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Il Ponte del Quarterolo o de la Monèda

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#unacuriositàvenezianapervolta 253

Il Ponte del Quarterolo o de la Monèda


 Il Ponte del Quartarolo lo chiamiamo adesso di Rialto … E’ un biPonte poi: perché è doppio per via della serie delle botteghe che lo ricoprono da una parte e dall’altra … Di sicuro è una bella opera: più bella di altri ponti famosi … Non me ne voglia, ad esempio, il Ponte Vecchio di Firenze: Rialto stravince .. perché non è solo un “ponte” ma è sempre stata come una “porta” per un intero microcosmo: l’Emporio Realtino Veneziano … che andava ben oltre il ponte in se stesso, ma coinvolgeva e s’allargava in moltissime Contrade Veneziane al di qua: “De Citra”, e al di là del Canal Grande“De Ultra”.

Nelle Cronache Venezianeesiste una data precisa: l’11 novembre 1264, in cui sembra sia iniziata la costruzione del primo ponte in legno di Rialto. Veniva detto appunto: “Ponte del quartarolo o della Monèda” per via che si doveva versare una moneta da un quarto come pedaggio per attraversarlo a piedi … e perché lì poco distante dal ponte sorgeva allora il Palazzo della Zecca, cioè “de la Monèa”… Monèda… Si doveva pagare di più per passarci sotto con una barca facendolo sollevare e aprire.

Cronache Veneziane diverse attribuite a Antonio Vitturi, Giorgio Dolfin e al Diarista Marin Sanudo fanno risalire il primo ponte a tempi ancora precedenti: il 1172, durante il Dogado di Sebastiano Ziani, quando si ebbe la pensata di costruire “su quella volta de Canal” unponte mobile su barche.Si dice che nel 1181 realizzò quell’idea lo stessoNicolò Starattoni o Barattieriche aveva verticalizzato le Colonne di Marco e Todaro sul Molo di San Marco... Infine ci pensò la leggenda a sistemare del tutto le cose: si raccontò che Estrellala figlia di Angelo Partecipazio tornò a Rialtoda Malamocco dal padre che era Doge.  Nell'809 aveva fallito la sua opera di mediazione con Pipino figlio di Carlo Magno Re dei Franchiche aveva cacciato i Veneziani FiloBizzantini dalla loro sede di Malamocco costringendoli a rifugiarsi nell’Arcipelago Realtino ... Pipino comunque s’era ritirato lo stesso vinto dall’alta marea che aveva disorientato le sue truppe, e preoccupato per l’arrivo di rinforzi Bizzantini sul Litorale … Venezia vinse quindi pur perdendo … ed Estella si portò a Rialto dove la sua barca confusa col nemico venne centrata e affondata da un micidiale colpo di catapulta Veneziana … Addio Estella: più vista … Lì in quel punto si costruì il Ponte a memoria di quella coraggiosa donna.

 


Il Ponte comunque fece il suo mestiere … Nel 1277 il Maggior Consiglio vietò ad ogni tipo d’imbarcazione di sostare e vendere tra la Loggia dei Mercanti-Camerlenghi e il Ponte, e tra il Ponte e la casa di Paolo Gradenigo sulla Riva del Vino… Era sorto il Mercato di Rialto ... Gli Ufficiali Sopra Rialto avevano l’ordine di tenere il ponte sgombro e normalmente chiuso al passaggio delle navi ... Non si poteva commerciare sul Ponte, ma solo nelle botteghe … salvo qualche rara eccezione umanitaria per qualche povero ambulante che vendeva frutta o pane per sopravvivere … Poi si autorizzarono anche i foresti … poi progressivamente: tutti ... Il Ponte, visto l’uso intenso, venne consolidato su pali.

Nello stesso secolo durante la famosa congiura di Baiamonte Tiepolo e dei Querini, il Ponte venne chiuso, altri dicono: sabotato, tagliato, e in parte bruciato per sfavorire i rivoltosi … Qualcuno dice: distrutto … Insomma: venne poi sistemato, e riattato nel 1432 tra febbraio ed agosto per una spesa di 2323 ducati ... Si tirò avanti risparmiando sulla manutenzione … finchè crollò clamorosamente nel 1444 per il peso della grande folla dei Veneziani che lo sovrastava andati a vedere il corteo acqueo della Marchesa di Ferrarasposa di Leonello d'Estein visita a Venezia ... Si trattava della “Spagnola”: la figlia illegittima del Re di Spagna Maria d'Aragona Trastamara … Tutto compreso la disgrazia non fece vittime: diversi Veneziani finirono in acqua trascinati insieme ai pezzi del ponte ... Il danno fu ingentissimo: Venezia rimase divisa in due.

Secondo Nicolò Trevisan 1458 il ponte venne modificato e risistemato di nuovo nel 1458, cioè diversi anni dopo … Lo si sistemò con due ordini di botteghe sui bordi dell’impalcato da una parte e dall’altra: non fu però una vera e propria ricostruzione ... E’ il Ponte in legno apribile visibile nel famoso dipinto di Vittore Carpaccio d’inizio 1500: un Ponte fatiscente che aveva continuo bisogno di restauri.

Le Cronache Veneziane raccontano ancora che durante lSettimana Santa del 1519, ai piedi del Ponte di Rialto sostava un poveraccio: che faceva capire con atti esserlì sta tajà la lengua da mori pirati et dimandava elemosina” ... Fin qua: niente di che: uno dei tanti disperati in giro per Venezia, senonchè c’erano stati anche i Preti di San Salvador e San Bartolomeodi Rialto, che vedendolo comparire spesso nelle loro chiese lo raccomandavano calorosamente dal pulpito alla carità dei Veneziani ... Voci dicevano che l’ometto stava prosperando … Perciò soprattuttoZuane Badoerdei Signori di Notte volle vederci chiaro per capire se quello era un parassita mentitore che approfittava del proprio stato … Un Ufficiale indagò con discrezione scoprendo che il padrone della furatola in Calle dei Stagneri, dove il disgraziato andava a mangiare l’aveva sentito più volte parlare … Era “un chèbo, un schechè”, cioè al massimo: un balbo”, di certo non un muto ... Venne quindi obbligato a presentarsi per farsi valutare da Mastro Agostin da PesaroMedico dei Prigionieri, che dichiarò: haver lengua come nui altri et lui si feva star sul palato la lengua et mostrava non l’haver... Siccome il mendicante continuava a fingersi muto, gli si diede allora un paio di tratti di corda che lo fecero subito parlare, cantare come un Cardellino, e confessare:“d’haver fato questo per trovar danari per viver”. Venne allora frustato da San Marco al Ponte di Rialto facendogli portare al collo un cartello con su scritto: Questo è quello finzeva non haver lengua... Fu deriso e visto da tutti urlare e correre lungo le Mercerie di San Salvador, inciampare e cadere sul Ponte dei Baretteri, e arrivare il più presto possibile a Campo San Bartolomio … poi fo bandito per anni cinque di Venetia et dal suo Dominio.

Cinque anni dopo, a ottant'anni da crollo, il Ponte cedette di nuovo. Stavolta ci furono due vittime e gravi danni alle botteghe che vennero tutte sgombrate ... Si decise allora di abbattere il Ponte per ricostruirlo del tutto: stavolta in pietra.

Alla sua progettazione concorsero tutti i migliori: Michelangelo, Palladio, Vignola, Sansovino, Da Ponte, Scamozzi e Boldù.La spuntò su tutti Da Ponte, che alla fine realizzò il ponte nuovo a una sola arcata di oltre 28 metri insieme al nipote Antonio Contin in tre anni.

In verità la cosa andò per le lunghe perché nel 1576 a Venezia accadde un’altra ondata di Peste, e l’anno seguente prese fuoco Palazzo Ducale: c’era altre priorità prima del Ponte quindi …

Risolti i due gravi problemi, al tempo del Doge Pasquale Cicogna si tornò a dedicarsi al Ponte superando anche le polemiche indotte dalle varie Artiche lavoravano sulle botteghe di lusso del Ponte: Mandoleri, Muschieri, Stringheri, Varoteri e Merzeri che non intendevano interrompere i loro affariLe botteghe rendevano molto allo Stato: da 16 a 40 ducati annui ciascuna ... Le 8 botteghe più belle da sole rendevano alla Serenissima 235 ducati, cioè l’equivalente del costo di un intero restauro del Ponte ... Ogni bottega messa all’incanto dallo Stato e concessa previo un deposito di 400 ducati, poteva rendere ai Commercianti fino a 9.000 ducati annui … L’opera del Ponte venne realizzata quindi in pietra d’Istria inserendovi 24 botteghe sui due lati ... Si prosciugò a turno mezzo Canal Grande per non interrompere il traffico, s’impiegarono più di 12.000 pali in legno d’olmo, e si spese l’enorme cifra di 250.000 ducati presi dai depositi della Zecca dello Stato: 130.000 ducati, cioè il 43 % del totale venne usato per pagare gli espropri di case e botteghe della Contrada di San Bartolomeo presenti ai piedi del ponte ... Si decise inoltre di continuare con ritocchi, rifacimenti e manutenzione almeno ogni 50 anni.

Di fine secolo: 1592, furono gli abbellimenti scultorei con l'Annunciazione e i Santi Marco e Todero applicati sui basamenti del Ponte, e realizzati da Agostino Rubini e da Tiziano Aspetti ...  S’incisero anche due date: quella ovvia della realizzazione del Ponte, e quella leggendaria della fondazione di Venezia: il 25 marzo 421 ... I lavori del Nuovo Ponte non spensero le polemiche degli Artigiani Veneziani, dei Mercanti e dei Bottegai che ostacolarono a più riprese il rinnovo del Ponte“di Stato”... Una voce maschile scettica di quelli che lavoravano e guadagnavano al Ponte diceva: “Questo lavoro sarà terminato il giorno il cui il mio membro metterà l’unghia.”… mentre un’altra voce femminile ghignava ironica: “Mi farò bruciare il basso ventre col fuoco il giorno in cui tutto sarà terminato !”

Ebbene: sui capitelli esterni del Palazzo dei Camerlenghi di Rialto ci sono scolpite quasi in maniera derisoria entrambe quelle due dicerie: il Ponte di Rialto alla fine fu terminato … E quindi all’uomo crebbe l’unghia fra le gambe … e la donna fu messa a sedere sul fuoco.

Venezia non si smentisce … E’ sempre e comunque Venezia.

 

 


Due passi a San Pantalòn ...

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#unacuriositàvenezianapervolta 254

Due passi a San Pantalon

Due passi per Venezia, proprio due … Era il 1880 quando Franz Leo Ruben dipinse questo “Campiello delle Mosche”: stesso anno delle foto in bianco e nero … Solita domanda per più di qualcuno: dove si trova ? … E’ quasi identico a ieri: a sinistra dopo l’edicola con i souvenir, appena giù del ponte di Campo San Pantalon (il chiesone scalcinato e nudo di fuori, ha dentro il soffitto dipinto col telero più grande del mondo … forse, e con un gambone di legno sporgente che penzola giù dal soffitto  … andate a buttarci un occhio) a Dorsoduro: subito dopo la strettoia della calle. Se poi continui oltre il Campiello: sbuchi in Saliza San Pantalon … Salizàda ? … Cioè: stradone pavimentato, ricoperto di masegni … di solito pieno di botteghe e attività … Non tutta Venezia fino a qualche tempo fa era lastricata: quando sono andato ad abitare a Santa Marta nel 1987: c’era ancora terra a prato fuori della porta di casa. 

Ah ... dimenticavo: sull'antica Pianta del De Barbari del 1500 tonndo tondo, si nota appena giù dallo stesso ponte la vecchia chiesa di San Pantalon col campanile abbattuto nel 1511 dopo un terremoto che lo rese pericolante ... Nel 1591 si chiuse poi il portico che c'era davanti alla chiesa perchè di notte vi succedevano di continuo "cose disoneste" ... Robe di ieri ... quando nella Contrada vivevano  circa 3.000 Veneziani di cui circa 200 erano Nobili Patrizi che non lavoravano ... Lavoravano, invece, e anche parecchio gli altri che s'industriavano in ben 110 botteghe, e in una Pistoria e casa da forno con bottega che consumava 4.548 staia di farina l'anno, mentre dopo metà 1600 c’era anche in Calle della Saoneria la Fabbrica di sapone tenuta da Bortolo e Santo Grigis che la gestiva a favore del Nobile Paruta, che abitava nel contiguo palazzo.



1600: il secolo della Peste della Madonna della Salute: già … In quegli anni di “morbo Infame” si andò a sequestrare una casa in Campiello Scudelini in Contrada San Pantalon, dov’era appena morto Domenico Bonaccorso: servitore di 50 anni “affetto mal mazzucco” ... Morì anche il Piovano della chiesa di San Pantalon: Prè Domenico Biondello, che per testamento destinò alla chiesa 600 ducati perché si facesse per la chiesa una gran bella lampada d’argento … Se la pappò napoleone che la se fuse in Zecca all’inizio del 1800.

Beh: a fine secolo la stessa chiesa scricchiolava e minacciava di crollare. Venne perciò “atterrata e rialzata in più consistente struttura sul modello di Francesco Comino” per volere del Piovano GioBattista Vinanti che ruotò di 90° la chiesa primitiva. E fu lì dentro che Giovanni Antonio Fumiani eseguì quel capolavoro dipinto dell’immenso soffitto col “Martirio di San Pantalòn Dottore”. La tela misura circa 443 mq, ed è formata da 40 tele unite insieme … Ci mise 14 anni di lavoro per dipingerla …La Leggenda dice, invece: 24 anni di lavoro, dopo i quali il Pittore sfigàto morì cadendo da un'impalcatura mentre stava dando le ultime pennellate di ritocco all’opera.

Una Sentenza della Quarantia Criminal della fine di aprile 1683 accusò Nicolò Rosetto detto Stramagnòn di aver colpito in Corte dei Preti dietro alla chiesa di San Pantalon il Sarto Zorzi Zender di 29 anni, che morì a causa delle ferite sette giorni dopo ... Nella stessa Corte dei Preti andò ad abitare nel 1745 il famoso Pittore Pietro Longhi con moglie e 3 figli piccoli pagando 38 ducati annui d’affitto, mentre i suoi colleghi Pittori: Nicolò Baldissini abitava una casa più grande poco distante in Corte Ca’ Balbo pagando 54 ducati, e Domenico Bertani con la moglie stava in Salizada San Pantalon per 46 ducati ... Appena due passi oltre la Corte dei Preti in Crosera San Pantalon, circa dieci anni prima: i Signori di Notte al Criminal raccolsero in un Magazzino da Vin Stefano Fagagna mezzo ubriaco e ferito mentre stava giocando alla Mora.

Infine che potrà mai interessarci ricordare con Gasparo Gozzi nella Gazzetta Veneta del 1760 che: “… lunedì nella Crosera di San Pantolon… nacque fra due barcajoli quistione, perché l’un di loro sosteneva che la barca sua sarebbe entrata nel magazzino e l’altro sosteneva ch’egli era un voler far passare un cavallo per la cruna dell’ago. La disputa si riscaldò: e che si che vi entra ? … e che non che non vi entra ? … Che ci giochi tu ? … Che ci gioco io ? Vennero a patti e fu giocata una bigoncia di vino. Il padrone della barca convocò subitamente un congresso di Facchini e disse loro la cosa, i quali ne la trassero incoltamente fuori dall’acqua e gridando “Issa ! tira ! lascia !”, cominciarono a tirala per terra con una concorrenza di popolo che parèa una fiera. La via era lunga, molte le genti intorno che impedivano l’opera, e la barca penava ad andare innanzi bechè con ruotoli di sotto e funi di qua e di là e con spingere da lati e di dietro la fosse grandemente aiutata. L’operazione andava lunghetta e l’ora si face tarda; ond’io lascia la calca e andai per i fatti miei …”

Come faccio io adesso.



Campo San Vidal zò del Ponte dell'Accademia

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#unacuriositàvenezianapervolta 255

Campo San Vidal zò del Ponte dell'Accademia

Scendendo il rattoppato Ponte in legno dell’Accademia, e scavalcando così il famoso Canal Grande, si arriva in due passi, subito dopo i Gondolieri e l’immancabile bancarella mangiaturisti: in Campo San Vidal. Si tratta del “cuore” di quella che un tempo era una delle Contrade Veneziane del Sestier de San Marco, e nella stampa di Giovanni Pividor del 1847 si nota la mancanza del sontuosissimo Palazzo Cavalli-Gussoni-Franchetti che riempie oggi la veduta e la scena di quell’angolo Veneziano.

Il monumentale Palazzo con giardino è stato rifatto nelle sue pompose sembianze neogotiche soltanto in tardo 1800, mentre, come si vede nella stampa, prima ne sorgeva uno di fattura più modesta quando apparteneva ancora ai Nobili Marcello.

Su Campo San Vidal vi dico solo tre cose curiose stavolta: solo tre … promesso.

La prima si può leggere nel Giornale della Sacrestia della vicina chiesa Conventuale dei Frati Agostini di Santo Stefano, dove alla data del 2 aprile 1556, si scrisse che una Veneziana partorì in un colpo solo in Contrada di San Vidal: sette bambini … che vennero subito sepolti nel Cimitero dei Padri appunto di Santo Stefano: “Povera donna ! … Non ne rimase per sua consolazione alla Vita neanche uno solo.”

La seconda: nel 1729 abitava sempre lì in Contrada di San Vidal un certo Nicola Faragonefiglio d'un contadino d'Ariano Pugliese o Irpino, che in realtà si trova in Campania ... Costui praticando prima la casa di un Avvocato del suo paese che derubò, rubò anche grosse cifre a un certoCostanzo Della Noce di cui istruiva i figli come“Maestro de casa”… Scoperto, venne messo in prigione da dove fuggì trovando riparo a Venezia, e qui divenne amico di due prostitute Napoletane madre e figlia: Fortunata e Leonora ... Beh: amico ? … Non proprio tanto … Una notte per appropriarsi di quanto possedevano le due donne, le uccise e le fece a pezzi mettendole in un baule che calò provvisoriamente con una grossa fune insieme a una pesante pietra dentro al pozzo di casa ... Maldestro l’ometto … Recuperò poi nottetempo il baule, lo mise in barca, e lo trasportò oltre il Canale della Giudeccaliberandosene gettandolo in Laguna. La corda a cui era legato il baule però andò a imbrogliarsi e incagliarsi insieme a quelle di una barca ormeggiata lì vicino ... Tira di qua le corde, tira di là: riemerse il baule, e si scoprì ben presto il delitto ... AFaragonecondannato il 12 settembre 1729 venne tagliata la testa, e il corpo fu diviso in quattro parti affisse a monito per tutti:“una par cantòn de Venessia”.

 

Terza e ultima curiosità … più recente stavolta … Ah: si ! … Me la ricordo ben la cièsa col San Vidal a cavallo ! … e sai perché ?” mi ha detto tempo fa un mio compaesano Buranello: “Perché prima di tutto come buon Buranello so che nel 1700 viveva in questa Contrada Veneziana il nostro Baldassare Galuppi, che è sepolto proprio qua in chiesa … Abitava in Campo: esattamente nel vecchio Palazzo Cavalli  … E poi: c’è un’altra cosa che ricordo bene … Da bambino ogni tanto la mia Mamma, che doveva far certe faccende, mi affidava per un poco a una sua sorella Suora che mi portava con se in giro per Venezia: a cjèse soprattutto … Me la ricordo bene la Zia: era incandita e incartapecorita, secca come un ciòdò dentro al suo cotolòn da Mùnega (Monaca), ed era devotissima, anzi: proprio bigotta … Era un rosariàre continuo, e tutta Santi e Madonne … D’altra parte era una Mùnega no ? … Ricordo ancora che ogni volta che m’incontrava me metteva in man un pàcco de santini, poi uscivamo di casa, e passavamo da un Oste che conosceva. Lei prendeva sempre un caffè nero e denso: secco come lei, mentre a me: “el fiolo”, dava ogni volta una bustina de mandolètte salàe e una pastina microscopica gommosa … Mi rimaneva sete per tutto il giorno, e la pasta vècia me restava incastràda nello stomaco fin a sera  … La Zia poi mi portava attraverso la Corte dei Preti, e mi diceva ogni volta: “Vedi: qua fin dal 1200 gèra tutto dei Preti … Ed è cosa vera … A San Vidal ghe ne gèra almeno quaranta de Preti, che i disèva tutti i giorni un scravasòn de Messe da mattina a sera, mentre qua intorno ogni Nobile gavèva in casa ‘na so ciesètta: Barbaro, Cavalli, Pisani, Morosini, Gabrieli, Mocenigo, Falier, Giustinian-Lolin, Mastini, Marchesini e Novello … Ghe gèra parfin un Prete miserabile che disèva Messa: “a favòr de tutti i Preti poarètti” … Qua ghe gèra usanza che el Clero de San Vidal el giorno del Santo Titolare-Patrono andava annualmente in processione fino al Traghetto sul Canal Grando per incontrar a metà strada i Preti del Capitolo de San Trovaso. Quelli ghe offriva un mazzetto de fiori e la man destra come riverenza … San Vidàl gèra el Papà dei do Santi Gervasio e Protasio ciamài dai Veneziani: Trovasio … Dopo, tutti i Preti insieme de le do sponde del Canalàzzo andava insieme a cantar Messa a San Vidal … Stessa cosa el giorno de la Festa de San Trovaso: quando i Preti de San Vidal andava a far festa e garanghèllo (banchetto) da quelli de San Trovaso.”

 La Zia Suora me portava in seguito dentro in cièsa de San Vidal: in Sacrestia … da un vècio Monsignor-Piovan che a conosèva … E là, ogni volta gèra a stessa solfa: dopo un fià de insistenze e tira e molla, el Prete ne mostrava un’altra volta con grande sussiego traendole da un involto de panno rosso consumà: certi preziosi Reliquiari che per secoli gavèva attratto tanti Pellegrini in sosta a Venezia prima de partir par la Terrasanta … El ne fasèva veder: le Spine e la Croxe del Signòr, ma anca: el Cuore del Beato Barbarigo, la Pelle de San Bòrtolo, e le Carni de San Luca e San Barnaba … Mamma mia ! …Gèra una cosa macabra: me fasèva paura solo l’idea de tutti quei Morti scuoiài e messi là dentro in cjèsa … Me parèva d’essere in un Cimitero … ma anche, detto sottovose: in una Bèccheria de a carne … Che ribrezzo ! … Non vedevo l’ora de andar via … E non xè tutto … Quello che me xè rimasto più impresso in mente … gèro putèo … Ricordo che con le altre cose el vecchio Prete ne mostrava anca a Reliquia “del pannolòn de Gesù Bambin” … No scherzo: xè vero … Oddio: si pisciava addosso pure lui, mi dicevo, e la cosa mi confortava parecchio perché a quei tempi qualche volta capitava ancora anche a me … C’era poi insieme ad altre Reliquie dorate che non ricordo, anche quella “dei capelli de a Madonna”, e anche “un pezzo del velo che a portava in testa” … E poi la Reliquia ch’el ne mostrava sempre per ultima: quella con i “Sacri resti del mantello de San Giuseppe” … Era più forte di me ogni volta: ridevo senza contegno, perché a me mente riandava al pensiero del mantello de Zorro … Sorridevo, e abbassavo la testa … La Zia che se ne accorgeva sempre, me tirava ogni volta fra capo e collo un scappellotto simbolico davanti al Monsignore, disèndome: “Vergognite ! … Ti xè spudorà e sacrilego !” … Il Monsignore allora, che aveva sempre un fiato malefico mortale, la vesta slavàda, e un colletto giallo attorno al collo, mi accarezzava la testa con una manomorta sempre fredda e biancopallida che pareva di cera … Poi tornavamo per strada finalmente, e anche quella volta l’avevo scapolàta di star là insieme a tutti quei Morti.”

 

Un altro angoletto di Venezia ... uno spicchietto di ieri.

 


 

 

 

“La Carnera” … Strìga de Piàssa Roma a Venezia

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#unacuriositàvenezianapervolta 256

“La Carnera” … Strìga de Piàssa Roma a Venezia

Ancora fino a qualche tempo fa lì c’erano a lavorare dei Lanèri Stramassèri (materassai) nel Campiello prospicente la riva dove oggi c’è una bottega, e un piccolo Locale … Un tempo, sempre lì poco distante, sorgeva il Purgo della Lana, e poco più là, al Ponte Marcelloverso la Salizàda de San Pantalon dei Lanèri, appena oltre al Rio del Gàffaro e dei Tolentini, c’era una delle Scholepiù rinomate e attive del Sestiere di Santa Croce: la Schola dei Pettinadòri de Lana: quella di San Bernardino dell’Arte della Lana, dei Lanaròli e Drapperi.

Ora i Laneri ovviamente non ci sono più … La zona credo la riconosciate tutti: è quella dei Treponti accanto all’odierna Piazzale Roma dei bus e del tram, giusto al di là del Rio Novo fino a qualche tempo fa percorso acqueggiando grandemente dai motoscafi A.C.T.V.

Ebbene lì ci fu un fattaccio: lì c’era e viveva una Strega … Beh: una sospetta Strega ovviamente … ma a quei tempi ci credevano ancora a certe cose … e non poco.

Infatti, appena le vicine Monache della Santa Croxe Granda seppero di quella faccenda: figuràrse ! … Fu subito un putiferio: “E ghe diède subito de campana de continuo ciamàndo a raccolta tutti quèi de la Contrada: “Gavèmo el Diavolo qua in casa !”, e disèva … Si: proprio qua in Fondamenta: a do passi … Dove nessuno se l’aspettava: “El ghe xè davvero ! … El perfido Satanòn in persona: el Mal de tutti i Mali cova la sua presenza proprio in mezzo a nu.”

E fu passaparola fra tutti … Un correre e correre tutti preoccuparsi: grandi e piccoli, Nobili e poveràssi della bassa glèba de a Contrada de a Croxe” … Le ottanta Monache Damianiste del Santa Croxe del Luprio si diedero da fare: misero in piedi tutta una sfilza di orazioni adatte, litanie e funzioni speciali … e ci fu perfino un’intensa e incalzante Novena dedicata alla Croxe: “Salvezza immediata ed efficace contro ogni mal del Corpo e de lo Spirito” … La tensione in Contrada si respirava: era quasi palpabile … e c’era nell’aria anche una certa preoccupazione … e perchè no: anche un arcano timore … Col Diavolo non si scherza … ieri come oggi.

“Orsetta mugièr de Anzolo Tessèr de Panni e massèra (serva) in casa dei Nobili Loredan in Corte dei Lavadòri me gha ditto, che quindese giorni fa a xe stàda spentonà da ella, e che a ghe a fatto impàsso mettendoghe e man sul petto …” testimoniò Giacomasposa di Mastro Giacomo Begamascodella Contrada de Santa Croxe in Curia de Lavadòri comparendo a San Domenico di Castellodavanti al Tribunale del Santo Uffizio dell’Inquisizione Venezianacol suo Vicario Frate Julio de Quintiano ... Aveva dovuto recarsi fin là, dall’altra parte di Venezia, per dare spiegazioni circa “Joannam la Carnèra”… e si era nel 1587: a fine estate.

Non si trattava solo di superstizioni, spergiuri e “fìsime da donne”… né erano solo pettegolezzi di Contrada, “sbrodeghèssi da donne intrigòse”: stava per davvero accadendo ben di peggio secondo la testimonianza di quella Veneziana.

Guardando in casa della Carnèra aveva visto spesso “pignatelle bogir sul fògo … e la fasèva molte superstision, che la volèa insegnarme anca a ella, ma che non ha cervello da potersi raccordar …”

La Carnera, inoltre, secondo il dire della stessa donna Giacomo, che si era recata dagli Inquisitori “par liberàrse la coscienza”, metteva le mani stese sui muri chiamando a raccolta e scongiurando cinque Diavoli con le cinque dita:“… e quei Diavoli vanno al core di quelli che lei vole, e che quelli non hanno mai ben finchè vivono.”

Giacoma raccontò d’aver visto più volte con i suoi occhi quelle cose: sia a casa sua, che sulla porta di casa della Carnera, che da parecchio tempo aveva nomea in Contrada d’essere:“una che fasèva strigossi e strigarie” in quanto da almeno un anno abitava in quella Corte di Santa Croce.

La “Carnèra” era una donna vedova qualsiasi sfortunata giunta a vivere in quella Contrada periferica di Venezia dalla Carnia… Ecco perché era la “Carnèra”: cioè dalla Carnia … una Carnica: dal luogo da cui provenivano le bestie e le carni macellate a Venezia. La donna a Venezia s’era “mississiàda” con un altro uomo, che chiamava marito, e s’ingegnava a vivere nello stretto “della Curia, Campiello e Calle dei Lavadòri de a Lana” in casa di Torniello Mastro Ceràrodi mestiere … E si sa: la Contrada era un mondo piccolo e ristretto, le vicinie, le invidie, le rivalità fra donne … La Carnèra divenne presto nella mente comune di alcune: una pericolosissima Strega che stava tramacciando con Satana e insidiando tutta la Contrada Veneziana.

Che aveva fatto ? … Poco o niente in verità … Si diceva che taroccava con le amiche guastando perfino un bon homo solitamente quieto e tutto dedito alla sua solita vita ... Ecco qua che cosa forse ci stava di mezzo ! … Rivalità in amore fra donne, forse un po’ di passione e sessualità ... qualche tradimento mal sopportato.

Giacoma, infatti, raccontò all’Inquisitore che la Carneracon le sue amiche: le sorelle Isabella e Livia, avevano “guastato”suo marito quando praticavano in casa sua ... Erano due poco di buono quelle due donne, che adesso abitavano entrambe al Traghetto di San Barnaba: una aveva il marito condannato a la galèra, mentre l’altra faceva “la cortesàna” ... Suo marito, continuò a dichiarare Giacoma, prima non era un uomo da perdersi dietro a donne, ma con quelle finì con il non interessarsi più di lei abbandonandola sia di giorno che di notte, perchè stava con quelle a mangiare, bere e divertirsi a sue spese ... Era stato di certo stregato e affaturato da quella Strega!

A tal proposito, aveva trovato a casa sua delle cose strane: un velo, “una quarta di vino”, e un panno annodato “con dei gròppi” enigmatici mai visti … Mostrate in giro quelle cose ad altre donne, Giacoma era stata invitata da tutte a liberarsene subito gettandole prontamente in canale.

L’Inquisizione Veneziana avviò opportune indagini, quindi si giunse ad allestire un processo contro “la Carnèra”Orsolala serva-massèra dovette presentarsi a Castello davanti ai Nobili Cancellieri: Giovanni Battista Querini e Giustiniano Giustiniani, e davanti al Nunzio Apostolico Matteuccio, e al Padre Maestro dei Domenicani Inquisitori: Fra Stefano Guaraldo da Cento e lì dopo giuramento venne interrogata circa gli incantesimi e gli spergiuri fatti dalla Carnera con le dita e altre cose simili.

Orsola ammise che la Carnera era sua vicina di casa, e che a casa sua voleva insegnarle come far sortilegi, ma aggiunse che lei s’era sempre rifiutata d’imparare quella cosa.

Comparve poi davanti alla stessa Corte Inquisitoria la stessa Johanna de Carnia dicta Cargnela moglie di Casare Giovanni da Venezia “menator arganèi”… Anch’essa dopo aver giurato di dire tutta la verità, affermò  di non sapere né immaginare perché era stata convocata dalla Santa Inquisizione … né disse di sospettare d’aver qualche nemica per qualche motivo … Aggiunse che certe donne, pur praticando per casa sua le volevano male: “perché sono donna di casa mia, e voglio stare con mio marito … Loro vorrebbero, invece, che mi comportassi a loro modo”.

Indicò ancora che fra quelle donne “di sospetto”c’era forse anche Cathe de Stephano Cerèr, ma che non le riusciva di aggiungere altro ... anche se ci sarebbero stati molti nomi da fare.

Interrogata se conosceva Donna Orsetta, rispose che la conosceva e che fra loro non c’era alcuna inimicizia … che le voleva bene, ma che a quel punto non era certa d’essere corrisposta ... Le chiesero ancora se quella Orsetta fosse stata capace di dire cose “contro Verità”… La Carniera si schernì e non rispose, dicendo che non sapeva: “Mi so il mio cuore … Io non porto odio a nessuno.” concluse.

Arrivati al dunque, e chiedendole minacciandola di tortura se non diceva il vero, “circa gli scongiuri Demoniaci a cinque dita sui muri, degli intrugli delle pignatelle messe a bogìr, e se aveva insegnato certe cose”, rispose sorridendo ironica che lei non avrebbe mai fatto cose del genere ... Che tutte quelle dicerie infamanti erano cose non vere ... e che lei non aveva insegnato niente a nessuno, perché non ne sapeva niente di niente ... Quelle erano solo “malevolenze” verso di lei.

Infine, interrogata se conosceva Donna Giacoma(la principale denunciante), rispose che la conosceva appena, che si salutavano dicendosi “buondì e buon anno”… anche se aveva questionato più volte perché quella donna pretendeva pane e altre cose da suo marito.

Alla fine della fine “la Carniera” venne licenziata e ammonita severamente dal Tribunale dell’Inquisizione… e invitata a non lasciare Venezia senza debito permesso dello stesso Santo Tribunale.

La quiete tornò in Contrada de Santa Croxe… S’acquietarono le vicine Monache Francescane nel loro austero e nudo Monastero, e sbollirono da quella specie di furore anche tutte le altre persone della Contrada … L’Inquisizione era lì a controllare e verificare, e con lei, come con la Serenissima non si scherzava: si rischiava tutti per motivi diversi di rimetterci le penne.

E “La Carnèra” ?

Boh ? … Visse la sua vita probabilmente … Dopo quel paio d’anni tormentati del processo: non se ne seppe più niente.

E il Diavolo ? … Mah ? Chissà ? … Quello continua sempre a soffiare e bollire di nascosto dentro al pentolone di tutti e di ciascuno ... Ma di solito non ci pensiamo più di tanto ... A differenza delle Veneziane di allora non lo tiriamo in causa: lo lasciamo là.

Comunque … Occhio alla Carnèra se per caso passate per la Corte dei Lavadòri ! … Non si sa mai.


Oltre el Ponte de Calatrava … quando non c’era.

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#unacuriositàvenezianapervolta 257

Oltre el Ponte de Calatrava … quando non c’era.

El Convento delle Muneghe del Corpus Domini in Volta de Canal


Di che vi sto parlando ? … Già … Avete presente il “sbrissoloso Ponte spaccagambe” di Calatrava immagino … Ebbene: lo attraversate da Piazzale Roma … e siete: in Stazione vero ?

Beh … Un tempo: no … Quando non esisteva la Stazione, lì oltre un alto e possente muro si era nel territorio del Convento delle Monache prima Benedettine e poi Domenicane del Corpus Domini, che oggi ovviamente non esistono più.

Annusiamone l’aria almeno … la memoria.

Non era il top dei top quel Convento: i Francesi e gli ultimi Veneziani prima del tramonto della Serenissima lo definivano di 2° classe … ma aveva in ogni caso tutte le sue cosine a posto: gli orti dietro fino alla Laguna aperta dove sorgono oggi Ponte e binari Ferroviari … ma non solo: il Convento possedeva aveva molto altro, e soprattutto una Storia e tante tradizioni.

Tutto fu demolito a inizio 1800: la modernità e il progresso chiamavano … C’era quindi da allestire una nuova porta d’ingresso per Venezia che fosse confacente ai tempi … Via tutto allora in quel lembo estremo del Sestiere di Cannaregiodove di fatto andava a terminare il Canal Grande o Canalàssofacendo la sua ultima “volta al Cào de la giràda de Canal”… Ci sono, c’erano, infatti sempre lì a pochi metri anche i Monasteri e chiese di Santa Chiara e Sant’Andrea de la Ziràda ... oggi Caserma della Polizia e chiesa soppressa e chiusa col campanile a cipollotto accanto al People Mover.

Era stato Papa Urbano IV a inventarsi la Festa del Corpus Domini nel lontano 1264, e ovviamente fu per devozione, ma anche per quieto vivere che la Serenissima Repubblica di Venezia adottò quella ricorrenza facendola propria con terminazione del 31 maggio 1295 ... E fin qua: niente di che, fu normale amministrazione, e solito ammanigliamento Civico-Religioso dell’altrettanto solita Italia tutta Cattolica che scandiva il Tempo con le sue scadenze e le Festività Religiose.

La chiesa del Corpus Dominidi Venezia venne edificata nel 1366 da Lucia Tiepolo Badessa entrata a soli 11 anni nelMonastero degli Angeli di Murano dov’era rimasta a vivere per 34 anni ... Classica storia di monacazione forzata di famiglia …Poi ancora contro il suo volere, fu stavolta il Vescovo di Torcello a trasferirla in mezzo al niente della Laguna: nel Monastero dei Santi Filippo e Giacomo di Ammiana dove rimase per altri tre anni … Lì nelle recondite acque diAmmiana, mentre un giorno pregava s’addormentò, ed ebbe una mistica visione un po’ “da copione”. Vide un: “Jesù in forma di un Signor ligàdo a una colonna, tutto impiagato e insanguinato, con la corona de spine in testa, et messili con gran peso le mani su le spale disseli: Va a Veniexia et edificarme un Monastier a mi nome.”Accaduto questo, si recò allora a Venezia a chiedere consiglio al Patriarca di Grado Francesco Querini che incoraggiò la Nobildonna Monaca a tradurre quel suo sogno in realtà.

Comprò allora insieme ad alcune amiche e col consenso del Maggior Consigliodella Serenissima un “lòco de Squeri in fondo al Sestiere di Cannaregio in Volta de Canal Grando”, ma quando giunse il momento di pagare il tutto, le amiche si eclissarono lasciandola da sola ad affrontare l’inghippo economico …  Le riuscì quindi soltanto di mettere in piedi una modesta chiesuola di legno … Solo più tardi col contributo finanziario delle Nobilissime tasche generose e capienti delMercante di Lana Francesco Rabia che finanziò anche la realizzazione di un annesso Conventerellosempre “in tavole de legno”, alla Tiepolo riuscì di avviare in toto il suo sogno … e ovviamente divenne la Capa-Badessadi quella nuova realtà religiosa … Erano lei e una sua compagna, con due altre donne secolari in tutto ... Beh: era pur sempre un inizio.

 

In quella zona, infatti, ci si trovava in estrema periferia di Venezia: ben lontani dagli splendori, dalla ricchezza e dallo strapotere dei grandi e pomposi Monasteri centrali Veneziani … Non c’era storia né confronto con i vari San Zaccaria, Frari, San Lorenzo di Castello e tanti altri … IlCorpus Dominiera robetta.

Giunse poi la Guerra di Chioggia, durante la quale lo stesso Mercante Rabia fece voto di innalzare una chiesa in pietra dedicata “al Corpus Domini” se Venezia avesse scampato il pericolo, e lui stesso avesse salvato la pelle ... e i suoi affari … Venezia si salvò in qualche modo dai Genovesi, e il Mercante con lei … quindi … nel 1394, coadiuvato dal futuro Beato Fiorentino Giovanni De Dominici: un Frate entusiasta dei Domenicani dei Santi Giovanni e Paolo, futuro Cardinale ed educatore-Confessore di due sorelle Tomasini, il Mercante Rabiarilanciò il sito delle Monache del Corpus Domini di Cannaregio, allargandolo e dandogli maggiore impulso, sviluppo e importanza.Le due sorelle Elisabetta e Andriola Tomasini, orfane di guerrae sorelle di Marco Tommasini-Paruta, e del Vescovo Tommaso Paruta, ci aggiunsero“del proprio” offrendo consistenti denari, poi divennero Postulanti (Novizie) dello stesso Convento ... E fu così, che sulla scia di tutto quell’entusiasmo le Monache crebbero di numero: 30 sembra, e si fecero tutte Domenicane La vecchia Lucia Tiepolo si trasformò in Priora, ed Elisabetta Tommasini in VicePriora ... La stessa Nobildonna Margherita Parutarimasta vedova, contribuì donando 5.000 ducati, e si fece Monaca al Corpus Domini divenendo l’assistente-Vicaria della Priora ... e si era nel 1399 ... qualche annetto fa.

Papa Bonifacio IX da Roma ovviamente incoraggiò il tutto a distanza: approvò e benedisse ogni cosa … e crebbero quinti frequentazioni dei Veneziani, elemosine e vocazioni delle Monache Nobili fornite di buone doti … Fra le Monache del Corpus Domini, c’era ad esempio fin dal 1369 Suor Maria Sturion figlia di Nicolò Sturiòn noto e abile Spicièr o Mercante di Spezie Veneziano con Bottega in Contrada di San Zulian in Ruga, con solidi accordi commerciali con i Banchieri Realtini: Marino Storlàdo e Soranzo, e allestitore di Colleganze e Spedizioni operanti su Rialto e la Drapparia diMarino Carlo… Un nome: un pezzo grosso insomma … A quel tempo a Venezia, la sua era una delle più ditte più floride e avviate, che accettava depositi di capitali e concedeva prestiti in modo ingegnoso: dividendi e guadagni erano legati all’andamento degli introiti e delle perdite dell’azienda, mentre i tassi d’interesse praticati per i prestiti erano fra il 12% e 24% annuo: ben attenti a non sconfinare nella perseguibile usura su cui vigilava la Serenissima … Sturiòn morì di peste nel 1400 lasciando 300 ducati proprio al Monastero del Corpus Domini.

Il Monastero Veneziano divenne poi famoso per la sua Festa del Corpus Domini, che divenne un annuale appuntamento di grido sentitissimo da buona parte dei Veneziani … Era una Festa tipica di Venezia: tipo il Redentore, San Marco in Bòccolo, la Sènsa, e la Festa della Salute (alcune di queste feste sarebbero nate solo secoli dopo), ed era caratterizzata da grande partecipazione di popolo e di Autorità. Con grande solennità e pompa magna vi partecipavano sia il Vescovo-Patriarca, che i Consiglieri della Serenissima, i Nobili, Cittadini, un nugolo di Preti e Frati e Monaci e Monache, le Schole Grandi,tutti i Guardiani delle Schole del Santissimo di Venezia, e una marea di Veneziani festosi. Fra i partecipanti spiccava sempre un particolare Procuratore di San Marco che aveva anche titolo a nome del Doge di Prior della Schola del Corpus Domini ... Secondo quanto racconta Michielnelle sue“Feste Veneziane”, nella circostanza della Festa ciascun Nobile Veneziano sfilava in Processione e Pubblico Corteo inizialmente dalla Basilica di San Marco, e in seguito dalla più vicina San Geremia fino alla chiesa del Corpus Domini in Cao de la Ziradaprocedendo sotto a un gran tendone colorato innalzato per l’occasione. Ad ogni palo di sostegno erano collocate due grosse candele accese, e ciascun Patrizio procedeva appaiato a un Pellegrino che stazionava in città in attesa d’imbarcarsi per la Terrasanta, o con un povero Veneziano … Soprattutto nelle ore pomeridiane della Festa, la chiesa del Corpus Domini di Cannaregio s’affollava di tantissimi Veneziani, che accorrevano per assistere all'apertura del solenne Ottavario di Celebrazioni, e alla Solenne Esposizione dell'Ostia Santa organizzata e addobbata da quelli della Confraternita del Sacramento detta  Schola dei Nobili.

La particolarissima Schola del Corpus Domini dei Nobili aveva sede proprio accanto alla chiesa-Monastero del Corpus Domini, e fu la prima di tal genere a sorgere non solo a Venezia, ma anche in giro per tutta Italia dando input e ispirazione a numerose Schole del Santissimo o del Venerabile o del Corpus Dominiche sorsero quasi in ogni Contrada Veneziana. La particolarissima Schola del Santissimo dei Nobili fu come “la matrice” e il riferimento di tutte le Schole, Sufragi e Sovegni di quel tipo esistenti a Venezia, perciò godeva di annuali sovvenzioni e contributi pubblici forniti sia dal Governo Veneziano, che dalle Schole Grandi, che da tutte le Schole di Devozione delle Contrade cittadine. L’accesso, partecipazione, iscrizione alla Schola era però riservatissimo e ridotto: era esclusivo per Procuratori di San Marco, Nobili di rango, Mercanti e Cittadini Onorari che dovevano essere nomi significativi, ricchi, influenti e potenti ... Non era ammessa espressamente: “gente dibassa condizione.

Terminata a sera la grandiosa Funzione-Processione, si organizzava sul prospiciente Canal Grande un gran corso di barche e gondole “appellato Fresco”,che si prolungava in allegria con musiche, canti e baldoria fino a notte inoltrata stemperandosi sulle rive e le Contrade d’intorno.   

 

Poi improvvisamente scesero in fretta “le azioni” e le fortune del Monasteroe delle Monache del Corpus Domini, perché il 22 maggio 1407, ma soprattutto nel 1440 sotto il Doge Francesco Foscari, il Senato della Repubblica deliberò che la Festa del Corpus Domini si dovesse tenere esclusivamente in Piazza San Marco. Il Conventuolo delle Monache dall’altra parte della città venne di fatto tagliato fuori e messo in secondo piano, e ne risentì non poco finendo in disgrazia … Anche il vecchio Patròn delle Monache: Fra Giovanni De Dominici, che aveva contrastato lungamente con la Repubblica, era stato indotto con le buone maniere a lasciare Venezia.

Venezia insomma era sempre la stessa: “Ubi major minor cessat” ... In Laguna dovevano sempre prevalere gli interessi della Serenissima e mai quelli dei singoli o dei particolari … Quindi la Storia di Venezia, delle Contrade e dei Veneziani continuò a ruotare come sempre, la Festa Veneziana del Corpus Domini si assopì, e quel punto di riferimento delle Monache in fondo a Cannaregio finì un po’ nel dimenticatoio … Calarono le sovvenzioni pubbliche e private, e perfino le vocazioni e il numero delle Monache ebbero una considerevole flessione: si ridussero a pochissime in vent’anni … Secondo quanto si diceva in giro per Venezia: “il Corpus Domini è un Monastero che vive in gran povertà”.

Cadde poi la pioggia sul bagnato, come spesso capita … Nell’estate 1410 un turbine provocò un furibondo incendio del Corpus Domini: crollò il campanile, e chiesa ed edifici accanto finirono rovinati ... IlConventerello andò quasi in rovina per mancanza di risorse Un disastro insomma !… I Tommasini per aiutare le sorelle acquistarono un paio di casupole vicine appartenenti ai Diedo, che vennero trasformate in Infermeria delle Monache… La Nobildonna Cristina vedova di Gregorio Morosini morendo lasciò 1000 ducati alle Monache per provare a risollevarsi ... ma inutilmente: la situazione rimase complicata.

Papa Martino Vin persona provò allora a risollevare le sorti del Monastero concedendo Indulgenze ePassaporti per il Cieloa chi avesse contribuito al restauro e alla ricostruzione e riavvio della chiesa-monastero un po’ abbandonata a se stessa Fantino DandoloVescovo di Padova venne incaricato di guidare la ricostruzione di tutto, e chiesa-convento vennero riconsacrati“come nuovi”nel 1444 dal futuro Santo:Lorenzo Giustiniani primo Patriarca di Veneziache si fece carico col Papa di mantenere in piedi e funzionante tutta “la baracca”… lo dico io … del Corpus DominiNel 1480, Zurla o Carlotta figlia naturale di Giacomo Re di Cipro morì non si sa bene se di peste o di veleno, dopo aver abitato a lungo sorvegliata dal Governo Veneziano proprio nel Monastero del Corpus Domini … Venne condotta per essere seppellita a Padova, e la Repubblica fece togliere durante il funerale la corona che le era stata posta sulla testa da morta sostituendola con una ghirlanda di erbe e fiori.

Il giorno dopo Natale del 1511, scoppiò un altro grave incendio nei magazzini della legna delle Monache del Corpus Domini… Secondo il racconto del Diarista Marin Sanudo: “… cagione fu un razzo gettato dall'opposta Fondamenta de la Croxe”.

Comunque stavolta il Monastero si riebbe presto: si costruirono un Dormitorio Grando e poi un Dormitorio Nuovo, e altre fabbriche, il Cimitero e gli orti ... Nel 1533 secondo la relazione del Nunzio Apostolico a Venezia Giovanni Aleandro le Monache erano tornate ad essere: 81 … e sbaruffavano con le Monache Agostianedella vicina chiesa eMonastero di Santa Lucia per ospitare il corpo dellaSanta Martire e Vergine Siracusana Lucia: Santa ambitissima … Voci dicevano che avevano offerto 500 ducati per poterla ospitare creandole un’apposita nuova cappella in chiesa ... Alla fine non se ne fece nulla, e le spoglie di Santa Lucia rimasero dov’erano.

 

Nello stesso anno nacque però gran confusione … In febbraio: Frà Serafino da Firenze Vicario Generale dei Domenicani e tutore in qualche modo anche del Monastero delle Domenicane del Corpus Domini, congedò la Priora Trevisan con due mesi di anticipo sulla scadenza del suo mandato, così da favorire nuove votazioni e l’elezione di una nuova Priora sua favorita mentre lui era presente a Venezia ...  Si trattava della Monaca Cittadina non Nobile: Giacoma Torella fuoriuscita da Bologna.

Fra Serafino aveva dimenticato che la Priora Trevisan era sorella del Nobile Patrizio Polo Trevisan che faceva parte del Consiglio dei Dieci.

Figurarsi ! … Il Trevisan era un pezzo da novanta: un uomo potente da prendere con le molle, anzi: da non dover toccare affatto, né provocare in alcun modo. Fra Serafino, invece,influenzò le operazioni di voto delle Monache, violò la segretezza delle scelte, e rifiutò di confermare Veneranda Cappello di 47 anni eletta come nuova Priora dalle Monache con la scusa che era troppo giovane e inesperta.  

L’11 febbraio la Cappello venne ufficialmente eletta Priora … Era intervenuto il Consiglio dei Dieci, che aveva escluso “di brutto” la candidata Bolognese … Non finì però qua la questione: per tutto l’anno seguente le Monache continuarono a battibeccarsi … Ancora a novembre, le Monache favorevoli alla Priora Torella a cui era stata vietata l’elezione continuavano a rifiutarsi di prestare obbedienza alla Priora Cappello: legittima titolare del Corpus Domini.

A niente servirono le minacce, e perfino la scomunica del Nunzio Apostolico residente a Venezia: le Monache riottose sostenute dai Domenicani erano toste ... Alla fine furono più tosti di loro il Consiglio dei Dieci e le Famiglie Nobili Veneziane, che ordinarono d’entrare con la forza nel Convento del Corpus Domini, e d’arrestare 6 Monache compresa la Torella, e altre 4 Monache Converse trasferendole in 6 Monasteri Veneziani diversi. La questione così si risolse, e perfino Papa Clemente VII disse la sua mettendo il Monastero sotto la sua diretta protezione, liberandolo così dall’influsso storico dei Frati Domenicani ... giochi di potere e storie di Monache.

Nel maggio 1560, fu Papa Pio IV a passare la dipendenza del Monastero del Corpus Domini al Patriarca di Venezia, che fatalità era Giovanni Trevisan parente della vecchia Priora Trevisan… Nell’occasione si stabilì che non si poteva accettare come Monache Professe da Coro del Corpus Domini: donne illegittime e di estrazione bassa e artigiana, ma soltanto Nobildonne provatamente d.o.c.

E siamo giunti a dire del casino più totale, e della pagina più buia della storia del Monastero del Corpus Domini di Venezia … Dall’ultimo terzo del 1500 in poi, accadde un gran casotto dentro al Monastero: storie tipiche e frequenti nei Conventi dell’epoca … quindi anche di quelli Veneziani.

Alla fine di gennaio 1572, dopo una puntigliosa Visita Pastorale ai Monasteri Veneziani, il Patriarca Giovanni Trevisan ordinò e tuonò: “… del mandato del Patriarca di Venezia sia commesso a tutte le Madre Abbadesse, Prioresse et Monache di cadaun Monasterio … che in virtù de Sancta Obbedienza et sotto pena de escomunicatione debbino obbedir al mandato del Patriarca del 11 genàro 1565 altre volte intimato, di non ammetter né permetter che nelli parlatori si habbi a disnàr, né mangiar per alcuna persona sii di che condizion e grado si voglia, né padre, né madre, né fratelli, né sorelle, né admetter maschere, buffoni, cantori, sonadori et de simili sorte persone sotto niuno pretesto, né modo, che immaginar si possa, né permetter che in essi parlatori si balli, né si canti né si soni per alcuna persona sii che si voglia…”

Era evidente che le Monache Veneziane si stavano scatenando e lasciando andare.

Più di vent’anni dopo: nel 1595, visto il completo insuccesso di quelle raccomandazioni, alla nuova Visita Pastorale del Patriarca Priuli si condannò il fatto che le Monache si lasciassero in eredità non solo vestiti e mobili ma anche le stesse celle in cui abitavano ...  Si rimproverò anche alle Monache di occuparne anche più di una ciascuna … Il Patriarca poi, girando per le celle delle Monache le aveva trovate arredate con coperte raffinate e biancheria ricamata … Aprendo casse e bauli li aveva trovati pieni di abiti e gioielli, le credenze erano piene di cibo, dolci e vino … I Visitatori Patriarcali rimasero sgomenti per il lusso di alcune Monache opulente … Emersero inoltre in parallelo racconti di difficoltà istituzionali, fondi insufficienti e mal gestiti, scarsità di cibo, vino povero, spifferi e umidità ... Si riferì fra l’altro al Patriarca che: “… le Monache Converse di fuori vanno alla villa, et in altri luoghi di Venezia dove le piace con grande scandalo di tutti …”

Iniziarono allora i processi del Santo Uffizio dell’Inquisizione Veneziana contro le Monache … Nell’estate 1600 si allestì un: “processo per molestie inferite da parte di un asserito Principe di Moldavia a una Turca fattasi Cristiana e resasi Monaca al Corpus Domini”… Nel maggio 1611 si istituì un nuovo processo: “per discorsi di due Ebrei con una Monaca”… Nell’aprile precedente due Ebrei in attesa di un compagno in affari per  “andar a vedere certi tapedi, e razzi de un Mercante di Lana”, avevano preso il Traghetto della Croxe al di là del Canal Grande proprio di fronte al Monastero del Corpus Domini. Aspettando l’arrivo dell’amico si misero a sedersi all’ombra “…sulla riva pubblica per mezo la porta de le Muneghe del Corpus Domini”Poco dopo si aprì la porta del Convento, e ne uscì prima un Carpentiere, che deposti gli arnesi fuori, lasciò aperta la porta rientrando … poi due Monache-Converse apparvero e chiedere e chiacchierare con i due uomini seduti a terra, chiedendo loro se erano Veneziani ... Le Monache avevano apertamente violato il loro “status claustrale”… Voci e sussurri volarono, e i due uomini fecero appena in tempo a provare a rispondere alle Monache, che vennero subito arrestati da agenti inviati dai Provveditori da Comun.

Nel 1625 le Monache Nobili del Corpus Domini si lamentarono col Patriarca Tiepolo che le Monache Converse del Monastero non si comportavano con sufficiente deferenza e “pretendono d’essere da tanto come noi altre Nobili.” Le Monache Nobiliinoltre si lamentarono “per il vino cattivo” e per il trattamento che non era al livello che meritavano.

Nel settembre 1641: “processo per visite di un Secolare in Monasterio” ... poco dopo: “processo per corrispondenza amorosa con una Monaca”… Nel 1655:“processo per scandali di un Prete”... Tre anni dopo: “processo per Mascherato nel Parlatorio”… Poi ancora:“processo per visite frequenti di 8 Secolari, fra' quali alcuni Nobili ai Monasteri dell’Umiltà, Corpus Domini, San Daniele, Sant’Iseppo e la Celestia” ... “processo per visite di un Notaio.” … “processo per relazione con una Monaca e con un’altra del Sant'Alvise” … “processo per tresca amorosa”.

Dalla relazione delle Visite Pastorali del 1676, risultò che l’interno e le pareti della chiesa erano di continuo ulteriormente abbelliti e adornati: erano letteralmente ricoperte dall’esposizione di numerosissime pitture: “tanto che a detta dei contemporanei non restava vuoto un solo palmo.”Maria Santa Soffia Domestica Personale del Doge Giovanni Pesaroaveva donato nel 1665 a Canciana Gradenigo Priora del Corpus Dominie nipote del Patriarca Gradenigo: un ulteriore quadro con cornice dorata rappresentante un “San Giovanni Battista”… Il Monastero diventato di sicuro pingue: possedeva diverse case anche a San Nicolò dei Mendicolidalle quali ricavava annualmente 600 ducati ... Ogni anno la famosissima Congregazione dei Preti di Santa Maria Materdomini: “una delle Nove del Clero”,pagava una costosa Mansionaria di Messe alle Monache Sagrestane del Corpus Domini in suffragio e memoria del Reverendo Giobatta Sacchini Prete Veneziano affezionatissimo in vita alla chiesa del Corpus Domini di Cannaregio.

 

Nel 1784, invece, le Monache del Corpus Domini erano diventate quasi tutte vecchie, poche di numero, e incapaci di sopperire a tante incombenze. Si ostinavano però a conservare più che potevano le tradizioni del Monastero, ed essendo impedite di farlo personalmente, stipendiavano diversi Cantori e uomini di chiesa perché “le funzioni e la Festa del Corpus Domini con le sue Sacre Uffiziature” fossero celebrate adeguatamente … C’era nell’aria però uno strano sapore d’incipiente quanto irreversibile declino.

Sto tirandola per le lunghe, me ne rendo conto … e vi sto forse annoiando: lo so … Facciamo allora un balzo in avanti andando alla fine della storia di quel posto ora sostituito dalla Stazione Ferroviaria di Venezia, dai negozi e dal Palazzo della Regione di Luca Zaia “strenuo imbragadòr del Covid di Venezia … peste e pantano di questi nostri giorni Lagunari”.

Nel primo decennio del 1800 passarono infine per Venezia Francesi e Austriaci, che neanche si avvidero “del tanto”e di tutta la storia accaduta in quei luoghi Veneziani. Preferirono spazzare via tutto indistintamente e basta, senza neanche pensarci su più di tanto ... Prima concentrarono nel Monastero del Corpus Domini 7 Monache Domenicane provenienti dal Convento di Santa Maria del Rosario sulle Zattere, poi una parte delle 35 Suore Francescane del Convento del Santo Sepolcro in Riva degli Schiavoni che vennero chiusi e trasformati in caserme … Nella primavera seguente la Priora Madonna Crocefissa Lavezzani scrisse al Consiglio Municipale di Venezia che le Monache per potersi mantenere, e per riuscire a pagare anche l’imposta del 47% sui beni che possedevano nel Padovano, erano state costrette a vendere tutto:  raccolto di vino e frumento compresi ... Ora si trovavano indebitate con i venditori dei generi di prima necessità che non volevano più far loro credito.

Qualche tempo dopo, la parte delle Religiose del Santo Sepolcro mandate inizialmente al Santa Chiara di Murano, dove alcune di loro non si erano affatto trovate a loro agio per una pratica più rigida della Regola Francescana: “…sommamente ristretto…era l’angolo di fabbricato dove erano state confinate…l’isola era una plaga insalubre … inoltre maggiori erano le difficoltà per ricevere aiuti da Venezia.”, chiesero di essere trasferite almeno nel più confortevole Monastero Benedettino di San Lorenzo di Castello a Venezia. Furono stavolta le Benedettine di San Lorenzo a non voler ospitare le Consorelle, perché il loro Monastero era già più che intasato dalla presenza di altre Monache Benedettine concentrate lì da mezza Venezia. Alcune Monache allora decisero di rimanere a Muranosottomettendosi finalmente alla Badessa del Santa Chiara, mentre le ultime 7 Monache più bellicose insieme ad altre 11 Converse desiderose ad ogni costo di migliorare la loro situazione, chiesero e ottennero di diventareMonache Domenicane, e di trasferirsi quindi al Corpus Domini di Cannaregio a Venezia ... Col sopraggiungere di quelle ulteriori 25 Monache, nel Corpus Domini rimasto senza spazi, le Monache non sapevano neanche più dove riporre i loro vestiti.

Che casino !

Giunse infine la fine della fine nell’aprile 1810, quando anche chiesa e monastero del Corpus Domini con le 49 Religiose Domenicane rimaste vennero soppressi ed evacuati: il Monastero venne adibito a Cereria, i Dormitori divennero Granai, la chiesa abitazione, e il bel edificio con porta in marmo d’Istria e capitelli d’ordine Jonico della vicina Schola dei Nobili divenne capiente magazzino.

All’inizio ottobre 1810 si scrisse: “… intanto resta appuntato che le chiese di Santa Giustina, Santa Maria della Celestia, San Lorenzo, quella delle Servite, Santa Maria dei Servi, San Bonaventura, le Cappuccine di San Girolamo, Corpus Domini, Terese, San Biagio della Giudecca restano fin d’ora a libera disposizione dell’intendente, si ritengono come già profanate e a totale sua disposizione: s’incarica però il Signor Intendente di presentare alla Prefettura la nota degli oggetti tanto di belle arti, come interessanti le belle lettere e l’antiquaria alla cui scelta vennero delegati il Signor Eduars e Morelli in concorso del Signor Economo Volpi. Sopra queste note il Prefetto si riserva d’indicare il luogo sia provvisorio, sia stabile, in cui gli oggetti stessi dovessero essere trasportati sottoponendosi a sostenere le spese.”

Giunto il 1815, si arrivò alla demolizione di tutto: al posto di orti, giardini e squeri del Corpus Domini, della case d’affitto dei Nobili Rezzonico in Calle dello Squero dove possedevano anche un superboCasino affacciato sulla Laguna, e del Palazzo  dei Priuli dalla Nave(per una nave scolpita in facciata),  si sarebbe posizionata “la testa del Ponte della Strada Ferrata, e poi le pensiline per i viaggiatori della Stazione Ferroviaria, e un Palazzo per le Poste”… I 48 dipinti di pregio della Schola dei Nobili e del Convento del Corpus Domini vennero acquisiti dal Demanio ... In realtà nel complesso monastico si contavano ed erano ospitate ben più di 180 opere, molte delle quali considerate “guaste, o di poco o niun valore” ... ma non era così.

La “Madonna e Angeli con Sant’Antonio da Padova” di un altare dipinta dalloZanchi “prese il volo” e venne venduta alla chiesa di San Vito di AsoloGesù morto con le Sante Marie e un Angelo” posta sull’Altare della Pietà e realizzata da Francesco Salviati venne mandato a Brerae poi concesso alla Chiesa Prepositurale di Viggiù in LombardiaUna Madonna con San Pio V diAntonio Fumiani venne venduta aSan Lorenzo di Vicenza insieme all’“Eterno in Gloria”di Matteo Ingoli ... Un “San Pietro Martire e San Nicolò e Sant’Agostino” di Cima da Conegliano collocato su un altro altare finì ugualmente alla Pinacoteca di Brera a MilanoUn Miracolo di San Domenico”  (ora nel Duomo di Belluno dopo esser passata per le soffitte dell’Accademia di Venezia), e una “Madonna con San Gregorio e Santi” del Lazzarinivennero ceduti “in deposito”rispettivamente alla chiesa di Sant’Orso di Schio e a San Giacomo di GujaLa “Comunione degli Apostoli” di Sebastiano Ricci venne tagliata a pezzi e spedita in Bucovina all’Arcivescovo di Leopoli.

“Cristo con la Samaritana al Pozzo”, la “Moltiplicazione dei pani e dei pesci”, le “Nozze di Cana” e una Storia di Cristo” dello Scaligero collocati sopra alla porta della Sacrestia e sull’Altar Maggiore vennero spediti a Viennainsieme al dipinto della Schola di Santa Veneranda: “Santa Veneranda in trono, le Sante Maddalena, Santa Caterina, Sant’Agnese, Santa Lucia e due Angeli che suonano il liuto” di Lazzaro Bastiani(oggi all’Accademia di Venezia), e a un’anonima ma spettacolare “Trinità e Santi” . Oggi diverse opere sono state recuperate e si trovano all’Accademia di Venezia, mentre la bellissima anconeta in tredici comparti con le “Storie di Cristo” di Antonio Vivarini o Quirizio da Murano proveniente dalla Clausura del Monastero del Corpus Dominisi trova presso laPinacoteca Franchetti della Ca’ d’Oro di Venezia.

Il grandissimo telero di Davide trasporta l’Arca” di Antonio Molinari collocato nel Coro delle Monache si trova oggi a Santa Maria degli Angeli nell’isola di Murano dopo esser passato per la Biblioteca Marciana-Sansoviniana fino al crollo del Campanile di San Marco del 1902, mentre della “Sacra famiglia”  posta su un altro altare, e della Madonna, San Domenico e Santi” dello stesso autore collocate in parete in chiesa non si sa più nulla come del Transito di San Domenico” del Fumiani, e del San Domenico getta nel fuoco i libri eretici”, e dell’“Ultima cena” di Sebastiano Ricci… Due altari della chiesa (quello della Madonna e San Giuseppe oggi del Crocifisso e di San Pietro) vennero trasferiti e dati a  San Pietro di Castello: uno era stato fatto costruire da Bernardo Moro Procuratore di San Marco nel 1537, che s’era fatto seppellire nella chiesa del Corpus Domini occupando il posto che era stato dei Nobili di Cà Vitturi.

Alcune statue di stucco di Maddonna e Santi vennero date al Piovan di San Simeon Profeta, e di loro si perse ogni traccia … La tela con l’“Adorazione dei Magi” di Palma il Giovane venne trasferita nella chiesa dello Spirito Santo sulle Zattere mettendola accanto allo “Sposalizio della Vergine” dipinto dallo stesso pittore per un altare dei Nobili Querini della chiesa di Sant’Antonio di Castello ormai demolita per far posto ai Nuovi Pubblici Giardini… Le lapidi sepolcrali dei fondatori della chiesa: Tomaso Tomasini Paruta e Fantin Dandolo vennero portate nel neonato Lapidario del Chiostro del Seminario Patriarcale alla Salute ... mentre l’imponente Monumento ai Nobili Gradenigopresente sulla controfacciata del Corpus Domini, realizzato forse da Baldassarre Longhena o perlomeno su modello simile a quello realizzato per i Nobili Soranzo a Santa Giustina: con quattro colonne e sette statue raffiguranti Agostino Gradenigo Patriarca di Aquileia, Marco Gradenigo Duca di Candia(poi anche lui Patriarca),e Daniele Gradenigo andò perduto … Una Elisabetta Gradenigo, e le sorelle Felicita e Canciana Gradenigo erano state Monache al Corpus Domini … mentre un Alba Grimani fu Monaca e Priora del Corpus Domini.

 


Che ne dite ? … Un gran bel saccheggio e scempio … No ?

 

Ultimissima curiosità: l’umiliazione dei Veneziani … Il Magistrato alle Acque incaricò i Gastaldi di tutte le Scuole del Santissimo di Venezia (carica pompossima e di grandissimo prestigio per secoli, ambitissima da molti Veneziani) di vigilare sulla attività dei “netadòri spazzini della propria Contrada”, segnalando o meno “in fede” se facevano il loro mestiere tanto da poter meritare e ottenere il loro stipendio … Venezia era precipitata in basso: “da Guardiani dei Veneziani e delle cose alte e nobili dello Spirito … a Guardiani de le scoàsse” ... da risorsa a rifiuto si disse.

Ho terminato … La storia del Monastero del Corpus Domini di Venezia, e di quello spicchierello del Sestiere di Cannaregio in Cào de la Zirada del Canalàsso… gira e volta, è stata pressappoco questa qua.

 

Nel palùo de San Giacomo

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#unacuriositàvenezianapervolta 258


Nel palùo de San Giacomo


Quand’ero bambino la ricordo benissimo … Ci passavamo accanto andando e poi tornando a Burano da Venezia … L’isola di San Giacomo in Paludo era ed è quell’ettaro di terra emersa quasi buttato là a caso in Laguna tra Murano e Burano sul Canale della Scomenzera di San Giacomo … ovverossia sui Canali de Scortegàda e del Bisàtto che vien da Muran, e che va al Porto de Sant’Erasmo da una parte e a Mazzorbo dall’altra.

Nella mia mente rivedo l’isola “imbronciàda” una volta di più d’inverno, col nebbione fisso e piovoso … e assolata e verde dietro al suo muro d’estate … Mi faceva più impressione col buio e il freddo, quand’era quasi o ormai sera nella cattiva stagione. Le passavamo accanto a bordo del vecchio e grosso vaporetto “Patàte”: il cui motore bolso e odoroso le rombava dentro nella pancia a suon di pistoni unti e forti mentre ci riportava a Burano in fondo alla Laguna.

Ciangottava il battello lento e pesante, sembrava ogni volta quasi tirare l’ultimo respiro, quando faceva il curvone acqueo di San Giacomo in Palùo… Poi se non finivamo in secca nella nebbia perché il Radar era rotto, si andava dritti per l’Isola della Madonna del Monte, e poi verso la strettoia del Nuovo Canale di Mazzorbo, e infine alla mia Burano … Giunti a San Giacomo in Palùo andando e tornando si aveva l’impressione che il più dell’ennesimo viaggio, sempre speciale per noi, fosse ormai fatto. Quell’andare vestito a festa era sempre una piccola-grande esplorazione per me: una piccola avventura Veneziana … E poi la vedevo ogni volta la Sentinella tutta buia, tetra e intabarrata nella sua cerata che grondava pioggia e buio … Erano i primi anni ‘60, gli ultimi anni in cui ancora esisteva la Polveriera di San Giacomo: vecchia Batteria Militare dell’altrettanto vecchio Sistema Difensivo Lagunare… Di lì a poco l’isola sarebbe stata consegnata all’abbandono e alla rovina più completa … Ma intanto c’erano ancora quei giovani aspri “di guardia”, relegati lì dentro a sorvegliare il niente insieme ai cagnacci notturni che venivano lasciati liberi di notte a sbranare qualsiasi cosa.

Rimuovendo con la manica del mio goffo e pesante cappotto il velo opaco dal vetro appannato del vaporetto odoroso di gente, scrutavo ogni volta con lo sguardo andando alla ricerca della Sentinella: “Eccola là ! … Si ! … Lì in fondo verso la garitta sul muro !”… Mamma annuiva “di si” senza neanche guardare … Ma c’era proprio il soldato: a volte immobile, a volte che si muoveva lento sotto alla pioggia con lo schioppetto adunco in spalla e l’elmetto o il basco in testa.

Che tempi andati ! … Mentre ci allontanavamo col battello, favoleggiavo da bimbo su che cosa avrebbe fatto quel milite a guardia di quello spicchio dimenticato di Laguna … Forse era un fantasma ? … Uno scappato via dalle tante Storie accadute un tempo in quell’isola … Tutte le isole erano luoghi magici e pieni di storie e leggende … Uno più bello dell’altro per la mia mente ... e lo sono ancora adesso.

Poi sono trascorsi gli anni … e sono un po’ trascorso anch’io ... I militari abbandonarono l’isola con le tre piccole casermette, i terrapieni, e la Madonnetta Pallida e Gotica affacciata dal muro … Ed era il 1964: avevo 6 anni ... e rimase solo quella Statua a guardia della Laguna, con i Gabbiani, i Cormorani, le Alghe … le Barene e le Acque d’intorno … e tutto rimase là sempre uguale in balia e corroso dal Tempo formando sempre lo stesso scenario bellissimo.

Sono nostalgico … forse romantico ? … E che ne so ? … La vivo così: da Buranello e Veneziano.

Oggi esiste un bel malloppo di studi e manuali interessanti e approfonditi che riassumono e hanno studiato bellamente le vicende antiche dell’Isola del Palùodi San Giacomo oggi abbandonato … L’isola se ne sta sempre lì desueta e morta nei suoi specchi d’acqua limpidi o fangosi, sempre soggetta all’illusione dell’imminente prossimo recupero: avvolta nelle brume invernali quando si veste di striminzito erbaggio secco e dei pochi alberi spogli.

Ci sono soprattutto due cose da dire del passato storico del Palùo di San Giacomo oltre alle antiche vicende archeologiche che lasciamo dire a chi ne sa per davvero.

Mi riferisco alla stagione delle Mùneghe Cistercensi, che s’intreccia con quella del Priorato dei Francescani Minori della Cà Granda dei Fraridi Venezia. Per secoli furono loro i due padroni incontrastati dell’isola, in un certo senso ne hanno fatto la Storia.

Poi c’è stato l’ultimo sussulto del Palùo di San Giacomo, quando ormai la Serenissima era quasi morente nel 1778. Il Sovrintendente alle Venete Artiglierie Domenico Gasperoni scrisse al Doge che serviva concentrare “in un solo appartato luogo tutti i depositi della Dominante spersi in tutto l’Estuario … Si pensa collocare quattro conservatori di polvere capaci di contenere tutta la quantità che capisce nei presenti depositi, che l’isola sia chiusa in un circondario di muro, che deva esservi un quartiere ad uso di una Guardia,  e una comoda Cavanna per il più facile ingresso alle barche.”

Quando si diceva questo, Monastero e Ospizio in Isola ormai non c’erano più da tempo … Le spese sarebbero state ingenti, e i tempi troppo lunghi per la realizzazione. Non se ne fece niente, e Venezia Serenissima languì ancora un poco, e poi si spense abbandonandosi controvoglia nelle braccia poco ospitali degli invasori-distruttori stranieri.

I Frati Minori Conventuali dei Frari smisero d’amministrare l’isola, e Giulio Cogni prese a livello perpetuo vigna e fabbriche malandate rimaste accollandosi “in perpetuo” la manutenzione della cinta muraria dell’isola, degli edifici, e della chiesetta con i pochi arredi che conteneva ... Poco dopo l’isola venne devastata dai danni di una sonora tempesta ... Giulio con i suoi eredi entrarono in lite con i Frati per gli affitti non pagati ... ma giunsero i Militari, che presero in mano il controllo dell’isola, e della vecchia Palùo di San Giacomo non ci fu niente più.

Che dire allora su San Giacomo col suo Palùo ? … San Giacomo in Palude ?

Poco o niente … Ci sono stati quei due grandi lampi storici del passato da raccontare un po’ ... Vi dico di quelli.

Tradizioni e Storie Veneziane abbastanza recenti raccontano che a San Giacomo in Paluo facevano l’ultima sosta in Laguna le Zattere del Legname che scendevano dai boschi del Cadore e della Carnia prima di approdare finalmente alle Fondamente Nove, alla Barbaria de le Tole, e all’Arsenale: meta ultima di un lunghissimo viaggio.

Anche questo è un lampo del passato di San Giacomo in Palùo ... Immaginateli solo per un attimo quegli “uomini aspri del legname” odorosi di resina, salsedine, fatica e sudore scesi giù precipitevolmente sugli zatteroni dai Monti e dai Boschi da Rèmo della Serenissima. Si sono trovate tracce dei loro simboli e marche incisi sui legni e i muri dell’Isola del Palùo. Quello degli Zattieri era un altro “mondo a parte”, che si incontrava e sovrapponeva e intersecava con quello scintillante della Serenissima con i suoi fasti, le sue Guerre, i suoi Mestieri, i Commerci e le sue Leggi ... e le sue Galee da Guerra e da Mercato da realizzare.

Eccoli i nomi delle Aziende Cadorine degli Zattieri e Carrettieri di passaggio in Laguna nel 1500: Egidio, Paolo, Nicolò ed Ercole da Pieve, Jacomo da Perarolo, Domenico da Ospitale ... C’erano poi: Lorenzo De Calegaris da Ponte di Piave, Antonio Morgante da Noventa e Gaspare di Zenson di Piave… Ed ecco con chi contrattavano, lavoravano, vendevano e compravano: Pietro Spolverato da Venezia: Mercante d’antenne da naviLorenzo Dalle Tavole da Treviso, Antonio Scorzòn da Oderzo… E c’erano gli immancabili Nobili Veneziani ricchi e pomposi che andavano e venivano, trattando, comprando e vendendo arricchendosi e sfruttando al massimo l’opportunità che era Venezia: Contarini, Malipiero, Dolfin… e un “Clarissimo Missier Sagredo”.

Riecco quindi apparire una Venezia Serenissima laboriosissima, quasi stemperata e amalgamata con acque e terre fin nell’angolo remoto ma quotidiano e spicciolo dell’isola di San Giacomo in Paludo immersa nella Laguna Veneziana.

E Nobili Veneziani allora richiamano ancora Nobili Veneziani … perché in fondo l’Isola nel Palùo è stata abitata per secoli soprattutto da esponenti del loro Casato… da donne all’inizio: le Monache Cistercensi ... Le figlie dei Nobili Veneziani.

Guardiamole per un attimo quelle Nobili Donne Mùneghe… Solo per un attimo: … Nomi prestigiosissimi ! … Tutte donne relegate in Laguna per continuare il sogno Veneziano di preservare i capitali da figli cadeti e femmine da sposare: i soldi, il capitale, il patrimonio di famiglia venivano prima di tutto … Tutto il resto si poteva sacrificare mettendo figli e figlie a vivere costretti in isola, o sepolti vivi in qualche Monastero Veneziano … Ed ecco allora il Monastero del Paluò: un altro dei tanti sparsi in tutta la Città e la Laguna Veneziana.

Che si riducessero volentieri quelle donne d’alto rango a vivere sottomesse e misere, ristrette quasi prigioniere, in quegli stenti Lagunari così ameni ma discosti ?

Macchè … La subivano quella sorte, anche se cercavano in ogni modo che il Monastero fosse il prolungamento del loro Palazzo di Famiglia ... Badoer, Dandolo, Giustinian, Premarino, Condulmer, Cappello, Cornàro, Contarini, Memo, Nadàl, Valaresso … Sentite che nomi alti e importanti e famosi … Ma a San Giacomo in Palùoci furono anche le donne dei: Sesendalo, De Rutuy, Nuolàn, Pellàn, Forouil, Dauro, Tonisto, Maio, Nauacosso ...  e di altri ancora.

 


Era appena il 1046 o 1146 quando Orso Badoer originario della Contrada di San Lio di Venezia, concesse a Giovanni Tron di Mazzorboun bel pezzo d’acqua paludosa e fangosa da bonificare per edificarvi sopra un Convento con Ospedale per Pellegrini, ovverosia anche un punto di riferimento che potesse servire anche da rifugio durante i temporali e il maltempo per chi transitava e lavorava in Laguna. Il nuovo luogo strappato alle acque sarebbe stato titolato a San Giacomo Apostolo Maggiore: il Santo famosissimo, quello di grandi e frequenti pellegrinaggi di CampoStella per intenderci ... Ma oltre ai Pellegrini Jacobei, per Venezia passavano Pellegrini di ogni tipo: c’erano anche i Romèi diretti a Roma, gli Assisiati, i Loretani, e i Micaelici diretti al Gargano dell’Arcangelo, e magari poi disposti a traghettare il mare andando in Terrasanta, al Sinai, o ai Monasteri Orientali, Armeni o dell’Athos Greco ... e altro ancora.

 

Pietro Polani Doge, fu lui che fece innalzare concretamente l’Ospizio nell’Isola del Paluò nel 16 anno del suo mandato Ducale ... e anche Papa Urbano III fece la sua parte … come Eugenio IV più tardi, circa duecento anni dopo, quando precisò che tutta quella roba Lagunare, compreso l’Hospitale Sancti Jacobi, era di diritto, pertinenza e giurisdizione del Vescovo di Torcello.

 

E saltiamo al 1228, o forse al 1238, quando l’Isola di San Giacomo in Paludo divenne insediamento Cistercense occupato dalle Monache distaccatesi da Sant’Antonio di Torcello. Erano stanche di sta là a duellare per controllare elemosine e lasciti con i Monaci di San Tommaso dei Borgognoni ... perciò cambiarono aria.

In quello stesso anno ci fu davanti ad Angelo Prete-Notaio di San Tomà di San Polo di Rialto, una donazione elargita da Pasquale Arditone Prete-Piovano di Santa Maria di Murano, che donò alla nuova Badessa Donatadel Paludo di San Giacomo l’opportunità d’incrementare le già presenti proprietà, gli emolumenti dotali delle Monache, e i capitali conferiti all’isola trasformata ormai stabilmente in Monastero ... Anche il Doge Pietro Ziani fece nella stessa epoca una buona donazione al Monastero del Palùo.

 

Nel 1250 circa, pure un misconosciuto Alessandro prestò alle Monache 28 Denari di Grossi Veneziani. L’accordo fu preso con Arrigo Converso del Monastero, e Rappresentante-Procuratore della Badessa e delle Monache del Palùo. Quei soldi sarebbero stati restituiti a rate al figlio Raniero: suo erede ancora minorenne.

 

Sotto le successive Badesse Aycha e Maria Premareno il Monastero s’ingrandì e lievitò ulteriormente. Ci furono donazioni di terreni ad Umago in Istriada parte di Ruggero Morosini di Sant’Antonio di Castello, s’introdussero fra le Monache nuove figlie della Nobiltà Veneziana che contava: a Rialto presso il Prete-Notaio Marcus Nichola da San Yeremia di Cannaregio, il Vescovo Pietro Pino di Castello di Venezia rilasciò quietanza alla stessa Donata Badessa del decimo che gli spettava sull’eredità di Diamantesorella del Nobile Marco Venier del Confinio di San Geremia divenuta Conversa nel Monastero Lagunare di San Giacomo di Palude … Anche la Nobile Maria Cappellosi fece Monaca nella stessa isola rilasciando ricevuta a suo fratello Bartolomeo residente in Contrada di Santa Maria Materdomini, dei 5 soldi di Grossi Veneziani: rateo semestrale del suo Vitalizio da Monaca ... Sua sorella Beatrice Cappello la seguì a ruota subito dopo, nominando Marino Barozzi di San Moisè Agente-Procuratore dei suoi beni e della sua dote monacale … Nell’Isola di San Giacomo si costituì anche un’area cimiteriale riservata alle Monache … L’anno seguente alla presenza di Prè Silvestro e di altri testimoni, Gerardino Longo Procuratore di San Giacomo in Paluoentrò in possesso a nome della solita Badessa Donata di tre mansi di terra siti a Favaro e Carpenedo nella Terraferma Veneziana di Mestre.

 

Sempre e ancora a Rialto un anno dopo: Guglielmo Priore di San Salvadorfece quietanza davanti a Donato Prete-Notaio Piovano di San Stin alla sempre e solita Badessa del Paludo di un legato intestatole per testamento da Maria Dauro, da spartire col potente Nobile Giovanni Badoer dei Frari, le cui sorelle: Marchesina e Mariaerano diventate Monache a San Giacomo in Paludo … In quell’occasione ricevettero dal fratello: 50 Lire di Denari Veneziani ... Altri 4 Ducati d’oro arrivarono nell’isola lagunare da Matteo Burna, che li diede alla Badessa come Dote Monastica di Caterina Burna… Pure i Procuratori di San Marco diedero alla Badessa 20 denari in 2 rate di 8 e 12 soldi, lasciti alle Monache dalla ricchissima Maria vedova di Giacomo Gradenigo. La Nobildonna aveva disposto per testamento la donazione di un insieme di cospicui legati e denari ai tutti i Monasteri e Ospedali del Dogado Veneziano: soprattutto alle Vergini di Castello, dove venne sepolta, e agli Hospedali Veneziani: Domus Dei, Domus Misericordiae, Santa Maria Crociferorum, Sancto Joahannis Evangelista, Santa Maria e San Lazzaro, e a tutti i Monasteri fra Grado e Caput Aggeris (Cavarzere) fra i quali elencò anche San Jacopo de Palude.

Ancora nel crudo inverno 1270, Pancrazio Barbo del Confinio di San Pantalondel Sestiere di Dorsoduro dichiarò a Rialto davanti al Notaio Martinus Fusculo Prete a San Thomè del Sestier di San Polo, di dovere a Marchesina Gradenigo Monaca a San Giacomo in Paludo: tre rate d’affitto di 30 Lire di Denari Veneti … Erano la somma della pigione di un manso acquistato dalla Commissaria di sua madre Tommasina.

 

Ancora nell’ultima decina d’anni del 1200: Sebastiano Venier di Santa Maria Formosa dichiarò di tenere in affitto dal Pievano di Santa Maria di Murano un tratto di Laguna nei pressi di San Giacomo in Paludodove c’era una vigna murata fra il Canale di San Francesco e quello di Sartene, e fra l’isola di Mazzorbo e quella di Carbonera … Nello stesso Parlatorio del Monastero insulare del Palùo di San Giacomo, Rolando da Padova alla presenza di Renaldo e Aumone: Monaci Cistercensi di San Tommaso di Torcello, cedette a Nicoleta Giustinian Badessa di San Giacomo due mansi di terre arative, prative e boschive nei pressi di Favaro di Mestre ricevendo in cambio proprietà nel Padovano, e 200 Lire di Denari Veneziani come conguaglio … Simeon da Favaroabitante su quelle stesse terre di San Giacomo dichiarò di aver acquistato dalla Badessa Nicoleta due buoi bianchi per 30 Denari Veneziani, e di aver ricevuto in prestito dalla stessa Monaca 26 Lire che le poteva restituire a rate.

 

Quanta roba vero ? … Che grandi attività ed economie che fervevano laggiù in Laguna … Eppure a guardarlo quel Monastero sperso in mezzo alla Laguna Veneziana pareva poca cosa quasi insignificante … Non lo era affatto.

 

Il Cenobio Lagunare del Paludo insomma divenne ricco e importante: un Ente di successo e di riferimento della Laguna Veneziana … Provate a intuire il giro d’affari che si concretizzò nel Paluo di San Giacomo in quei tempi lontanissimi … Nel Paluò confluivano di continuo oltre ai denari, anche farina, legname, legumi, salumi, uova e galline, biade, fieno e attrezzature dai possedimenti di Dese, Favaro e Carpenedo che venivano di continuo ampliati, permutati, comprati, venduti e accuditi ... A conferma di quanto fosse “felice” quell’epoca per il Palùo di San Giacomo, Doge e Signoria scelsero proprio l’ameno sito antistante il Monastero e l’isola come scenario dell’incontro della Serenissima col Duca d’Osterlik in visita a Venezia.

 

Quando il Tempo scandì il 1300 tondo tondo, il Monastero del Palùo ricevette contributi di Stato per riparare la Cavana di San Giacomo, ma capitò anche un fattaccio. L’Abate Enrico di Brondolo visitò il Monastero Lagunare femminile nel Palùo invitando la Badessa a rendergli omaggio. Visto però che quella si dimostrò riluttante e maldisposta nei suoi riguardi, la depose dal suo titolo interdicendole la guida della comunità delle Monache …. Le Monache incassarono il colpo, ma non si scoraggiarono: si appellarono direttamente al Papa di Roma: Bonifacio VIII, che risistemò tutto rimettendo la Badessa al suo posto, ma soprattutto puntò l’Abate Enrico rimpicciolendone l’influenza, e somministrandogli un “Pontifical cicchetto” … Le Monache “in mezzo alle acque” avevano ormai maturato una loro precisa fisionomia … che anche il Papa riconosceva.

 

A fine estate 1333 un certo Poluzio Superanzo o Soranzo venne denunciato dalla Badessa al Tribunale Civiledella Serenissima, che lo condannò immediatamente a pena pecuniaria. Era entrato nel Monastero con quattro soci, e aveva ricoperto d’ingiurie le Monache … Zaccaria Superanzo, o quel che era, probabilmente era un proprietario di Terraferma che aveva questioni economiche irrisolte con le Monache, forse per i terreni con cui confinavano i suoi.

 

Ed eccole qua le Monache Veneziane: alla fine del 1334, l’anno seguente alla denuncia di Soranzo, quando il Capitolo delle Monache di San Giacomo del Paluò nominò Botelino di Anzanelli di San Martino come unico e legittimo Procuratore rappresentante del Monastero, erano presenti e sottoscrissero il documento di nomina: la Badessa Caterina Minio, la Priora Caterina Moyo, ed altre undici Monache Professe: Maria Falier, Filippa Agnella Moano, Angiolina Linilano, Agnese Premarino, Caterina Grino, Maddalena Basso, Regina Moio, Caterina Brulano e Caterina Bondo... E’ quella Venezia di Nobili che ben conosciamo.

 

San Giacomo in Paluò contava anche oltre la Laguna … E’ curiosissimo leggere nella Mariegola della Schola Grande di Santa Maria della Carità(l’attuale Accademia a Venezia) nel 1364:“… la Badessa di San Giacomo de Paluo col so Convento receve nu, e nu elle nelle Oration et Beneficii, e el de far l’Officio de li Morti per li nostri Frati e nu dovemo pregar per elle e dir li Paternostri …”

 

San Jacopo in Paludo “girava” alla grande … era floridissimo: una dependance dei ricchi e potenti Nobili Veneziani.

 



Poi iniziò la sequela delle rogne per il Convento del Palùo… Il Monastero subì ben 15 processi in poco tempo per via di abusi sessuali delle Monache del Palùo che avevano fatto nascere ben 5 bambini ... Il Monastero Lagunare aveva ricevuto un’unica Visita Abbaziale di controllo da parte del Vescovo Domenico di Fossanova, che non aveva mancato di richiamare le Monache a un comportamento e una disciplina adeguate “curando gli Uffici diurni e notturni, il silenzio nei Dormitori, nel Chiostro, nel Capitolo e nel Refettorio”… Era compito della Badessa di vigilare garantendo il rispetto della Regola ... Probabilmente non l’ascoltò nessuno, meno che mai la Nobile Badessa ... Pietro Baseggio con l’aiuto di tre amici-complici, ad esempio, rapì dal Convento con una barca e una scala la Monaca Eliseta Zalacessio o Galaresio o Calacesio costringendola a pratiche più o meno piacevoli e sacrileghe da cui spuntò al mondo un altro bel bambino ... Venne condannato a due anni di prigione ... Un Nicola Basegio era forse uno dei proprietari delle terre di Favaro appartenenti al Monastero del Palùo.

 

Toccò poi qualche tempo dopo ad Antonio Negro Cultrario o Coltellinaio d’esser processato nel 1419 per lo scandalo d’essere entrato nel Monastero del Palùo “conoscendo più volte carnaliter” la Badessa Caterina Bedolato che partorì l’ennesima femminuccia … Probabilmente la Monaca Caterucianon aveva voluto essere a meno della sorella Agnesina che s’era sposata con 250 ducati di dote ... I Bedolato erano una Famiglia Veneziana Nobile di Procuratori e Tesorieri di Parrocchia, e di Guardie dei Signori di Notte ... Ludovico-Alvise Bedoloto sposò una Michièl, e suo fratello una Da Riva… e una delle figlie finì Monaca in San Giacomo del Palùo ... Si era insomma tutta una grande famiglia: il mondo Lagunare era piccolo e ristretto, e c’erano tanti modi d’esprimere la propria Nobiltà.

 

Pure Antonio Negro venne condannato a due anni di carcere, e la Monaca scomparve da tutti gli Atti del Paludo il cui Monastero imboccò la strada irreversibile del declino ... Diverse Monache andarono altrove o addirittura cambiarono Ordine Monastico.

 

Cinque anni dopo, infatti, erano rimaste ad abitarlo sole tre Monache e la Badessa Orsa Contarini: l’ultima della storia dell’isola.

 

Nel gennaio 1440 si processò e condannò Pietro de Zusti Procuratore di San Giacomo in Palùo a due anni di carcere inferiore con catene, e a 200 lire di multa, per aver avuto “grande amicizia e familiarità con Suor Franceschina dalla quale aveva avuto due figli” ... L’anno seguente i Quarantaprocessarono e condannarono anche Nicolò Balbi e Bartolomeo Bon a sei mesi di carcere e 100 lire di multa per aver condotto fuori dal Monastero le Monache Franceschina e Regina ... Che fatica gestire e controllare quelle Monache Lagunari del Palùo !

 

Le ultime due Monache rimaste abbandonarono l’Isola del Paluo l’anno seguente andando ad aggregarsi a quelle di Santa Margherita di Torcello. Fu Papa Eugenio IV in persona con apposito Decreto a deliberare quella sorte per le ultime rimaste nel Palùo, e fu l’Abate Pietro Blanco Delegato Apostolico di San Felice di Ammiana che rese esecutivo il decreto obbligando le Monache ad applicare la Sentenza Papale abbandonando l’isola ... Le Monache fecero allora fagotto, e si allontanarono mestamente in barca dall’isola, e fu quella la fine di uno dei grandi capitoli della Storia del Paluò... Buona parte del patrimonio del Palùo passò in dotazione alle Monache di Torcello.

 

L’isola rimase per quasi un decennio abbandonata: “disattesa e in purga affinchè s’acquietassero danni e strepiti nella memoria delle persone” Si vendettero arredi, marmi, coppi e altri materiali delle fabbriche e della chiesa, che divennero cava di pietre da riutilizzare a Venezia e in Laguna ... Ci pensò allora il Senato della Serenissima a salvare l’isola dalla rovina più completa. Nel 1455 concesse quanto rimaneva dell’isola, considerata del valore di 60 Fiorini d’oro, a Francesco Boldù da Rimini e a Pietro di Candia della Cà Granda dei Frari di Venezia: due Frati Minori che si riproposero di rimettere a posto ogni cosa, e riaprire al culto la chiesetta del Cenobio fatiscente e malfamato riutilizzando, per risparmiare, i materiali dell’Arcipelago di Ammiana, e almeno di una parte dei proventi e capitali incamerati dalle Monache di Torcello, che i due Frati erano tenuti in ogni caso “a tenere a vitto e vestimento”.

 

Le Monache Torcellane nicchiarono ovviamente: volevano tenersi il patrimonio tutto per se, poi provarono a rivolgersi al Papa Callisto III per barattare la cessione di parte di quei capitali con un loro provvidenziale trasferimento a Venezia, in città: nella Contrada di San Trovaso ... Il Papa adottò inizialmente la strategia di un diplomatico consenso assenso: “chi tace … acconsente”, e partirono i lavori di riordino dell’Isola ... Poi si schierò del tutto dalla parte del sopravvenuto Frate Francescoche si stava impegnando a riattare l’isola ... Le Monache rimasero a Torcello spiazzate, fecero a meno del denaro, e il Frate da Rimini gestì a modo suo il Palùo.

Il Frate, infatti, si mise subito all’opera stipulando un contratto con Pietro Zorzi Iorice Tagjapiera di Pola per l’acquisto, lavorazione e trasporto di una serie di colonne da piazzare nella chiesa e nel chiostro dell’isola dl Palùo.

Si legge in un documento del 17 aprile 1459: “Fra Francesco da Rimini Rettore di San Giacomo in Paludo, alla presenza dei Mastri Antonio e  Zorzi da Corona  Tagjapiera attivi alla Cà Granda dei Frari Minori, fece pacto (si accordò) con Pietro de Zorzi Jorice Tagliapietra di Pola per una fornitura  di 70 colonne di pietra d’Istria belle et bone, senza scaje e senza difecto, zoè despontate e quadre, che s’impegna a consegnare in isola entro il successivo mese di agosto: 4 lunghe 9 piedi veneti e del diametro di un piede dovevano essere per l’Altar Maggiore per la spesa di 4 ducati ciascuna … Le altre 60 piccole dovevano essere lunghe 5 piedi a 20 ducati  in tutto ... Gli pagò anche altri 18 ducati per il nolo del naviglio.”

Arrivò però la peste in Laguna a spegnere tutti quei buoni propositi … e l’isola del Palùo venne destinata ad essere dependance di convalescenza per 35 Lebbrosi o appestati dell’isola di San Lazzaro (quella degli Armeni) ... Doveva ancora nascere il Lazzaretto Nuovo, che sarebbe sorto solo nel 1468 ... Una carta del 1469 informa che Frate Francesco da Riminidopo aver raccolto ingenti quantità di elemosine aveva fatto ritorno a Rimini asportando beni e ornamenti dall’isola.

 

Passata la buriàna della Peste, nell’aprile 1483 Leonardo Pelacan dei Frari e il Magnifico Filippo Tron furono eletti Procuratori e Sindaci dell’Isola di San Giacomo in Palùo ... Affidarono allora l’orto di San Giacomo a Maffeo Fasolo di Torcello per circa 6 anni, e l’anno seguente in settembre, il Doge Giovanni Mocenigo ordinò ai Rettori ed altri Ufficiali di aiutare il Priore di San Giacomo contro tutti coloro che con grave danno dei culti divini s’erano indebitamente impossessati dei beni dell’isola … Nella primavera 1491 e nuovamente nel 1498 si designò Fra Piero da Lucignano come Procuratore, Governatore e Rettore di San Giacomo… Costui a sua volta affittò a Graziosa, vedova di Gianantonio Bandra di Dese i terreni fra Dese e Favaro di proprietà di San Giacomo in Palude… Stessa cosa fecero nel febbraio 1512 i Procuratori Germano Casale Provinciale di Terrasanta, Guardiano della Cà Granda dei Frari e Procuratore di San Giacomo insieme al Nobile Daniele Molin affittando gli stessi beni di Terraferma a Daniele Dominici.

 

E siamo giunti al 1518, quando l’isola tornò ad essere stabilmente abitata da una nuova Comunità Religiosa. I Frati dei Fraridi Venezia provarono ad affidare l’isola a un certo Frà Albertino de Alba proveniente da Genova perché l’abitasse con dei confratelli con l’obbligo di residenza e di celebrare i Divini Uffizi. L’Isola sarebbe stata un Prioratodipendente da Santa Maria Graziosa dei Frari, disponibile anche ad ospitare in caso di necessità o pestilenza i Frati della Cà Grandasoprattutto se malati o appestati ... Nello stesso anno: Alessandro de Ferali Piovano di Santa Maria e Donato di Murano comunicò le nuove condizioni d’affittanza delle Acque Piscatorie di San Giacomo in Paludo.I Frati da Genova avrebbero dovuto corrispondergli: “ducati 60 annui in due rate, e onoranze di cievali saladi 100 a Carneval, Mazorini: pàra doi a Nadal, et anguille femenali pàra doi et ostreghe de velma 100 a Carnaval”.

 

Nel 1543, invece, s’intromise a sorpresa nella gestione dell’Isola Lagunare la Santa Sede Romana del Papa, che s’avvalse di nominare “in perpetuo” il Guardiano di San Giacomo in Palùo.  Per cominciare inviò il Frate Minore Stefano da Civita Castellana ... Ma dieci anni dopo fu il Ministro Generale dei Frati Minori Conventuali a prendere in mano la situazione, perciò l’isola passò in mano a Frà Andrea Micheli, che si sarebbe curato di risanare tutta l’isola provvedendo a nuove ristrutturazioni di Convento, Chiesa, Foresteria, Chiostro, Campanile, Orti e Isola. A tal scopo il Frate avrebbe potuto adoperare i proventi provenienti da alcune affittanze in Contrada di San Marcuola a Cannaregio “in Rio Terà”, e di altre presenti nel Sestriere di San Marco.

 

Le risorse dell’isola e del Priorato dei Frati erano tuttavia magre. I Frati provarono allora ad arrotondare recandosi di continuo in giro per le chiese Veneziane a celebrare Messe facendo avanti e indietro con l’isola. Grande protesta di Frati e Preti Veneziani … e intervento immediato del Santo Uffizio dell’Inquisizione di Venezia che impedì ai Frati del Palùo di celebrare in Venezia fino all’ottobre 1590.

 

Un documento del 1576 racconta dei Provveditori alla Sanità di Venezia Pietro Foscari e Francesco Duodo che ordinarono “di far nettare le robbe degli appestati che si trovavano a San Giacomo in Palùo”… S’era utilizzata forse l’isola come deposito di merci e vestiari infetti durante la grande epidemia che in quell’anno aveva colpito Venezia.

 

I Frati del Palùo erano miseri … Supplica al Consiglio dei Dieci del Guardiano dei Frati di San Giacomo in Paludo quindi, nel 1598. Il Frate del Palùo chiese in elemosina alla Serenissima per allievare la povertà dei Frati dell’Isola: “almeno una quantità di legne per scaldarsi d’inverno … a merito dell’ospitalità che si da di continuo ai pescatori della Laguna”... Nel marzo seguente il Consiglio dei Dieci decretò l’assegnazione annuale di “sei carra di legna da ardere di Frati del Paluò di San Giacomo”.

 

Stessa cosa nel 1631, al tempo della grande pestilenza Veneziana, quella del voto della Madonna della Salute: la situazione dell’isola era ancora miserrima … Ben due Priori di San Giacomo in Palùo:  Gabriele Brosi e Francesco Molini rimasero vittime del contagio ... Entrambi avevano servito isola, chiesa e convento senza ricevere nulla in cambio … L’isola di San Giacomo venne poi affidata a Frate Bonaventura Puppi alle stesse condizioni, cioè gratuitamente, senza alcun guadagno né sovvenzione … Una decina d’anni dopo, i Frati pur di racimolare qualcosa per sopravvivere, lasciarono l’isola per qualche giorno mettendola a completa disposizione di un gruppo di Nobildonne Veneziane guidate da Marietta Furazzi(fondatrice in seguito delle Terese col nome di Suor Angela Maria Ventura) per compiervi Esercizi Spirituali ... Qualche soldo arrivò di sicuro da quella provvisoria cessione, così come dall’affitto delle parti coltivabili e bonificate dell’isola soggette a continui inventari e numerazioni di Piante, Frutteti ed Erbe coltivate … Nell’autunno 1648 Fra Giulio Giuliano Guardiano di San Giacomo con Prete Felice Bona, e Prete Francesco Soranzo si recarono in isola a controllare le bonifiche realizzate dall’ortolano Domenico. Fu con soddisfazione che costatarono che l’opera di bonifica dell’ortolano aveva procurato terra per un valore almeno di “Lire mille e cento” ... Il nuovo orto venne quindi subito affittato al Signor Mattio per 50 ducati annui.

 

Era comunque tutta una lotta per tenere viva l’isola … Nel novembre 1652 Giovanni Priuli e Filippo Balbi affittuari dell’orto furono condannati a pagare 51 ducati di affitto arretrato e a pagare le spese del processo ... Nell’aprile 1666 si nominò Fra Tommaso de Trau Governatore di San Giacomo conferendogli la possibilità di chiedere l’elemosina in giro a favore dell’Isola ... A tal proposito, si era costretti a baruffare di continuo col quelli della vicina isola della Madonna del Rosario, il cui Cappellano cercava di accaparrarsi e riscuotere più che poteva delle magre elemosine di chi passava da quelle parti questuando e assillando in barca, e allungando grosse e lunghe pertiche verso chi transitava nei pressi della sua isola ... Si arrivò nel 1746 con Andrea MinioPodestà di Torcello che comunicò all’Avogador Piero Querini“… di aver intimato a Padre Giuseppe Stopa Cappellano della Beata Vergine del Rosario della Madonna del Monte di astenersi di conferirsi con battello et cassella a ricercar elemosina da tutte le barche, battelli, gondole et altre che transitano per detto loco a discapito del Loco et Ospizio chiamato San Giacomo in Paludo.”

 

Vita grama in ogni caso per i Frati del Palùo di San Giacomo: troppo scomoda e lontana l’isola dai fasti Veneziani … Era sempre estremamente complesso e oneroso mantenere in ordine e provvedere all’efficienza dell’intera isola. Serviva sempre rifare le coperture, rinsaldare i muri, e rivedere le pareti degli edifici, della chiesetta, delle cavane e dei dormitori spesso rovinati dalle intemperie ... Nel luglio 1683 Beneto Folchion Marangonerilasciò fatture per ducati 70 per i lavori resi nell’isola di San Giacomo in Paludo: rifece principalmente le coperture nel chiostro dove furono risistemate anche alcune colonne, riparati alcuni buchi nel muro, e ricostruite le coperture e le terrazze del dormitorio e della foresteria ... Anche Angelo Mazon Murèr rilasciò un’altra fattura per 11 ducati per aver ripavimentato e demolito, rifatto i tetti di dormitorio e foresteria, inserito degli “arpesi” nella muraglia della foresteria, riedificato e rifatto il chiostro comprensivo di colonne rimosse e poi ricollocate e aver rifatto i terrazzi … Secondo una descrizione del 1690, la chiesetta dell’isola lunga 23 passi veneti e larga 10 passi disponeva di tre Altari: quello maggiore dedicato a San Giacomo, quello titolato a Santa Maria e San Giovanni Battista, Sant’Antonio e San Bernardino, e quello di San Nicolò di Bari ... Zuan Maria Fravo e il Murer Zuan Antonio de Cristin rilasciarono ricevuta per ducati 56 da lire 6 e soldi 4 a Padre Andrea Guardiano dei Frati Minori di San Giacomo: avevano provveduto quasi alla rifabbrica dell’intera chiesetta di San Giacomo in Paludo.

 

Nel 1728 a San Giacomo risiedeva un certo Gian Maria Maffi di Pordenone… e nel 1735, secondo una stima d’inizio novembre di quanto si doveva trovare in isola fatta dai due ortolani nominati: Santo Zenon dai proprietari: i Frati Minori Conventuali della Cà Granda dei Frari, e Donato Bortolotti che non sapeva né leggere né scrivere e firmava con una croce davanti a Francesco Cavassi Testimone, per Bernardo Linzi Ortolano affittuale dell’Orto rimosso dal suo incarico. Dal documento si può evincere la notevole estensione delle terre coltivate.

 

Ecco com’era il Frutteto-Orto di San Giacomo in Paludo: “Albori fruttiferi ritrovati tra grandi, picoli e mezani: n° 900; Vide grande e piccole: n° 869; Calmoni di Spin Bianco: n° 136; Pomèri Grandi: n° 14; Polle de Fighèr piantate da novo: non considerate … Il Legname delle suddette Vide abbiamo stimato valer: ducati 60;li Erbazzi di più sorte stimati valer: ducati 112; il casotto et il pareo di grisione attorno la Cavana: ducati 5; il pontil fuori dell’Orto sopra la Laguna con suoi palli stimato valer: ducati 5.

 



Nel 1750 si concesse al Prete Vincenzo Carnetti proveniente dalla Dalmaziadi dimorare per due mesi a San Giacomo in Paluo ... Vincenzo Coronelliinsistette per sapere dalla Serenissima a quale titolo Antonio Pittoniaveva demolito i cameroni di San Giacomo in Palùo

 

Nove anni dopo, i Frati della Cà Granda dei Frari unitamente a quelli dell’Isola di San Giacomo supplicarono il Magistrato ai Revisori dei Dazi: “affinché si restaurasse la pubblica cavana di San Giacomo atterrata da un turbine.

 

Fino al 1755 un Borzieri della Marca Anconetana si prestò per quattro anni come Custode dell’Ospizio di San Giacomo in Isola, e per questo provvide ad ingrandirla e mantenerla a proprie spese ... Venne nominato Priore dell’isola a vita.

 

Nel 1759, quando nell’autunno un altro forte turbine devastò l’isola, “la vigna del Palùo” venne affittata a Benedetto Bortolotti… Durante un sopralluogo del 1766 realizzato dai Savi Sopra le Decime di Rialto, si costatò che il degrado e lo stato precario delle strutture insulari, compresa la cavana, era alto: il tutto abbisognava di nuovi restauri:“Era presente una chiesa vecchia con sagrato sopra al canale, dotata di una sagrestia. Dietro al sacello e alla sagrestia vi era un fabbricato di grandi dimensioni con entrata e due stanze a pian terreno, al di sopra un portico e due camere il tutto fabbricato (o rifabbricato) di recente, cioè negli ultimi 4 anni (si era appoggiato ai muri laterali della chiesa e ne aveva utilizzato anche parte del tetto). Attaccata alle suddette fabbriche c’è una piccola stanza usata come cucina dal laico dell’ordine, unico abitante dell’isola. Al di fuori della cucina erano stati demoliti gli edifici del convento antico e la parte verso Mazzorbo era stata ridotta ad orto. Anche la cavana antica verso Venezia era ormai diroccata. La parte dell’isola rivolta verso la città era intermente adibita ad orto ed data in affitto.”

 

L’anno seguente si formulò una perizia di spesa per escavo e ricostruzione integrale della Cavana, e l’anno dopo ancora i Revisori e Regolatori sopra Daziesposero al Senato l’urgenza dell’intervento in quanto la Cavana incominciava a crollare ... Il 06 agosto 1768 allora, esattamente un anno prima della soppressione definitiva del Convento, il Pubblico Perito Paolo Rossicome ultima voce della lista delle spese per l’ennesimo meticolosissimo restauro della Cavana del Paludo precisò sulla minuta diretta al Senato Terra:“Occorre in detta Cavana il poner un San Marco scolpito in pietra viva, posto e incasatto dentro in uno delli muri acciò significa Cavana di Pubblica Ragione: ch’el si sappia … Costerà 56 lire.”… Era tardi però … Venezia stava già morendo, anche se non ne era ancora consapevole del tutto.

 

Si provvide poi a demolire e riadattare formando nuovi ambienti da riutilizzare secondo le esigenze del momento ricavando spazi da dare in affitto e coltivare ... Infine si giunse al 1769 quando una terminazione del 20 dicembre decretò la soppressione dell’Istituto-Ospedaletto di San Giacomo in Palùo ... L’onere della manutenzione della chiesetta spettò per intero ai Frati Minori dei Frari di Venezia perchè godevano ancora delle vecchie rendite dell’isola: “Dovranno provvedere a mandare in isola un Sacerdote a celebrare almeno nei giorni festivi per i due-tre Ortolani che la coltivano.”

Negli anni settanta del 1700 spuntarono i primi progetti di riconversione militare dell’isola ... Nel 1789 l’Esattore del Convento ancora in attività fu costretto a scontare la cifra pattuita a causa dei danni apportati alle viti da una nuova ondata di maltempo ... In quella stessa occasione si certificò che il tetto della chiesa aveva bisogno di notevoli restauri perché cadente, le poche fabbriche rimaste erano pericolanti, i coltivi inutilizzabili, vigne e alberi da frutto scarsamente produttivi a causa dell’incuria e abbandono … L’isola necessitava di continua manutenzione e cura, o sarebbe morta.

 

Infatti così accadde … Iniziò cioè la gestione militare dell’isola che si protrasse fin quasi ai giorni nostri … Ma questa storia andate a vederla voi, magari provando a sbarcare nell’isola, dove vedere quanto è rimasto di quest’ultima epoca accaduta nel Palùo di San Giacomo ... nella Laguna Nord Veneziana.

 

 

Un'altra Striga Veneziana ? … Si dai !

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#unacuriositàvenezianapervolta 259

 

Un'altra Striga Veneziana  ? … Si dai !

Stavolta però Bètta de Castèo finì davvero male

 

Le donne forestiere giunte ad abitare a Venezia, avevano spesso maggiore dimestichezza a confronto delle Veneziane circa tutto ciò che concerneva Streghe, Strigòni, Strigarie e Strighèssi vari. Spinte dal modo diverso d’intendere la Vita fuori dalla Laguna, erano spesso abituate e spinte a non andare molto per il sottile, e a trar “il maggior utile per vivere come meglio potevano”. A Venezia Capitale Serenissima, dove si era di sicuro agguerriti nelle economie, e tolleranti su tutto il resto, non mancavano frange popolari ignoranti forse un po’ ingenue e credulone, che in modo o nell’altro erano propense a cercare e trovare la loro “Verità delle cose”… Si viveva insomma.

Stavolta lo scenario dei fatti fu proprio “in casa”dell’Inquisizione Veneziana. La vicenda di Donna Bètta di Castello accadde nel Sestiere di Castello, proprio a pochi passi dal Canale di San Domenico(oggi non esiste più soppiantato dall’interrata Via Garibaldi) dove sorgeva la chiesa e il Convento dei Domenicani Predicatori e Inquisitori… Le Carceri dell’Inquisizione, invece, pare si trovassero più in centro a Venezia: in Campo San Zuane Novo, poco distante da Piazza San Marco… Proprio sul Ponte di San Domenicodi Castello ogni anno l’Inquisizione Veneziana faceva bruciare spettacolarmente tutti i pericolosissimi Libri Proibiti realizzati e venduti a Venezia, e sequestrati dai Fanti del micidiale Santo Uffizio della stessa Inquisizione ... Ed era tutto un accorrere di Veneziani a vedere l’evento, carichi tutti anche di una certa apprensione e timore: la Santa Inquisizione non scherzava, anche se la Serenissima sapeva essere tollerante e più clemente, e per questo sapeva tenere bene a freno le decisione avventate e spropositate a cui l’Inquisizione era spesso abituata altrove ... La Serenissimaè sempre riuscita a calmierare il Sacro Furore dell’Inquisizione, che così Santa non era.

Veniano ai fatti però …

Non andò affatto bene stavolta a Elisabetta: laBètta, moglie di Libero che lavorava da Calafàto nell’Arsenale di Castello. I due abitavano nella Contrada del Vescovo: a San Pietro di Castello … Bètta alla fine venne riconosciuta come Strega, e su Sentenza dei Padri Domenicani Giulio da Quintiano Commissario del Sancto Offizio, e di Frate Angelo Faventino Inquisitore Veneto finì fustigata per strada lungo tutte le Mercerie di San Marco e di San Salvadòr, poi messa “alla berlina per un’ora sulla Pietra del Bando a San Giacometto di Rialto con una mitria in testa con un Diavolo dipinto, e un cartello al collo con la scritta a lettere grandi: “PER LA SANTA INQUISIZIONE PER HERBARIE STRIGARIE E BUTAR FAVE”. Infine venne imbarcata sulla sentita di una Galea, e spedita via mare al bando per cinque anni fuori Città e oltre le terre del Dominio: fra Mentio e il Quarnaro.

Si pose una taglia di 100 ducati sulla sua testa. Se avesse osato rimettere piede a Venezia e in Laguna, sarebbe stata carcerata a San Marco per sei mesi ... Un fattaccio insomma, Bètta l’aveva fatta grossa.

Dalla storia del Processo si evince che un giorno una certa Isabella figlia del quondam Domenico Seghetti da Monteforte, abitante nel Sestiere di Castello in Contrada di San Domenico in Calle Saracina, si presentò spontaneamente dall’Inquisitore Frate Angelo da Faventia inviata dal suo abituale Confessore, e venne accolta e ascoltata nella Cappella di San Giovanni Evangelista della stessa chiesa.

Si mise subito a raccontare, e venne verbalizzato tutto: “Questo inverno prossimo passato io ho imparato di fare alcune Strigarie, quali m’ha insegnato una donna Betta moglie di Messer Libero Calafao, sta qui in Castello, sta appresso il Pistore, dove è una Madonnetta ... Essendo io inamorata di un giovane, una mia vicina chiamata Chiara vedova mi disse: “Vòi tu ch’io t’insegni una donna che sa fare molte cose da far voler bene ?” Et io dissi di si, et lei mi misse per le mani la detta Betta. Et la prima volta io insieme con mia madre chiamata Agnola andassimo a casa della detta Betta ... Et andai con quella giovane Chiara che sta in Birri, già steva a Castello, a casa di Betta et con mio madre, et mi feci conzare dalla detta Betta un pàro di fave, et così io li diedi la prima volta: una da venti, et lì era presente la Chiara ...”

Bètta iniziò subito col chiedere parecchi soldi per i suoi servizi: “uno da venti”… prezzo alto, ciò vuol dire che era parecchio sicura di se e del suo modo di fare … Aveva le idee chiare su come gabbare la sprovveduta Isabetta.

“Le altre volte la detta Betta veniva a casa nostra, et m’insegnò di buttare le fave a me. Et mi faceva dire 33 Pater Nostri per la più povera Anema che xè stada giustiziada, et quando io aveva detti questi Pater Nostri, la me fasèva dire queste parole: “Io ho detto questi 33 Pater Nostri … perché quell’Anima si parti di là e vada al cuore del tale, che non lo lasci dormire né mangiare né riposare fin tanto che non fa a mio modo ... Et questi Pater Nostri li ho detto diverse volte secondo che mi veniva il capriccio nella testa. Et mi faceva dire quelli Pater Nostri con le mani di drio, camminando sempre par casa con le porte averte. Così lei m’insegnò … Di più la detta Betta m’ha insegnato di pigliare un cuore di vitello et con della Savina dentro e del Sale et delle brocche et delli aghi et dell’olio ... Tutte queste cose a nome del Diavolo ... Et questo cuore io lo metteva al fuoco in una pignatina comprata al nome del Diavolo, et quando lo metteva al fuoco si diceva: “Metto tutte queste cose in questa pignatina a nome del tale mio inamorato chiamato Martino.” … Et diceva: “Che queste cose li vaga al cuore al nome del Diavolo, et che non possa né dormir, né magnare, né riposare finchè non facerà la mia volontà.”

Che chiacchierona di donna Isabella davanti all’Inquisitore: un fiume in piena … Aveva proprio bisogno di sfogarsi.


Raccontò ancora che Bètta le aveva comprato “12 candele da un bagattino l’una con una candela donata sopra … e che le aveva appizzàte tutte piantandole in terra in casa … e andava intorno a quelle fintanto che non erano brusciàte.”  … Dicendo non si ricorda quale strana orazione “a nome del Diavolo” ... E che quando accendeva le candele con sua madre, mentre si consumavano diceva: “Come queste candele si brùsano, così si possa brusàre il cuore di Martino per te … a nome del Diavolo.”

Le aveva poi insegnato “a prendere tre pèsighi (pizzichi di sale), e a spanàre il muro col sale” dicendo: “Come questo muro si spànna col sale, così a nome del Diavolo si spanni il cuore e la mente di quel tale perché venga da me.”… Poi buttava il sale per strada e mettere cinque dita sul muro dicendo al Diavolo: “Tiò ! .. Che ti pago … Mènelo qua da me ! (portalo qui da me)… Come non posso fare a meno di questo sale, così Martino non possa fare a meno di me … Che i suoi sette sentimenti e la sua mente vogliano solo me ... Non scongiuro questo muro, né il Cielo, né la Terra, ma quel Gran Diavolo dell’Infermo più grande che sia sopra tutti gli altri, che possa andare al cuore di Martino, e che non lo lasci camminare, né praticare, né avvicinare, né leggere, né scrivere, e non possa osar con maschi o donne se non venir da me ad accontentarmi secondo la mia volontà.”

Stessa cosa faceva ancora prendendo una saliera di casa dicendo: “Di nome del Diavolo … come io non posso fare senza di te, così lui non possa stare senza di me.” … Buttava poi il sale a scoppiettare sul fuoco aggiungendo: “Così scoppi il suo cuore per me” ... a nome del Diavolo ovviamente.

Insomma c’era un uomo amato e desiderato da Isabella, che lei intendeva catturare a suon di Scongiuri detti e ridetti a ripetizione, visto che non riusciva a farlo in un altro modo più diretto … Isabellasuggerita da Bètta, si ritrovò a ripetere di continuo come un mantra fanatico nella speranza che i suoi sogni-desideri finalmente si realizzassero … Che differenza con le donne Veneziane di oggi.

Bètta avvalendosi di volta in volta dei denari di Isabella, le insegnò “a martello” di come porsi e atteggiarsi per ottenere tramite la mediazione del Diavolo il suo scopo amoroso … Le disse anche di mettersi nuda accendendo una candela, e di dire alla propria ombra di andare al cuore del suo amato mentre lei offriva quella candela al Diavolo… Betta aveva insegnato a Isabella la notte di Natale una speciale Orazione che lei aveva dovuto poi recitare per tredici giorni di fila quando la Luna era crescente … Interessantissimo il riferimento alla Luna crescente !

C’era dell’altro ancora, e non poco.

Sempre nel tentativo di “calamitare” il suo amato, Isabella su suggerimento di Bètta, avrebbe dovuto prendere del piombo, accendere il fuoco con una fascinetta che si sarebbe dovuta trascinare dietro “al rovescio”, e poi fondere “in una padelletta” quel piombo ripetendo di continuo certe parole … ovviamente d’invocazione al Diavolo … Isabella aveva fatto tutto, e sciogliendo il piombo ne era venuto fuori una figuretta che assomigliava proprio al Diavolo Lucifero Belsebù con le corna e delle mani che strangolavano qualcuno. Isabella aveva subito pronunciato: “Io scongiuro sto piombo, et Lucifero Belsebù monta qua su, quel che sta al porto, quello dal naso storto, che rompe navi e galìe che è sora al porto … E per li cinque piccai, et cinque squartai, per li cinque dannai, per cinque strasinài, per cinque brusài, che ti vada al cuore de tal Martino, che ti tòli sette onze de sangue: quattro par mi e tre par ti per pagarti … e va al cuore de Martino: bàttelo e martirèzalo, no lo lassare né dormire, né riposàr, né far cosa di questo mondo finchè nol fàzza la mia volontà …”

Bètta ogni volta ne aveva e suggeriva sempre di nuove: “Compra del lume di rocca (allume di rocca), e mettilo sul fuoco a nome del Diavolo, e ripeti: “Come si consuma questo lume di rocco, così si possa consumare il cuore di Martino, che non possa riposare se non fa il mio volere.”

La mandò poi fuori casa a rubare del bombàso(cotone), dell’olio, un cesendèllo(una candela), un bussolà, e della sporchezza di giovane maschio, e con tutto le disse di fare un pavèro(uno stoppino), e impizàrlo a nome del Diavolo s’intende, dicendo: “Così come corrono navi e galìè, così possa correre Martino da me a casa mia.”

Le aveva poi fatto comprare del miglio, e fatto dare “a gajne e gapponi” dicendo: “come mangiano e gustano … così Martino …”

E poi aveva preso del miele, dicendo: “Come corrono le Ave (Api) al miele, così possa correre tutto il bene di Martino a casa mia.”

Un'altra volta ancora, aveva preso uno scovolo nuovo e dell’Acqua Santa di nascosto in una chiesa, “che nessuno vedesse”, e l’aveva mescolata con dell’acqua salsa, e poi aveva pulito la soglia della porta di casa con lo scopino bagnato … a nome del Diavolo … dicendo: “Come corre via quest’acqua … Così corra Martino da me.”

Un’ossessione continua insomma: una spasmodica ricerca quasi fanatica, insistente, mai doma … Inquietante … Ogni gesto era buono per evocare, chiamare, sperare … e ottenere …“in nome del Diavolo”.

Bètta era furba, ogni volta che si recava a casa di Isabella approfittava della sua dabbenaggine … E si recava spesso a trovarla. Quand’era là, le metteva una Corona del Rosario sospesa in aria davanti agli occhi, e le diceva che si fosse mossa, quei movimenti corrispondevano al fatto che Martino stava incominciando a pensare di dedicarsi a lei … Ovviamente finiva per muoversi la Corona del Rosario: piano piano … almeno un poco: “Verrà !” diceva Bètta a Isabella: “Vedrai che cederà e verrà da te di sicuro.”

Bètta faceva anche dei gesti ad effetto: si toglieva uno zoccolo dai piedi, e lo picchiava  sul letto di Isabella gridando: “Così possa battere il cuore di Martino per te !”E Isabella sperava … ovvio che sperava ancora di più …  e continuava in quella sua pantomima che considerava efficacissima.

Isabella sperava … e pagava.

Un giorno“di Quadragesima”, Bètta era venuta a casa a gettare “le fave della buonafortuna” sul tavolo sotto agli occhi stupiti e speranzosi di Isabella e di sua madre … Poi aveva insegnato alle due donne come potevano ripetere da sole quelle “perfette Strigarie”.

Più volte Bètta aveva fatto portare dalla sua amica Chiara a casa di Isabella: dei cuori di Vitello, che Bètta poi provvedeva a “conzàre a dovere”personalmente ... Faceva preparare a Isabella un po’ di pane, che poi lo condiva con olio e sale …. Poi buttava tutto sul fuoco ad abbrustolirsi e diceva: “Come taglio questo pane con l’olio: così il cuore di Martino si tagli col tuo … e come e così si consuma tutto sul fuoco, così il cuore di Martino per te.”… Tutto a nome del Diavolo di sicuro ... e si mangiava il cuore, e si diventava tutt’uno con quella “Diabolica promessa”.

Bètta s’era fatta consegnare da Isabella anche una bella camicia nuova bianca, e un fazzoletto candido “da testa”, che ovviamente non aveva più rivisti.

A volte tutte quelle cose fatte da Bètta le sembravano un po’ inverosimili e poco credibili, allora Bètta rassicurava Isabellaconfidandole in gran segreto che pure lei andava “ai Birri  Bari delle Fondamente Nove di San Canciàn”per utilizzare anche lei tutti quei spergiuri efficaci per far tornare a Venezia suo figlio Lorenzo, che s’era imbarcato come Calafào per la Fiandra sulla Galea Balanzèra carica di frumento … ed era stato ritegnùto,  e non tornato, e non se n’era saputo ancora niente.”… Poi, invece: s’era salvato ed era rientrato a Venezia sano e salvo ... Proprio da lei.

“La detta Bètta mi fece rubare un ago a nome del Diavolo, e metterlo nel fuoco, dicendomi: “Si … Come si consuma l’ago nel fuoco … così si consumerà il cuore di Martino per te.”

Alla fine, un bel giorno, dopo tutto quell’incredibile quanto sbalorditivo e insolito trambustare: comparve e si presentò da Isabella quel benedetto Martino tanto desiderato ... Aveva funzionato insomma ! … Ma era stato solo un episodio, un breve approccio casuale … Isabella voleva, invece, molto di più ... tanto di più: voleva che Martino fosse del tutto suo.

“Devi insistere ! … Non fermarti !” le disse Bètta.

Ma Isabella non aveva più soldi da spendere …. e Bètta non si fece più vedere … e di Martino si perse ogni traccia del tutto.

Per questo Isabella aveva buttato via tutte quelle cose, e s’era presentata dall’Inquisitore della vicinissima chiesa-convento di San Domenico di Castello ... proprio fuori casa, appena al di là del ponte.

Isabella non era contenta di quanto era accaduto: voleva davvero Martino tutto per se e per sempre … Non le bastava solo quella fortuita visitina costata tutti quei soldi … Isabella pretendeva molto di più: “mi ha mangiato, che è stato troppo”… Per questo si era rivolta dall’Inquisitore (non perché non credesse all’efficacia di tutte le cose che le aveva detto e fatto fare Bètta, ma perché non avevano avuto l’effetto totale in cui sperava.... Quel beneficio dal Diavolo le era arrivato solo a metà, o forse anche meno ... La sentiva una specie d’Ingiustizia nei suoi confronti, più che una vera e propria frode da parte di Bètta.)

Ancora dal resoconto di Isabella dettagliatamente messo a verbale, si apprende che quella faccenda con Bètta era durata almeno due anni, e nel far questo Isabella s’era anche grandemente angustiata interiormente … per via di quel traffico con Diavolo … e non aveva più avuto il coraggio di andare a Confessarsi, e recarsi a Messa e in chiesa … Si sentiva perduta … Nel frattempo le si era ammalata anche la madre, che se ne stava a letto ormai da quindici giorni piena di petecchie ... Era forse colpa del fatto che s’era trovata a gettare le fave insieme ad altre donne ?

Era una “punizione del Cielo perché aveva evocato il Diavolo” ?

Dopo aver attentamente ascolto Isabella, l’Inquisitore di San Domenico di Castello si recò di persona nei giorni seguenti a far visita a casa della vecchia donna ormai inferma … Voleva controllare la veridicità di tutte quelle cose dette da Isabella … e trovò per davvero: Donna Angela, la madre di Isabella “decumbente malata” a letto.

L’anziana Donna Angela confermò con un filo di voce all’Inquisitore che era vero che Donna Bèttapraticava spesso per casa loro: “E’ la moglie di Libero Calafàto dell’Arsenal, che abita nella prima porta della Calle vicino al Pistore dalla parte di San Domenico, tra l’uno e l’altro ponte … sotto al portego con la Madoneta … nella Calle che si dice del Sarasìn.”


Isabella mogièr de Zanetto Canatòn Barcariòl promise davanti ai Giudici dell’Inquisizione che mai e poi mai si sarebbe fatta nuovamente irretire in cose simili, che avrebbe mantenuto il segreto e il completo riserbo su tutto quanto era accaduto, e che avrebbe riferito al Santo Uffizio qualsiasi cosa sospetta di cui fosse venuta a conoscenza in futuro.

Il segreto ? … Tutta Castello e Venezia sapevano tutto di tutti, e ancor più anche di quella “faccenda della Striga Bètta de Castèo”… Venezia a quei tempi era come un unico grande condominio.

Isabella firmò tutte quelle sue testimonianze e deposizioni … Siccome non sapeva né leggere nè scrivere, su indicazione dei Segretari-Scrivani del Santo Uffizio appose un bel segno di croce in calce al documento che le venne sottoposto.

Bètta, invece, venne subito dopo convocata dall’Inquisizione Veneziana, e comparve davanti ai Giudici dell’Inquisizione… Invitata a giurare la Verità, negò poi ogni cosa e addebito che le veniva attribuito … Negò perfino di conoscere Isabella e Chiara ... anzi: disse che le conosceva appena di vista ... Che era stata una sola volta a casa loro per andare a ritirare della seta e delle cordelle: “Signor no … Tutto questo non è vero … Queste cose mi nun le so far ...nè le ho insegnate a far sull’Anima mia.” replicò agli interrogatori non senza una certa alterigia.

Venne messa in carcere.

Stavolta sia Inquisizione che Serenissimarappresentata nella sua autorità civica dai Nobili Vito Morosini, Zaccaria Contarini e Domenico Duodo, si trovarono concordi nella conclusione: Donna Bètta di Castello aveva travalicato il passo “esagerando troppo con i suoi imbrogèssi e sotterfugi”… con le sue performance aveva intrigato e imbrogliato davvero troppo … Serviva quindi darle un’opportuna lezione, che servisse anche da deterrente e monito per eventuali altre donne come lei nella sua stesse condizioni: “che non si fossero messe in testa di far cosa simile”.

Così alla fine di tutto sentenziarono insieme: l’Illustrissimo Domino Cesare Costa Legato Apostolico a Venezia, il Molto Reverendo PadreMaestro Angelo Mirabino Inquisitore Generale, e i Nobili Veneziani raccolti insieme … e così accadde … e si era verso la fine dell’estate del 1587 a Venezia ovviamente.

Del Diabolus in giro per le Contrade Veneziane pareva non ci fosse alcuna traccia evidente … né tantomeno del bramato Martinocosì sognato, voluto e cercato a tutti i costi da Isabella.

Helisabet sive Bètta da Castello figlia dell’ormai morto Gianti Bastazo: “… abitante in Contrata de Sancti Petri de Castello in rivo Sancti Dominici” finita in carcere, venne prelevata dal Commissario e Maestro dell’Inquisizione Geronimo Vitrario he applicò nel dettaglio e fino in fondo quanto previsto dalla esemplare sentenza … “perché ogni Veneziano e non: veda, capissa e impari come finirà chi vorrà aver a che fare con la Strigaria.”




“ai Tolentini … 1885”

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“ai Tolentini … 1885” 

Non so se la data del 1885 attribuita a questa foto vintage sia quella giusta … Poco cambia: pensieri osservandola … Ciò che mi colpisce di questa scena Veneziana catturata ai Tolentini, vicino a Piazzale Romadei bus e del tram, è di sicuro il sorriso che coinvolge buona parte dei presenti.

Mi direte: “E che c’è d’insolito ? …  Di solito si prova sempre a sorridere nelle foto.”

Verissimo … Non sempre una volta: mettersi in posa per una foto una volta era una cosa seria, per cui a volte apparivano spesso impacciati, impettiti e serissimi.

Comunque non mi pare che ci fosse tanto da sorridere da dentro quel modo di vivere, e allo “status” in cui vivevano allora … Eppure sorridono lo stesso ... Notate come se la ride “sotto al baffo” l’omino in fondo, e anche le due donne … Sono radiose seppure nel loro abito davvero ordinario. Solo le bimbe accanto “al mastèllo co a tòla da lavàr” sembrano pensarla diversamente … A tal proposito: osservate la qualità del bucato steso sul muro in fondo ad asciugare ... e la seggiolina impagliata e mezza sfondata collocata in mezzo al campiello … Gli abiti dei bimbi erano di certo riciclati e di modesta fattura … Portavano gli Zòccoli e “le sgàlmare” ai piedi, come diceva mio Nonno … Capelli corti a tutti poi, per via dei più che frequenti pidocchi … Miseria nera, insomma … Vita fatta di niente … ma serena … forse.

Foto studiata o realizzata live di un posto davvero così ? … 

Non lo so.

Sotto casa di mio suocero, a qualche isolato da lì, in quegli stessi anni si era ricavato racchiudendo un piccolo portico con pozzo un appartamento di un’unica stanza divisa da una tenda a metà. In un angolo accanto a una finestruola adesa al basso soffitto c’era un piccolo foghèr …. Lì viveva stabilmente, e dormiva, e mangiava e stava una famiglia di dodici persone: senza servizi igienici, senz’acqua corrente né corrente elettrica, con l’acqua alta, e senza un camino … e senza tutte le nostre ovvie comodità irrinunciabili di oggi ... Ho visto con i miei occhi durante il restauro i resti del vecchio pozzo appena sotto al pavimento: immaginatevi l’umidità e la salubrità di quel “loghètto”, che quelli consideravano casa loro a tutti gli effetti … Solo negli anni ’50 del 1900 quel posto è stato trasformato in magazzino privato, ma solo perché non c’erano più persone disposte ad abitarlo.

Tornando alla foto, avete notato che assemblamento di bimbi c’era in quel piccolo campiello del Sestiere di Santa Croce ?

In quegli stessi anni di fine 1800, il Sestiere contava circa 12.500 abitanti residenti … Oggi nello stesso luogo di Venezia, bene che vada, ci sarà e vi abiterà un unico bimbo o bimba Veneziani in tutto … Noi Veneziani viviamo davvero un’altra epoca storica ... anche se Venezia è sempre Venezia.

Vi butto là una curiosità del 1633 riguardo lo stesso Sestiere di Santa Croce… Subito dopo il tempo della grande Pestilenza della Madonna della Salute che decimò e martoriò notoriamente Città e Laguna, nel Sestiere si contavano 329 capifamiglia Nobili e Cittadini che non lavoravano vivendo di rendita, e 2.150 capifamiglia Popolaniche s’impegnavano quotidianamente nel lavoro per vivere o sopravvivere ... un po’ come noi di oggi.

Nel Sestiere era presenti 193 attività lavorative dedite all’alimentazione; 757 aziende tessili; 122 famiglie vivevano dell’Arte della Lana; 39 aziende erano dedite alla lavorazione dei metalli; 98 al cuoio; 10 alla carta e alla stampa; 39 all’edilizia; 53 al lavorazione del legno; 33 producevano armi di varia natura; 7 erano dediti alla lavorazione artistica; 42 all’organizzazione del commercio; 115 alla comunicazione, posta, corrieri e messaggi; 405 si dedicavano all’ospitalità; e 19 prestavano servizi per lo Stato Veneto.

Ancora circa lo stesso Sestiere nel 1661: qualche anno dopo … Si censirono: 2712 abitazioni, di cui 55 erano Palazzi o Cà usati da Famiglie Nobili, 74 erano abitazioni più modeste usufruite da Cittadini, e 8 erano abitazioni di un certo pregio usate da Piovani ed Ecclesiastici.

Si contavano poi altre 2.202 abitazioni-immobili: solo 4 erano da 300 ducati annui d’affitto, 796 da 11 e 20 ducati, e altre 74 da affitto annuo fra 50-60 ducati. Di tutte queste: 142 erano abitazioni vuote; 73 venivano concesse gratuitamente in uso; 158 erano con bottega annessa; 2.202 erano affittate per un giro annuo d’affari corrispondente a 63.725 ducati circa.

Nello stesso Sestiere si contarono presenti e attive anche 242 botteghe, di cui 8 erano vuote, 2 concesse in uso gratuito, 4 erano botteghe in proprio, e altre 228 date in affitto per un giro annuale stimato di 12.841 ducati ... Fra tutte quelle botteghe c’erano le due gestite dalle vedove: Maria relicta de Ciprian Fachia Botter, eAnzelicache aveva seppellito prima il marito Alvise Panzani, e poi “in seconda” Zuane Gozzi Botter ... Costei pagava 2 soldi e 1 denarodi tasse alla Serenissima … C’era poi anche la bottega di Gerolamo de Zuane Costantini Calegher, quella di Zuane Battagiola Pettener “Ai tre Anzolli”, che pagava soldi1 edenari5, e quella di Angelo figlio di Pietro Barbièr, che nel giugno 1664 venne bandito in contumacia dal Consiglio dei Dieci perché denunciato per essere entrato in casa di Gabriella Franzina, vicina di suo padre, per rubarle del denaro. Trovata la donna da sola in casa, la sgozzò occultandone il cadavere che venne ritrovato solo due mesi dopo ... Se catturato sarebbe stato decapitato e squartato dopo aver subito il taglio della prima mano a Santa Croxe e della seconda al Ponte del Latte

Si contarono, infine, sparsi nelle Contrade del Sestiere de la Croze: 165 magazzini, di cui 21 erano vuoti e inutilizzati; 8 erano privati e gestiti in proprio, mentre 63 erano dati in affitto per un giro annuale di 1504 ducati ... Uno di questi era utilizzato da Zamaria Fanello Murèr, che pagava soldi 10 e denari11 di tasse alla Serenissima ... C’erano inoltre 8 Inviamenti: tipo Forni e Pistorie, considerati capaci di produrre un valore di 1.076 ducati annui.

 

Altra curiosità … Poco distante dal campiello rappresentato in foto, a un centinaio di passi più o meno, sorgeva e sorge il chiesone dei Tolentini il cui Convento oggi è diventato Facoltà di Architettura.

Una curiosa relazione del 1644-1650 sullo stato del Monastero dei Padri-Chierici Regolari dei Theatini sotto il titolo di San Nicolò da Tolentinodella Città di Venezia, ricordava che lì c’era residente fin dal 1527 per volontà di Papa Paolo IV,“la famiglia” di 45 Religiosi con 17 Sacerdoti, 11 Chierici Professi, 11 Laici Professi, e 3 Laici Novizi: “Costoro risiedono in molte officine e in 54 celle abitabili nei 4 corridori nella Fabbrica Nuova ancora da perfezionare restandovi ancora mediocre giardino, e s’assommavano alle molte altre officine, e alle 16 celle habitabili nella Fabbrica Vecchia … Il Preposito dei Padri è un Vicentino, i due Padri Visitatori residenti provengono da Milano, come un altro Padre ... Ci sono poi quattro Padri da Mantova, un Piacentino e un Cremonese, e otto Padri Veneziani più o meno Nobili: i Padri Franceschi, Bernardi, Pencino o Penzo, due Pizzamano, un Correr, un Bencio e Padre Carlo Labia ... Anche fra i Laici Professi c’è un Veneziano: Francesco Ferro. Tutti gli altri provengono dal Modenese, Genovese, Torinese, Palermitano, Bolognese, Padovano, Comasco, Catanzarese, Bergamasco, Finalese, Ferrarese, Bellunese e Trevigiano … Un Novizio: Giacomo Netgel viene da Hofenburg ... Il Monastero non ha nessun servitore … Conforme all’uso de Theatini Il Monastero non possiede alcuna sorte di beni stabili, ne d’entrate, ma solo tiene due casette picciole, una dirimpetto alla chiesa: la quale deve diroccarsi per ingrandire la piazza, et hora si concede gratis ad uno che serve la Casa-Chiesa, l’altra lasciata due anni fa per legato alla Religione, potrebbe valere circa 200 scudi ... Fino ad ora non s’è mai trovato chi la volgia comprare per essere tanto rovinata e cadente … I Padri possiedono alcuni legati annui vitalizi che in tutto fruttarebbero scudi 349. Alcuni rimarranno attivi “sin che vive un Padre a cui sono legati”, un altro di scudi 60 durerà ancora solo per 8 anni, un altro uguale è quasi inesigibile, come quello ancora depositato in Zecca …La Repubblica Serenissima soccorre di elemosine il Monastero offrendo 40 scudi annui, e ogni anno offre: grano, legna e sale che si stima di scudi 72 ….Inoltre i Padri hanno Limosine incerte, limosine di Messe (per l’ordinario a 1 giulio e ½ et anche 1 giulio ciascuna), e limosine di legati, comprendendovi li sopraddetti per  circa 361,5 scudi, che con altre robbe commestibili, un anno per l’altro, ragguagliano ogn’anno in circa scudi 400 ... Il Monastero ha speso in questi ultimi 6 anni in vitto comune, cioè per grano, vino, olio, legna e robbe commestibili: ogni anno circa scudi 1.994,5 … Si è speso nella Sagrestia e Chiesa: scudi 267,4; scudi 275 nel vestiario con molte robbe venute da limosina, nell’Infermieria oltre li medicamenti: scudi 175; scudi 60 in viaggi; scudi 70,5 in foresteria; scudi 100 in libreria; e scudi 368 in varie spese straordinarie, cioè lettere, barche, cucina, refettorio ... Il suddetto Monastero è aggravato di debiti antichi non urgenti che defferisce di pagarli per circa scudi 2.500, e ha all’incontro crediti se ben non tutti facili da esigersi di scudi 2.660 ... Onde resta sino al giorno presente con credito di scudi 160 … Per la manutenzione del convento non si spese nulla ... Non si diedero contributi alla Casa Generalizia.”

Il chiesone dei Tolentini in quegli anni era ancora privo della pomposa facciata che vediamo oggi: era cioè senza quel pronao colonnato e le balaustre prospicenti sul vicino canale “fabbricati alla moderna”. Vennero realizzati solo 1706-1714 da Andrea Tirali su committenza di Marco Alvise Da Mosto Procuratore di San Marco, il cui busto campeggia ancora oggi in cima alla facciata della chiesa.

Curiosissima la vicenda che lo riguarda: il ricchissimo Nobile agonizzante avrebbe sussurrato con un fil di voce all’orecchio del suo Confessore dei Padri Teatini, che avrebbe lasciato 20.000 ducati agli stessi Teatini per abbellire la chiesa e per celebrare 4.000 Messe di Suffragio in sua memoria: 1.000 delle quali nei 15 giorni successivi alla sua morte, le rimanenti nei 6 mesi seguenti … Grandissimi dubbi e proteste sorsero nel parentado del Nobile per “quell’infelice scelta ultima”, ma non ci fu niente da fare: la cosa venne realizzata lo stesso, “in quanto la volontà di un morente non va discussa”.

Il corpo del generoso Nobile venne sepolto a San Lorenzo di Castello:dall’altra parte della città dove abitava, ma il suo cuore venne posto in un’urna ai Tolentini insieme a quello di sua zia Ceciliaispiratrice del generoso gesto del nipote.

 


Ho concluso … Dopo metà ottobre 1760: “… un povero Murèr d’anni 26, uscito dal Magazzino del Gàfaro (sempre là a due passi dal posto della foto) verso le due di notte, cadde giù da una riva dietro lo stesso magazzino. Fu ritrovato la mattina seguente col capo così conficcato sotto all’ultimo gradino della riva, e con una mano così stretta ad una barca legata quivi vicina, che si durò gran fatica a levarnelo di là ... Fu poi portato al cimitero di San Basilio e quivi seppellito …”

Un’altra immagine di una Venezia vivida e vispissima insomma, tanto diversa da quella di oggi … ma pur sempre la stessa Venezia.

 


Santa Maria degli Angeli di Murano

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Santa Maria degli Angeli di Murano

Murano e le isole, come la nostra stessa Venezia … lo sappiamo ormai: sono realtà desuete, pallido riflesso di ciò che sono state un tempo. Voglia o non voglia, pur provando a pompare immagini e memorie evocando splendori e storie dei tempi andati, rimane sempre quella sensazione d’incompiutezza e di trovato solo a metà … Sembra quasi di poter innalzare il vessillo di tanta bontà e vivezza ormai trascorsa: solo a mezz’asta.

Murano di sicuro è sinonimo del Vetro: poca cosa oggi a confronto del tanto che è stato un tempo. Sembra ridotto quasi a realtà museale piuttosto d’essere ancora sfida commerciale ed estetica ... Murano però non è stato solo il Vetro, è stato come ben sapete quella dependance vivissima di Venezia, quasi una Serenissima in miniatura dove Nobili e Veneziani di ogni risma e prestigio andavano a trovare sfogo ludico, evasione estetica ed impresa economica … A Murano si andava per cantare Letteratura, inventare Bellezza Artistica, far Musica e Poesia, inanellare Devozioni, e perché no: anche intrallazzare e amoreggiare, mangiare e bere, andare a caccia e pesca e divertirsi dentro a quel particolarissimo scenario spettacolare Lagunare ... E’ stata tanto Murano.

 

Oggi non vivono quasi più i dieci Monasteri, gli Oratori e le Pievi che punteggiavano un tempo la Laguna e l’Arcipelago Veneziano da questa parte, rimane qualche storia, qualche toponimo e leggenda, solo qualche traccia e riflesso di tanto tramestare e lavorare … Riandare a Murano, almeno per me, mi fa accedere spesso a un’immagine soffusa stemperata dentro alla vaga nebbia del Tempo andato ... Sono sensazioni personalissime: lo so.

La cittadella Monastica di Santa Maria degli Angeli… un tempo chiamata: “Le Vergini di Murano”, è stata di certo un fiore all’occhiello, una magnifica e ricca realtà della “stagione Muranese” da collocare accanto alle celebri Santa Maria e Donato e alla San Pietro dei Domenicani Inquisitori dalla Predica facile ... Basta riandare per un attimo ai nomi di chi ha popolato e vissuto “gli Angeli di Murano”per farsi un’idea di quanto valeva, e dello spessore che hanno avuto quei luoghi lungo i secoli: Gabriel, Cappello, Polo, Benzoni, Bernardo, Boldù, Balbi, i Conti di Collalto, Zanardi… tanti nomi della Venezia che contava ... e ne ho citati solo alcuni.

E’ accaduto “tanto” in quell’angolo remoto ma vivissimo della Laguna Veneziana: numeri, notizie e cronache curiose parlano da se ... basta sfiorarli.

 

Già nell’estate 1188 la nobile Zeneureo Ginevra Gradenigo obbligata dal padre Marinoa farsi Monaca, forse con qualche lacrima, donò alla Badessa Giacomina Boncio figlia di Antonio abitante in Santa Maria di Murano un terreno con “adiacenti acque in capite vici novi” per farlo diventare un luogo dedito al culto della Vergine e dell’Apostolo Jacopo... Giacomo era quello Maggiore: quello famoso del Cammino e dei Pellegrini, del “Viaggio senza fine” fino a CampoStellae Finis Terrae nella Galizia Spagnola: un fenomeno epocale che ha coinvolto l’Europa intera per secoli ... ancora oggi in parte.

Nacque insomma quella nuova realtà Monastica Muranese, che avrebbe seguito i dettami della Regola di Sant’Agostino… Fu Leonardo Donà Vescovo di Torcelloa darne giuridicamente “il via e il permesso”, e iniziò così la storia “degli Angeli alla punta di Murano”, che al principio era come sempre poca cosa: solo una chiesola in stile archiacuto nei cui pressi abitavano poche Canonichesse Regolari Agostiniane.

Le Monache per più di un secolo andarono e venirono: nel 1330 quasi scomparve la Comunità Agostiniana Muranese con Gaudenzia Monaca di Santa Maria degli Angelie un altro paio di Monache che si recarono a vivere “sub eremitica clausura” nel romitorio di San Girolamo a Treviso:“extra Burgo Sancti Quarantae”,su un terreno concesso loro dal Vescovo ... Trent’anni dopo le stesse Monache furono costrette a diventare profughe incalzate da Ungari e Carraresi, perciò rientrarono di nuovo in Laguna fondando stavolta il Monastero di San Girolamo di Cannaregio.

Si era nel 1375 ... così che gli Angeli di Murano in un certo senso figliarono un Monastero gemello appena oltre le acque di Murano, nel Sestiere di Cannaregio.

Il secolo seguente fu quello del successo del Cenobio Muranese: affitti di orti e vigne a Murano, donazioni, arrivi d’Indulgenze e privilegi Papali da Roma, e da parte di Vescovi Lagunari: tutte cose buone per rimpolpare ulteriormente le casse e il prestigio degli Angeli di Murano ... Le Monache stesero e si diedero nuove Costituzioni, e allo stesso tempo provvidero ad annettersi i beni di San Lorenzo di Ammiana ormai “mangiato dalle acque e dalle male arie”, le cui ultime Monache erano andate a riparare nel Santa Margherita di Torcello ... Al Monastero Muranese che ospitava una quarantina di Monache soprattutto Nobili Veneziane, arrivarono in gestione terreni di Lio Piccolo e Lio Maggiore in località Peretolo, e poi: valli, barene e specchi d’acque piscatorie ... Il Senato Veneziano poi, assegnò alle Monache anche il diritto di usufruire dei marmi, colonne e suppellettili del “rovinoso recinto della ormai morta Isola di Ammiana” per dar loro modo di costruirsi un Dormitorio Nuovo.

E non è ancora tutto ... Le Monache acquisirono anche il controllo della chiesa di San Salvatore di Murano con le sue pertinenze, dove operava da tempo un efficiente mangano, e della più lontana Abazia di Santa Maria di Piave di Lovadina nel Trevigiano con tutte le sue risorse …  Ultimo e non ultimo: Donato Giovanni di Villa di Bozolo sotto Piove di Sacco lasciò al Monastero 76 ducati obbligandolo a cantare un’annuale Messa Esequiale “in sua memoria e per la sua Salvezza Ultima” ... e anche quella donazione andò a incrementare “il mucchietto” delle Monache Muranesi divenute di certo benestanti.

 

E giunse il 1500, quando tutto il complesso della cittadella Monastica Muranese esplose nella sua magnificenza. Tutto venne riedificato, ingrandito e riconsacrato nel 1529 ... L’annessione dell’Abazia di Lovadina aveva inserito le Monache in un “circuito di respiro Europeo”, quindi “gli Angeli” ne beneficiarono crescendo in prestigio e popolarità.

I catastici, i registri e le altre carte relative ai benefici, le riscossioni, affitti, debiti, crediti con “le spese della gestione del Passo di Lovadina”, e poi: le visite, gli accordi, le procure, le compra-vendite, le investiture e le quietanze, “le allegazioni e convenzioni, le donazioni, i lasciti, le carte di doti, e le terminazioni, gli affrancamenti, le dadie, e le entràde dell’Abazia di Lovadina: “città dei Lovi o Lupi” nel Trevigiano vicino a Spresiano” ... Non proprio a due passi da Murano ... scandisco e illustrano ampiamente la vita e il successo del Cenobio Muranese delle Monache degli Angeli diventate di sicuro “un nome che contava” della Laguna Veneziana.

Le cronache del 1600 raccontano, invece, che le Monache degli Angioli o Agnoli di Murano mantenevano a spese un Cappellano che prestava servizio all’Abazia di Lovadina Nel 1647 Giulio Lovagnan agente dei Nobilissimi Badoer di Veneziacedette agli Angeli di Murano una casa aSanto Stefano di Murano, che venne subito affittata aPie o forse Prè Mazzi SantoniDal 1633 al 1684, invece, il Nobile Ronzoni gestì “la fattoria di Venezia delle Monache degli Angeli tenendo appositoRegistro di Cassa ... Nel 1694 si registrò la tassa pagata dalle Monache degli Angeli per alcune donazioni ricevute a San Lorenzo di Soffrato e San Martino di Solighetto, e si stese una scrittura di un accordo concluso col Seminario di Cenedaoggi Vittorio Veneto ... E’ dello stesso anno un’altra scrittura per l’acquisto di una casetta situata sull’Arzere di Santa Marta a Venezia, a due passi da casa mia  ...Ulteriori pergamene e scritture fanno riferimento a 10 campi situati a Vo di Sabioncello, e ad altri beni a Villa di Polverana sotto Piove di Sacco, a Pavanol, Mogliano, Zeno, Castelfranco, Bonisiol, Sofratta e Santo Stefano di Pinadello di pertinenza del Monastero Muranese ... Va dal 1575 al 1740 il Registro degli Introiti della fattoria di campagna di Coneglianole cui carte, conti, disegni, lettere, affittanze e ricevute furono curate per il Monastero nel 1672-73 da Bampo Bompi Agente per i beni di Conegliano ed affittuario del Passo e dei prati di Lovadinaper le Monache degli Angeli di Murano   … mentre venne redatto a fine agosto 1748 lo strumento di vendita di campi a Chiesa giurisdizione di Panigai in Patria del Friuli sempre a favore degli Angeli di Murano.

Tanta roba vero ? …  La lista sarebbe ancora lunghissima: attingendo dall’Archivio del Monastero Muranese potremmo aggiungere l’eredità acquisita dal Monastero per lascito della Nobile Gabris Rinaldi, che lasciò beni posti in Salva, Cusignano e Giavena ... le scritture relative alle fabbriche di Mogliano e del Distretto di Cittadella ... le carte inerenti al Beneficio di Riese a San Pietro in Brenta ... quelle delle Terre di Padova Esiste anche un “Registro Cassa delle gravezze o dadie di Mestre” che copre gli anni 1699-1802.

Pietro Rocambolettipagò al Monastero un livello su alcuni beni in Conegliano... come Bortolo Giovannini, il Capitolo di Conegliano, i Nobili Fratelli Corner, Giovanni e fratelli Sartori, e Cristoforo Belliniche cento anni dopo avevano debiti da 300 e 500 ducati con le Monache degli Angeli per livelli affrancabili ... LaSchola Grande di San Rocco di Venezia nel 1735 attivò uno strumento di livello con le Monache per 3.550 ducati, mentre nel 1756 toccò alla Schola Grande della Misericordia di attivarne un altro per ducati 1.200 ... L’anno seguente ancora fu il turno della Schola dei Luganegheri di Veneziache depositò in Zecca due capitali di 500 ducati ciascuno a nome e favore delle Monache degli Angeli, che si sommarono con i due capitali già depositati in precedenza da Marina Valier Albrizzi, e in seguito daMadre Suor Maria Stella Bernardo Monaca agli Angeli con interesse annuo del 2-3%.

Insomma per secoli i soldi andarono e venirono “a palate” dagli Angeli di Murano.

 

E dove girano i soldi ci sono sempre rogne e complicazioni, per cui non mancò di certo la lunghissima sequela-strascico dei secolari processi pro e contro la giurisdizione della Monache Muranesi … Sui beni di Lovadinasoprattutto: nel 1679 “contro Antonio e Bortolo di Lovadina”; dal 1699 al 1721: “contro i Passadori di Nervesa e Candelù nel Comune di Lovadina di Spresiano”; nel 1759: conflitto e processo fra il Monastero degli Angeli e Venturino Grattarol:  “per le differenze esistenti per la Cassella del Capitello a Lovadina” ... e: “contro la Comunità di Lovadina per l’utilizzo delle grave del Piave” ... “contro i Conti di Collato per il Passo di Lovadina con sentenza a favore del Monastero degli Angeli… e dopo ancora:“contro Zuanne Pasetto che non pagava le affittanze dei beni delle Monache in Bonisiole”, “contro Pavan Giacomo di Mogliano per lo stesso motivo … contro: Tommaso Coltrino, Pietro Gobbato, Agostino Zuanne, Lieta Conforte, Guglielmo Gianoli, Cesare Rubinato, gli eredi Desiderati, i fratelli Selvatico, Eccellente Saladino, il villico Trandui, Orsola Benno, Giacomo Fassa …i fratelli Malgazzini e le sorelle Matiazzi ... e molti altri ancora che non cito per non annoiarvi e farvi scappare dal leggere.

Le Monache degli Angeli non guardavano in faccia, non temevano e non facevano credito a nessuno. Si contrapposero senza risparmiarsi anche contro il Magistrato ai Dazi, i Governatori della Pubblica Intrada, il Magistrato delle Ragioni Vecchie, e i Dieci Savi dell’Ufficio delle Cazude… Se la presero bellicose perfinocol Magistrato del Dazio del Vin per alcune bollette di vino secondo le Monache corrette … secondo il Magistrato, invece: ambigue e contraffatte ... Le Monache si schierarono in giudizio senza remore contro il Piovano-Parrocodella vicina San Martino di Murano per via dei diritti sulle sepolture dei Morti, che secondo le Monache spettavano a loro … e poi ancora: contro il loro stesso ortolano che curava la zona interrata dietro alla chiesa, che un tempo era stata lago-mulino dei Gradenigo-Morosini ... Ancora e di nuovo le Monache indomabili:contro il Patriarca di Venezia”, “contro il Vescovo di Treviso”, contro il potente e ricco Monastero di San Teonisto e il Clero di Treviso a cui le Monache Muranesi erano tenute di versare la “Tassa dei Quattro Fiumi” … e controi Monasteri delle Vergini e quello di Sant’Antonio di Castello a Venezia, “contro Prè Graziani Carlo”, contro il Parroco di Camolo, contro quello di Vazzola, e contro gli eredi di quello di Ramena ... e contro le Comunità di Mestre e Serravalle, e i Comuni di Sofratto di Conegliano, Visnà e Spresiano…  Gli Avvocati e i Procuratori delle Monache fecero di certo fortuna.

Vi risparmio stavolta per non diventare del tutto illeggibile tutta la solita trafila un po’ da “cronaca rosa”, delle esuberanze e degli abusi delle Monache di Murano a volte diventate scapestrate. Non mancarono di certo in isola e nel cenobio, come accadeva a Venezia e un po’ ovunque nell’epoca, episodi e misfatti che fecero allertare, inquietare e accorrere non solo il Santo Uffizio Veneziano, ma anche: Dogi, Senato, Vescovi, Patriarchie Nobili tutti propensi più che spesso a minimizzare tutto, se non a nascondere a volte, per salvare più che si poteva onore e buon nome delle blasonate e potenti Famiglie Nobili Veneziane ogni volta coinvolte.

Voglio pensare però che accanto a tante indiscipline ed eccessi, le Monache Muranesi siano state anche in grado di fare un po’ anche il loro dovere “da Monache”, cioè che si siano dedicate almeno un poco anche a meditare, orare, far Digiuni e Penitenze, Cantar Messe, Lodi e Vespri e fare un po’ di Carità a chi ne aveva bisogno ... Le Cronache tacciono al riguardo.

Va beh … Nel 1534-36 comunque, il Monastero che ospitava ben 90 Monache, pagava 15 ducati annui all’organista, altri 40 ne spendeva per pagare annualmente cantori e suonatori in occasione delle varie Feste dell’Annunciazione, dell’Assunta e dei Santi Lorenzo e Agostino che celebrava puntualmente il Monastero … Altri 100 ancora si spendevano “per la chiesa: i paramenti, camisi, amiti, pianete, piviali, tovaglie, panni d’altare, cere per le festività ed infinite altre cose di chiesa per le quali si sta sempre con la borsa aperta”… Ai Preti Muranesi e Veneziani, invece, le Monache davano 20 ducati annui e più “per dir Messe” ovviamente, e altri 20 “per far pasti come di consueto senza contare pan e vin”.

Nel 1561 Prè Bernardino Roca Cantore della Ducale Basilica di San Marco venne aspramente redarguito e poi punito perché aveva preferito recarsi a cantare a Santa Maria degli Angeli di Murano piuttosto che nella Basilica Marciana di Venezia il giorno della Festa dell’Annunciazione, cioè dell’impareggiabile Festa della Sensa ... Quanto attraenti erano, e quanto sapevano offrire le Monache Muranesi ?

Nel 1574 o forse 1594, Enrico III Re di Polonia e di Francia assieme ai Duchi di Nevers, Mantovae Ferrara, e con Torquato Tasso al seguito, visitarono Chiesa e Monastero degli Angeli di Murano: “rimanendo esterrefatti dal meraviglioso sito abitato dalle Monache” … Il Sovrano venne portato in isola su una barca a forma di drago fatta quasi tutta di colorato e stupefacente vetro ... Incredibile !

 

La chiesa a una sola navata delle Monache era, ed è ancora oggi, un tipico scrigno ricco di magnificenza Veneziana. Il soffitto è del tutto ricoperto da quaranta tondi-comparti dipinti nel 1520 da Nicolò Rondinellio da Pier Maria Pennacchicon “una processione senza fine di Apostoli, Profeti, Evangelisti, Padri della Chiesa e Angeli che fanno festa e corteo alla Vergine Incoronata degli Angeli” ... C’erano poi due Cori per Sacerdoti e Monache, il pavimento era lastricato da marmo di vari colori ... Le pareti foderate di evocativi teleri coloratissimi opere di nomi illustri come Paolo Veronese, Giovanni Bellini, i Vivarini di Murano, Gregorio Lazzarini, Paris Bordone, Pietro Malombra, Marco Basaiti, Giovanni Antonio de' Sacchis il Pordenone, Giuseppe Porta Salviati, Jacopo Palma il Giovane, Pietro Damini … e poi c’erano ancora i Monumenti sepolcrali Dogali e Nobiliari(il corpo di Sebastiano Venier eroe di Lepanto, Doge dal 1588 al 1578, è stato traslato nel 1907 ai SS.Giovanni e Paolo di Venezia), altari fitti di marmi di Carrara magistralmente scolpiti dai vari Marinali e Bonazza… un sontuosissimobijoux inestimabile Lagunare insomma, capace di lasciare a bocca aperta ieri come oggi … Sembra che in epoca imprecisata ci fosse ad est della chiesa anche un piccolo Oratorio dedicato a San Girolamocon un solo altare, e che accanto al Monastero ci fosse anche un piccolo Cimitero.

Curiosa la vicenda di un’opera andata altrove … Sembra che le Monache avessero chiesto a Tiziano di realizzare una grandiosa opera per l’Altar maggiore rappresentante l’“Annunciazione col Padre eterno e copiosa e bella gloria di Angeli”, ma che il pittore dopo essersi scontrato con le Madri degli Angeli per l’entità del compenso che considerava inadeguato, abbia preferito svendere e regalare l’opera per soli 100 scudi all’Imperatore e all’Imperatrice Isabella piuttosto che darla alle Monache di Murano.

 

Nel 1815 Giannantonio Moschini nella sua Guida di Venezia” richiamando il Sacerdote Vincenzo Zanetti ultimo Cappellano del Monastero di Santa Maria degli Angeli scrisse: “… nella parete in faccia alla Cappella Maggiore sono appesi quattro comparti dell’antico organo: rappresentano Annunziata, Sant’Agostino e San Lorenzo del XVI secolo … L’organo stava superiormente a questa porta della Sacrestia con una cantoria tutta lavorata col gusto e coi marmi stessi con cui furono lavorati l’altar maggiore e gli altri due ad esso laterali …”

A inizio 1700, quando un fulmine si scaricò sul campanile della chiesa degli Angeli, il Monastero si comprò metà di bottega e una volta in Contrada di San Zuanne Elemosinario di Rialto, le cui rendite andarono ad aggiungersi ai 673 ducati annui che già possedeva da immobili affittati a Venezia. In Terraferma, invece, le Monache erano riuscite ad ottenere un incremento del 276% dei beni rurali che possedevano, arrivando a contare ben 713 ettari di terra, fra i quali c’erano i 231 ettari prativi e vallivi di Prà di Levada vicino alla Livenza di Ceggia ... Andrea Battistella e Bastian Marchesin impiegarono molti giorni a numerare e descrivere i ben 70.000 alberi che erano lì piantati.

Una mappa del 1742 rappresenta ancora una vigna in zona Sparesera a Lio Piccolo che era pertinenza del Monastero di Santa Maria degli Angeli di Murano, e data in affitto con una casa a Giacomo Cimarosto e a Francesco Manolis. A nord e ad ovest della vigna esistevano barene pubbliche, a sud si vede segnata la Valle di Cà Pisani in precedenza di Cà Correr, mentre ad est si notano i beni appartenenti all’Ospedale di San Giovanni Battista dei Battuti di Murano affittati alla famiglia Cottini.

Nel 1769 Carlo Zaniol detto Rui protagonista di una storica rissa a Treporti nel 1755, teneva in affitto alcune vigne in Lio Piccoloproprietà del Monastero di Santa Maria degli Angeli di Murano ... Giacomo Casanova: si … proprio lui, lo spasimante-avventuriero Veneziano famoso, si recava spesso “a sentir Messa di domenica agli Angeli di Murano”, perché nel Monastero stava M.M. Nobildonna Veneziana: una delle sue amanti. 

Verso fine giugno 1774, Elena Querini ricorda nelle sue lettere: “… dopo 3 giorni di esperimenti le Monache, ossia le Dame delle Vergini di Murano, hanno eletto la loro Badessa: una Nobile Mora ... Signora povera, e perciò senza volerlo minoreranno le spese ... Il Popolo che non aveva ricevuto da bere non gridava più: Evviva ... Mi assicurano che fu tanto il bisbiglio in quel Convento, che equivaleva a quello di un Conclave: non è da stupirsi quello è il loro mondo …”

Quattro anni dopo, Baldassare Galuppi “il Buranello” musicò forse una delle ultime cerimonie di Vestizione di quell’anno nel Monastero Muranese degli Angeli ... Poi iniziò la travagliatissima storia finale degli Angeli, con la consueta trafila delle soppressioni, le spogliazioni di ogni sorta, e le trasformazioni e demolizioni che durarono fino al 1832.

 

Nel 1810 si misero in strada le 68 Monache rimaste frutto della precedente concentrazione agli Angeli delle Monache dei Monasteri Muranesi Benedettinisoppressi di San Giacomo, San Martino e San Bernardo… La concentrazione delle Monache non fu affatto agevole: scoppiarono veri e propri: “ammutinamenti, disordini ed insubbordinazioni delle Monache nel Monastero, con grande spreco e dispendio di risorse”… Le Monache vennero anche citate e mandate a giudizio perché insolventi e debitrici con lo Speziere della Croxe alla Giudecca, e con i Fratelli Miotti Bottegaiche non erano stati più pagati dalle Monache diventate improvvisamente squattrinate … La chiesa venne dichiarata Vicariale a merito di Don Stefano Tosi Piovano di San Pietro di Murano, che con tal escamotage riuscì a preservare “gli Angeli” dalla demolizione raccogliendovi all’interno quadri e opere provenienti da tutte le chiese e Monasteri demoliti di Murano.

Si legge fra l’altro in un documento del 25 gennaio 1815 titolato: “Lista delle vigne, orti, beni appartenenti al Monastero di Santa Maria degli Angeli e dei Santi Giacomo e Martino di Murano: zona ricca di case e povertà, da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti”:“... un locale al pian terreno al n° 578 appartenente al Monastero di Santa Maria degli Angeli di Murano; una casa al n° 594 a Murano sulla Fondamenta degli Angeli affittata a Minio Domenico detto Dose per 34:896; un’altra casa al n° 597 della stessa Fondamenta affittata agli eredi Cimegotto per 44: 413; una casa al n° 581 affittata a Bagolin Giuseppe per 25:789; un’altra casa ancora al n°582 affittata a Toniollo Vincenzo per 31:724; una casa n° 583 affittata a Castagna Domenico per 53:931; una casa con orto al n° 586 affittata a Falsier Santo per 49:121; una casa n°591 affittata a Torcellano Domenico per 38:069; una casa n° 593 affittata a Bruna Valentino per 38:069; una casa al n°595; una casa con orticello n° 596 affittata a Capon Nadalin per 63:550; una casa ai numeri 642 e 643 affittata a Graesan Domenico e Posa Francesco per 125:724; una tesa e squero al n° 646 affittati a Toso Antonio per 63: 448; una casa terrena n° 647 affittata ad Agnese Margherita per 41:241; una casa n° 648 affittata a Zilj Elena per 69:384; una casa n° 649 affittata a Fuga Liberal per 63:857; una casa n° 650 affittata a Ferro Antonio per 34:180; una casa a pian terreno affittata a Pavanello Gerolamo per 54:896; una casa n°652 affittata a Scaja Bernardo, Zilj Pasqua, Pavanello Giovanni e Campagnolo Angelo per 79:310; una casa n° 653 affittata a Falsier Bernardo per 114:207; e una casa e bottega nella stessa Fondamenta affittata ai fratelli Pizzoccaro per 66:620...”

Poi ancora e di nuovo una parte dell’ex Monastero venne destinato ad essere usato come Lazzaretto, mentre un’altra parte venne adattata ad ospizio-alloggio per famiglie sfrattate … Poi nel 1863-1871: sgombero delle famiglie, ristrutturazioni e riapertura: “… dopo il restauro della chiesa si fecero due parti: dall’altar maggiore al mezzo rimase chiesa, dal Coro delle Monache alla porta maggiore: Ospitale …”

1961: chiesa svuotata.

 

Infine: oblio … Ecco: è questa la dimensione ultima e odierna degli Angeli di Murano… Si: qualche Messa e Sposalizio saltuario, qualche attività e iniziativa di Don Vianello… Oggi si può visitare su appuntamento, forse, mi pare Covid permettendo, quell’immagine degli Angeli di un tempo diventata diafana seppure ancora fantasmagorica, quasi sospesa fra acqua e cielo … Una realtà muta e vanesia in verità, dimenticata in quest’angolo sperso della Laguna Veneziana dove il Tempo sembra non solo essersi fermato, ma anche andato, svaporato e consumato del tutto.

Pensiero ultimo …Mi piace solo per un attimo rimanere qua a pensare a come potevano essere quelle donne-Monache degli Angeli di un tempo, in un momento qualsiasi di un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi della loro Vita dentro a quel Monastero così illustre ma quasi sperso in quella plaga Muranese e Lagunare così recondita … Chissà com’erano ? … Come si comportavano, che pensavano ? … Di che cosa discorrevano ? … Su che cosa ridevano e giovano, o di che cosa piangevano e si dispiacevano ?

Chissà che personalità e carattere avevano quelle Monache Venezianissime e Muranesi degli Angeli ?

Non lo sapremo mai … Di tutto quel mondo ci rimane solo un pugnetto di scarne e ridotte notizie … Forse qualche volonteroso riuscirà ad andare a frugare un po’ di più dentro a quei grandi vuoti e silenzi, dentro alle pieghe della Storia degli Angeli traendone chissà ? … forse qualche eco, sembianza e riflesso in più ?

 

Pètta di Bò … in Laguna Sud.

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#unacuriositàvenezianapervolta 262

Pètta di Bò … in Laguna Sud.

Ovverossia verrebbe da dire: le dimensioni del niente … Venezia è grande, grandissima, ma è anche parte di un contesto più grande che la contiene: la Laguna… Questo micro-macrocosmo dilatato a volte si fa anonimo, quasi impalpabile … ma esiste e c’è, anche se la nostra mente non lo considera perchè tutta presa dal pensare a vivere e a tutt’altro … La Laguna è tanto di più, non è solo le isole … E’ anche un sorprendente “niente” nascosto e recondito in cui ci si può pure perdere … ma che in ogni caso è capace nel suo piccolo di trasudare ugualmente Storia curiosa.

Pètta di Bò… Che è mi direte ?

Già … Un niente perso in Laguna, un semplice affioramento in Laguna Sud, che non so perché ha catturato la mia curiosa attenzione.

Come descrivere un posto così ? … Ci provo.

Pètta di Bòè una “motta”della Laguna emergente dai bassi fondali, che si staglia giusto in mezzo a due grandi quinte-scenari che la contornano … Da una parte c’è laTerrafermadella gronda Lagunare Veneziana con Oasi, Valli e Casoni. La zona è quella della Fogolana-Conchecon irecenti casoni,delPonte sul Nuovissimo e l’area detta della Bonifica di Brentache giunge ad affacciarsi sulla Laguna con i ruderi delCason della Boschettona… Per intenderci, è la stessa zona dellaValle-Casòn di Millecampi, che sorge pure lui sopra a una“motta”raggiungibile solo in barca dalle parti della Palude Fondella e di Casa Rossaverso Chioggia, il Lagone, e Valle Fossa della Magra verso il Casòn del Cornio e Valle Figheri.

Quanti nomi vero ? … Già in questi c’è di che perdersi.

Volgendosi dalla parte opposta stando a Petta di Bò, si ha in faccia oltre lo specchio umido e bagnato della Laguna col canale e le barene che portano alla Sacca Grande e al Casòn delle Sacche oggi “Centro di educazione ambientale”: San Vito di Pellestrina affacciata sul Litorale e sul mare, e poi Sant’Antonioproprio di fronte alla Motta di Bombàe o di Bomba. Sulla stessa linea dell’orizzonte s’affaccia poi tutto il resto di Pellestrina con le chiese di Ognissanti, il Santuario della Vergine dell’Apparizione, l’edificio bianco delle le scuole elementari, la torre dell’acquedotto, il cantiere navale De Poli con le sue gru, e via via la linea di costa fino alla bocca di Porto di Malamocco e degli Alberoni.

Pètta di Bò è un residuo di antichi cordoni di dune della linea di costa di 5000 anni fa, fra il ghebbo de la Croxee La Bassa dei Pii… E’ insomma un posto fra cielo e acque lontano da tutto e da tutti in laguna aperta. E’ da considerarsi forse solo un “luogo estivo” posto lungo la fila delle briccole che indicano il canale verso Chioggia, un luogo d’acque e silenzi dove stare un po’, rimanere magari brevemente ad indugiare, prendersi il sole, o rimanere a pescare e rilassarsi dimenticando tutto il resto del vivere ... o a ripensare il Passato ...

Di moderno che c’è ? … Niente di niente … Solo la stazione mareografica dell’A.P.A.T., niente di più.

D’inverno poi, forse è meglio non andarci perché l’acqua può essere mossa, ci può essere il maltempo o la nebbia, e ci si può perdere facilmente ...Credetemi … Non è uno scherzo vagare per la Laguna Sud quasi Chioggiotta in certe condizioni. Chi mai potrebbe venire a scovarti e prenderti in caso di necessità ?

Pètta di Bòè una “Mota o Motta”vi dicevo, cioè una "collinetta, piccolo dosso o affioramento emergente” dalle acque Lagunari … Ce ne sono diverse di Mottesia in Laguna Nord che nella Laguna Sud di Venezia. Si tratta di microisole effimere che prendono di volta in volta nomi come: Motta dell’Asèo, di Sant’Antonio, di Valgrande, del Cornio Nuovo o di Volpego. Sono spesso zone di navigazione o di caccia nei pressi di antiche Isole come San Marco e San Lorenzo in Boccalama, ad esempio … o ancora possono chiamarsi: Motta dei Cunicci(una delle più grandi, al di là del Rio Maggiore a nordest di Torcello), o Motta di Beveràsse o di Beveràra, o essere l’enigmatica Motta di San Lorenzo di Ammiana: quella studiatissima da eruditi archeologi, scavatissima e cercatissima:“fra tumbae ed emersioni, fra canali soggetti alla marea, ghebbi, e il Fondazzo in fàzza alla Valle di Cà Zane e il Pantano, e fra le barene e acque spesso cinte da grisiòle o palàde nel Sucaleo, nei Sette Soleri o Saleri, alla Punta, dello Scanello, del Tragio o Traglo e della Centrèga o Sentrèga.”

Sembrano quasi luoghi da favola, ed è curiosissimo riconoscerli e leggerli sulle antiche carte scovandone collocazioni, tracce e toponimi … Sono quasi una piccola sfida ad osservare, sapere, e capire meglio la nostra Storia Lagunare.

La Motta di Petta di Bò, come molte altre, è uno splendido sito naturale dominio e area di nidificazione di Sterne e Avocette, delle onnipresenti Garzette, e degli Aironi Cinerini ... ma ci sono anche: Cavalieri d’Italia, Volpoche, Germani Reali, qualche Beccaccia di mare ... In autunno sono presenti anche: Svassi, Folaghe e Anitre, e man mano che si va verso il mare aumentano Gabbiani e Cormorani… Ci sono però anchegrosse famiglie di Pantegane che qui fanno da padrone … Non sempre in queste zone remote della Laguna c’è quella magia poetica che s’immagina e si vorrebbe ...Sono aree molli e bagnate poco adatte alla crescita di Piante e Alberi, spesso prive di vegetazione, o ricoperte solo di fitti cespugli e di piante salmastre, o contornate da canneti che usufruiscono di vene d’acqua dolce che si frammischiano nel dedalo labirintico dei canali.

Che aggiungere ancora sullo “sputo fangoso di terra bagnata” di Pètta di Bò, così perso e fuori dal Mondo ?

Aggiungo due-tre lampi storici … o poco più … Secondo alcuni queste zone perse della Laguna Veneziana oltre ad essere luoghi di caccia e pesca, erano un tempo addirittura il capolinea dell’antica “Via dell'Ambra”, che giungeva qua oltre le foci del Timavo passando l’Adriatico. Da Venezia poi si proseguiva verso la grande pianura padana, e poi verso il resto dell’Europa. Antiche memorie ricordano che fin dal 1215 per il collegamento del canale lagunare denominato Pètta di Bò passavano: cambiavalute e usurai, e accadevano piaggerie di ogni sorta fra Chioggia, Venezia e Ferrara.  Le stesse note antiche ricordano ancora che per quelle zone un tempo transitavano le barche del Sale dei Veneziani che andavano verso Ferrara e distretti, e fino alla Lombardia pagando dazio: “i Salineri viaggiavano da Chioggia con barche sigillate da funi per evitare frodi” ... A volte ai controlli risultava che c’era più sale di quanto dichiarato nelle Lettere Dogali d’accompagnamento … Si provvedeva allora a scaricare le barche o navi, a rimborsi, denunce, rimisurazioni e rivalutazioni delle spese dei cariaggi, del carico e scarico …  si rimborsavano o multavano i Mercanti di Sale, che a volte perdevano il carico, o i padroni della barca a cui veniva sequestrato il natante che diventava proprietà del Comune … Finivano tutti anche a pagare le spese processuali ... Quanta Storia !

In questa parte della Laguna Veneziana si tenevano “legni armati” per controllare i passaggi e impedire i contrabbandi ... Sabellico e Bernardino Zendrini nelle sue “Memorie storiche dello stato antico e moderno della Lagune di Venezia.” ricordano di una parte presa dal Maggior Consiglio a fine luglio 1303 contro alcune operazioni che si tenevano proprio a Pètta di Bò nella Laguna Veneziana. Lì erano giunti da tempo i Padovani, che avevano debordato in quella parte di Laguna scendendo lungo il Brenta per farne proprio territorio. La risoluzione del Maggior Consiglio metteva fine a quella vicenda dando ordine di demolire quanto avevano costruito i Padovani, cioè “una bastia sul Canale di Pèta di Bò nei pressi di Chioggia a difesa di certe saline contro i Veneziani … nel distretto di Calcinara, nei pressi delle Valli di Millecampi, Posegato, Moraro e Inferno.”

L'opera realizzata dai Padovani a danno dei Veneziani era una piccola fortificazione nel Canale di Pètta di BòSecondo il Cronico Patavino nel 1303 i Padovani soffrivano di penuria di biada in città, e per questo furono costretti ad addentrasi in Laguna in cerca di risorse, fabbricando così quella specie di presidio lagunare: “Albertus et Mastinus de la Schala detentores Marchiae Trivisanae, Veronae, Brixiae, Parmae et Lucae, superbia elati, in Venetorum contemtum, contra pactorum formam, iuxta locum vocatum Peta di Bò castellum fortissimum fabricaverunt.”

I Veneziani dicevano a loro volta: “De una forteza fata per Padoani chiamata Peta di Bo ... In lo ditto tempo li Padoani cun grandissima superbia et inzuria de' Venetiani fece su el suo tignir chiamatta Peta di Bo, digandola … et affirmando che lor voleva.”

In realtà già nel 1215 i Padovani avevano costruito all’estremità del Canale Lagunare di Pèta di Bò presso Chioggia un fortilizio chiamato Cannè con stabile guarnigione armata quasi a sfida alla Torre delle Bebbe dei Veneziani che sorvegliava fra paludi, acquitrini e boschi le sbocco di Brenta e Adige in Laguna ... Lì accadde anche uno scontro fra Veneziani e Padovani: “vinsero i Veneziani più abili a muoversi in quell’habitat umido e piovoso: catturarono 350 soldati Padovani, armi, tende, cavalli e buoi, 2.000 carri e 5 grandi catapulte.”

Una seconda nota storica su Pètta di Bò, invece, risale a secoli dopo. Riguarda un ordine del Magistrato alle Acque del 29 marzo 1546 col quale si decise di distruggere molte Valli fra San Pietro in Volta e Treporti. Il Senatonel dicembre dello stesso anno proibì l’uso di certi lotti di terra per interrare le stesse valli ... e tre anni dopo ancora, si ordinò anche di togliere “arèlle o grisuòle” piantate in quei luoghi ormai proibiti dalla Legge … In seguito, nel 1559, si ordinò espressamente di distruggere le Valli di Melisson, Naviosa e Rossina, ma di conservare quelle diPezzegato, Sacca Grande, e Sacca Piccola a patto che li si fosse obbligati a rispettare con rigore ogni Legge in materia di contraffazioni e contrabbandi … Si decise anche di conservare le Valli esistenti “sòcto Cjòsa”, cioè: la Valle dell'Aseo e di Peta di Bò in SachaA fine 1574 si ordinò a Chioggiadi disfare gli argini costruiti abusivamente nella Valle dell’Aseo... Infine nel 1591: siccome erano sorti molti abusi proprio nella Valle di Pètta di Bò, si ordinò di regolarne tutti i confini … A differenza di noi di oggi, era attenta la Serenissima nel gestire nel dettaglio anche quella parte così remota della sua Laguna.

 

 

E’ impressionante il numero e l’accuratezza dei scandagli che la Serenissima eseguiva in quelle stesse paludi e canali … Nel 1674: “gli Eccellentissimi Delegati alla Laguna riscontrano false le testimonianze di un popolo lagrimante che riferisce la laguna agonizzante …. Fra le altre misure fecero prendere quella della profondità maggiore della Valle di Pètta di Bò che fu trovata di piedi 5 essendovi once 6 di secca … Diciotto anni dopo, cioè l'anno 1692, dagli Eccellentissimi predecessori dell'EE.VV. furono fatti scandagliare tutti i paludi della Laguna, e negli scandagli della valle di Pètta di Bò si trovò la stessa profondità, se non maggiore ...”

“Essendo stati alla visita delle Valli della Laguna i Savi alle Acque: Andrea Soranzo, il Cavaliere e Procuratore Niccolò Sagredo, ed il Procuratore Niccolò Venier cogli esecutori Marco Valier, Ottavio Gabrielli e GianAntonio Contarini, assieme cogli aggiunti Niccolò Delfino, Giovanni Bondumiero, Daniel Renieri, Giovanni da Ponte ed il Procurator Luigi Contarini, stabilirono concordemente con la terminazione XIV Aprile, che restassero distrutte tutte le Valli Basse che si trovavano nella Laguna viva, in quella cioè che ogni XII ore viene dal nuovo flusso ravvivata col corso delle acque. Erano queste le Valli di San Marco nuovo, Beverèra, Bombài e Magrèa, intorno alle quali furono tutti d'accordo; ma per le altre, dette medie, cioè: Pètta di Bò, Cannèo grosso, Valle in Pozzo, Valle Grande, Cormio, Sette Morti, Riòla e Torsòn di sotto e sopra, non tutti i membri della deputazione accordavano la massima di distruggerle; nondimeno così fu preso, sebbene la proposizione fosse gagliardamente contraddetta dal Cavaliere e Procuratore Sagredo e dall'Esecutore Gabrielli ... Le Valli poi più lontane, dette dell'Inferno, Morràro, Valle di Mezzo, Pozzegàto e Sacca Grande e Piccola restarono obbligate al rigor delle leggi. Fu parimenti comandata la distruzione della Valle detta Pisòrte di Sotto esistente nella Laguna di Chioggia, come pure di quella detta La Dolce, restando permessa quella dell'Aseo, sebbene contro l'opinione del Procuratore Venier e dell'Esecutore Marco Valier, e permesse altresì le altre nella detta laguna di Chioggia, dette di Brenta e Pisèrte di Sopra.”

 


La terza e ultima nota storica su Pètta di Bò, è invece, più recente: risale agli anni nostri, all’ultimo secolo.

Sono davvero copiosi i documenti e gli atti che rimandano soprattutto alla seconda metà del 1900, e si rincorrono fino ai primi decenni del 2000 ed oggi … Il mondo intero sa, anche se spesso ancora oggi tace e fa finta di non sapere e di non ricordare, di come tantaparte della Laguna Veneziana: formidabile nursery naturale ideale per tanta Flora e Fauna, è stata a lungo soggetta agli effetti deleteri non solo del moto ondoso e delle correnti, ma soprattutto è stata luogo di discarica di prodotti tossici-inquinanti risultanti dalle zone industriali e di bonifica di Marghera.

Anche nella recondita zona di Pètta di Bò, negli ultimi decenni del 1900, è accaduto un sistematico spandimento e discarica di prodotti inquinanti inorganici altamente tossici come: Diossine, e metalli pesanti come Arsenico, Piombo e Mercurio, che d’inquinanti biologici-organici come Salmonelle e Coliformi. Tutto ha di sicuro danneggiato Flora e Faunaautoctona, ma quel che è peggio, in parallelo è accaduto anche un lungo periodo di sfruttamento, raccolta, distribuzione e consumo abusivi di materiale ittico e dei fondali nonostante fosse nocivo alla Salute.

Inutile minimizzare o negare facendo finta di non sapere: ci sono stati numerosi decreti di sospensioni di raccolta, pesca e produzione di Molluschi (Vongole Veraci) e Pesci proprio nelle Paludi del Fondello e di Pètta di Bò, ma non solo là … con stretta raccomandazione d’invio del raccolto a opportuni centri di depurazione e trasformazione per garantire un minimo di sicurezza sanitaria.

Inutile anche disconoscere i dati storici della Cronaca.In quegli anni si sono attivati più di 1300 fra Pescatori, Vongolari e piccoli e grandi imprenditori di Chioggia, Pellestrina, Burano e Cavallino, che hanno messo in piedi un grosso “giro d’affari e d’indotto”con guadagni dell’ordine di 300 milioni di euro annui ... La pesca abusiva autogestita veniva praticata con pescherecci di mare dotati di turbosoffianti, draghe vibranti e rusche trainate sui fondali da operatori ignari degli effetti del loro lavoro … Si praticò la raccolta selvaggia di novellame di Vongola, la realizzazione d’impianti di produzione e allevamento improvvisati, e si sfiorò di sicuro lo scempio ecologico e la rovina dell’ecosistema Lagunare.

E’ Storia questa: non credo di esagerare in queste narrazioni.

Fino all’ 80% del prodotto veniva commercializzato “in nero” procurando ai vongolari abusivi ricavi di 100-150.000 euro annui. Chi poi è riuscito a commercializzare illecitamente i prodotti distribuendoli in Italia, Spagna e Europa,ha di sicuro guadagnato cifre 5-10 volte superiori. In questo lavorio illegale non sono mancate di certo infiltrazioni di criminalità organizzata con i soliti metodi di riciclo e profitto, così come non sono mancati i momenti di tensione: nel 1995 si fu un vero e proprio assalto alla Capitaneria di Porto di Venezia nel tentativo di mettere fine ai provvedimenti della Provincia e Regione che intendevano regolarizzare la situazione ... Qualche pescatore ha perso la vita o è stato accoltellamento durante certe operazioni abusive … Si sono sequestrarono centinaia di tonnellate di pescato inquinato, e altrettante imbarcazioni arrivando a denunciare più di 200 pescatori l’anno, e arrestandone almeno 70: “Associazione a delinquere, implicazioni mafiose, danneggiamento ambientale, traffico di alimenti adulterati e pericolosi, resistenza a pubblico ufficiale, falso, pericoli per la navigazione nell’area della Laguna Veneziana e di Porto Marghera” le motivazioni più frequenti dei provvedimenti messi in atto dallo Stato.

Infine il Consorzio Covealla prima, e G.R.A.L. (Gestione Risorse Alieutiche Lagunari) poi, riuscirono piano piano, non senza difficoltà, a irregimentare la situazione. Intervenne ancora la Magistratura che ordinò sequestri di flottiglie e pescato, e qualche anno dopo, Ministero dell’Ambiente, Magistrato alle Acque e Regione Veneto coinvolgendo la Camera di Commercio, e i Comuni di Venezia, Chioggia, Cavallino Treporti, Mira e Campagna Lupia provarono a risolvere il contenzioso permettendo l’avvio di attività legali d’allevamento in cooperativa coinvolgendo i quasi 1400 soggetti-Marinai-lavoranti fino ad allora attivi al margine dell’attività di pesca“ufficiale e autorizzata”... Era precisamente il 2002 quando il Magistrato alle Acqueassegnò in concessione ancora una volta diverse aree della Laguna per un totale di 3514 ettari, stavolta da dedicare a pesca programmata, tracciabile e sicura ... Nell’elenco di quelle aree di raccolta e pesca era compresa anche quella della Motta di Pètta di Bò.

Ho terminato … Mi piace lanciare nella mia mente un ultimo sguardo intorno all’amenità dei siti Lagunari di Pètta di Bò… Vedo in lontananza pontili di legno e scivoli di remiere posti lungo il bordo Lagunare … Vedo il sali e scendi della marea “che sei ore a crèsse, e sei ore a cala” seguendo quel ritmo e calendario di cui non conosciamo inizio né senso … La bassa ferma tutto: non si può passare navigando in alcun modo … Tutto si ferma … Non resta che fermarsi a sentir respirare la Laguna: le velme, i ghebbi e le barene, ma anche i Vegetali e gli Animali ... Ogni tanto transita qualche rara imbarcazione che passa pigra e silenziosa nei canali quasi volando sopra ai bassi fondali … come se fosse un fantasma.

 

M’impressiona una volta di più in conclusione, appoggiare lo sguardo su questi affioramenti Veneziani che la Storia sembra avere appena appena sfiorato … Esistono però … riservatissimi, quasi persi nel niente ... Ci sono però.

 

Bòtte da orbi e parole gròsse sul Ponte di Santa Fosca

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#unacuriositàvenezianapervolta 263

Bòtte da orbi e parole gròsse sul Ponte di Santa Fosca

Come sapete meglio di me, ogni volta se le davano di santa ragione dando spettacolo all’inizio, ma poi il gioco-disfida si tramutava sempre prontamente in rissa, e s’iniziava a spartirsi botte da orbi fra Arsenalotti Squerajoli Calafati e Pegolotti del Sestiere di Castello e Pescatori Barcarjoli Nicolotti del Sestiere di Dorsoduro.

Grassi(ricchi, benestanti) e Plebei di Cannaregio si affacciava insieme “neutrali” dai balconi standosene incoatài(accovacciati accoccolati) sulle rive, e fin in alto irraisài(abbarbicati) sulle altane e nei luminàl(gli abbaini) per godersi la gran festa.

Non pensate che fosse una cosa solo da uomini, perché le Cronache Veneziane ricordando di come le donne di Castello col fazzoletto rosso in testa, e quelle di San Nicolò dei Mendicoli con la fascia nera ai fianchi si gridavano sprezzanti e ingiuriose di tutto: “Magnòne ! … Magnapegola, magnaputtone, magnafasiòli … magnalèsse ! (mangiatrici di pane da carestia e miseria fatto col riso)

Alle altre non mancava la parola, e non intendevano di certo esser da meno, per cui rispondevano per le rime gridando: “Lùdre e sporche ! (cenciose più o meno)Andè a lumàr !(a pescar a lampara di notte tradotto alla lettera, ma significava di certo altro, e non solo tendere agguati notturni.) … Magiàte ! (giovialone ma piangiaddosso)Maddalùsse ingiandolìe!(Maddalene lamentose, ma anche donne da strada sebbene penitenti; stupide, imbambolate, intirizzite dal freddo)”.

Gli uomini intanto se ne stavano infrisài e ingalbanài(ostinati e rossi accesi) sul ponte a dàrse gnàsse(botte) in ogni modo buttandosi perfino in acqua.

Le donne continuavano issando minacciosi pugni in aria: “Gratapanza ! (puttana), Gualta !(gatta che si struscia),Grattosa !(con la scabbia)te càvo quei quattro spiàntani che ti gha in testa (capelli radi).”

“Fùmia ! (idiota) rispondeva l’altra facendole un gestaccio e indicandole il basso ventre: “Dorondòna (meretrice, puttanone). Gira e volta eravamo sempre là con gli appellativi, anche se alle Veneziane non mancava di certo la fantasia.

C’è in giro una bella descrizione che immortala bene quei singolari spettacoli furiosi tipicamente Veneziani: “Folegato sbuffava da gran stizza. E avanti a tutti andava in gran parada; Come serpente e mezzo el ponte sguizza, che tutti larga ghe feva la strada, ma i Nicoloti che no xe mincioni, con Setenasi, Coca e Piero Siepa, sul ponte i l’ha fermà come turioni.”

Poi arrivarono a scontrarsi le donne: “El primo colpo lo ciapò la Daria, e un pugno a la Catina un dente ha rotto, Beta cascò in canal, còtole in aria, tutto mostrando quel che havea de soto, a la Nene, un donon de San Trovaso, che pizzolava zo sangue dal naso“.

E poi ancora di nuovo un’altra volta gli uomini, come a folate: “Chi carga armi, chi tira frezze et con siti strumenti e se feva carezze da camposanto“.

Alla fine ogni volta ci scappava il morto, e c’erano sempre numerosi feriti ... Il Consiglio dei Dieci provò a porre rimedio alle Guerre sui Ponti: “per mettere la stanga a tante risse … a chi ardisse far la guerra fusse condannà de corer a scuriàde per Marzaria doi hore et po’ reposàr in la preson Orba”.

Infine suonava su tutti il campanone de San Marziàl, che metteva fine alla bubàna(mangiar e soddisfarsi fino a implodere) col garaghèllo(divertimento, festa baldoria) che andava ad affossarsi e spendersi fino a notte tarda dentro alle Osteria, le Bettole, i Magazèni e le fumose Furàtole... Venezia e Veneziani respiravano fra Calli, Campielli e Canali … fino a sospirare piano infine abbandonandosi esausti e soddisfatti al sonno.


***** Gabriele Bella: “Lotta dei pugni al Ponte di Santa Fosca.”

 


Cannonate sul Ponte di Rialto … A Rialto ? … Si: proprio là.

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#unacuriositàvenezianapervolta 264

Cannonate sul Ponte di Rialto … 

A Rialto ? … Si: proprio là. 

E’ storia risaputa, detta e ridetta, conosciutissima, ma che non smette di stupirmi ogni volta che la ripercorro … Di nuovo oggi rivediamo l’area Realtina col Ponte intasato dai turisti e dai pochi Veneziani rimasti … Si sa che tutto ciò può significare benessere dopo la trista stagione delle chiusure del Covid, ma Venezia rimane ugualmente malata … Inutile gigionare “alla politichese” e far finta di niente fingendosi speranzosi: non è così. Venezia ha problemi … e che problemi !

Torniamo alla Storia, che è meglio va !

E’ difficile quindi immaginare il Ponte di Rialto di ieri così pieno di vita e Veneziani presi però a cannonate … Si avete letto giusto: presi a cannonate … Sembra impossibile vero? … Un cannone che spara dalla cima del Ponte di Rialto ?

Eppure è accaduto proprio questo nel 1797.

 

L’avete intuito … Erano gli anni in cui stava morendo e capitolando del tutto l’antica Serenissima… Forse la stagione più triste della Storia di Venezia.

In verità era un fatto che si sentiva nell’aria, qualcosa che tutti sentivano già annunciato da tempo. Si trattava di una progressione verso il basso lungamente maturata da più di un secolo nelle Lagune. Venezia Serenissima languiva pur rimanendo pomposa e altera, era talmente decadente, riversa su se stessa e completamente avulsa dal contesto storico del potere Europeo che prevaleva con le sue presunte modernità. Le sorti della Civiltà Lagunare erano segnate, non potevano andare se non così … verso la fine quindi.

Non mi dilungo stavolta a riassumere e dire che Venezia aveva perso l’appuntamento con i nuovi commerci, e con la neonata industria, e con le libertà già insite e annunciate dal “secolo dei lumi”… Insomma: Venezia si trovò spiazzata, vulnerabile e inerme e … e arrivarono prima i Francesi, e poi gli Austriaci, e poi di nuovo i Francesi: ed è stato un immane quanto vile saccheggio le cui dimensioni credo conosciate più che bene.

E’ i Veneziani ?

Già … ancora loro, indomiti, ostinati … Come in ogni circostanza storica analoga, ci fu chi provò a salvare i propri beni riuscendoci pochetto, chi provò a vendere in fretta e furia, e chi provò a scappare da qualche parte cercando qualche “corte amica” illudendosi di salvare blasone, prestigio e risorse, ma finendo lo stesso per contare poco o niente. Ci furono poi gli opportunisti, che non mancano mai lungo il corso della Storia dell’Umanità, che provarono a cavalcare l’onda della novità schierandosi dalla parte del più forte e provando a ricavarsi un buon posto al sole ... Nobili ed Ecclesiastici in primis, come sempre.

Infine ci furono quelli, che pur essendo del tutto ridotti a pezzettoni e in balia del nuovo Stato, provarono a resistere, ad abbarbicarsi alle idee e alle convinzioni, e a contrapporsi “a muso duro” contro il cambiamento.

Chi erano ? … Mah ? … Pochi Nobili, qualche Notabile e Mercante, e tanti Veneziani spiccioli qualsiasi … Erano gente arrabbiata, insoddisfatta, ma soprattutto desiderosa di salvare il loro quotidiano vivere, le poche risorse, il lavoro … e che ne so ? … la casa, i diritti, le garanzie di libertà ed espressione, ma anche gli antichi modi d’essere. Cose importanti insomma.

Beh … Fu come se quei Veneziani rimasti si fossero ritrovati a prendere a testate un muro nel tentativo d’abbatterlo … Anzi fu ben presto chiaro, e tutti compresero che per loro nonostante tante parole e azioni possibili, non ci sarebbe stato niente. Si lasciarono perciò prendere dalla foga e dalla delusione, e i più impulsivi e facinorosi si diedero a loro volta al saccheggio improvvisato di case e botteghe così come veniva … della serie: “a chi tocca tocca”… E’ ciò che accade spesso anche oggi, quando in giro per il mondo durante alcune manifestazioni c’è chi sfonda vetrine ed entra a derubare e distruggere le cose di chi è come loro e non c’entra niente.

Si sa: l’Umanità non impara mai dai suoi errori, e la Storia è sempre un continuo circolo e ricircolo di se stessa.

 

Ebbene quella volta a Venezia, “decisi Felloni", così furono definiti, si misero all’opera nella bagnata Città Lagunare, e si prodigarono in vandalismi e azioni proditorie sfasciando, bruciando, devastando e contestando apertamente il nuovo Governo.

I membri del Governo Provvisorio ovviamente non rimasero lì a guardare e basta. Non pensandoci due volte: "al fine di prontamente rimettere la tranquillità nella Dominante", incaricarono tale Bernardino Renier: “di far uso di tutta la forza pubblica ... prendendo immediatamente tutte quelle vigorose, ed opportune misure ..."

E il Bernardino non solo si prese a cuore quell’impresa, ma interpretò alla lettera l’indicazione datagli dai Capi del Governo: si mise  a cannoneggiare a mitraglia dalla cima del Ponte di Rialto il popolo dei facinorosi perché non potessero scendere e passare oltre andando a devastare le Merceriedi San Bortolo e San Salvador e dirigendosi a Piazza San Marco.

 

Orribile la scena … Nella Contrada di San Bortolo giù e attorno al Ponte di Rialto risiedevano 1.300 Veneziani, ma ne erano sopraggiunti diversi altri dando vita una cronaca convulsa. Di sicuro erano persone mezze disperate, c’era un’atmosfera frusta, febbricitante: “La notte del 12-13 maggio 1797 presso la chiesa di San Bòrtolo il popolo s’agitò e attivò nuovamente dandosi al saccheggio delle case di quelli che consideravano rei e traditori dell’antica Serenissima appena morta … In verità presero dentro tutti, e si misero porta a porta a combinarne di tutti i colori coinvolgendo e opprimendo ignari Veneziani innocenti, rei soltanto di abitare colà in quel momento.”

Bernardino Renier entrò in azione: “ordinò di collocare le artiglierie sulla sommità del Ponte per impedire ai saccheggiatori di varcarlo, e appena la maramaglia si presentò tumultuando e gridando: “Viva San Marco”, diede l’ordine di aprire il fuoco riempendo il ponte di sangue e cadaveri.”

Sentite la Cronaca dei fatti raccontata da Fabio Mutinelli: “Nel Campo San Bartolomeo, la notte del dodici al tredici di maggio 1797, fu per rinnovarsi pressoché un altro San Bartolomeo. La Repubblica di Venezia, non per armi ma per quelle insidie abbastanza note all'universo, avea cessato da ore d’essere. Il Popolo, che non potèa recarsi nell'animo l’abbiezione osservata dai Patrizi, accendevasi di una incredibile furia, e cominciava a tumultuare. Ma siccome il Popolo sollevato non può star lungo tempo sui generali, dando anzi tosto nei particolari o di amore, o di odio, così a saccheggiare far evasi le case dei rei delle inique congiure: preso gusto alla preda, accingevasi a manomettere anche molte case di altri non rei. Non sapendosi pertanto fino a qual termine potesse trascorrere quel popolare furore, e temendosi che si estendesse anche alle case che trovansi oltre il Canal Grande attraversato dal Ponte di Rialto, con molto accorgimento Bernardino Renier Patrizio, ordinava che fossero poste alcune artiglierie nel sommo del detto ponte al fine d'impedire ai saccheggiatori di varcarlo. Né fu vano il timore; avvegnaché alla mezzanotte comparivano nel Campo di San Bartolomeo le depredatici masnade ululando: “Viva San Marco” ... Tuonò allora dal culmine del ponte, per l'ultima volta, il cannone della Repubblica, e fattosi repente silenzio, empievasi di cadaveri sanguinosi e orribilmente dilaniati il sottoposto Campo.”

 

Da quando ho letto questa cronaca, non c’è volta che attraverso lo scenario del Ponte Realtino senza riandare a quei fatti, e immaginandone la scena … Provo ogni volta un senso d’incoercibile tristezza: i Veneziani sparati dai loro stessi consanguinei e concittadini.

La Storia continuò ovviamente, e sapete meglio di me dove e come è andata fino ad oggi … Rialto oggi è “ridente”, ammicca sorniona ai turisti inebetiti, sorpresi e ammirati col naso all’insù, e continua a sfoggiare anche per i pochi Veneziani rimasti le sue sinuose tradizionali bellezze e memorie.

A distanza di secoli però, è rimasta ancora nell’aria quel senso di sopruso, quella mancanza di Giustizia, quella perversa repressione che forse continua ancora oggi sui Veneziani in maniera più subdola e raffinata … magari senza cannone … Però guardando come va Venezia oggi, mi sembra ancora di sentire l’odore del fuoco e della polvere da sparo nell’aria.

 


Nota simplex: El Balotin del Doge

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#unacuriositàvenezianapervolta 265

                              Nota simplex: El Balotin del Doge

Balotìn era il titolo che deteneva chi trascriveva gli scrutini del Maggior Consiglio e del Senato della Serenissima Repubblica … come Balotìn del Doge, era il fanciullo ch'era scelto “per privilegio” dal nuovo Doge, e che di diritto assumeva il grado di Notaio Ducale, cioè di Segretario Regio: una piccola fortuna per chi gli capitava.

 

Balotìni erano poi trentasei uomini che sedevano su diciotto “scannèlli”(due per ciascheduno) nell’androne di Palazzo Ducale: tra la Scala dei Giganti e la Porta della Carta.

“Questi Balotini con grandissimo loro profitto recavano agli Avvocati e ai clienti le notizie della decisione delle liti, e per iscritto partecipavano (mettevano al corrente, informavano) delle radunate dei Consigli, circa le nascite, i matrimoni! e le morti dei Patrizi, le nomine alle Dignità e gli Impieghi dello Stato. Tenendosi veramente il primo posto delli scannelli dal Balotin più anziano, era il secondo occupato da altro Balotin appellato Cogitòre, cioè coadiutore al Balotin anziano. A costui accorreva il Popolo, rara essendo nei tempi della Repubblica l’educazione di lui, affinchè lo giovasse colla penna, laonde il Cogitore era l'interprete dei desideri e delle proteste degli amorosi, l’estensore delle preghiere dei supplichevoli, dei negoziali dei mercatantuoli, era insomma il Segretario del Pubblico. Ma di assai poco sopravanzando i Cogitori nel sapere la Plebe, e perciò biasimevolmente imbrattando assai carta, può essere da ciò venuto che all'anzidetta Porta del Palagio Ducale siasi dato il nome, che ancor serba di Porta della Carta, e ai Cogitori quello burlesco di Magnacarta, cioè di bindoli e di menanti. L'uso poi degli scannelli, e perciò l'esercizio di Balotino, era conceduto dal Doge, come dal documento seguente: «Noi Alvise Mocenigo per la Dio grazia Doge di Venezia ... In essecuzione della Terminazione nostra pubblicata li 13 maggio caduto, et in relazione alla Nota nella Cancelleria Nostra Inferior presentata dal Custode de' Balotini e Coadiutori, che attualmente esistono, rilasciamo a Giuseppe Moscheni Balotino al Cancello (scannello) N.9 la presente, onde con tal prescritto fondamento continuar possa nel suo impiego, goder delle utilità dovute et aspettanti al medesimo, e con debito di esercitarne le incombenze nei modi, e con gli obblighi tutti espressi nella Terminazione sudetta, e precedenti, e sotto le pene in esse espresse, e così commandiamo annotarsi. Data dal Nostro Ducal Palazzo li 12 Giugno 1767”.


L’esosa Decima del Piovàn de San Tomà

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#unacuriositàvenezianapervolta 266

L’esosa Decima del Piovàn de San Tomà

Lo sapete già dove si trova San Tomà a Venezia … Era una delle antiche Contrade Veneziane … Sorgeva stretta fra un nugolo di canali e canalicoli, campielletti e calli strette accanto al colosso di Santa Maria Graziosa dei Frari: il potentissimo Convento dei Frati Minori della Cà Granda che non solo si prendeva tutta la scena della zona, ma anche calamitava ogni possibilità di finanziamento attraendo verso di se e il suo splendido chiesonebasilica più Nobili e Popolani, Schole, Mecenati, Benefattoti e Protettori che poteva.

Agli altri enti della Contrada rimanevano solo poche briciole … Pochi, infatti, erano i Nobili che abitavano e praticavano la Contrada di San Tomà: qualche Priuli e Bondulmer o Bondimero, alcuni Civran, e i Centani o Zantani, che però s’erano ramificati in diverse sottofamiglie che da Patrizi che erano gli avevano fatti diventare quasi popolani … Nella Contrada di San Tomà c’erano poi i Dalla Frescadavenuti dall'Istria, e i  Nòmbolo, che Nobili non erano, ma erano solo macellai benestanti che avevano in zona le loro attività, come i Saonèr, un’altra cinquantina di botteghe, artisti e commercianti che lavoravano in zona ... La Contrada, insomma, era una zona di commercio e artigiani: un inviamento da forno con casa e bottega di qua, una Pistoria, una Speciaria e una bottega da Mandolèrdi là, che apparteneva ai Padri della Certosa di Sant’Andrea di fronte al Lido …  In Contrada ha sempre abitato circa un migliaio di Veneziani, centinaio più centinaio meno, a seconda dei momenti storici … Buona parte della Contrada è sempre stata formata da case di proprietà dell’altrettanto potente e ricchissima Schola Grande di San Rocco che sorge ancora lì vicinissimo: il suo simbolo è ancora oggi impresso sui muri un po’ ovunque. La Contrada di San Tomà sembrava quasi l’entourage, la dependance della prestigiosa Schola Granda.

 

Il Piovan del Capitolo dei Preti di San Tomà con i suoi due sparuti Preti, si sapeva a Venezia: faceva fatica a far quadrare i conti della chiesa-Parrocchia. Gli toccava anche di andare a fare il Notaio a Rialto e San Marco dove come Segretario presso la “Curia del Proprio” doveva star lì a compilare i Registri di Judicatum" sulla legittimità dei clan dei Nobili e dei bastardi. Il Notaio doveva attestare e verbalizzare matrimoni, alleanze fra Nobili, influenze e prestigio vari destreggiandosi fra Diritto Civile e Canonico, entità di capitali, blasoni, e restituzioni di doti ambite da vedove ed eredi. Il Piovan di San Tomà insomma doveva da sempre tirare un po’ la carretta per far girare la ruota della sua chiesa-Parrocchia.

Si: era vero … La chiesa dava anche ospitalità a qualche Schola di Devozione e Arte-Mestiere, per cui se ne ricavava qualcosa. C’erano presenti e attive nella chiesa di San Tomà oltre all’omonima Schola di San Tommaso, anche le Schole d’Arte e Mestiere poco significative della Purificazionedell’Arte dei Sagomadori da ogio e miel, quella di SantaTeodosiadei Testori Fustagneri, e quella dei Barcaroli del vicino Traghettoche operavano proprio là appena fuori della porta della chiesa … C’erano ancora un paio di Sovvegni, e altre due tarde Compagniesorte tardivamente durante il 1700 … Poca roba insomma ... S’era anche allestita una Madonna Vestita “miracolosa” che indossava vesti in panno d’oro, veli d’argento e merli d’oro … Però … a conti fatti … non erano migliorate di molto le economie della Parrocchia.

Se andate a vederlo oggi, il bel Campo di San Tomà, è ancora dominato da una parte dalla bella sede della Schola dei Callegheri che nel suo periodo di massimo splendore contava ben 1500 iscritti-associati. Con la sua singolare storia del mestiere è bella da vedere con gli affreschi all’interno, l’immagine della Madonna dei Calegheri in facciata, e le scarpe impresse sulle pietre del massiccio edificio … Dalla parte opposta del Campo sorge, invece, proprio la quadrata chiesa di San Tomà eternamente barricata e chiusa, inaccessibile, in mano da decenni solo ai NeoCatecumenali che ne hanno fatto loro privè di lusso, e azzurra aula magna liturgica … Un tempo la zona di San Tomà, ben servita dal Traghetto omonimo strategicamente collocato sul curvone del Canalàsso (Canal Grande), era portico ospitale e ambito luogo di sepoltura dei Veneziani … Nella stessa zona c’era anche “la vigna di San Tomà”, e un’antica “piscina presso il Rivo Tomanicoche divenne del Comune Veneziano nel 1294 … La zona era soggetta all’influenza dei Nobili Tonisto.

 

Beh … Nell’angolo di destra accanto alla chiesa, sorge ancora oggi l’austero Campiello del Piovan, che un tempo era chiuso da un alto muretto. Lì anche nel 1503, abitava appunto il Piovan di San Tomà col suo ridotto Clero.

Una Cronaca Venezianaracconta, che un giorno del 1503: Marina Querini andò a confessarsi da quel Piovano visto che la Festa di Pasqua era ormai imminente. Accadde però, che siccome lei non gli offrì prontamente “la Decima” dovuta per il conferimento del Sacramento, cosa che il Piovano pretendeva da tutti i suoi fedeli in cambio dell’assoluzione dei Peccati, lui le negò il perdono sacramentale ... C’è da aggiungere che la stessa donna era recidiva agli occhi del Piovano, perché non gli aveva pagato neanche le assoluzioni precedenti, per cui il Piovano si sentì in dovere di punirla “lasciandola nel Peccato, e mettendola in disgrazia con Dio e con la Chiesa”.

Scoppiò finalmente lo scandalo ! … La donna irata e giustamente infastidita, si fece coraggio e andò a denunciare al Patriarca l’abuso perpetrato da quel Prete che l’aveva sollecitata così eccessivamente ad offrire pecunio ... Non che a lei mancassero i soldi: era Nobile, ma giustamente era il mercimonio “delle cose di Dio”che non andava bene.

Chiamata in seguito a testimoniare, la donna affermò che con una mano il Prete segnava le teste assolvendole, mentre con l’altra di solito accettava e raccoglieva regalie, galline e capponi.

In realtà un fatto del genere non era affatto una novità a Venezia. C’erano stati diversi precedenti simili, anzi: quel modo d’agire dei Preti era quasi una costante …Tanto era vero che nella primavera del 1489 erano stati aspramente condannati a carcere ed esilio alcuni Nobili Veneti: Silvestro da Leze, Leonardo Bembo, Alvise Soranzo, Filippo Panila, Alvise Loredan e Giusto Gauro che si erano divertiti a rubare le galline e polli del Piovan di San Giovanni Crisostomo di Cannaregio, che li aveva raccolto durante le Confessioni e le Funzioni dei giorni dell’Indulgenza di San Giovanni ... Furono accusati di spregio alla Religione … pensate un po’ ?

Venezia è stata anche questo ... diciamolo serenamente.

Che altro poteva ancora capitare in una Contrada come San Tomà ?

 

Poche storie curiose degne di nota in verità ... In una fredda notte dell’inverno 1520, Andrea VassalloCapitano dei Dieci passò di pattuglia per il Campo dei Frari sentendo gridare nel vicino Campiello di San Rocco. Corse subito a vedere ovviamente, e lì arrestò i giovani Girolamo Toscan e Antonio Zenturer della vicina Contrada di San Tomà che avevano appena “mazzoccàto” in testa un ignaro passante con un bastone.  Erano abituati a tendere agguati alla gente: buttavano cenere negli occhi, calavano una bastonata sul collo dietro alla testa, e poi privavano i malcapitati di abiti, mantelli e borse lasciandoli sanguinanti per strada ... Stavolta era andata male ai due di San Tomà. Portati in prigione, dopo “due meritati tratti di corda” ammisero ogni addebito confessando che per ben sette volte avevano compiuto quell’operazione con successo.

Alvise Badoer loro avvocato d’ufficio provò a ribadire fino alla fine davanti ai Giudici, che in fondo i due non avevano ammazzato nessuno, e che non avevano fatto altro male che quello.

Vero … ammise la Quarantia al Criminal, e li condannò entrambi a morte ... All’inizio del mese seguente i due vennero condotti in barca lungo tutto il Canal Grande fino a Santa Croce annunciando il motivo della loro condanna, poi furono condotti a piedi fino aPiazza San Marco accompagnandoli con sonore frustate, e giunti in Piazza, venne loro mozzata la testa ... Infine a completamento dell’opera vennero squartati e appesi a monito ai quattro angoli della città: “Bèn ghe stà !” esclamarono i Veneziani in coro.

Venezia era Venezia … il metro della Giustizia Veneziana era elastico e severo … se voleva ... Dipendeva chi eri.

In una serata autunnale di circa cinquant’anni dopo, due famigli-domestici di Cà Badoer chiamarono la stessa ronda delle Guardie Veneziane dicendo loro che c’era un personaggio sospetto che si aggirava furtivo nei pressi della chiesa di San Tomà. Le guardie sopraggiunte, fermarono Nadalin da Trento, figlio di un Sarto, di professione: Garbelador e Ligador al Fontego dei Tedeschie abitante in Contrada di San Lio. L’uomo portava in spalla un pesante sacco contente tutta una serie di arnesi da scasso. Tradottolo in carcere, e recatisi a ispezionare casa sua, trovarono un gran numero di arredi sacri e ori e argenti sottratti che aveva già provveduto a fondere complice la moglie Cassandra, che non ci mise molto a squacquarare e confermare tutta la faccenda.

Provando a salvare il salvabile, il Nadalin ammise che quella sera stava provando ad entrare in San Tomà dov’erano esposte alcune Sacre Reliquie e oggetti preziosi per l’imminente Festa di Sant’Aniano dei Calegheri. Ammise anche d’aver rubato nelle Scuole Grandi di San Marco e San Roccoentrando dentro da un canale e da una tomba ... Al Consiglio dei Diecinon servì altro: lo condannò all’impiccagione, e poi ad essere arso in “Piazzetta fra le due colonne”.

Nel giugno 1581, invece, alla Visita Apostolica della Chiesa-Parrocchia-Collegiata e Contrada di San Tomà, si mandò a processo e si condannò il Prete-Diacono Giovanni Locatello “per gravi irregolarità carnali e patrimoniali, e persistenti vizi di gioco”… Nel 1587 il Maestro Giacomo De Armiatis andava a casa della Clarissima NobilMadonna Lucrezia Correr di San Tomà per istruire et insegnare alle sue due figlie che intendevano entrambe “andar Monache”.

Nell’anno 1600 tondo tondo, Zuane Orese in Campo San Tomà insieme ad Anzolo Strazaròl in Campo dei Frari furono chiamati a comparire davanti ai Capi del Consiglio dei Dieci accusati d'aver fatto compagnia a Catte da Cattarorifugiata in chiesa dei Frari dopo aver ucciso suo marito Floriànd'intesa col suo amante Daniele d'Hanna, e averlo seppellito nella propria abitazione a San Geremia. I due poi l'avevano portata a casa di Antonio Verghezin ex Campanèr dei Frari, e lì l’avevano aiutata a travestirsi da uomo promettendole di portarla in salvo fuori da Venezia ... Inutile dirvi che fecero una brutta fine pure loro.

Nel novembre 1630 in tempo di peste, Prè Melchiorre Cecchinititolato di San Tomà sparì per 16 giorni dalla Parrocchia per paura della peste “con non modica diminuzione del culto divino e detrimento delle Anime della parrocchia”… Non ricomparve più, perciò venne privato del Beneficio Parrocchiale … Nel febbraio 1662, invece, un Diacono di San Tomà non venne eletto Prete “perché difettoso di mente e incapace d’intendere e volere” ... In quegli stessi anni era Pievano di San Tomà Prè Matteo Caburlotti che possedeva una ventina di quadri a tema religioso, alcuni ritratti compreso il suo, e una gran bella divagazione mitologica rappresentante “le Grazie e la Carità” dipinte dal Padovanino … curiosità di Contrada Veneziana.

 

Il 01 marzo 1707, si sa bene, proprio in Parrocchia-Contrada di San Tomà nacque il famoso commediografo Carlo Goldoni: uno dei grandi maestri nel descrivere e interpretare il mondo Veneziano di allora … Un grande.

Qualche decennio dopo ancora, secondo i Notatori di Pietro Gradenigo: il Piovano della nuova chiesa ancora non completata di San Tomà si mise a cantare Messa Solennissimaper implorare l’aumento di elemosine utili per la povera fabbrica della chiesa: “Sempre e ancora i soldi in ballo … sempre quelli … che fanno girare il mondo, ma anche la testa” ... In quella stessa occasione si scoprì ai fedeli e al pubblico il nuovo soffitto dell’Altar Maggiore di San Tomàaffrescato dal pittore Veneziano Jacopo Guarana, figlio di un barbiere, abitante in Contrada di San Tomà in Calle del Cristo con padre, madre, moglie e tre figli pagando 40 ducati annui d’affitto.

Infine, alla fine della fine nel 1840, si allestì sul fianco destro della chiesa su disegno dell’Architetto Antonio Mauri una grandiosa Cappella-Santuarietto in forma ellittica dove il Prete Guglielmo Wembel raccolse e dispose più di sessanta pregevoli Reliquie buttate via e sparse ovunque dai Francesi e dagli Austriaci durante il saccheggio e la distruzione di chiese e Monasteri Veneziani … Allo stesso tempo si demolìil campanile cadente costruendone uno piccolo“a vela … alla romana”, dove si collocarono le risultanti vecchie campane rimaste mute per sempre.

 

La Sclabòna de Buda

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#unacuriositàvenezianapervolta 267

La Sclabòna de Buda

L’ennesimo episodio accadde fra fine giugno e luglio 1586 … a Venezia ovviamente … Dico “ennesimo” perché si trattò di un’altra sentenza che andò a pigliare e inguaiare un’altra donna sfortunata qualsiasi … Si: un’altra di quelle donne ree soprattutto d’essere donne e femmine, cioè disposte a lasciarsi portare, quasi investire, da quell’istinto e sesto senso tutto femminile che due volte su due alberga da sempre in loro, e le porta inesorabilmente ad amare.

Già … Amare … Parola grossa che spesso cambia la vita … ne so qualcosa.

L’Amore poi non rimane sempre sentimento purissimo, “ma porta talvolta a cadere dal scàgno e risvegliarsi come da un sogno.” … e allora può trasformarsi in qualcos’altro di molto più basso e terreno … mica sempre però.

Beh … Insomma … Si chiamava Santa la donna, e non era Veneziana, ma Scjavonacioè Slava, e aveva attraversato il mare abbandonando tutto: il suo paese, la famiglia, e tutte le altre cose seguendo il suo fascinoso quanto irresistibile uomo … un Veneziano … che le aveva promesso “monti & mari” se avesse attraversato l’Adriatico insieme a lui.

E lei lo fece.

Povera donna … disillusa praticamente subito appena arrivata a Venezia, e usata una volta di più come capita spesso alle donne … Non me ne vogliano: è così ... Usa e getta: si sa come va, e come va ancora a volte la Storia. Succede da quando esiste il mondo, anche se per fortuna esiste anche il contrario, cioè ci sono Storie di Storie che continuano bene e felicemente.

Ma torniamo a Santa, che era piena di quella frizzantezza ormonale, di quel sentimento impellente, e di quella gran voglia di vivere e fare che cova dentro a tante donne … Non si diede per vinta, nè si scoraggiò per l’abbandono, si tirò su le maniche e cercò di avviarsi ugualmente una vita ingegnandosi a procacciarsi il pane quotidiano. In fondo si trovava a Venezia: Capitale di un Regno Sovrano … e che Regno ! … Città vivissima e dalle mille opportunità.

Santa andò a vivere prima in fondo al Sestiere di Castello, accomodandosi fra la Contrada del Vescovo di San Piero, e poi definitivamente in quella di San Biagio ai Forni affacciata sul Molo e il Bacino di San Marco.

Quella di San Biagio era una Contrada piccolina abitata solo da 500-600 Veneziani, ma molto attiva: zona di Arsenalotti, Calafàti, Frittoleri, Pegolòtti, Consacànevi dell’Arsenal, Poveràssi, Cestèri, Capottèri, Berettèri e Marinai in servizio o in congedo sui Moli di San Marco. Era anche zona di locande e osterie, di botteghe e Pellegrini pronti all’imbarco per la Terrasanta, desiderosi di vedere le numerose Sante e Insigni Reliquie che venivano custodite nella chiesa di San Biagio … Ce n’era soprattutto una antichissima: quella della “Santa Spina del Capo di Cristo”, che non smetteva di calamitare oltre ai Pellegrini, anche Viaggiatori curiosi, Mercanti e Navigatori, Patroni de Nave, e Sforzàdi da remo bisognosi sempre di qualche buona protezione ... E c’erano sulle rive e in Contrada di San Biagio, perché no ? Anche contrabbandieri e affaristi di sottobanco. Lo sapevano tutti a Venezia: a San Biagio c’erano i Forni del PanBiscotto della Serenissima, e da sempre esisteva un fiorente contrabbando di quel prodotto realizzato con la complicità dei Forneri Veneziani a danno sia dei Pistori, che della stessa Serenissima, che qualche volta non aveva occhi a sufficienza per vigilare su tutto e tutti.

Non doveva quindi essere stato tanto difficile per una persona volonterosa come Santatrovare di che campare in quella zona Veneziana così vispa e piena d’iniziative ed energie. Tutto il Sestiere di Castello era un continuo andirivieni, e c’era tanta gente Veneziana popolare che viveva per vivere senza tanta cultura nè pretese rimanendo all’ombra della grande Repubblica Serenissima.

Mollata da sola come un cane per strada, Santa s’era improvvisata massèra domestica de Casàda, e disposta a prestare tutti quei servizi che potevano essere richiesti dalle famiglie facoltose e dai vari Monasteri presenti in zona. Inutile quasi ricordarlo: Clero, Frati e Monache allora campeggiavano quasi ovunque a Venezia, cioè erano presenti in massa padroneggiando e primeggiando quasi quanto volevano.

Santa Scjavòna fece poi anche qualcos’altro per sbarcare il lunario: vendeva “segreti d’amore e medicamentosi” insegnando alle donne Veneziane come difendere il proprio corpo dagli acciacchi e dalle angherie del Tempo, ma, esperta per ciò che le era capitato, anche dalle complicazioni interiori procurate più che spesso da mariti e compagni prepotenti, infedeli e vanesi, o dai sentimenti troppo instabili e vaporosi.

Strada facendo però, il suo bisogno si fece intraprendenza, finchè divenne autolesionismo.

Fu proprio, infatti, una di quelle donne Veneziane indotta a vivere una vita complicata a inguaiare di rimbalzo Santa a sua volta.

DonnaAntonia, venditrice di fiori in Piazza San Marco, e moglie di Geronimo Barcarolo degli Eccellentissimi Capi del Consiglio dei Dieci, comparve davanti all’Inquisizione Venezianaaccusando Santa di Stregoneria. Raccontò che prima di conoscere quella donna, suo marito era stato un uomo da bene, una persona tranquilla in diretto contatto quotidiano con personaggi potenti che contavano davvero tanto a Venezia ... Era poi spuntata quella Santa sull’orizzonte di suo marito, e lei era stata costretta a denunciarla in quanto la contrastava come rivale in Amore rubandole il suo uomo. Da quando suo marito l’aveva conosciuta non era stato più lui: l’aveva picchiata-minacciata, e buttata fuori dalla casa di proprietà dei Nobili Molin dove abitavano in Contrada di San Zuàne Nòvo poco distante da Piazza San Marco.

Interrogata di nuovo dall’Inquisizione sotto giuramento, Antoniariferì ancora che non solo conosceva la Scjavòna di cui non sapeva bene il vero nome, ma raccontò anche che la donna aveva iniziato a praticare casa sua incontrando suo marito, e che di notte usciva con lui … non si sapeva dove, e per fare che cosa: di sicuro per tradirla. Quando poi rientrava a casa il marito diventava violento e alterato: la minacciava con un coltello, e le faceva “cattiva compagnia”… Aggiunse anche che Santale aveva consigliato di non farsi trovare in casa al ritorno del suo uomo.

Ancora secondo la stessa Donna Antonia, Santa era diventata davvero spudoratissima. Spiegandole che lei non intendeva lasciare la propria casa, la Scjavona allora l’aveva derisa proponendole di adottare un rimedio per ricatturare le grazie di suo marito ... Santale aveva consigliato di prendere “dei peli rasi sotto le schàgi de le braze e de le parte de la vulva de sotto, et che ne facesse polvere in acqua rosa, et che ne desse da mangiàr et bèver al mario, et onzerli le tempie e i polsi.”

Era proprio una presa in giro della donna aggirata e anche un po’ credulona … Il rimedio ovviamente non funzionò, e allora Santasi ripropose, e propose ad Antonia di allestire un altro rimedio che considerava ancor più potente.

Provato Donna Antonia a confidarsi di tutto col marito cercando di recuperarlo, l’uomo le diede una rispostaccia: “O poltròna ! Lasciala stare ! … Guarda quante cose ti sa insegnare quella donna … Avvediti che ne sa fare davvero tante ! … E’ meglio di te.”

Ad Antonia allora non rimase che confidarsi con un Prete, che soprannominava Monsignore, ospite fisso in affitto in una delle stanze di casa sua. Fu lui a indirizzarla verso il Fante Hieronimusdell’InquisizioneGeronimo Vitriarius da Castèo Custode delle Prigioni dell’Inquisizionedove abitava con la sua famiglia.

Col Fante dell’Inquisizione si orchestrò allora di smascherare Santa, e si organizzò una vera e propria trappola nei suoi confronti. Per lei alla fine si spalancarono le porte del Carcere dell’Inquisizione prima, quelle del Tribunale del Santo Uffiziopoi, e infine quelle della colpevolezza con la definitiva sentenza di condanna.

Qualche ulteriore dettaglio ?

Va beh … Ecco qua.

Il gruppetto del Tribunale che formulò le accuse contro Santa allestendo il processo era composto dal Cancelliere Vincenzo Terlato, che si premurò di precisare che Santanon era stata solo scoperta “in fragrante” nelle sue mansione stregonesche e di herbaròla, ma che aveva esercitato una vera e propria azione sociale “dirrompente” intaccando l’equilibrio interno della Contrada Veneziana … C’erano poi il Reverendissimo Padre Inquisitore di Venezia Frate Angelo da Faenza, Desiderio Guido Vicario Patriarcale, e i Nobili Assistenti: Domenico Duodo e Pietro Morosini … e Cesare Legato Arcivescovo di Capua.

Torniamo ai fatti.

Eccoli … Santa, come dicevo poco fa, propose ad Antonia un formidabile nuovo rimedio per riappropriarsi di suo marito … Sembrava un giochino a nascondino, “a gatto col topo”, ma non lo era affatto: era pura realtà.

Santa invitò Donna Antonia a comprare a Rialto: “Herbe, overossia rizoma o radice di Cinquefoglie o Herba Potentilla, Olio comune da 5-7 soldi, e un osèllo (uccello) vivo e mascholo comprati a nome del Diavolo”, poi sarebbero servite anche “delle ossa e terra da Morto prese dal Cimitero Ebraico del Lido dove se sopelisse i Zudij”.

Tutti lo sapevano a Venezia: il Cimitero Ebraico del Lido era tradizionale meta di tutte le presunte fattucchiere Veneziane, una sorta di “luogo adatto”, una garanzia d’efficacia dove cercare e trovare cose utili per allestire “stregonèssi e deleterie magie”… Un “posto senza Dio” per i Veneziani, o almeno per una parte di loro: quelli che con Cultura e Religione avevano poca dimestichezza, e facevano un gran minestrone e tanta confusione in testa di un po’ di tutto.

Donna Antonia in seguito, avrebbe dovuto preparare il fuoco acceso con del carbone in casa, e lì Santa in persona l’avrebbe presto raggiunta per concludere quel gesto insieme “mettendo su pignatella”, e friggendo allo stesso tempo: Olio, Ossa di Giudeo e Uccello spennato... Santa disse ad Antonia che “tutte quelle erano come parole di Dio”, e che durante quel gesto di spergiuro si sarebbe dovuto dire: “Nel nome di Dio, così co ti lassè el to nio (nido), così to mario possa lassar ciascheduna dona, et così come el’ Zudio scampa l’acqua del Santo Batesimo, così Hieronimus possa lassàr ciascheduuna donna e vegnir da mi Antonia.”

Avrebbe funzionato quella nuova trovata, e Antonia avrebbe riavuto finalmente il suo uomo.

Antonia ancora una volta finse di crederci.

Santa raccontò di aver imparato tutte quelle cose da Maria Greca: una donna granda da 36-37 anni, mugièr de Jacomo da Zante, che stava a San Giovanni dei Furlani, “che la fila filo sotil (linaiola) andandolo vendendo per questa tèra, che porta diversi anelli al dito e un nizioletto in testa, e una travèrsa (grembiule)addosso” … Maria Greca le aveva anche insegnato che far funzionare tutto sarebbe servita anche “acqua di stagno”, ma che lei non era intenzionata ad andarla a cercare.

Antonia stessa aveva conosciuto Maria Greca sul Ponte de la Pagia vicino al Palazzo del Doge e Piazza San Marco, e piangendo le aveva mostrato i capelli che le aveva strappato Santa ... Maria Greca però non si era mai recata a casa di Antonia.

Santa la Scjavòna quindi accompagnò Donna Antoniaa Rialto a comprare “l’osèllo mascholo” al Mercato, dicendo al venditore che le serviva per un bimbo ammalato di scrofola. Avevano anche contrattato al ribasso per quattro soldi, e alla fine avevano comprato il volatile solo per tre … Antonia aggiunse ancora che in quell’occasione aveva sentito Santa invocare diverse volte il Diavolo-Satanòn, e che l’aveva poi lasciata con tutte quelle cose in grembo a discorrere con un suo conoscente in Marsaria, mentre lei era andata a chiamare il Fante dell’Inquisizione, e poi ancora s’era recata a vendere fiori in Piazza San Marco.

Più tardi quando Antonia tornò a casa per mangiare insieme al Prete che abitava con lei, e ad altra gente, comparve Antonia col volatile e le dette Herbe in grembo. Al Monsignorecurioso di sapere rispose che portava in traversa: “solo herbette, cipolle e prezzemolo”… Quando infine la Santa mise in mano l’uccello all’Antonia, allora comparve e intervenne il Fante dell’Inquisizione, che già in precedenza aveva consigliato ad Antonia di accompagnare Santa al Mercato per coglierla sul fatto.

Santa venne quindi arrestata a casa di Antonia, e nel trambusto il povero uccelletto venne talmente stretto che mori dopo aver dato qualche sonora beccata disperata. A Santa vennero trovati addosso tutti quei strani ingredienti sospetti: non c’era più alcun dubbio sulle sue capacità e le sue intenzioni.

Al Processo si presentò fra le altre una testimone che parlò contro Santa Scjavòna. Si trattava di Domenica, una lavandèra dei Padri Domenicani di Castello, che abitava in Contrada di San Biagio dei Forni in Corte Seconda Grimana(dove oggi sorge il Palazzetto dello Sport).

Costei piangendo e affliggendosi non poco raccontò che Santaaveva abitato a casa sua, e che uscendo da Messa in San Biagio, aveva sentito raccontare dalla Scjavòna che conosceva Donna Antoniain quanto aveva comprato fiori da lei. In seguito era venuta a sapere che la stessa Fioraia si lamentava che suo marito Barcarolo dei Capi dei Diecila molestava, le aveva venduto molte cose di casa, e si teneva in casa una femmina, che in una certa occasione l’aveva anche presa e tirata per i capelli ... Si trattava di Santa: la Scjavòna da Budo.

In un’altra occasione ancora, lei s’era trovata seduta in Piazza San Marco quando passava la Processione della Festa della Madonna della Sensa, e la Maria Greca sedutale accanto le aveva confidato d’essere Candiòtta, e di aver strappato il cuore dal petto di suo marito e d’averlo venduto … La Santa, invece, le disse che si sarebbe recata a San Lio e Rialto a prendere cose “che potessero giovare a quella donna grama e meschina che piànze sempre” ... e in effetti quello stesso sabato l’aveva vista recarsi verso Rialto zuppa di pioggia.

Infine un’ulteriore donna testimone confermò quanto già si sapeva. Stavolta era Catherina, cioè Cathe, vedova di Valerio Caleghèr (Calzolaio) anche lei residente in Corte Seconda Grimana in Contrada di San Biagio. Raccontò al Tribunale che Santa da Budua aveva abitato anche a casa sua … in soffitta precisamente … dove l’aveva sentita “con sospetto bisegàr (sussurrare) più volte con fave”. L’aveva anche ammonita di non far più cose del genere a casa sua, e quella fingendosi remissiva le aveva promesso di non farlo più.

Quel sabato l’aveva vista portare in grembo delle herbe a cinque foglie a casa sua. Le aveva proposto anche di comprarle e prenderle “per il mal da mare, da matrice de donna (fastidi mestruali). Le aveva risposto che non ne aveva bisogno ... Le aveva anche portato dei fiori colti da un ramo di un albero che sorgeva accanto a certi Morti del Lido… A questo lei aveva detto: “Che non gho stòmego per volerli.”… Diverse volte veniva a parlare a Santa una che vendeva fiori moglie di un certo Geronimo.

All’Ufficio della Santa Inquisizione di Venezianon servì altro: tutti quegli elementi furono più che sufficienti per poter rompere quel cerchio perverso in cui agiva Santa Scjavòna.

“Non ho mai buttato fave … Né lo ho mai fatte buttar ad altri.” provò a discolparsi timidamente Santa da Budria davanti ai Giudici.

Niente da fare … Il Tribunale dell’Inquisizione Veneziano fu inflessibile con quella donna sola, che inizialmente era stata solo indifesa e a caccia di espedienti per vivere. Nel giro di soli quindici giorni emanò pubblica sentenza da eseguire immediatamente affinché quel gesto fosse d’esempio per tutti i Veneziani che abitavano la bagnata Città Lagunare.

Il 03 luglio 1586, Santa Scjavona da Buda con un cappello in testa con posto sopra un cartello che spiegava la sentenza impostole: “PER STRIGA ET HERBERA”, venne dallo stesso Fante Gerolamo Vitrarius Ministro del Santo Uffizio dell’Inquisizione fustigata pubblicamente da Piazza San Marco fino alla Pietra del Bando di Rialto dove venne messa alla berlina per un’ora. Poi finalmente venne imbarcata su una Galia Veneziana, e spedita oltremare: rimandandola là da dov’era partita “per quinquennium”. Venne cioè bandita per cinque anni da tutti i territori di Venezia Serenissima, in esilio a Buda, oltre il mare Adriatico: “infra Mentium et Quarnerium” .

Le fu posta anche una taglia di 100 lire sulla testa. Se si fosse ripresentata in Laguna e a Venezia prima di quella scadenza avrebbe fatto felice quello o quella o quelli che l’avrebbero denunciata alla Santo Uffizio dell’Inquisizione e agli uomini della Serenissima, che gira e volta erano la stessa cosa in quanto andavano a braccetto insieme ... La donna-Strìga-Herberasarebbe stata posta in “carcere chiuso” di San Marco per mesi sei.

E’ questa la trista e succinta storia di Santa Sciabòna da Buda passata per un certo tempo a vivere per Venezia.

Di lei poi non si seppe più nulla ... Una donna svanita nel niente.



Povere de Palàsso Ducal … Poveri al Pèvare, Poveri al Passo.

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#unacuriositàvenezianapervolta 268

Povere de Palàsso Ducal … Poveri al Pèvare, Poveri al Passo.

Secondo quanto raccontano certe Cronache Veneziane non antichissime, le “Poverette de Palàsso” erano dodici donne … tutte attempate. Stavano là per via di un particolare privilegio del Doge che aveva concesso loro il diritto“di stendere ad altrui la mano anche dentro a Palazzo Ducal”. Si trattava quindi di questuanti che in qualche modo e per qualche perché nascosto” erano state privilegiate.

Le stesse Cronache continuano a descriverle: “Per la frequenza dunque del Popolo, ma ben più per la conoscenza de vecchi Patroni, e per quella illimitata di qualsivoglia mena del mondo (erano femmine più scaltrite di uno Zingaro) quotidianamente le saccocce loro empivansi di danari a ribocco, di guisa che vivendo in una vera agiatezza eran povere soltanto di nome; e non diventavano povere di fatto se non quando ordini nuovi ai vecchi della Repubblica sottentrarono.”

Ecco tutto spiegato chiaramente … Le solite raccomandate parassite per qualche motivo riuscivano a intrufolarsi dentro “al cuore del Sistema Veneziano”. Fingevano una povertà che non avevano. Anzi: erano ricche piuttosto che povere, un po’ come certi e certe di oggi che sembrano crepare per strada da un momento all’altro oppressi dalla Storia e dall’abbandono, mentre un attimo dopo deposta la stampella claudicante e l’aspetto da miserevoli, se ne vanno a vivere dentro a roulotte confortevoli doratissime … Ieri come oggi: è solo finzione, organizzazione e sfruttamento di carità pubblica e privata … però nel caso della Serenissima: con debita protezione e accondiscendenza dello stesso Sistema Statale.

Non è cambiato niente lungo il corso dei secoli, e penso neanche cambierà … e non solo qui a Venezia. Ancora oggi c’è chi “si riempie a ribocco qualche saccoccia”, mentre la gente comune deve spezzarsi la schiena per raccattare e guadagnarsi quattro soldi fragili, che più che spesso bastano appena per vivere.

Ma torniamo ancora alla descrizione delle vecchie Cronache: “Non ha pari una Marcolina, sola sopravvissuta alle sue sorelle, vecchia assai, cenciosa, schifosissima, errar vedevasi ancora, quasi ombra, per quelle logge, per quelle scale, lamentandosi del Fato della sua Repubblica, e chiedendo un obolo al forestiere.”

 

E non è tutto … Sempre gli stessi vecchi documenti fanno un po’ luce e raccontano anche dei Veneziani “Poveri al passo”: “Per poter a pubblica notizia riferir chi siano questi Poveri al passo (cosi diceva Francesco Gritti Inquisitor Sopra i Dazi in una sua Scrittura il 05 gennaio 1699) et con qual fondamento sia fatta questa corrisponsione ho desunto da scritture vecchie che vi fosse un Officio intitolato del Passo, nel quale s'impiegavano alcuni vecchi poveri impotenti, stando alla custodia della Camera dell'Officio stesso, di altra Camera del Fontico dei Todeschi, et ai cortili della Messetaria dove misuravano tele, terlise, panni et altro, e per ciò havevano tenue limitata mercede.”

Inizialmente si trattava quindi di persone che prestavano un servizio modesto di pubblica utilità: “che alla direttione all'ora de loro impieghi e mercedi sopraintendeva l'Officio de Consoli de Mercanti; che l'anno 1457 a 28 marzo dall'Ecc.mo Senato fu deliberato, che le “Grazie del Passo” siano fatte a poveri homini, e li fosse accresciuto li sette dinari e mezzo die per ogni centenaro havevano a dinari 10 per ciascheduno.”

I Poveri del Passo avevano quindi quasi un ruolo e un’identità ben riconosciuta e precisa. Erano cioè altri “figuri tradizionali” raccomandati ben accetti dentro al meccanismo commerciale ed economico della Città Lagunare: “Osservo che questi Poveri al Passo sieno in preciso limitato numero di 40, ma vedo pur anco che al presente la metà sono femine, e tall’una di queste ha due, e tre di questi luochi e benefìzii, e ne sono sino al numero di 5 in una sola famiglia ecc. Dietro questo ragguaglio fu pronunziata la legge seguente: 1699 9 gennaio in Pregadi: “Quanto alle grazie destinate dalla pietà pubblica alli Poveri al Passo, che s'intende rilevano lire trecentoquarantauna valuta corrente all'anno in tutte rappresentando esso Inquisitore che nella distribuzione non s'osservi più l’instituto di beneficare quaranta persone con le quaranta gracie alcuna de quali sono assegnate ad una sola famiglia. Sia concesso all'Officio de Consoli de Mercanti nei casi delle vacanze che anderanno succedendo delle Gracie suddette d'osservare le Leggi in questo proposito, acciò siano distribuite alle persone capaci et nel modo prescritto”.

Come potete intendere, si era consapevoli a Venezia che quelle “Grazie”erano in realtà un privilegio ingiusto e un utilizzo improprio del pubblico denaro. Così come si sapeva che c’erano in giro furbetti e opportunisti.

Esplicano ulteriormente le righe della stessa Cronaca sulla presenza a Venezia anche dei “Poveri al pèvare”: “Per legge 29 luglio 1386 nel Maggior Consiglio l'Officio di Sensale di Pevere solitamente veniva concesso “nostris bonis Venetis originariis, antiquis ex pauperibus qui fuerunt homines maris navigatores, aetatis annorum sexaginta, vel inde supra, et expendiderint juventutem et dies suos, ac vitam suam in honorem, et statum nostri Dominii, et per senium, vel impotentiam sint personae egentes.”

 

Il titolo di “Poveri al Pèvare” era quindi una sorta di onorificenza e di sussidio offerto a chi era almeno un sessantenne “buon Veneto”d’origine, che aveva servito onorevolmente la Repubblica navigando e commerciando, ed ora si trovava in stato d’“impotenza”, cioè di povertà ... Quella dei “poveri al pèvare” quindi era una specie di previdenza, di I.N.P.S. e pensione di ieri insomma: “Successivamente da questa pietosa consuetudine nacque una Confraternita detta dei Poveri al Pèvere, soggetta agli Officiali alla Messetaria, ristretta ultimamente a ottantadue persone, le quali però doveano avere tutti i requisiti determinati dall'anzidetta legge. Le elezioni per l'ammissione alla Confraternita si facevano nella giornata del martedì santo, e l’utilità che ne veniva a ciaschedun individuo era di lire dieci al mese, pagabili dai Magistrati dell’Uscida, dell'Entrada e del Fondaco dei Todeschi.”

Che ve ne pare ?

Venezia Serenissima a modo suo intendeva un po’ rendersi sussidiaria e assistenziale, anche se in maniera non sempre del tutto equa ed adeguata. Si sa: chi a Venezia non riusciva a intrufolarsi in qualche modo dentro a certi meccanismi non viveva vecchiaia tanto serena e agiata. Di solito uomini e donne Veneziani erano costretti a “tataràr via”, cioè a improvvisarsi e ingegnarsi “a vita e fin che potevano” in lavori e lavoretti al fine di poter sbarcare in qualche modo il lunario.

E la Serenissima ? … Beh: ieri come oggi il Governo dal suo alto scanno: vigilava, dava indicazioni, “faceva paterna ombra”, ma anche e soprattutto latitava … accontentandosi di proteggere e dare “concreto sussidio” a chi più gli aggradava o gli conveniva.

Non è cambiato niente vero ? … Sono solo trascorsi i secoli.

Già … purtroppo.

Nel “Soggiorno a Venezia di Edmondo Lundy”, che in realtà era il pseudonimo letterario di Pasquale Negri, che pubblicò a Venezia nel 1854, si legge: “La quantità dei poveri in Venezia è attualmente assai grande. Costoro sono divisi in più classi. I poveri erranti, che per lo più cantano divote canzoni; i poveri fissi, che stanno fermi agli angoli delle vie o vicini a qualche santa immagine, oppure agl’ingressi delle chiese o nel loro interno, il che è una specie di privilegio dato dai vicini o dai Preti, e che altri questuanti non possono usurpare; ed i oiveri ammalati, che temporariamente si gettano sui gradini dei ponti, facendo schifosissima mostra di piaghe dolorose; non che altri che sono guidati per i rivi entro a barche ed in aspetto assai orribile e ributtante.

Molti poveri si postano nell’atrio della chiesa di San Marco, e là fanno mostra di neonati e bambinelli in sommo bisogno. I ciechi, paltonieri assai compassionati, girano, parte sonando il violino o cantando orazioni: altri stanno fissi in alcuni luoghi della città; e non pochi vicini alle pile di San Marco e sul ponte detto della Pietà.

Havvi un’altra classe di questuanti, detta Poveri Vergognosi, DI questa classe di uomini escono per lo più di sera e portano un velo nero che loro asconde il volto. Le donne misere di questa classe indossano il zendà e la veste; ma questo abito è in così cattivo stato e così male rattoppato, forse con artifizio, da lasciar tosto trapelar la loro condizione di questuanti. Queste povere vergognose sono però dotate di molto orgoglio, perché si vantano di buona nascita e pretendono perciò soddisfazione pronta alle loro domande; ed anco che sia a loro fatta elemosina con buona maniera.

E’ inutile il dire, che oltre alla loro disgustosa vista, alle loro continue importunità, hanno quasi tutti i poveri l’uso di gridare pietà e soccorso nelle forme le più commoventi. Sorprende assai come questo grandissimo numero di accattoni trovi ogni giorno da vivere, ma i Veneziani sono per verità molto caritatevoli.

Però fui assicurato che in questa gran torma se ne trovano di quelli che non hanno reale bisogno ed esercitano il paltoniere per pura poltroberia. Altri fingono dei mali che non soffrono, e mi si disse che alcuni hanno abilità di pingersi piaghe marcite e sanguinose, e tanto in apparenza veraci da ingananre l’occhio più esperto.

Ho veduto io stesso, in remoto viottolo, un povero farsi di nascosto una ferita non piccola sur un piede, e ciò per aver un più forte motivo di eccitare l’altrui pietà. Vidi alcune miserabili circondate da tre o quattro bambini, e fui assicurato non aver quelle figlioli, ma che pagano per questa a loro utilissima finzione alle vere madri uno stipendio o noleggio giornaliero. Una vecchia povera portava coperto un occhio con un pezzetto di taffetà con tinta marciosa.

Io la credetti per gran tempo offesa in così delicata parte. Colei cangiò di stato per un terno al lotto toccatole, ed allora il suo occhio apparve libero e serenissimo come l’altro.

Ma a Venezia chi vuol vedere zoppi che ben camminano, ciechi che ben veggono, attratti con membra non più guaste, vada di sera in certe basse osterie, da questa gente soltanto praticate e vedrà tale portentosa trasformazione. Questi accattoni non hanno riguardo fra di loro di palesare la furberia adoprata; ed in quelle basse osterie, cianciano, giuocano, mangiano e bevono lautamente.

Una sera mascherato e in compagnia di due amici, volli entrare nella bettola detta il Mondo Nuovo, uno dei ridotti principali dei questuanti, e vidi quanto bastava per assicurarmi che vi erano in molti e nella loro miseria e nelle malattie non poca impostura. Risi molto al vedere dei ciechi che giocavano fra loro alla mora. Con la sinistra mano tenevano afferrata la destra dell’emulo giocatore ed in questo modo non potevano essere ingannati.

Fra questuanti e questuanti sono frequenti i matrimonii. Ma l’importante della dote della femmina consiste principalmente né suoi difetti, cioè s’è guercia, gobba, sciancata, ecc, i quali difetti sono capitali fruttiferi, e vieppiù se unisce voci e modi atti a ben destare l’altrui compassione... “

Curioso vero ?

Mi piace concludere questo quadretto Veneziano di ieri con una piccola aggiunta doverosa, per dire che non tutti i Veneziani sono stati così interessati, esosi, clientelari e parassiti societari, o miopi e limitati nel considerare le situazioni sociali.

Nel 1782: il Setificio Zaniboni attivo a Venezia nei pressi del Monastero di Santa Chiara e dei Tre Ponti dove sorgerà in seguito la Manifattura Tabacchi, previde un lascito annuale di 75 ducati correnti: “Due terzi della somma verrà distribuita fra i poveri della Contrada di Santa Croce di Venezia. Il rimanente andrà ai poveri della Contrada di San Martino di Treviso dove opera parimenti la tintoria della società … La suddetta elemosina sarà col mezzo del direttore Zaniboni pagata in mano de Parroci o delli Presidenti di Fraterna per tal oggetto…”

E nel 1804 … I quattro eredi di Giovanni Luigi Occioni firmarono la stesura programmatica della loro azienda attiva a Venezia: “… venga messa l’impresa sotto la protezione di Dio signore…così non cessando d’invocarla per meritare in qualche modo la sua benedizione, convengono essi fratelli che il negozio che vanno ad istituire abbia ogni anno da supplire l’elemosina congrua per la celebrazione di 100 Messe, e da esborsare parimenti 30 ducati correnti all’anno da essere distribuiti ai poveri …”

Anche oggi capita questo vero ? … Magari !

Altri tempi e modi a Venezia.

 

La Diana Passarina in Crosèra de San Pantalòn

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        La Diana Passarina in Crosèra de San Pantalòn

Tanto per capirci un poco: in quell’epoca in Contrada di San Pantalon non c’era ancora la chiesa di oggi col telero del soffitto di 443 mq: più grande del mondo … A cavallo fra Storie e Leggenda su quel gran quadro si è detto che Antonio Fiumani, dopo ventiquattro anni di lavoro, morì cadendo da un'impalcatura mentre lo stava terminando … Fu spinto giù ? … Chissà ? 

Comunque i fatti di cui vi sto per dire accaddero un secolo prima, quando il campanile di San Pantalòncominciò a pendere tanto che dovettero atterrarlo, e si finì più tardi col tirar giù anche tutta la vecchia chiesa a tre navate rifacendola e voltandola nel modo che si vede adesso. Tutto fu fatto seguendo il progetto dell’architetto trevigiano Francesco Comin, che venne profumatamente pagato dal Piovano Giambattista Vinanti.

Sempre al tempo di ciò che sto per raccontarvi, provate a immaginarvi e figurarvi quella Contrada popolarissima e vivissima tipicamente Veneziana … Vi aiuto: vi abitavano più o meno 3.100 Veneziani … La zona era piena di botteghe e attività … Vi abitavano diversi Artisti, Musicisti, Scultori e Pittori affermati e di grido, e accanto a loro ce n’erano anche diversi altri in cerca di fortuna o mezzi spiantati … In Contrada era attivo anche un Maestro di Grammatica disposto ad insegnare per non meno di 8 ducati annui a chi poteva permetterselo … Qualche decennio prima s’era fatto un gran parlare e discutere se fosse stato giusto o meno concedere una parte del terreno ai Cofràti della Schola di San Rocco per farne la loro nuova sede … e sapete poi come andò a finire, che capolavoro ne venne fuori, che scrigno d’Arte, e quante storie e vicende accaddero a Venezia legate a quella pomposissima e ricchissima Scuola Granda  Di certo fu una delle protagoniste occulte di tanto benessere e prestigio Veneziano devozionale e non solo. Ma questa è tutta un’altra storia …

Intanto dentro alla vecchia chiesa piena di Zaghi e Preti che andavano e venivano di continuo attratti come Api sul Miele dai cespiti di almeno 17 Mansionerie di Messe da 305 ducati da celebrare, il Piovano Nicolò Moravio che gestiva la Collegiata dei Preti di San Pantalon, fece costruire un nuovo altare da un certo Andrea Palladio(si: proprio quello che divenne poi famoso), e sopra ci collocò un bel dipinto realizzato da un certo Paolo Veronese(proprio lui)… Sempre lì dentro a San Pantalon c’era e operava Pre Francesco Cantador apprezzatissimo per la sua voce, che cantava però solo per la cifra di 6 ducati contati in mano ... Ser Batta Maestro di Canto degli Zaghine voleva, invece: otto di ducati, e per quella cifra era disposto anche a suonare l’organo in chiesa … Al Piovande San Pantaloninsomma costava un patrimonio far andare avanti tutta la baracca, e ogni anno per la festa del Titolare: San Pantalon, gli toccava sborsare e spendere ben 15-20 ducati per far carità a quelli della Contrada, ma anche “per la refazion de libri, paramenti e mantili da cièsa, corde de campane, conzàr l’organo … e pagàr Cantori e Strumentisti e dal loro opportuna ricreazione alla quale si portavano dietro sempre parenti e amici.” ... Ancora a lui, lo stesso Piovan, gli toccava anche di sbaruffare di continuo con le vicine Monache del Monastero di San Francesco della Croxe (attuale Piazzale Roma-Giardini Papadopoli) non solo per via della giurisdizione e dei confini della Parrocchia, ma soprattutto per i diritti e le elemosine che derivavano da Battesimi, Funerali e Matrimoni… una causa senza fine … Le Monache non mollavano mai quando si trattava d’intascare soldi ... Monache e Piovano volevano ciascuno che i Veneziani si recassero da loro per scandire la loro vita a suon di Sacramenti ... e relative oblazioni.

Fu poi sotto il nuovo Piovan Prè Bartolomeo Borghi che alla fine si decretò di chiudere il portico prospicente la chiesa di San Pantalon per via di quanto di losco, sporco e violento vi accadeva di continuo ogni notte. Li sostava sempre gente incontrollata e pericolosa disposta a tutto, ed era un problema non facile da risolvere ... Ieri come oggi: non è cambiato molto dentro a certe notti Veneziane.

Nella stessa Contrada, così come in giro per Venezia, si faceva un gran parlare di Andrea Surian che aveva partecipato alla Battaglia di Lepanto dell’ottobre 1571. Sebbene ferito, il Surian aveva sorretto l'Ammiraglio Agostino Barbarigo colpito in un occhio da una freccia, e lo aveva aiutato a gestire la flotta fino all’arrivo del nuovo comandante Federico Nani ... Fu per questo poi, oltre che per altri meriti, che nel 1586 venne nominato Cancellier Grande.

Nelle bettole e osterie, ma anche fra Calli, Corti e Campielli si diceva anche dei Nobili Balbo “significativi per gli importanti servigi resi alla Repubblica, per i molti Ecclesiastici del Casato, i Cavalieri, i SopraComiti e Patron di Nave, e i Senatori”… Si diceva di loro, che erano famosi per la ricchezza, ma anche perché erano dei gran taccagni … Era impossibile trovarne uno che ammettesse d’aver soldi … Tant’era vero che evitavano accuratamente di candidarsi all’impresa della carica del Dogatoper evitare le spese che avrebbero dovuto sborsare e corrispondere.

Ebbene c’era Nicolò Balbi figlio di Girolamo, membro del Maggior Consiglio, e recente Podestà e Capitano di Mestre, che possedeva un terreno vacuo e infruttuoso proprio in Contrada di San Pantalon, affacciato sul Canal Grande. Lì intendeva costruirci prima o poi un bel palazzo di famiglia, ma ancora nel 1582 continuava ad abitare in una casa in affitto poco distante. Il padrone un po’ borioso di quella casa lo tampinava di continuo anche bruscamente per strada, perché il Balbo non gli pagava puntualmente l’affitto dovuto. Gli faceva fare delle continue brutte pubbliche figure, per cui il Balbi si offese ... Sanato il debito, e iniziando a costruire finalmente il suo nuovo palazzo, rinunciò alla casa in affitto, prese una nave, vi trasferì dentro tutta la sua famiglia, e andò ad ormeggiarla proprio davanti alla casa del suo ex padrone oscurandola del tutto per mesi.

Ridevano tutti a Venezia per questa vendicativa quanto insolita trovata … Ridevano soprattutto e spettegolavano in Contrada di San Pantalon sede di quei fatti.

Otto anni dopo il nuovo palazzo dei Balbifu ultimato iniziando a far bella mostra di se sul Canal Grande con i suoi obelischi sormontanti la facciata: prerogativa dei Capitani da Mar e degli Ammiragli della Serenissima… I Veneziani ancora una volta se la ridevano, e la pensavano diversamente circa quei gran pinnacoli sul tetto. Secondo loro erano segno: si di grandezza, ma delle corna che le mogli dei Balbi mettevano loro mentre erano in navigazione altrove lontano per mesi da Venezia … “Prese per il culo” tipicamente Veneziane ... oggi come allora.

Sempre e ancora nella stessa Contrada di San Pantalon, “secondo volgar tradizion”, sorgeva la Calle, Ponte e Fondamenta della Donna Onesta … Secondo voi come spiegavano quel toponimo quelli di San Pantalon ?

Raccontavano che un giorno due uomini passarono per quel Ponte altercando fra loro circa l’onestà delle donne in generale, e che uno dei due incredulo al riguardo abbia detto al compagno: “Sai qual’è l’unica Donna Onesta ? … Quella che vedi là !”… e che così dicendo abbia indicato una piccola testa di donna in pietra, che ancora oggi si può notare incassata in muro accanto a quel Ponte: “Non esistono le donne oneste !” concluse il Veneziano un po’ barocco e bigotto.

Dicevano altri, invece, che proprio ai piedi di quello stesso ponte abitava una bella popolana moglie d'un Mastro Spadaio. Adocchiata ed appetita da un Nobile, costui ordinò a suo marito una piccola spadino: “una misericordia”, e con la scusa di vedere se l’arma era pronta, entrò in quella casa, e trovata sola la donna: la violentò ... La donna allora “perso il suo onore”, afferrò lo stesso spadino e si uccise ... Storia-leggenda tristissima, che si raccontava sottovoce con un filo d’emozione e di stizza verso i Nobili totipotenti …  Si preferiva raccontare piuttosto, che quello stesso ponte si chiamava della “Donna Onesta” perché lì in cima a una scala e oltre una porta trasformata poi in balcone, abitava una prostituta, detta “onesta” soprattutto per la discrezione con cui praticava il mestiere, e per i prezzi “onesti” che richiedeva ... Quante storie !

Infine c’era chi raccontava molto più semplicemente che lì stava in affitto una donna per bene che si chiamava di nome proprio Onesta… e che non c’era nient’altro da aggiungere.

Beh: mi fermo qua per non annoiarvi con tutte queste storie della Contrada …

Intendevo dirvi insomma, che dentro e oltre a tutto questo bel quadretto, che spero riuscirete a ricostruire e immaginare almeno un poco nella vostra mente, in quegli stessi anni si muovevano in Contrada anche alcune donne popolane qualsiasi. A volte si trattava di donne Veneziane disincantate e avezze un po’ a tutto. Donne opportuniste, industriose e un po’ particolari, che vivendo talvolta nel quotidiano bisogno “senza arte né parte”, arrivavano perfino a “concedersi, vendersi e piazzarsi” per provare a racimolare di che campare sbarcando il lunario ... Qualcuna si attivava e vi riusciva con successo ... Altre ci riuscivano un po’ meno, per cui provavano ad avventurarsi per altre vie diciamo un po’inconsuete.

Una di quelle donne, chiamiamole sfortunate ma furbe, fu di certo Margherita De Rossi, una quarantenne da Bassano, che veniva chiamata “la Sguèrza” per via ché “le calàva la palpebra” sull’occhio sinistro. Fu lei ad inoltrare una denuncia all’Officio della Santa Inquisizione di Venezia finendo con l’inguaiare di brutto Diana Passarina: “par strigarie ed herbarie”.

La Passarina passò di certo un bruttissimo momento per colpa della “sguèrsa”… anche se non si seppe poi mai bene come andò a finire tutta quella faccenda.

Margherita “la Sguèrza” in realtà, nonostante la menomazione, era piena di figli più o meno piccoli da mantenere, e Antonio Verghesìn(Cardatore)“da la gamba de legno” suo marito … o quel che era … era stato quello che l’aveva abbandonata con i figli al suo destino. Margherita abitava poveramente in Calle del Fabbro in Contrada di San Tomà vicino al famosissimo, potente e chiacchieratissimo Convento della Cà Granda prospiciente il chiesone di Santa Maria Graziosa dei Frari ... nel Sestiere di San Polo ovviamente.

Sembrano quasi i dettagli di una fiaba vero ? Elementi da romanzetto di streghe, invece sono notizie storiche vere, dettagli spiccioli di una storia minuta Veneziana autentica … di una Città Lagunare curiosa che c’è stata e oggi non c’è più.

Torniamo ai fatti … Ancora nell’estate 1586, Margheritaprovava “a sbarcar lunario e procurarsi pagnotta”, se fosse il caso anche a scapito di qualcun altro/a ... Diciamo che Margherita aveva fatto un po’ un mestiere della sua condizione, per cui non era nuova a intrighi del genere: ne aveva fatto un modo per ricavarci qualcosa.

Cinque-sei anni prima, infatti, era stata denunciata a sua volta dai suoi vicini di casa allo stesso Santo Offizio dell’Inquisizioneperché era stata vista girare nuda di notte facendo “strigarie”insieme alla coinquilina Barbara Polverara da Gradisca. Catturata e trascinata poi a processo per due mesi, venne rilasciata perché certificata “idropica e febbricitante di Febbre Quartana” dal Medico Gasparo Rancoche la conosceva bene ... La Serenissima, malata o no, la mise lo stesso alla berlina, e la condannò al bando “fuori da Venezia e da tutto il suo Dominio” inducendola anche a pagare una multa di 50 ducati.

Dal suo esilio fuori della Laguna, Margherita, che non sapeva né leggere né scrivere, si fece aiutare, e spedì di continuo tutta una serie di lettere e suppliche al Senato della Serenissimasenza ottenere risposta.  Intendeva liberarsi dall’impiccio del bando per poter rientrare a vivere in Laguna ...  Prova e riprova, finalmente le riuscì di far breccia sul Senato facendo rivelazioni interessanti su un certo Maffio… e visto che funzionava, ci provò ancora una volta con successo stavolta ottenendo un salvacondotto di 15 giorni per poter rientrare a Venezia e recarsi a denunziare quanto sapeva al Santo Uffizio circa una “malefica Passarina della Contrada di San Pantalon”.

Margherita “la Sguèrza” comparve allora a fine giugno 1586 davanti agli Illustrissimi Signori: l’Inquisitore PadreMaestro Angelo Mirabino, il Reverendo Auditore Gerolamo Bonarello, e Desiderio Guidonio Vicario Patriarcale “implorando aiuto per le sue povere figliole in cambio della Verità sulla Passarina” ... Ecco svelato quindi il motivo delle delazioni continue di quella donna: il soccorso per le proprie figlie bisognose.

Andando a sbirciare gli atti del processo, la Sguèrzadenunciò all’Inquisizione che nell’appena trascorso inverno era stataOrsa moglie dello Speziere “all’insegna dei Tre Stendardi”, abitante nella Canonica del Prete di Sant’Agnese, a raccontarle della Diana Passarina“che stàva in Calle prossima alla Crosera de San Pantalon ai Frari”.

“A conti fatti” disse: “ne ho dedotto che la Passarina è la maggior Striga presente in Venezia”.

Aggiunse ancora: “Diana Passarina xè una spiritàda, guarisce da mali e malefizi, e predice il futuro co l’aiuto de uno Spirito Magico e Malvagio: il Diavoletto Arcàn, che tiene costretto dentro a un anello, tenuto a sua volta dentro a un gòtto (vaso) incantato fatto de cristallo de montagna … Lo colloca poi in un particolare nicchio (incavo) del muro in una stanza a pianterreno, un tabernacolo dipinto tutto a Pianeti e Stelle davanti al quale tiene notte e giorno acceso un cesendello (candela).

Raccontò poi di come la stessa Passarina andava in giro per la casa quattro volte l’anno nelle ricorrenze di San Zuàne (Giovanni)Battista, della Pifania (Epifania), della Sènsae del Corpus Domini manipolando per tutta la notte: “herbe, terra e altri oggetti facendo strigarie”. Orsa le aveva raccontato di aver partecipato anche lei nuda a quei strani riti insieme alla Passarina, in quanto era sua amica, ma di averlo fatto controvoglia:“Una volta la Passarina ha predetto il ritorno di un suo fratello andando a parlare stranamente col Diavolo imprigionato nel cristallo” ... Subito dopo avevano sentito bussare alla porta di casa, e impaurita, Orsa era andata con la Passarina ad aprire trovandosi di fronte un giovane sconosciuto “vestìo a la foresta”, che portava una lettera proprio di quel fratello disperso … Subito dopo quel giovano era scomparso senza dire niente, e “Poco tempo dopo ritornò e ricomparve proprio quel fratello ... Era di sicuro un Diavolo quel giovane misterioso comparso sulla porta”.

Un fiume in piena il racconto di Margherita Sguèrza.

Aggiunse ancora contro la Passarina, che aveva sentito dire da Giacoma moglie di Messer Angelo Marsèr alla Crosera de San Pantalon: “… che la Diana sapeva fare grandi cose con quel suo Diavolo imprigionato, ma che per farle voleva ogni volta 25 scudi ... e che c’era un Botter e un Nobilhomo di Cà Zane lì nei pressi che erano intenzionati a punire la Passarina per le cose che faceva.”

Raccontò che Donna Angela Massèra del Piovan della Contrada de San Boldo poco distante, s’era recata dalla Passarina a nome di una Nobildonna distinta Veneziana che le chiedeva di fare in modo di potersi maritare: “ … la Passarina è famosa per le sue capacità di far maridòzi e tante altre cose inaudite … Una sua vicina di casa, ad esempio, una certa Donna Pasqua mi ha raccontato che la Passarina è riuscita a desligàre un giovane impotente ... e che c’era anche una Maestra che passava per casa della Passarina per farsi dare certe efficacissime ricette pagandole uno scudo a parola.”

Si diceva in giro anche, che una bella giovane Dama Lucrezia di Cà Bon di Cannaregio aveva dato alla Passarina 100 ducati tramite un Prete di San Geremia. Con quei solti intendeva farsi sposare da un aitante Nobilhomo che le piaceva ... La Passarina allora aveva detto al Prete che doveva combinare un’ostia speciale con su scritto “Adamo & Eva”, che doveva impregnare col sangue dei due possibili sposi.

E non era ancora tutto … A detta di vicini, conoscenti, e dei soliti ben informati della Contrada, la Passarina conviveva anche con un Frate Francescano Minore dei Frari: Fra Paolo da Ferrara che fungeva da Cappellano nella giesòla della Schola degli Orbi (ciechi) in Contrada di San Samuèl. Si spettegolava  che lo stesso Frate: “la teneva a loco e fuoco” (la manteneva), mangiando e bevendo a casa sua, e portandole ospiti anche altri Frati … Frate Paolo andava anche a letto con la Passarina, ma senza riuscire mai ad averla del tutto, perchè … si diceva ancora, “che era per via della gelosia del Diavolo che glielo impediva”... Si raccontava perfino che la Passarina per merito di quel Diavolo era ancora vergine, e che in realtà non aveva bisogno d’essere mantenuta dal Frate, perché guadagnava bene con i suoi loschi traffici … possedeva diverse migliaia di ducati.

Mamma mia ! … Che razza di denuncia contro la Passarina !

Come timido testimone a discolpa della Passarina, si presentò a processo il Bottaio Mastro Silvestro figlio del defunto Pasqualino da Chioggia che abitava proprio in Crosèra di San Pantalon. Costui, dopo aver prestato giuramento, affermò di abitare nei pressi di Diana Passarina che conosceva da almeno sette anni. Secondo lui non era una cattiva persona, e non era vero che gettava fave e “faceva herbarie e strighèssi, e che aveva spiriti costretti in casa, anche se c’erano donne come la sua vicina Chatarina che ha il marito Alessio in Siria, che gli aveva raccontato proprio il contrario dicendogli che tanti frequentavano la casa della Passarina, per i quali lei gettava la fave.”

Vero o non vero insomma ?

Fu mandata a chiamare allora anche Donna Chatarina figlia di Ser Crsistoforo Tintore, e moglie del Merciaio Alessio abitanti in Contrada di San Pantalon. Comparsa costei davanti al Tribunale, confermò di conoscere Diana Passarina per aver abitato diversi anni nella sua stessa casa ... Disse che non aveva sentito dire che la Passarina buttava fave, ma che aveva sentito, invece, della storia dello “Spirito Costretto” che ospitava a casa sua ... L’aveva saputo da una donna che le aveva raccontato di sua figlia che stava in peccato con un certo Arrico, e che aveva confessato alla Passarina  che le sarebbe piaciuto che costui la prendesse per moglie.

Ricordava anche che in un’altra occasione Diana Passarinaaveva imposto le mani e detto strane parole su una donna che si era presentata da lei perché inseguita dalle ombre dei Morti che le procuravano diversi mali ... In quella stessa occasione Diana aveva aggiunto “che gli Spiriti non si attivavano se non ci si presentava con i soldi pronti in mano … e che essi intervenivano ogni volta che voleva e piaceva a lei ...L’aveva poi incontrata di nuovo, e le aveva detto che non era guarita dalle ombre con la Passarina, ma che lo era, invece, guarita in seguito facendo voto a San Marco …”

Venne convocato e comparve anche lui in Giudizio davanti al Tribunale Inquisitorio: Angelo figlio del defunto Simeone da Scutari, Merciaio in Contrada di San Pantalon.  Questo nuovo testimone affermò di conoscere la Passarinada almeno 12-14 anni, e di aver sentito dire insieme a sua moglie, che persone andavano a casa sua “per Spiriti che dise pure la Verità”… ma che non ne sapeva di più. Disse poi … “che: si … era vero, che la casa di Passarina era frequentata di continuo da quel Frate grasso dei Frari Cappellano degli Orbi di Venezia, che lui aveva visto entrare ed uscire da quella casa a tutte le ore del giorno e della notte ... dormiva la dentro.”

Tutti i testimoni furono costretti dall’Inquisizione a mantenere il completo silenzio su tutta la faccenda.

Anche Donna Ursula figlia del Defunto Lorenzo Caristiario(Cristalliere) a Murano, vedova di Giovanni Antonio Aromatario all’insegna dei Tre Vessilli, abitante in casa del Piovano della Contrada di Sant’Angelo, dichiarò interrogata di conoscere Madonna Passarina fin dai tempi del Contagio … Confermò d’aver sentito raccontare da lei che aveva a casa sua uno Spirito Archàn, “che andava e veniva a piacimento arrivando anche fino a Roma ... e che lei voleva bene a quello spirito, e che lui voleva bene a lei …e che lei stava male quando lo Spirito si allontanava … e che nei quattro giorni speciali dell’anno andava attorno con le Fate cogliendo Terra et Herbe ... però non aveva visto tabernacoli in casa, né lampade accese davanti come aveva sentito raccontare da altre donne.”

Aggiunse che una volta la Passarina l’aveva invitata a casa sua per fare il pane, e che mentre erano là insieme aveva sentito bussare forte alla porta, e che andando ad aprire non trovò nessuno, neanche giovani forestieri con lettera … La Passarina in quell’occasione le disse, invece, che doveva essere lo Spirito Archan che stava rientrando, tornando a casa ... Le raccontò ancora: “che una volta quello Spirito Archan aveva guarito un uomo incapace di camminare perché avvolto in un gabàn (cappotto)dov’era rintanato uno spirito malvagio che lo bloccava ... Archàn l’aveva cacciato, e quell’uomo se n’era andato via camminando sano e salvo.”

Infine comparve davanti all’Inquisitore anche Apolloniafiglia del defunto Cristoforo Vasaio vedova di Jacobo Pettinatore de lana in Contrada di San Stin (Stefanin) Confessore presso i Nobili Navagero. Disse di conoscere la Passarina solo di nome, negando d’essere stata a casa sua in qualche occasione, ma d’aver sentito raccontare da sua comare Cornelia morta durante il contagio: “che era ispiritada, che la è terribile, e la fadi mali … e che a casa sua aveva visto venir su gli Spiriti.”

Sorella Cecilia Pizzocchera del Terz’Ordine Francescano dei Frati Minori si aggiunse per ultimissima dicendo che aveva sentito dire che la Passarina faceva cose finte fingendo d’essere ispiritada … “e che l’aveva conosciuta direttamente quando le aveva fatto un dispiacere (dispetto)in Santa Maria in Broglio presso Piazza San Marco: Ho inteso che fasèva mille stregarie et herbarie, et correre questo et quello. Questo me lo disse Hjeronimus De Franceschi Secretarius che gli aveva affittato un mezàdo in casa sua, e che l’aveva poi licenziata perché lei buttava fave, et faceva molte poltronarie in un mezzado. Et questo è quanto io so.”

Ecco qua: vi ho detto tutto.

Che fine fecero in seguito la Sguèrsa e la Passarina?

E chi lo sa ?

Di sicuro “persona oscura” la Sguerza, che nel febbraio seguente, liberata dal bando forse per i merito delle rivelazioni sulla Passarina, venne però a sua volta denunciata all’Inquisizione da GiovanBattista e Marietta Grimaldi … Comparirà ancora una volta in seguito, nel 1592, sulla scena dei Tribunali Inquisitori Veneziani presentando l’ennesima denuncia contro una certa Chiara a favore di un bandito da Venezia che secondo lei era innocente … Non se ne fece niente ... e tutto si perse in un “niente a procedere” che sfumò per sempre nei meandri incerti della Storia.

E la Passarina ?

Ci fu un giorno in Piazza San Marco una donna Veneziana che andò a urlare contro gli uomini dell’Inquisizione Veneziana: “Voi della Santa Inquisizione intendete drizzare il becco alle Civette … Non ce la farete mai !”

Venne arrestata … e spiegò che con quel gesto intendeva indicare e denunciare l’assurdo accanimento che veniva messo in atto anche a Venezia soprattutto contro le donne … Non servi a nulla … Quello storico fanatismo ottuso e macabro continuò indisturbato per secoli come ben sapete … Anzi: lo possiamo riconoscere ancora oggi in giro per il Mondo, seppure in vesti, colori, sembianze e sotto ideologie diverse. Gira e volta in fondo, le storie sulle presunte Strìghe sono sempre le stesse.

Certe superstizioni forse sono radicate nel cuore e nella mente degli uomini e delle donne di tutti i tempi, così come la voglia di combatterle ed estirparle a qualunque costo ... fino a regalare gratuita morte ai protagonisti di certe storie.

Della Passarina non si seppe più niente … Mi pare che però basti quanto ci siamo raccontato.


“Nell'anno del Sospetto (1580) ... Emilia fece petolòn”

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#unacuriositàvenezianapervolta 270

“Nell'anno del Sospetto (1580) ... Emilia fece petolòn” 

Gli sbirri alla porta non erano di certo una novità per Emilia, che da anni immemori ormai viveva risaputa da tutti come CortigianaVeneziana ... Non era una grandissima Patrona, una di quelle Cortigiane speciali: un’escort extra lusso per intenderci, però se la cavava piuttosto bene in quanto s’intratteneva con alcuni Nobilidi alto rango … Solo che stavolta alla sua porta si presentarono i birri del Santo Offizio dell’Inquisizione, che erano una cosa diversa. Se la Serenissima non scherzava quando “fiutava e le veniva in mente di puntare qualcosa o qualcuno”, ebbene l’Inquisizione era ben più temibile per via della sua proverbiale imprevedibilità, e per l’accanimento con cui braccava le sue prede.

Emilia tremò tutta per quella comparizione sulla porta, che forse inconsciamente un po’ s’aspettava … ma non ebbe il tempo di fare altro e di più, perchè già venne catturata, portata via e messa in prigione.

Si era pressappoco qualche anno dopo a quello che veniva chiamato “l’anno del sospetto”: il 1580, in cui a Venezia si era stati praticamente certi che stava per realizzarsi un’altra terribile ondata del solito contagio con la sua devastante moria … Un Covid di allora per intenderci, un’altra Epidemia di Peste che mieteva la gente a migliaia.

La donna in questione era Emilia Cathena o Caènafiglia di Francesco Cathena da Venezia ... e gli atti processuali parlano chiaro: la data era primavera-estate 1586 … L’Emilia in questione era una Veneziana d.o.c., e non la solita forestiera straniera in cerca d’espedienti per vivere o sopravvivere … Anche per questo la vicenda fece un certo scalpore a Venezia … In un certo senso l’Inquisizione si occupò di una “donna nostràna” che abitava da almeno undici anni in Contrada dei Santi Apostoli nel Sestier di Cannaregio in una casa d’affitto di proprietà del Nobile Francesco Maria Navagero del tutto estraneo ai fatti.

A voler precisare e raccontare per bene tutta la verità Storica su quel fattaccio tutto Veneziano, si era negli anni agitati di un’epoca un po’ strampalata in cui ovunque in giro per Italia e Europaimperversavano i giudizi terribili dell’Inquisizione, e il Civico braccio secolare esecutivo dello Stato accoppava e bruciava grandemente andando perfettamente a braccetto e d’accordo con le sentenze della Religione. Pure Venezia non potè, né seppe sottrarsi del tutto da quel gioco politico infernale, per cui, seppure a malavoglia e controcorrente, e cercando di salvare il salvabile della propria libertà in giudizio su certe tematiche, la Serenissima si prestò lei pure ad eseguire Indagini, Processi e condanne ... salvando quasi sempre le vite però, e quindi anche un po’ l’immagine e la faccia da Serenissima Repubblica.

Tornando ai fatti … C’erano almeno un paio di cose sospette e insolite, che in quei giorni giravano di bocca in bocca per la Contrade Veneziane, e che giunsero di sicuro fino agli orecchi attentissimi dell’Inquisizione… Si diceva di una vecchia malandata della Contrada di San Tomà oltre Canàl, una certa Anastasia, “una Striga megèra”, che era stata trovata morta in casa vicino al Traghetto di San Tomà ... Si spettegolava inoltre grandemente anche di un aborto … Si: proprio un aborto clandestino di donna … che, invece di dargli onesta sepoltura da qualche parte, continuava a passare di mano in mano, anzi: era stato perfino venduto per essere usato per riti loschi e oscuri ... per essere abbruciato, cucinato in un rito Satanico ... Proprio così.

Il troppo stroppia si sa … Quindi l’Inquisizionesi mise subito in moto volendo andare a fondo di tutta quella faccenda. E come sempre lo fece non tanto per amore della Verità, ma soprattutto perché si mettesse fine a Venezia a tutta quella serie di abusi, fandonie, e ciarlatanerie, che continuavano impunemente a susseguirsi e sovrapporsi non solo nel fortunato Arcipelago Veneziano, ma soprattutto negli Animi di alcuni Veneziani “insinuandosi come malignissimo tarlo”.

Durante l’arresto di Emilia poi, era accaduta anche un’altra cosa strana. Nella concitazione delle guardie in casa, la massèra (la domestica) di Emilia: Borthola, evidentemente in ansia e agitazione, aveva preso in fretta e furia qualcosa gettandolo dalla finestra giù dentro al canale … C’era quindi qualcosa che quelle donne volevano assolutamente nascondere ... Qualcosa che l’Inquisizione intendeva ad ogni costo svelare e scoprire che cos’era.

Infatti le indagini, le testimonianze e l’allestimento del processo portarono alla luce dei fatti che non si dovevano assolutamente trascurare.

Mentre Emilia languiva nelle scomode prigioni di San Zuane Nòvo gestite dal solito Hyronimus Vitriario Ministro Esecutor del Santo Officio e da sua moglie, vennero convocate a San Giovanni dei Furlani (?) diverse persone a conoscenza dei fatti per essere interrogate dal Santo Tribunale dell’Inquisizione.

Prima fra tutte si chiamò, Bortola, cioè Bartholomea Bianchi da Venezia residente in una casa di Francesco di Marco Stella in Contrada San Polo. Si trattava della massèra che c’era in casa di Emilia, che comparve quindi davanti al Frate Notaio Benedetto di Zalia che mise per iscritto tutto l’interrogatorio.

Interrogata se conosceva Emilia, rispose che era stata ospite a casa sua per due, tre giorni … forse, sette, quindici, oppure un mese portandosi dietro tutte le sue robe ... Confermò d’aver presenziato all’arresto della sua padrona, ma aggiunse anche di non averla mai vista fare in precedenza cose strane … Si … veramente, per un paio di volte aveva visto casualmente Emilia buttar fave, e le aveva anche detto: “Perché fai questi sporchezzi ? … Buttale via, che è peccato.”

Ed Emilia le aveva risposto che avrebbe seguito il suo consiglio ... Infatti non l’aveva più vista buttarle se non per gioco, né l’aveva mai sentita dire cose strane, “né vista far martelli, né pignatelle, né herbarie o altre strambèssi”.

Bortola provò anche a negare, ma poi ammise che inspiegabilmente l’Emiliale aveva fatto gettare nel canale dalla finestra una serie di bicchieri in vetro di Murano che teneva in un cestino … Non sapeva perché le aveva dato quell’ordine … Di certo quei bicchieri non contenevano stranezze, né erano oggetti rubati da qualche parte ... Aggiunse ancora che nello stato d’animo in cui si trovava in quel momento, se l’Emilia le avesse chiesto di buttare in canale l’intera casa: l’avrebbe fatto, in quanto in quel frangente era proprio fuori di se.

Infine interrogata se conosceva la vecchia Donna Anastasiadi San Tomà, rispose di no, ma che conosceva piuttosto una Donna Tadia Coppa: “Santa Anema” che aveva visto diverse volte frequentare la casa di Emilia.

Terminato l’interrogatorio, Bartholomea venne rimandata via intimandole l’assoluto silenzio e riserbo su tutta la questione.

Comparve poi come testimone: Maddalena moglie di Joannes Manganèr che abitava in Calle del Forno in Contrada dei Santi Apostoli, probabilmente nello stesso palazzo dove abitava Emilia, di cui era stata per sei anni donna di faccende di casa, cioè: domestica, Massèra.

Maddalena squacquarò tutto all’Inquisizione senza riserve, e senza lesinare su particolari, fatti, persone e luoghi. Accusò apertamente Emilia di aver ospitato per diversi giorni a casa sua la vecchia megèra Anastasia: “l’Herbera  della Contrada San Tomàche le insegnò a buttar fave, far Herbezzi e Strigarie, e con la quale ha fatto anche martello contro il suo spasimante: il Nobile Salvador Michiel, che s’era allontanato da lei … Hanno invocato il Diavolo Grando, e fatto un rito sotto al camino della cucina.”

La donna raccontò ancora di come Emiliaaveva comprato delle candele andando per una strada e tornando per un'altra: “al modo del Diavolo”, e s’era procurata da se certi oggetti che lei aveva rifiutato di recarsi a prendere: “della terra di morto e ossi”che andò a prelevare nel Cimitero dell’Abbazia dei Servi di Cannaregiopoco distante, dell’Olio Santo che andò a prendere dentro alla chiesa dei Santi Apostoli, un pezzo di corda di campanella che usò come stoppino di candela, e un uccelletto che l’Anastasia pelò e buttò vivo nell’olio bollente di una “pignatèlla” facendo una sorta di spergiuro con lo scopo d’accalappiare di nuovo l’uomo di Emilia.

Emilia aveva messo poi una Madonnarovescia in cucina, e quattro candele accese rovesce agli angoli della stanza … e alla fine il Nobile Michiel si era davvero ripresentato in casa in compagnia di un altro Gentiluomo, ed erano rimasti con Emilia fino a tarda sera ... C’erano sempre uomini che andavano e venivano a casa di Emilia ... e anche il Nobile Grifalconi veniva spesso a mangiare, bere e stare molte volte con Emilia, che gli buttava spesso le fave perché lo voleva per marito ... A tal proposito, Emilia andò anche ad accendere candele in chiesa di San Basilio: candele però che sempre si spegnevano … Alla fine il Nobile Grifalconi s’innamorò e sposò un’altra donna … e fu allora che Emilia“si mise a fare petolòn con tutti quei sortilegi, pignatelli e martelli” ... e adesso il Nobile Grifalconè già morto.

In un'altra occasione ancora, Maddalenaaveva visto con i suoi occhi Emilia ripetere la stessa cosa ... Aveva “fatto martello” col Nobile Grifalconi, prendendo un Tarocco del Diavolo che aveva rubato apposta in giro, e vi aveva acceso davanti un cesendello (lumino)… Per di più Emilia si era messa a recitare deiPater Nostri e Ave Marie “per i Picài (Impiccati)e i Squartài danài (dannati), ed era andata avanti fino a mezzanotte invocando il Diavolo “perché desse tormento al suo uomo assente” ... Emilia stavolta aveva appreso quelle cose da Isabella Bell’Occhio che abitava poco distante in Contrada di Santa Caterina ... ma era di sicuro la vecchia Anastasia la vera Maestra di Emilia.

Maddalena aggiunse che anche Stella, che ora era vecchia e vedova, era stata Massèra dall’Emilia, e che pure lei era di sicuro a conoscenza di tutte quelle cose, perché Emilia le pretendeva da chiunque stava in casa a suo servizio.

Ovviamente l’Inquisizione convocò allora Stella, che comparve davanti l’Inquisitore dicendo d’essere una Trevisana figlia di Vincenzo Dalla Motta (di Livenza ?), d’essere donna molto devota e “di chiesa”… che si confessava spesso dal Piovano di San Moisè facendo la Comunione … Confermò comunque d’essere stata per quattro-cinque anni a servizio dell’Emilia stando soprattutto in cucina, e che una volta di mattina presto Emilia era andata a prendersi una altra cordella di campanella e dell’Olio Sacro nella chiesa delle Monache dei Miracolivisina San Canciàn e ai Biri, e che poco dopo giunse la solita vecchia Anastasia“esperta in Herbarie e Strigarie”, che di solito stava a casa d’Emilia per diversi giorni: “S’è fatta poi comprar del Lume de Rocho (Allume), un oselèto vivo (uccello), del sal, e un pignatello … Poi gha tolto tutte le figure de i Santi in giro par la casa, e l’ha messo al suo posto un Tarocco del Diavolo … e mentre bogìva (bolliva) la pignatelle comparvero Messer Michiel e Missier Francesco da Cà da Mosto, che tornarono altre volte ... Per loro mi mandò a prendere fassine da mettere sul fuoco, e pan da magnar … e alla fine Emilia e Anastasia gha buttà tutto in canale ... e io aveva molta paura.”

In quelle occasioni Elena e Anastasia le ordinavano di tener fuori chiunque dalla stanza, buttarono fuori pure lei ordinandole di rimanere lontana“dal pignatello”: “Se sentiva scoppiettar par tutta la calle el sale col lume d rocho buttai sul fàgo invocando el Dimònio … Inoltre Emilia buttava fave de continuo, e scongiurava e chiamava el Diavolo Grando diverse volte seràda in camara con l’Anastasia.” ... In quel tempo poi abitava con Emilia una bambina di dieci anni, che in quell’occasione si spaventò moltissimo tanto non da non riaversi più … ed era morta ormai che era un po’ di tempo.

Un’altra volta ancora, Emiliaaveva fatto la stessa cosa andando a prendere ossa da morto nel Cimitero di San Francesco della Vigna… Le aveva poi nascoste in camera sua:“Non seppi mai per farne che cosa ... Ultimamente l’ho rivista … S’è fatta viva con me per indurmi a dire che un anello che gli ha prestato un uomo, e che lo rivole indietro: era suo ... Non è vero.” ... L’Emilia era impegnata in una lunga e costosissima causa contro un Diamanter forse truffaldino, oppure ingannato dalla stessa Cortigiana ... Boh ? … Non si sa.

Donna Stella alla fine firmò il verbale dell’interrogatorio con una crocetta perché analfabeta.

Infine, alla fine della fine, dopo l’ascolto di altri testi, comparve davanti al Tribunale Inquisitorio la stessa Emilia accusata: “de far strigarie et herbarie, buttar fave, pronunciar spergiuri, e culto Demoniaco.”

Premise innanzitutto d’essere pure lei grandemente sconvolta per la recente morte di suo figlio: “Io ve dico, Sjor, che doppo che è morto mio fiòlo io non son più in cervello, me ha dato volta al cervello.”

Comprensibile per una donna, una madre soprattutto.

Visto che poi non aveva più niente da perdere, si lasciò andare a dire diverse cose.

Circa i bicchieri buttati in canale da Bortholaal momento dell’arresto, chiarì che la sua serva, ospite in casa sua da circa un mese, era l’amica-amante di un Verièr Muranese che andava spesso a trovarla, e l’aveva omaggiata di quei bicchieri raffinati … Bortholanella confusione intendeva far scomparire le prove del passaggio di quell’uomo suo amante in casa sua.

Emilia si dilungò poi a spiegare che per casa lungo gli anni s’erano alternate a lavorare diverse massère(domestiche). Fra le ultime c’era stata di sicuro Stella: donna ben messa di corpo, terribile, e bravissima a spettegolare, a raccontare balle, e a impicciarsi degli affari degli altri ... Se n’era andata ormai da almeno cinque anni perché era diventata vecchia e orba ... C’era stata poi: Viella, una putta donzella, che lei aveva aiutato a trovar marito e a sposarsi, e che era morta durante l’ultimo Contagio ... C’era stata anche Donna Mènegain precedenza, morta pure lei di Peste … E Lucia, e Bèttache era andata poi a servizio del Vescovo di Padova… Aveva avuto per casa anche Orsola prima ancora, e una certa Anna, che chiamava Nena, che veniva da Ancona, e una Berta dal Trentino che era scappata via … Insomma: aveva sempre avuto massère ... Se lo poteva permettere … e che si: era vero, aveva ospitato anche Maddalenacol suo amante Zuane. Aveva dovuto poi cacciarla perché aveva detto villanie in pubblico alla moglie legittima del Zuane.

Cercando di sicuro di evitare il peggio, e mostrandosi in confidenza, Emilia raccontò all’Inquisizione anche dei suoi amori … Erano stati almeno tre … Tre Nobilhomeni diversi, che le andarono a lungo per casa ... Con una certa sfrontatezza di certo, non ebbe remore nel tirar fuori anche i nomi. Si trattava di Giovanni Grifalconi, di Messer Salvador Michiel, e di Messer Alessandro Contarini che probabilmente era il chiacchieratissimo Rettore della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo vicino a San Marco, già amante spettegolatissimo della Nobile Andriana Savorgnan… Emilia dichiarò di averli amati tutti e tre “alla grande”… C’erano insomma di mezzo ben tre Nobili, con tutte le conseguenze d’importanza e blasone che quella questione avrebbe comportato … A Venezia non ci si metteva facilmente contro i Nobili: erano quasi degli intoccabili in tutto, eccetto che in particolarissime occasioni … Guai a toccarli, sarebbero state rogne sicure, e la Serenissima di certo aveva un occhio di riguardo per loro … anzi: chiudeva un occhio o tutti e due schierandosi sempre dalla loro parte.

Citare i Nobili da parte di Emilia forse era una sorta di velatissima minaccia nei riguardi dell’Inquisizione: che stesse attenta contro chi si stava mettendo.

Gli Inquisitori non si scomposero … La interrogarono allora chiedendole se per ottenere i favori di quegli uomini suoi innamorati, avesse messo in atto gesti segreti, e utilizzato immagini e tarocchi, animali, scongiuri e preghiere sconce usando candele al rovescio, sale, allume di rocca, e anche olio e acqua santa prelevati sacrilegamente da chiese usando lo spergiuro: “Così co tu non è degno d’haver questa luce, così va al cuor de tale e dalli tormento.”

Emilia, furba com’era, ovviamente negò tutto e qualsiasi addebito. Disse che non conosceva alcuna donna di nome Anastasia, e che lei non aveva mai gettato fave, ma che anzi: le aveva fatte buttare almeno una ventina di volte da una vecchia gobba a cui dava ogni volta una moneta da 20 o da 40 ... Qualche volta, quando faceva“Martello con i suoi Gentiluomini”andava a casa della vecchia in loro compagnia, e faceva pagare a loro la prestazione della gobba.

S’insistette allora col dirle che era certo che quell’Anastasiaera stata sua ospite diverse volte: quattro-cinque giorni per volta … Era forse la sua Maestra di Strigarie ed Herbarie ?

Emilia si schernì e negò rispondendo che semmai lei ospitava spesso una certa Taddia: “donna Santa, devota e da bene, che è mia confidente da sempre.”

Ammise candidamente, invece, d’aver fatto prelevare alcuni oggetti in chiesa in un momento in cui era “scorozàda”(in rotta) con Messer Alessandro… Niente d’importante però: un pezzetto di corda della campanella dell’altare ai Santi Apostoli… e altri oggetti …  e di aver messo: si … una candela accesa con olio e la cordella sulla finestra della cucina, e invocato un Tarocco col Diavolo chiedendogli che facesse tornare il suo uomo ... Non aveva però mai fatto spergiuri, né herbarie e strigarie sotto al camino, né misurato la catena nera dello stesso, né messo su pignatella e fatto bollire animali o uccelli morti … Era vero, che più volte aveva messo a disposizione casa sua per la sua amica Laura Benedettiche stava in Ruga Do Pozzi Quella era venuta due-tre volte con una vecchia (Anastasia ?) a far pignatella con non so che per “far martello” su un uomo che voleva per se ... In quell’occasione Emilia precisò che lei era uscita di casa … e aveva sentito poi che Laura aveva mandato la ragazzina Maddalena a prendere un osso da morto da qualche parte.

Infine Emilia, colta da ulteriore impeto di autodifesa, suggerì al Tribunale di diffidare delle dichiarazioni dei suoi vicini di casa … soprattutto delle parole di Pietro Cambra e di sua moglie Anzola, e di Zorzi Barcaròl con la moglie Paula che abitavano sotto di lei: erano da sempre suoi nemici dichiarati ... Di sicuro avrebbero detto di tutto contro di lei: ogni tipo di falsità per screditarla ... Non si doveva neanche tener conto delle dichiarazioni di Orsa, che era adesso la Massèra del Mercadante Cocchetto, e un tempo era stata sua, né di quelle di Maddalena, pure lei sua ex Massèra … Anche Mastro Paolo Samitèr venditor di tele e lini stracciati con sua moglie Raffaellache abitavano in calle di fronte a casa sua non erano attendibili: “Che non si tenga conto neanche delle eventuali dichiarazioni, se ci saranno, di Paolo dei Do Mori, che col suo parente sta a bottega … E’ un truffatore di diamanti con cui ho avuto a che fare ...”

Fu probabilmente proprio il Diamanter a denunciare Emilia, forse per levarsela di torno prima che potesse coinvolgerlo in altre faccende per lui scorbutiche e rognose.

Un fiume in piena Emilia vero ? … Credo che una Cortigiana Veneziana fosse una Cortigiana Veneziana … cioè una donna navigata di sicuro, che di certo non si perdeva dentro a certe complicazioni.

Sentita Emilia citar e far riferimento a quei nomi, secondo voi chi andò ad ascoltare l’Inquisizione ?

Proprio quelli che Emilia non avrebbe voluto … Si ascoltò allora la testimonianza del Veneziano Pietro Cambra figlio di Andrea Filadòr, vicino di casa della Cortigiana Emilia in Calle del Forno ai Santi Apostoli ... e poi di sua moglie.



Che dissero Cambra e moglie ?

Poca roba, ma parecchio efficace … In sintesi Cambra disse: “Io non conosco che qui a Venezia ci sia qualche donna che faccia Strigarie, né abbiamo sentito qualcosa circa un fantolino arrostito, che probabilmente è nato da una Villana da Treviso … Però conosciamo Emilia, che è stata anche comàre di Battesimo di nostro figlio … Con lei ora siamo inimicati per vecchie ruggini, ma ci sembra lo stesso che sia una buona donna … una Santa quasi ... o pressappoco.”

Mmm … Parole di circostanza per tirarsi fuori da qualsiasi complicazione col Santo Uffizio ... e con la stessa Emilia forse.

Si ascoltarono infine gli ultimi testi: ancora Maddalenaex Massèra di Emilia, e Alessio Samitario con la moglie Angelica, che era stata balia del figlio poi morto di Emilia, ed aveva abitato per mesi a casa sua ... Niente“strigarie, pignatelle, scongiuri e fantolini arrostiti” emersero dal loro interrogatorio … Anche per loro Emilia era quasi una Santa.

Solo Maddalena rivelò che aveva origliato da dietro una porta in casa di Emilia, e aveva sentito la vecchia Striga Anastasia insegnare ad Emilia che serviva prendere una statua di cera e arrostirla al fuoco, e poi prendere anche un feto: “un fantolino”, e arrostire pure quello per propiziarsi l’amore dell’uomo di cui era innamorata ... Comunque lei non sapeva com’era andata poi la faccenda, perché se n’era andata per i fatti suoi.

Come andò a finire tutta la storia ?

Come il solito direi … Non si tenne affatto conto che Emiliain prigione “si buttò malata severamente”, e magari forse anche lo era ... Non parlava più, era febbricitante, stava sempre immobile a letto.

Due tre personaggi dell’entourage dell’Inquisizione andarono più volte a farle visita e controllarla in cella dove s’intratteneva con una sua domestica che l’accudiva in tutto e per tutto. Ci furono in aprile: Prè Zuan Maria De Ursis Diacono titolato della chiesa di San Zuane Novo del Santo Offizio, e Prè Jacomo Fabretti Subdiacono titolato della stessa, e Prè Fabrizio Maltosello Piovano dei Santi Apostoli, e il Medico del Carcere: Almorò Hermolao che andarono a trovarla. Tutti e tre dichiararono e certificarono che non rispondeva, e che doveva stare proprio male: “era come stramortita, inferma in letto, né per modo alcuno può parlare … Mai è stato possibile che la mi habbi possuto rispondere, né ancho co atti et ceni esteriori … anco un vomito gagliardo, tutto di sangue … è in gravissimo pericolo de vita.”.

Era forse tutta una sceneggiata della donna per indurre l’Inquisizione ad aver clemenza con lei ?

L’Inquisizione rimase impassibile.

Non ebbe effetto neanche una clamorosa grossa fideiussione, una cauzione messa in piedi in aprile a favore della stessa Emiliasecondo alcune indicazioni suggerita forse dallo stesso Santo Uffizio dell’Inquisizione… Chissà ? … O magari sono stati i Nobili benestanti a voler provare a “ungere” in quel modo l’Inquisizione, cercando di trarre d’impiccio la donna tramite il versando di una bella somma ?

Si mise in piedi, infatti, la bella cifra di 500 ducati chiamando in causa Ser Pietro Rotta Merciaio e Linarolo al Ponte di San Lio, e Aliprando da Bergamo figlio di Pietro, pure lui Linarolo della Contrada dei Santi Apostoli di Cannaregio… Entrambi si dimostrarono prontissimi a sborsarli quei contanti a favore della Cortigiana Emilia carcerata a San Giovanni Novo ... Testimoni di quell’atto di donazione furono Jacobo Merciaio della Calla Lunga di Santa Maria Formosa figlio di Francesco da Bergamo, e stranamente: Hyronimo Vetrario l’immancabile Ministro Esecutor del Santo Ufficio, lo stesso personaggio che alla fine eseguì fattivamente la sentenza di condanna su Donna Emilia... Forse era appetibile quella bella cifra.

Comunque non se ne fece niente … I soldi non furono sufficienti a convincere e comprare “chi di dovere”.

Si giunse così alla sentenza finale, che non fu affatto favorevole ad Emilia. Come in altre occasioni simili a Venezia, immaginatevi ancora una volta l’Emporio Realtino piena di vita, commerci e gente che si assieparono stretti attorno alla “Pietra del Bando”nella Piazzetta di Rialto, cioè a San Giacometto appena giù dal Ponte del Quartarolo ossia di Rialto ... Immaginatevi anche per l’ennesima volta la scena con la solita donna considerata “Striga et Herbarola”, e per questo severamente fustigata pubblicamente da San Marco a Rialto dal solito Heronimo Magister Esecutor del Santo Offizio ... Emilia poi venne messa alla pubblica berlina col solito cappello a punta in testa, e col cartello dell’accusa della sentenza appeso sul petto ... Infine venne privata di ogni bene personale, indotta a pronunciare pubblica Abiura, e poi estromessa, bandita da Venezia, dalla Laguna, e da tutto il Dominio della Serenissima mandandolo a ricovero coatto: “bannita infra Mentium et Quarnerium” per quattro-cinque anni dall’altra parte dell’Adriatico.

Si mise anche la solita taglia sul collo di Emilia qualora fosse rientrata in anticipo in Laguna minacciandole carcere duro e chiuso a sue spese, e ulteriori 100 ducati di multa da pagare.

All’atto dell’Abiura-giuramento nelle mani del Padre Commissario, risultarono presenti come testimoni: Prè Alessandro Marcello Piovano di San Lio e Ludovico Gisetta figlio del quondam Michele Telariòl sotto al Campanile di San Marco… mentre Emilia Cathena, con tutta la sua spavalda scaltrezza e furbizia,sottoscrisse la formula con un segno di croce in quanto diceva d’essere del tutto analfabeta … Non era vero neanche questo … A detta delle sue Massère sapeva leggere e scrivere bene: aveva in casa perfino “l’Ariosto” e altri libri.

La storia racconta che il processo venne riaperto due anni dopo: a 30 mesi dall’esecuzione del bando, nel dicembre 1588, quando  Donna Emilia presentò una supplica di pietà, e le fu permesso di poter rientrare in Venezia … Segno che erano venute a galla altre cose interessanti che il Tribunale dell’Inquisizione aveva omesso di considerare o dimenticato in precedenza, ed ora intendeva finire di scoprire e processare.

La Storia continuò quindi … Come andò ? … Non so … e mi fermo qui.

 


 

Una storia dalla Marinaressa

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#unacuriositàvenezianapervolta 271

Una storia dalla Marinaressa

E‘ incredibile a volte come in ogni tempo le persone sappiano essere vendicative e perfide a discapito di ogni più eclatante verità. Eppure è così … Sembra proprio che l’Umanità in ogni epoca abbia sempre lasciato prevalere il peggio di se imbastendo storie inverosimili diventate cruda realtà.

E’ accaduto anche nel 1584 a Venezia … ancora una volta: miniera senza fine di Storia di storie. E’ capitato nella zona della Marinaressa affacciata sul Bacino di San Marco. DI quel posto oggi è rimasto praticamente niente: solo l’eco nella toponomastica ... Ha perso cioè quasi del tutto quella vitalità tipica che possedeva un tempo ... Non ci sono più gli Squeri affacciati sulla Laguna, né le barche spinte sugli scanni fino all’acqua, né l’odore dei cordami, della pece, del grasso, del legname, delle merci e della pesca … e non ci sono soprattutto quel tipo di persone che l’animavano un tempo.

La Marinaressa di Venezia, lo dice lo stesso nome, era un tempo Contrada di operosi Marinai solitari o con numerosa famiglia giusto stretti e affacciati sui Moli di San Marco, che a lungo è stato vero e proprio Porto di Venezia … La Marinarezza Veneziana poi indicava anche le persone che la abitavano, ed erano soprattutto Marinai e Artieri conosciuti e stimati in tutto il Mediterraneo e oltre. Nelle Calli, Campielli e luoghi della Marinaressa s’assiepavano ingegnosi Arsenalotti, Remèri, Squeraroli, Calafatti, e appunto Marinai giovani e aitanti o vecchi e consumati dalle fatiche e dagli anni, che andavano e tornavano sotto le insegne di San Marco e della Serenissima Repubblica con la quale erano corpo e anima.

La Marinaressa era contrada quindi di traffici, armamenti, arruolamento d’equipaggi … ma anche di contrabbandi, reduci e vecchi rimessi a terra che stavano in ospizi e osterie a finire i giorni … Ma luogo anche pieno di storie e vita spicciola vissuta: di donne, uomini e famiglie, che aspiravano alle cose concrete di sempre, di tutti, e di tutti i giorni.

Tante città di mare avevano la Marinarezza, ma Venezia ce l’aveva forse un po’ di più, perché era la Capitale, e perché fra calli e callette, campi e Contrade c’era un qualcosa di speciale e in più, una specie di amalgama particolare, una sorta di dedizione che rendevano unico quel particolarissimo contesto lagunare … Marinai Veneziani si nasceva, e si era fino alla morte, e ciò comportava una vocazione quasi totale, un fiero intento, che solo a Venezia c’era … e c’era in grandi e piccoli, uomini, donne e ., in modo che era un unicum inscindibile, una specie di vero e proprio amore, che quasi si respirava nell’aria.

Ancora oggi si può aggirarsi fra le case della Marinaressa contraddistinte da un paio di arconi del 1645-61… Sono più di una cinquantina suddivise in blocchi di caxette minori. Erano case spesso assegnate gratuitamente ai Marinai della Serenissima che si erano particolarmente distinti.

Beh … Lì sono accadute storie e anche storiacce in verità, molte delle quali sono andate perdute e dimenticate per sempre … Qualcuna è rimasta però. Quella di Giustina, ad esempio.

Giustina era una giovane donna Veneziana determinatissima e vivace che abitava la Contrada di Quintavalle di Castello: la Contrada del Vescovo e di San Pietro, in una caxetta che apparteneva alla Schola Granda della Misericordia di Cannaregio. Si era sposata con Nadalìn Barcaròl: uno straniero immigrato appunto a Venezia, da una Marinarezza all’altra, proveniente da Cattaro la così detta: “Albania Veneta” sull’attuale costa Adriatica del Montenegro.

Anche nel fiordo di Cattaro, come a Venezia, essendo città di mare c’era una Marinarezza: un quartiere di Marinai, quindi Nadalin non aveva avuto problemi ad inserirsi nella nostra Laguna, a Castello nei pressi dell’Arsenale, e lì aveva messo su famiglia … Giustina, infatti, era piena di figli.

E sapete com’è che accade spesso nelle città porto di mare, anche Nadalin per qualche motivo si trovò immischiato in qualcosa probabilmente di losco, per cui gira e volta una sera finì ammazzato vicino a casa da quattro Marinai, forse compatrioti e compagni di traffici e lavori.

Vispissima la moglie Giustina non si perse d’animo di fronte quell’avvenimento drammatico: reagì subito smascherando gli omicidi del marito. Andò a fare i nomi denunciandoli all’Avogaria da Comun: Nicoletto Gielenco, Giacomo Mustachì, Rocco dal Passo e Battista Squarzafigo  … Erano stranieri immigrati, Marinai come suo marito, per cui gli assassini vennero subito riconosciuti, inquisiti e condannati dalla Serenissima ... Per salvarsi da lunga prigione, punizioni varie e risarcimenti, i Marinai preferirono scappare dalla Laguna e dal Dominio della Serenissima abbandonando le loro famiglie.

Vivere fuori da Venezia però, non era di certo una scelta fortunata, in un certo senso pure quei Marinai si ritrovarono a vivere “vite spezzate” come quella della famiglia di Nadalin che avevano trucidato. Mogli e figlie e figlie rimasti a Venezia soprattutto, si trovarono a pagare lo scotto d’essere familiari di omicidi … Ma quel che fu peggio, fu il fatto che i familiari dei Marinai omicidi banditi cercarono di vendicarsi di Donna Giustina che aveva osato denunciare l’omicidio subito.

Giustina venne denunciata all’Inquisizione Venezianaadditandola come perfida Striga Herbarola.

Furono soprattutto Camilla mugièr de Zan Alvise Spira“sta pure lei in Quintavalle”, sorella di Giacomo Mustachì, e Modesta figlia dello stesso Mustachì(nel frattempo morto ?) uno degli assassini ad allestire ed architettare tutta la messa in scena, una vera e propria farsa ai danni di Giustina.

La figlia insieme alla Madre organizzarono tutto, e assoldarono perfino dei falsi testimoni che comparvero a deporre contro Giustina nel Tribunale dell’Inquisizione Veneziana. Si presentò, infatti: Anzolettavicina di casa di Modesta e Camilla, pure lei residente a Quintavalle di Castello a Venezia ... A seguire andò a testimoniare anche Messer Marin Bevilacqua “che soleva attender all’Officio de la gièsia” … e a costui seguirono ancora: un Cappellèr e uno Strazzaròl che stanziavano di solito a San Provolo presso “la Porta” della Corte delleMùneghe de San Zaccaria spesso ina attesa di espedienti per vivere.

“E’ una buttafave, fa strigarie … fa martelli co naranzai … E’ una pubblica Herbèra, bestemmiatrice di Dio … Invoca tutti li Dimoni dell’Inferno, e fa pignatelli ... e ha insidiato me con strigarie, furfantarie e incantesimi cercando di mettermi sulla mala strada con la scusa di procurarmi amanti … Faceva questo all’ora dell’Ave Maria, che quando suonava: lei gettava giù del sale in strada …” andò a dire all’Inquisizione: Modesta la figlia dell’assassino: “La voleva far tuor un sòrze (un topo), cusìrghe i òci e l rècie (cucirgli gli occhi e gli orecchi), e metterlo in una scatola, e tenirlo e darghe da mangiàr … Voleva poi che prendessi una stringa di cuoio e un chiodo, e con quelli scongiurar una Stella e ligàr el sonno, e farme ben sposàr tolendo anche una miòla da morto (midollo d’ossa di Morto): “Se lo baserài con la miòla in bocca el te sposarà” … Io non volevo fare quelle cose … Per questo chiedo di dar condegno castigo a quella scellerata ... Arpia della Contrada de Quinta Valle dove abita la Marinarezza.”

Anzoletta la vicina di casa, figlia del defunto Domenico De Rubeis(Dei Rossi … come me) moglie di Hyeronimus Pedòta per l’Istria(pilota di barca da diporto), testimoniò che: “Si ... Era vero che Giustina aveva fatto e insegnato strigarie e buttato fave con Modesta …L’aveva spaventata con quei loro gesti, tanto che non le aveva volute più per casa ... Con Giustina c’era anche sua figlia Valeria, e insieme usavano forbici, cenere, croci e tamìsi (stadèra) dicendo: Per San Piero e per San Paolo ….  Lo Angiolo Bianco e lo Angiolo Santo …e altre parole per scoprire se qualcuna voleva loro bene … Giustina in un’occasione le aveva consigliato di rubare e nascondere una corda mettendola dentro al Zupòn (giubbotto) di suo marito, garantendole che così l’avrebbe affatturato garantendogli il suo amore.”

Camilla la sorella dell’assassino Mustachi a sua volta andò giù pesante con le accuse contro Giustina: “Si mette su contro Modesta per farla sposare a chi vuole lei: con Jacomo Fabbro paròn de bottega in Cào de Rio de Castello … Fa scongiuri sul muro con le cinque dita invocando cinque Diavoli … Diceva: “Belzebù, Lucifero, Solfanello, Gran Dimonio dal Naso Storto io vi scongiuro ! … che vi portiate dal luogo dove vi ritrovate.”… Ha poi conciato aranci, pane, sale e savina mettendoli sul fuoco … Io ho detto a Giustina che stava facendo peccato, ma lei mi ha risposto:“Melchiòna ! Sono cose che fanno anche i Preti e i Frati … Son fiabe ! … Non è peccato ... Anzi: fatelo anche voi ! … così vedrete se vostro marito vi vuole bene.” … Frequenta anche una vecchia donna Striga di San Provolo, di nome Lucia, che abita sotto a un portico ai Santi Filippo e Giacomo, e ha i capelli tinti di rosso … La vecchia si è presentata in Corte da noi, e volevano conciare un parpagnàcco (pane di formentone) per darlo poi da mangiare alla putta Modesta … Era riuscita a farla desistere, anche se la vecchia aveva detto che sarebbe stata capace di farle morire tutte …”

Interrogata ancora, Camilla confermò di non aver nulla contro Giustina, di non essere in “disamicizia”, ma di agire solo per amore di Verità.

Tutto sembrava convergere perfettamente a danno di Giustina, e all’Inquisizione forse non pareva vero d’aver fra le mani un caso così esemplare sul quale poter giungere presto a opportuna Sentenza.

Solo che intervenne subito l’Avogaria da Comun della Serenissima chiamata in causa dalla stessa coraggiosa Giustina, per cui l’Inquisizione fu indotta a chiudere immediatamente il processo. Le donne e i testimoni rei di tanta falsità vennero diffidati e minacciati dalla Serenissima delle pene più severe: “de star anni doi in presòn serrate, et esser frustrate”, e fu ingiunto loro di non importunare, “né offender, né molestar coi fatti” in alcun modo Giustina e la sua famiglia.

Una tantum, la Giustizia si fece sentire a Venezia.

E qui finisce già questa storia: una delle tante della Marinaressadi Venezia.



S.O. ... Sacri Olii ... a Santa Maria Zobenigo o del Giglio.

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#unacuriositàvenezianapervolta 272

S.O. ... Sacri Olii

a Santa Maria Zobenigo o del Giglio.

Oggi si muore spesso in solitudine in ospedale … Col Covidpoi le cose sono peggiorate … Quando ho iniziato a lavorare nella Sanità nell’ormai lontano 1987, c’era ancora una parvenza, un’ultima abitudine di chiamare al capezzale di un morente un qualche Prete per dare l’Estrema Unzioneo un’ultima Benedizione d’addio prima del grande balzo verso i misterioso Infinito Eterno… E quelli chiamati, correvano e venivano a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Adesso nessuno chiama più nessuno, e nessuno viene di corsa prima di quell’ultimo fatale momento del transito … Gli unici “spettatori”rimasti siamo noi Infermieri … Perfino i familiari, a prescindere dalle chiusure del contagio, sono spesso più che latenti e assenti … Non tutti s’intende, ovvio … ma ha provocato in me un’enorme tristezza quella volta che una donna con dieci fra figli e figlie messi al mondo, si è ritrovata sola senza nessuno presente … Neanche uno o una soltanto … e non c’erano porte chiuse quella volta: erano spalancatissime … Solo che loro non c’erano pur essendo stati puntualmente informati.

Voglio dire insomma, che a volte si finisce col morire soli “come un cane” ... privi di tutto, senza alcun rimedio né conforto ... Nudi e crudi come si è nati.

Si … lo so … Si viene al mondo così sbucando del tutto inconsapevoli dalla propria madre … ed il nostro destino è ancora lo stesso di tornare prima o poi di nuovo “alla terra” per essere un’altra volta “humus” che va ad impinguare “il giochetto” e l’equilibrio energetico dell’Evoluzione che insegue il suo progetto di Vita.

So anche che in molti parlano e credono di Paradiso, Inferno e Purgatorio … Ma questo in ogni caso viene dopo, ed è un altro discorso … Voglio dire: poco cambia di fronte a quell’ultima realtà finale … E’ del tutto scomparso quel modo di morire “in compagnia” che c’era un tempo quando agonizzare era quasi un rito da condividere a cui partecipavano in tanti a casa e in famiglia fra amici e conoscenti.

Quand’ero bambino nella mia isola di Burano in fondo alla Laguna Veneziana, il Piovano Don Marco Polo mi portava spesso con se per partecipare a quella specie di grande veglia e attesa comune dentro alla quale uno o una “piano piano” se ne andavano accompagnati amorevolmente dai proprio cari.

Oggi non si muore quasi più a casa … Ma si va più igienicamente e più supportati in ospedale … Sarà ? … Davvero più supportati ?

Si … Di sicuro non mancano le cure … Anzi: ce ne possono essere anche troppe … Un’esagerazione a volte nel tentativo di “tirare”ancora avanti la Vita prolungandola il più possibile … Ma che Vita si è capaci di regalare ?

Discorsi delicati … Lasciamo stare … Non è questo il posto e il luogo.

Perché vi racconto questo ?

Perché un tempo anche a Venezia si considerava le cose e i momenti della Vita in maniera diciamo più diversa e possibilista … Si pensava che tante cose potessero “misteriosamente”, o quasi magicamente se volete, corroborare e influire positivamente sull’andamento dell’Esistenza in se, e nell’intraprendere tanti momenti di difficoltà.

Se tanto mi da tanto … Si pensava, e si era per davvero in tanti convinti di questo … Non dico quasi tutti, ma quasi … Si pensava che se c’era un Dio avrebbe dato dei doni capaci di supportare e alleviare le “fatiche e le incertezze del Vivere.”

Che doni ? … Doni “da Chiesa, da Dio … da Fede”se volete.

Per cui fin dalla nascita la Vita veniva caratterizzata col gesto rituale e iniziale del Battesimo, che era un vero e proprio passepartout e uno spuntare autorizzato alla Vita … Dio, e la Chiesa per Lui, rifornivano “la propria gente” con Oli Santi capaci di consacrare, proteggere e sanare “strada facendo” ogni momento dell’Esistenza … Si veniva quindi di volta in volta unti e cresimati lungo tutto il percorso della Vita … e fino alla fine, al capolinea dell’esistenza, quando si subiva o accettava “l’estrema unzione”… che tutti consideravano“un Dono” più dei Morti che dei Malati e Vivi.

Tutto ciò era Tradizione ben assodata … una specie di “deposito certo” ben radicato in tutti … Erano pochi quelli che vivevano facendo a meno di quei “Miracolosi Oli Salvifici”… In ogni chiesa c’era un angoletto dove c’era una cassettina o una porticina con la scritta: S.O.… o O.S. … cioè: Sacri Olii benedetti ogni anno il Giovedì Santo durante l’appositaMessa degli Olii o del Crisma… e da lì Preti e Frati attingevano tutto l’anno sanando a domicilio tutti quelli che lo richiedevano o ne avevano bisogno.

Anche oggi che siamo “moderni ed emancipati”, e che in tanti non crediamo quasi più a niente e a nessuno …  Eppure in tanti non sappiamo fare a meno dell’appuntamento con la Cresima, ad esempio, o con l’Olio degli Anziani… Si: occasioni spesso di bisboccia, regali e festa … Si sa … e di sfoggio talvolta delle proprie facoltà … Ma provate a togliere a certi queste scadenze … Non sia mai !

Non se ne capisce molto il valore … Ma sono abitudini che non vanno toccate ... Guai ! … A ciascuno la propria Santa Unzione, come si faceva migliaia di anni fa ... Non si sa mai … Che non capiti qualcosa perdendo certe usanze ... Il Medioevo insegna: che non ci caschi magari il Cielo in testa.

Mi sto perdendo ? … No.

1584 a Venezia ovviamente… Contrada di Santa Maria Zobenigodetta volgarmente “del Giglio”, a soli due passi da Piazza San Marco: cuore della Serenissima Repubblica.

Lì in quella Contrada, fra gli altri Veneziani qualsiasi, viveva un ragazzino … Immagino possa essere quello rappresentato in basso sul dipinto che ho piazzato in alto ... Si trattava del figlio di Bernardo Barcarolo, un Gondoliere del Traghetto fra Santa Maria del Giglio e San Gregorioal di là del Canalàsso: il Canal Grande.

Non si sa bene neanche il nome di quel ragazzino … Forse era Joanni-Maria… Si sapeva che era: “un Zaghetto”, uno di quei giovinetti che vivevano nell’entourage delle chiese e dei Preti, della chiesa del Giglio: Sancte Marie Jubinaico nella fattispecie, frequentando di continuo i riti della chiesa, e fornendo qualche servizio alla “Chieresia”,cioè al Clero della Parrocchia.

Addirittura negli atti del processo in cui venne coinvolto e citato il ragazzetto, è stato confuso con un altro: con “Battista fio de Donna Anzola … che stava in Corte della Procuratia alla Madonna del Gigio, ed era: un jovinàsso”, un giovinastro ancora aspro, imberbe e immaturo.

Secondo le cronache Veneziane inerenti questa storia, il ragazzino risultava vivere da solo, in un “buco di stanza”, proprio sopra alla “Spezieria alla Borsa” in Contrada di San Moisè.

E veniamo al dunque … Sapete che faceva il giovinotto, “quel putto”, per campare ?

Vendeva, “trafegàva e abusava in Oli Sacri”presi nella “chiesa del Giglio”. Risaputo che erano un “oggetto di valore” secondo le convinzioni dei Veneziani dell’epoca, il ragazzino li rubava e li piazzava “sul mercato” a buon prezzo … ricavandone meglio che poteva per procurarsi di che vivere.

Era furbetto e sveglio il ragazzino dodicenne o forse quindicenne,“viso pallido e magrolino”, perché aveva imparato a sfruttare al meglio quelle che erano “le convinzioni del mercato” delle cose preziose e sacre Veneziane … S’era provveduto della chiave della Sacrestiadella Chiesa da dove entrava e usciva a piacimento ad insaputa dei Preti … Un Olio dei Catecumeni  spiegava, valeva meno di un Olio della Cresima, che a sua volta valeva meno di quello dell’Estrema Unzione, che secondo lui era il più efficace e garantito … il più salvifico e salutare di tutti … e lui ne aveva per tutti, e li vendeva confezionandoli in eleganti boccettine “fatte a quadretti”dandoli di volta in volta “per uno da otto o uno da sei” ... trattabili.

E se c’era “un mercato”, c’erano quindi degli acquirenti … Donne soprattutto: Cortigiane Veneziane nella maggior parte, che si potevano permettere acquisti del genere, e che nel loro ruolo sociale, erano sempre: “affamate di Amori e di conquiste … arrapate a volte, del tutto avvinte dai loro giochi amorosi”.

Gli Oli Sacri e Benedetti di Chiesa erano considerati quindi efficaci anche per quello: “son bòni par no far lassàr i moròsi”… Secondo i Veneziani di allora: erano capaci di procurare Amoresoprattutto se associati a un buon scongiuro fatto al Demonio ... Sacro e Profano si mescolavano spesso insieme … Non importava bene come: bastava che funzionassero ... Secondo istruzioni, con gli“O.S.”, i Sacri Olii si dovevano ungere: labbra, bocca, sotto gli occhi … e “da altre parti nascoste giuste e utili”.

Non tutti i Veneziani di allora erano raffinati e grandi pensatori … Si viveva anche di consuetudini, di scaramanzia, e di suggestioni più o meno tramandate in famiglia, o suggerite da chi “proveniva da fuori della Laguna … da Oltremare, o dal Contado fuori del Dominio Veneto ... o da chi più semplicemente ne sapeva di più.”

Il ragazzetto del Giglio queste cose aveva imparate benissimo, e si prestava quindi di volta in volta a soddisfare le esigenze e le richieste delle sue Cortigiane Veneziane, che si recavano da lui da altre Contrade di Venezia: da San Vio oltre il Canal Grande, ad esempio, ma anche dalla vicina San Vidal, da San Moisè, San Zuliàne San Marco ... C’era: la Minia “ricamadora”, ad esempio … e poi c’era Donna Giulia, figlia di Ludovico: un carrettiere da Verona, che abitava a Venezia in Contrada di San Maurizio. Donna Giulia era finita a vivere nella Casa del Soccorso a Sant’Annadi Castello non lontano da San Pietro di Castello: la Contrada del Vescovo … Tutte quelle donne indubitabilmente credevano all’efficacia di quegli Oli Sancti“che facevano voler bene”… Anche Lauretta e Pierina: due sorelle che stavano “alle Pietre Bianche” di San Vio si servivano degli Olii del Zaghetto del Giglio.

I servizi del ragazzino comprendevano all’occorrenza anche “acqua e cere benedette da un bagatin l’una”  e c’era anche una certa Madonna Isabetta di Bernardin Turatto, una chiacchieratissima amante che s’era accasata a convivere col Mercante Greco: Antonio Bono, che ricorreva al Zaghetto … e c’era pure Maria figlia di Pietro De Grigis moglie di Geronimo Vidua: gelosissima del suo uomo per il quale era dispostissima a provar di tutto pur di garantirsene l’affetto.

Tutto corroborava e poteva aiutare a vivere meglio insomma … A Venezia si era meno soli “se accompagnati dalla protezione invisibile ma efficace del Cielo” ... magari associata allo scongiuro delle Tre Stelle in fila, o a quello della Stella Papale, oppure a quello “dell’Anzolo Santo o di Santa Lena” ... Ce n’era un po’ per tutti i gusti e preferenze.

Gli Oli Sacri da spalmare sul corpo significavano proprio questo: risolvere tanti problemi … con modica spesa alla fine.

Come andò a finire tutto quel mercanteggiare denunciato puntualmente all’Inquisizione ?

Bah ! … Stavolta non se ne fece niente … Era troppo radicata nell’animo e nelle abitudine delle persone quella cosa: non se ne poteva andar fuori facilmente.

Al ragazzino ? … Non gli si fece nulla … Forse una tiratina d’orecchi ?

E alle Cortigiane  ? … Si sa: quelle avevano qualcosa di ormai insanabile e guastato dentro … Non c’era verso di cambiarle … Che almeno si evitassero gli eccessi, i commerci, e i plateali abusi sulle“cose sacre”.

“Ma perché non stanno mai un po’quieti questi Veneziani e Veneziane ? … Sono sempre qua a tramestàr, ordìr, fufugnàr e imbastir storie, affanni e mille intrighi e strighessi … Basta un poco ! … No ve pàr ? … Anche i trafeghi in Ogi Santi ghe mancava !”

“Ghe pensarà Dio che vede e sa a risolver in coda ad ogni cosa.” commentò il Giudice più anziano … e si chiuse così la seduta del Tribunale di quel giorno.


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