che aveva conosciuto alla Corte di Spagna. Non possedeva nulla della brillantezza e dell’esuberanza cordiale della sorella maggiore. La monaca era una donna dimessa, semplice, anche bruttina nei lineamenti, oltre che poco dedita e scarsamente abile nelle “cose del mondo”. Era una figlia di nobili sì, ma a quella maniera cadeta che era come l’ombra vaga dello splendore vissuto e dimostrato dai fratelli e figli primogeniti che contavano davvero.
Gli orizzonti della vita della donna erano ristretti. La monaca figlia nobile non era mai uscita dal ristretto mondo veneziano se non per recarsi saltuariamente alla villa di campagna di famiglia.
Il Cavaliere fece buon viso a cattiva sorte, e vista l’amenità e la bellezza dei luoghi decise di rimanere ospite delle monache per un certo periodo. Le monache accettarono di buon grado l’ospite facoltoso e di pregio, oltre che simpatico, e gli misero a disposizione l’appartamento dell’abituale Confessore del monastero, che in quel periodo era disabitato.
Il Cavaliere riempì le sue giornate girovagando per tutta la laguna di Venezia scrutandola fin nei suoi luoghi più reconditi e spersi. Partiva in barca con suo fido servitore silenzioso al mattino presto, andava a caccia e a pescare, e ritornava al monastero solamente al tramonto per cenare sontuosamente in compagnia delle monache, sempre accompagnato dalla sua gentile e bonaria allegria. Per un lungo periodo le monache videro di buon viso quell’uomo che sembrava davvero cordiale e innocuo, a tratti anche devoto, e s’intrattenevano volentieri nei giorni di brutto tempo e di pioggia ad ascoltare i racconti delle sue gesta avventurose che raccontava per ore con un fiume di dettagli nel piccolo ma elegante parlatorio del monastero.
Più della metà delle monache non era mai uscita dalla Laguna di Venezia durante tutta la loro vita, e una grossa parte sapeva a malapena leggere e scrivere. Perciò stupirono non poco nel sentire raccontare dal Cavaliere delle meraviglie del Nuovo Mondo, che lui aveva raggiunto e visitato a suo dire in lungo e in largo.
Raccontò di un posto in cui aveva visto con i suoi occhi una miniera d’argento. Un posto infernale, un antro in cui uomini vecchi e giovani dalla pelle scura vivevano come bestie schiavi del lavoro. Trascorrevano l’intera esistenza a grattare sotto terra in budelli stretti e fetidi con un lume legato sulla fronte della testa. Molti di loro morivano come api e mosche in autunno a causa dei miasmi e dei veleni che si liberavano da cuore della terra in quegli ambienti sotterranei asfissianti e bui. Era fortunato chi sopravviveva dalla primavera all’autunno, ma si portava dentro un’oppressione senza fine del respiro, che portava a veloce morte con grandi febbri, dolore, gonfiore e pena. Vite distrutte di miseria, tutte dedite ad estrarre quella ricchezza per le casse del Re Cattolico di Spagna.
Chi alla fine entrava in possesso di quelle pietre argentee diventava davvero ricco e potente, perché quell’argento diventava alla fine moneta sonante. Prima però bisognava lavare e raffinare quelle pietre col mercurio che bruciava e intossicava anche lui la vita della gente.
“ Il Cavaliere raccontò con raccapriccio estremo delle monache, che qualcuno di quegli uomini che raspavano il ventre delle terra, morendo e putrefacendosi lasciava per terra una piccola pozza di liquido di puro mercurio, tanto era diventato pregno il loro corpo di quella materia velenosa … Il Re Sovrano Cattolico di Spagna era valente credente ma era anche affamato insaziabile d’oro e d’argento per amore dei quali non si faceva scrupoli di utilizzare i modi e i metodi più crudi, perfidi per procurarselo... “
In altre giornate il Cavaliere raccontò: “… del mare immenso e burrascoso da attraversare per arrivare al Nuovo Mondo, dove i legni più grandi e potenti si dimostravano essere come fragili pagliuzze in balia delle onde alte come montagne e fragorose come il tuono. Gli uomini venivano sballottati come cartocci vuoti e più di metà di quelli che partivano non facevano più ritorno scomparendo nel fondo del mare oceano… “
“Per me l’è un fanfaròn … uno che racconta faccezie e storie … Chissà se saranno tutte vere le cose che va raccontando ? “
Commentava una delle monache anziane storcendo la bocca incredula. Ma intanto il Cavaliere era capace di tenerle un intero pomeriggio soggiogate ad ascoltare i suoi racconti curiosi.
Poi accadde l’imprevisto.
Il servitore silenzioso, che serviva il Cavaliere come un’ombra giorno e notte, ne combinò una davvero notevole. A dire il vero, più che un premuroso domestico sembrava un temibile sicario. Dall’aspetto ispido e incolto s’intendeva col suo padrone col solo sguardo o con piccoli cenni della mano. Non parlava quasi mai, era silenziosissimo e si muoveva leggero come un gatto, ma fu lestissimo di mano e con tutto il resto nel violare senza scrupoli, nottetempo e ripetutamente una giovane e formosa massera che lavorava per le monache del convento.
“ Appena la cosa fu palesata fu grande l’imbarazzo sia del Cavaliere Leòn che delle monache tutte, e prima delle feste di Natale il Cavaliere fu perciò indotto a ripartire in fretta e furia interrompendo il suo pigro girovagare in laguna … Era un’alba gelida il giorno in cui lasciò il monastero verso la fine di dicembre. La barca dei barcaroli venuti a prenderlo era tutta bianca ricoperta di brina. In piedi in mezzo al battello il Cavaliere sorrideva mentre si allontanava sulle acque placide e lisce della laguna. Rimase nella memoria di tutte le monache il suo indugiare a salutare prima scuotendo un guanto e poi sventolando in aria sempre più da lontano il suo cappello piumato come fosse una bandiera… “
Fu grande la meraviglia delle monache quando entrando nella stanza che era stata a lungo occupata dal Cavaliere, scoprirono posto in bella mostra sul tavolo, un luccicante lingotto pesante d’argento grezzo. Di certo valeva una fortuna, ed era evidentemente l’elemosina e il compenso riconoscente lasciato alle monache per il disturbo recato dal suo prolungato soggiorno nell’isola.
Accanto al lingotto c’era un biglietto:
“Orate pro anima mea !”
E c’era anche un nome: “Leòn Cavalier Servente di Spagna.“
Non ci mise molto la Serenissima dalle orecchie lunghe e dagli occhi che sanno guardare molto lontano, a scoprire che: “… Missier Leòn dalla Hispana è un brigante, omicida, imbroglione, ladro, schiavista sfruttatore infame, provocatore di piazza e attaccabrighe indomito, duellante equivoco, bandito e fuggitivo ... “
La Madre Badessa del monastero fu presa da grandissimo imbarazzo per ritrovarsi in possesso di quell’argento prezioso ma macchiato del sangue di tanti delitti e soprusi. Perciò fu gioco forza per lei chiedere e ottenere dai Magistrati e dai Provveditori della Zecca della Serenissima di accogliere in custodia quel piccolo tesoro scomodo.
Fu così che il grosso e pesante lingotto d’argento stimato purissimo proveniente dalle terre del Nuovo Mondo oltremare rimase depositato per secoli nei forzieri della Repubblica di Venezia in attesa di eventi che mai accaddero.
Ci pensò infine un certo Napoleone all’inizio del 1800 ad alleggerire le casse già semivuote del moribondo Stato Veneziano facendo scomparire per sempre quel poco che rimaneva depositato nei forzieri della sua Zecca in Piazza San Marco … compreso il lingotto d’argento delle monache di Mazzorbo.
Del Cavaliere Leòn col suo truce servitore non si seppe più nulla.
Oggi dove sorgeva il monastero col suo piccolo chiostro e la sua bassa chiesetta, c’è solo una vigna rigogliosa e ben curata. Un angolo ameno e silenzioso sperso negli spazi aperti della laguna veneziana.