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Ancora sui “Ponti de la Guèra”

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#unacuriositàvenezianapervolta 273

Ancora sui “Ponti de la Guèra”

“Brucio”un’altra curiosità su questa nota secondo me interessante, che proprio non conoscevo … Tutti noi Veneziani e non sappiamo quasi tutto sui Ponti dei Pugni o della Guerra dove quasi si celebrava una specie di “rito ricorrente tradizionale” che coinvolgeva spesso giustapposizioni sestierali popolari Veneziane. Sappiamo dei Nicolotti pescaòri con la fascia nera stretta in cintura, e col fazzoletto stretto al collo e la cappellina dello stesso colore calcata in testa, come dei Castellani arsenalòtti, che viceversa indossavano cose simili di colore rosso ... E anche le donne eh! … Non dimentichiamo che certe manifestazioni Veneziane, non solo quelle “dei pugni” facevano ribollire letteralmente il sangue a tutti per il consenso, il coinvolgimento e la partecipazione … Anche le donne si menavano fra loro e con i maschi che si trovavano davanti.

Erano un po’ le tifoserie, gli ultrà dell’epoca, anche se a Venezia ogni cosa si amplificava ed assumeva un suo sapore speciale diventando sempre qualcosa di più rispetto ad altri posti ... Venezia era Venezia: la Capitale Serenissima ... e quindi se le davano di santa ragione ogni volta diventando spettacolo: “ … la guerra dei Ponti era giuoco eseguito dai Castellani e dai Nicolotti i quali difesi da morioni (casco di cuoio copritesta … Ecco svelato il significato di Moriòn ?, o forse indica anche qualcos’altro), da celate e da giachi, ed armati di bastoni di canna d'India, o di cornio, con punte indurate a mezzo di olio bollente, e per ciò rese acute siccome stili, usavano di contendersi per trastullo il possesso di un ponte …”

Abbiamo tutti nella mente quei bei quadri, semplici e immediati a volte, che quasi “foto d’epoca”ritraggono “le guèrre di canne e pugni” sui Ponti di San Barnaba nel Sestiere di Dorsoduro, o sul Ponte diSanta Fosca in quello di Cannaregio, soprattutto … ma se ne utilizzavano anche altri a Venezia per inscenare manifestazioni e scontri simili: il Ponte dei Carmini, quello dell’Arsenale, e altri ancora: “Giuoco dei Pugni in Siena, come dice il Manzi nel suo Discorso sopra gli spettacoli, le feste ed il lusso degl'Italiani nel secolo XIV … In Siena era da quel popolo ardentissimamente amato il giuoco della pugna, il quale aveva principio I' anno 1294, essendo stato sostituito ad altro più rustico e feroce detto dell’Elmora o di mazza e scudo, nel quale il popolo solea battersi con targhe e sassi. Or, ad esempio di Siena, anche a Venezia eseguivasi quella lotta da settembre fino a Natale, ma sopra ponti senza parapetti, di guisa che avveniva, che i perdenti, oltr'essere malconci e pesti, rovesciati fossero per giunta nell'acqua, sventura di cui van netti almeno i Boxer d'Inghilterra. Nel ripiano di non pochi ponti della città veggonsi ancora dei marmorei segni aventi la forma di un suolo, sopra i quali poggiavano i piedi dei pugillatori: ma il propriamente detto Ponte dei pugni, il più celebre e il più frequentato quello era che si trova poco discosto dal campo di san Barnaba.”

Insomma: tutto diventava partecipazione e spettacolo, come le “Forze d’Ercole” in Piazza a Carnevale, le disfide dei Tori o dell’Orsonei Campi Veneziani, e le Regate sul Canalàsso o Canal Grande, e nel Canale del Vigàno o Viganò, cioè nel Canale della Giudecca.

Quel che non sapevo però, era che manifestazioni del tutto simili a quelle Veneziane si tenevano anche in altre città Italiane … Beh: dei Tori per le strade di Pamplona in Spagna sappiamo tutti, ma non sapevo, ad esempio, che ci fossero state delle “guèrre dei pugni” anche sul Ponte della Trinità a Firenze, o a Siena, o sui Ponti Papalini della Città Eterna di Roma … Era un po’ ovvio mi direte, ma venirlo a sapere con certezza è un’altra cosa … Ha un suo sapore.

Ciò che mi ha sorpreso però, e vado già finendo, è che a Venezia si è giunti perfino a realizzare un’altra “puntata extra e fuori stagione” di quelle disfide dei Pugni e della Guerra, per far bella figura con un visitatore “di lusso” a Venezia.  Voglio dire che la Serenissima in certe occasioni ha chiesto a Nicolotti e Castellani “di dàrsele a pagamento”proprio per dar spettacolo a favore di Ospiti Illustri presenti in Laguna ... Curioso vero ? … E’ capitato anche questo a Venezia.

E’ successo, ad esempio nel 1574, in occasione della visita a Venezia di Enrico III° Re di Francia, come ricorda Fabio Mutinelli nel suo “Lessico Veneto”:“… avendosi da fare la Guerra dei Ponti alli Carmini con bastoni (senza però la usata punta) vi si volle ritrovare presente la Maestà sua, siccome avea desiderato più volte, per godere ancora quest'altro trattenimento e sollazzo; e si ridusse sul tardo, con li Principi e Signori in casa del Clarissimo Jacomo Foscarini Ambasciatore, per mezzo il ponte … Fu fatto subito bando pena la galea, che tutti quei che montassero sul ponte tagliassero prima le puntite a loro bastoni, e pena la vita a chi tirasse sassi, mettesse mano alle armi e causasse alcuno tumulto o altro inconveniente, come altre volte è accaduto, e li Capitani per ordine de' loro Signori vennero armadi in guardia per vietare ai scandali ... Sua Maestà, fattasi vedere alle finestre le quali erano apparale di panni d’oro con suoi guanciali del medesimo, comparvero in campo dall'una parte e l'altra da circa duecento combattenti e quivi montati sopra il detto ponte a due a due or una parte ora d’altra a fare la mostra, poi a solo per solo cominciarono a tirarsi alquanti colpi sino a tanto che s'attaccò dipoi tutta la folla, che durò più di mezz'ora, scacciandosi ora gli uni et ora gli altri giù del ponte, e talora rimettendosi abbassando gli adversarii, che gli avevano scacciati dandosi più volte la carica in diverse frotte I'una parte e l'altra e rimanendo anche talora patroni del ponte: talché la Maestà sua vide benissimo questa pugna, e la godè con suo grandissimo gusto e trastullo. In quale riuscì benissimo per le belle frotte che più volte vi si fecero, e per la gran moltitudine de' combattenti nel cacciarsi cadevano molli per terra, et altri precipitosamente in varii modi nell' acqua d’ambe le parti ... et in segno di gratitudine, che si fossero diportati bene, furono premiati tutti, dandosi ad ambedue le parti cento cinquanta ducati per una, e venticinque di rinfrescamento, li quali dinari spesero gli uni e gli altri in fare feste di balli, caccie di tori, fuochi artificiali ed altri simili trattenimenti, cadauna parte nel suo Sestiero”.

Considerazione nostalgica … Doveva essere davvero magnifica la Venezia che accadeva allora … in tutti i suoi aspetti … Così come doveva essere invidiabile quella forte consapevolezza d’essere Venezianiche si viveva allora nelle nostre isole.

Noi Veneziani e non di oggi al confronto ?

Bah ? … Non so … Siamo un’altra cosa di certo … Campanilisti appassionati di sicuro lo siamo ancora un poco: “la Campagna e i Campagnoli iniziano a metà Ponte della Libertà.”… Poi di certo siamo dediti ogni giorno intensamente al vivere, al lavoro e a socializzare … mentre Venezia con le sue Tradizioni un po’ langue … Diciamolo dai ... Venezia sta di sicuro tramontando trasformata in singolare lunapark acquatico che porta soldi a pochi … con la complicità del Mòse ogni tanto, che salva la Città dall’Acqua Alta … finchè ce la farà.

Poi forse l’Acqua crescerà ancora di più traboccando ovunque, e Venezia allora diventerà ancora di più divertente spettacolo, città sommersa da vedere e provare … come sta già accadendo ... Povera Venezia presa a pugni.


 


Un Clan Veneziano qualsiasi, e una Cà-Palazzo fra i tantissimi.

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#unacuriositàvenezianapervolta 274

Un Clan Veneziano qualsiasi, e una Cà-Palazzo fra i tantissimi.

I Briani o Ariani o Bredani vennero espulsi da Bergamo in epoca remota, e si trasferirono a Venezia almeno due secoli prima del famoso anno 1000, dove sembra siano entrati nel Maggior Consiglio nell’altrettanto lontanissimo 1100, quando, nel 1161, il Cavaliere Raffaele Briani fu con grande onore Capitano delle truppe Veneziane contro i Bolognesi.

I Briani-Ariani originari dell’Istria o della Capitanata Pugliese forse, a Venezia finirono con l’impossessarsi e mantenere sotto controllo quasi l’intera Insula dell’Anzolo Raffael nel Sestiere di Dorsoduro, di cui si dice abbiano perfino fondato e fatto erigere la chiesa ... Non è vero questo, al massimo avranno contribuito a farla restaurare, immettendovi nell’occasione la loro tomba di famiglia poco fuori dal Coro della chiesa ... Una buona donazione a volte può far diventare illustri e famosi, qualche altra volta anche passare alla Storia.

Va beh … I Briani-Ariani comunque non furono solo questo … Possedevano anche altri stabili nel Campazzo e in Calle Briani in Contrada d San Marcuola dall’altra parte della Città oltre il Canalàzzo(Canal Grande) nella zona della Piscina del Cristo, come ricordano la Descrizione della Contrada del 1661, e gli stemmi gentilizi infissi sui muri degli edifici.

Altri dello stesso Clan-Famiglia Briani-Ariani abitarono nel 1661 col NobilHomo Francesco Briani in Contrada di San Zuane Nuovo, a due passi da Piazza San Marco cuore della City, dov’erano proprietari di diversi stabili. Nella omonima chiesa della stessa piccola Contrada si fecero costruire ovviamente la tomba di famiglia.

Saltando indietro nel tempo però, nel 1363, mentre molti entravano per meriti nel Maggior Consiglio pressapoco al tempo della Guerra di Chioggia, i Briani-Ariani ne vennero, invece, esclusi non tanto per mancanza di Patriotismo Veneziano, ma per debiti fraudolenti commessi, secondo le Cronache, da Antonio quondam Nicolò Briani morto appunto nel 1363 ... Tutto è relativo quindi: ci furono alti e bassi, successi e insuccessi nella storia economica della Famiglia Ariani-Briani-Bredani.

Incazzatissimo, già due anni prima dell’espulsione dal Maggior Consiglio e dalla Nobiltà, il Nobile Ariani con testamento datato 01 luglio 1361 redatto davanti al Prete-Notaio Marco Rana, ordinò che nessuno dei suoi figli e figlie dovesse per alcun motivo mai più sposare donne e uomini Patrizi ... C’erano forse di mezzo questioni di doti, per cui il Briani per non sfigurare s’era indebitato ?

Boh ? Non si sa.

Inutilmente Marco Briani, uno dei figli dell’Antonio, tentò di ricorrere in extremis presso la Serenissima e il Doge per recuperare i privilegi di Famiglia ... Suo fratello Bon provò perfino a fare una buona elargizione alle casse sempre vuote della Repubblica durante la stessa Guerra di Chioggia … Niente da fare … Venezia fu irremovibile ... e lo stesso Bon Ariani preso da sconforto e delusione per l’insuccesso, abbandonò moglie e famiglia e andò a farsi Frate a Ferrara ... Cose che capitano.

Durante il 1400 la Famiglia Ariani si riebbe un po’ risultando sempre presente e attiva dentro alle complicate ma fortunate economie della Repubblica ... Nel 1414-1443 i Bredani-Briani risultavano regolarmente iscritti nel Libro della Balla d’Oro dei Nobili con due Padri e sette Figli ... Non s’erano rassegnati a perdere la Nobiltà … Vent’anni dopo circa, la stessa Famiglia tentò inutilmente l’ennesimo rientro fra quelli che contavano … Niente da fare ancora una volta.

Nell’estate 1527 il quasi mitico Diarista Marin Sanudo scrisse, quasi dipinse, un bel “quadretto” sullo status della Nobiltà Veneziana. Scrisse nei suoi Diari: “[a Venezia] almeno 150 Patrizi occupano cariche di Governo nella Terraferma ed altrettante nei Domini da Mar ... Alle riunioni solite del Senato partecipano di solito 180 su 300 membri Nobili, ed il quorum è di 70 individui … Su un totale di 2.700 membri Patrizi eleggibili con quorum di 600 persone, in Maggior Consiglio sono presenti in media 1.000-1.500 Consiglieri che salgono di qualche centinaio in occasioni particolari ... Numerosi Patrizi si trovavano fuori Città per motivi ed affari pubblici o privati. Alcuni Nobili pur essendo residenti in Città non hanno mai messo piede a Palazzo Ducale, altri, almeno 46: non si recano là da almeno 20 anni. I Patrizi appartengono a 134 Clan diversi e solo 9 Gruppi Familiari non hanno maschi in età da entrare nel Maggior Consiglio … Alcune Famiglie di piccole o medie dimensioni godono di posizione di prestigio perché uno di membri glielo conferiva col successo personale commerciale o acquisendo benefici importanti … 30 clan, ossia il 59% dell’intera Nobiltà, sono costituiti ciascuno da oltre 30 membri ... 19 Case Grandi con più di 40 individui ciascuna formano il 45% dell’intero Patriziato.

Le Grandi Casate vanno a formare la Signoria e i 50 Consiglieri Ducali, mentre i Capi dei Quaranta, salvo eccezioni, provengono da “famiglie piccole” come i Lippomano, i Bon, i Calbo e i Grioni.

Alcuni Clan che comprendono fino a 17 membri ciascuno, raramente presentano le proprie candidature per incarichi importanti. Sono i vari: Baffo, Cocco, Civran, Da Mezzo, Manolesso, Pizzamano, Semitecolo e Viario.

Alcuni Nobili vengono eletti solo a cariche di Sovraintendenti al Fondaco dei Tedeschi, o ai Tribunali Minori di Palazzo Ducale, e compaiono raramente nelle liste che contano dei Dieci e del Collegio. Costoro sono: i Briani (ECCOLI QUA !!!), i Girardo, Zancani, Nadal e i Belegno ... 19 Clan sono prossimi ad estinguersi avendo solo 1 o 2 rappresentanti in età matura, fra cui: Avonal, Balastro, Battaglia, Calergi, Celsi, Caotorta, D’Avanzago, Guoro, Lolin, Onorati, Ruzzini e Vizzamano.”

Davvero una bella veduta esaustiva sulla Nobiltà Veneziana della prima metà del 1500.

Negli estimi del 1535 gli Ariani notificarono d’essere i proprietari della “Casa da Statio sulla Fondamenta dell’Anzolo Rafael e di altre case limitrofe nella callesella”. Già nella prima metà del 1300 s’erano comprati il vecchio palazzo cadente e l’avevano rifabbricato arrivando ad ornarlo con la magnifica finestrata centrale presente ancora oggi in facciata ...  Lo stemma degli Ariani-Briani campeggia ancora sia sulla facciata del palazzo, che sul pozzo in Campo dell'Angelo Raffaele, dove si può leggere un’iscrizione col nome del Cittadino Marco Arian, che nell'anno 1349 lasciò un Legato di 300 Ducati per la costruzione del pozzo: “… per i bisogni al Povolo e a Boni Homeni de la Contrada”… Meritevole persona … Giusto vent’anni prima dell’espulsione della Famiglia dal Maggior Consiglio, gli Ariani-Briani erano considerati “benemeriti della Contrada dell’Anzolo”… Una loro tomba si trova nel vicino chiostro dei Carmini: altra importante realtà Monastica che segnò grandemente i destini e la Storia di buona parte del Sestiere di Dorsoduro.

Tumultuoso, fatto e rifatto e ritoccato tante volte il testamento di Giacomo Arian del 1631-1647. Lo depositò a più riprese modificandolo per quindici anni consecutivi davanti ai Notai Bernardo Malcavazza e Andrea Calzavara. In sostanza l’Arian dichiarò che intendeva lasciare le sue sostanze compresa “la Casa Granda all’Anzolo Raffael” sulla quale pendeva però un debito di 400 ducati spesi da Bernardo Grimani per restaurarla, alla madre Nobile Pasqualigo, già erede di Vincenzo Pasqualigo, che abitava il palazzo ... Nello stesso  carteggio testamentario, aggiunse e ordinò che intendeva anche venir sepolto “nell’Arca che ha sopra l'arma Arian nel Convento dei Carmini”, e che a tal proposito avrebbe disposto alcuni Legati per i Frati “perché facessero per lui quel che dovevano ed era giusto fare per la Salvezza della so Anema”.

Comunque i Briani-Ariani non erano tutti tirati, messi male e in ristrettezze economiche … Nel 1651, ad esempio, Giovanni Briani andò a combattere i Turchi nella battaglia navale di Nixia e Paros, mentre nel 1657 lo stesso fu solerte difensore della città di Cattaro(in Montenegro) di cui fu Provveditore Straordinario e Rettore ... Niente male dai !

Nelle note di Cronaca del 1653 però, esattamente tre secoli dopo l’espulsione dal Maggior Consiglio, la Famiglia rimasta Cittadinesca, cioè nonNobile, venne considerata ufficialmente estinta … Vera o non vera, esatta o no che fosse l’estinzione degli Ariani a Venezia … Ancora nel 1679 c’era a Venezia una Famiglia Ariani intenta e impegnata nella scalata ai ranghi della Nobiltà Veneziana che contava … Impresa che mancò clamorosamente ancora una volta … Il Patriziato per gli Ariani rimase sempre un sogno.

Secondo gli Estimi del 1712 e 1740, il palazzo simbolo degli Ariani passato quindi ai Pasqualigo, venne affittato con Pietro e fratelli, che: “l’appigionarono con l'orto al Serenissimo di Guastalla per annui ducati 360 ... ma poi rimase vuoto da appigionarsi.”

Più tardi nel 1768, Laura Pasqualigo di fu Giorgio, la vedova di Vincenzo Gradenigo di cui dicevamo prima, passò per testamento il palazzo ai Rev. Antonio e Carlo Pasinetti quondam Francesco”, che ne vendettero un piano a Lucia Cicogna, facoltosa ex Monaca Benedettina, che lo destinò ad esclusivissimo Collegio di Educazione Femminile… Finchè alla fine della fine, dopo le burrasche napoleoniche, e alla morte della Cicogna nel 1849, il palazzo ormai rovinoso e malandato venne acquistato dal Comune di Venezia.

Si dovette ricostruire l'esafora gotica in facciata perché troppo scalcinata e cadente … Anche la scala nella corte interna venne ricostruita, come tutte le finestre del pianoterra alterate dall’acqua alta, dall’incuria e dalla salsedine ...  Storia recente: l’ex palazzo Ariani-Briani-Bredani è diventato ed è tuttora: Pubblica Scuola, Istituto Vendramin Corner.

Calle della Malvasia al Traghetto fra San Beneto e Sant’Aponàl

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#unacuriositàvenezianapervolta 275

Calle della Malvasia al Traghetto fra San Beneto e Sant’Aponàl

Lo scenario Veneziano provate a immaginarlo da voi … Era quello tipico delle nostre Contrade Veneziane di un tempo … L’anno era il 1586-87 … Il contesto era quello della Venezia Rinascimentale dei grandi eventi storici che hanno riempito memorie, Cronache e libri, ma allo stesso tempo era anche quello spicciolo degli accadimenti quotidiani quasi banali dei Veneziani qualsiasi di allora ... Tutte cose in ogni caso, secondo me, curiosissime.

I protagonisti ? … Un grumo, quasi un ciuffetto di Veneziani e Veneziane d’allora: qualche donnetta soprattutto.

Le Contrada a cui mi riferisco sono quelle di San Benèto e di Sant’Aponala cavallo del Canal Grande”: il Canalàsso, fra i Sestieri di San Polo e San Marco … Due piccole Contrade Veneziane tipicissime, del tutto strette attorno alle loro chiese, e ciascuna satura della vita laboriosa dei Veneziani che risiedevano là.

I fatti … Un furto, la sparizione delittuosa di “gioie e ori”: del piccolo tesoretto “salvavita” di una famiglia popolarissima qualsiasi ... Spuntarono allora i soliti sospetti, la ricerca quasi spasmodica di un colpevole, e iniziò il comune tendere l’orecchio che provò a trovare un perché e per come … magari un nome, o una circostanza che spiegassero il tutto.

Chi poteva essere stato o stata ? … Perché l’aveva fatto ? … Ognuno cercava come poteva, usando le “sue armi”, e le ridotte capacità disponibili ... Se era il caso si sarebbe potuto magari consultare qualcuno che la sapesse lunga, che sapesse leggere e intendere ciò che i più non sanno e non vedono … O che facendo qualche gesto arcano, misterioso, fosse capace di frugare dentro all’ignoto … Insomma: si riuscisse ad andare al Aldilà delle cose.

Infine spuntò fuori un modo, anche se un po’ incerto, e “fai da te”… forse un po’ pericoloso anche ... Non da tutti … E fu  così che il gruppetto delle donne imparentate fra loro iniziarono a mettere insieme i pezzi necessari per poter scovare finalmente una qualche “Verità”... o almeno così speravano che fosse.

Secondo Fulvia Brunalesco serviva innanzitutto prelevare dell’Acqua Santa in qualche chiesa ... Di certo non mancavano a Venezia … L’Acqua era un oggetto indispensabile per poter raggiungere e svelare l’arcano ... Bisognava però che fosse una fanciulla Vergine a riempirne un’Inghistera intera (un boccione di casa, una caraffa da cucina), e la portasse a casa. Solo allora si poteva recitare un paio di formule adatte, e il gioco era fatto se c’era la fiducia di tutti. Nell’acqua lustrale sarebbe apparso, materializzato, il volto del colpevole del furto … Era vero ? … Sarà stato niente ? … Non avendo altro per le mani, le donne si affidarono a quello.

Ci fa sorridere oggi, ma per loro era tutto  in quanto non avevano altro … Poteva pur sempre essere la via buona per scoprire una qualche verità circa quell’insolito furto.

Però non erano stupide e sempliciotte del tutto: era opportuno non infilarsi nella chiesa della Contrada dove tutti si conoscevano e sapevano tutto di tutti … Troppo rischioso … Il Piovano e i Preti di Sant’Aponal poi erano fin troppo svegli e accorti … Come si faceva a rubargli tutta l’Acqua Santa ?

Perciò le donne pensarono che sarebbe stato meglio traghettare il Canal Grande, e andare di là in un’altra Contrada dove forse si era meno conosciute … E poi sapendo di quella certa chiesa … Sarebbe stato facile prendere l’Acqua Santa: non c’era mai quasi nessuno che la guardava.

Le donne quindi, conniventi e partecipi fra loro, si attivarono e si recarono probabilmente nella Contrada di San Beneto oltre il Canalàsso(Canal Grande) ... Bastava non darsi a vedere … e tutto si sarebbe fatto e risolto in fretta. 

Nella Contrada di San Benèto(Benedetto) risiedevano allora circa 600 persone, c’erano poche botteghe e un inviamento da forno, e nella vecchia chiesa spoglia a tre navate, che tutti chiamavano: “la gjèsia de le venti Reliquie”, si distribuivano solo 200 Comunioni ... una miseria come numero ... Non era quindi molto frequentata e appetita San Beneto … Forse perché lì dentro vi andavano e venivano i Monaci di Brondolo di Chioggia, che abitavano poco distante nella vicina Corte di Sant’Andrea(andatela a vedere !) ... San Beneto era una specie di “pied a terre” nella Capitale, di quei Monaci “aspri e traffegòni” sempre intenti a vendere e comprare sale. Avevano perfino il diritto esclusivo di eleggere il Piovano Secolare di San Beneto, che era soggetto a offrire annualmente al Capitolo del Vescovo di Olivolo-Castello un censo annuo, e una buona porzione delle Decime sui Morti della Contrada. Capite allora come San Beneto fosse un po’ disertata dai Veneziani della Contrada, oltre che trasandata probabilmente, e forse incustodita quanto bastava ? … Non esisteva ancora l’edificio di San Beneto e Scolastica visibile ancora oggi, ricco delle colorate e splendide opere del Mazzoni, Strozzi, Pilotti e Tiepolo. Venne realizzato solo in seguito, nel 1619-20, quando la vita della Contrada ebbe una svolta ... Infatti: c’era la Peste.

Riferisce la Cronaca del Barbo che proprio in quegli anni:adì 29 Novembre 1540 el campaniel di San Benetto in Venesia a hore 22, e senza algun strepito di temporal, ma da vecchiezza, cascò con ruina fin su le fondamenta, et era de domenega, et indivinò non trovasse niuno a passar, et dannizò la gesia ruinando un quarto di quella che fu la parte verso il campo, qual tegnivase con el detto campaniel”.

 

Sempre in Contrada di San Benèto, proprio nel 1586-87, cioè l’anno dei fatti che vi sto raccontando: “Antonius Figarius, Chierico di 65 anni da Verona, insegnava a 45 alunni:“Umanità … Ciceron, Verzilio et la Retorica di Cicerone ad Rhenium, e talli putti pizoli le Fabule di Esopo. Alcuni fanno epistole, altri fanno latini per tutte le regole. Alcuni fanno versi e anche concordantie in San Benetto, avendo come ripetitore un suo nipote.”

Sant’Aponàl, invece, dall’altra parte del Canal Grande … che sarebbe Sant’Apollinare: un Santo e una titolazione d’impronta e importazione Ravennate-Bizzantina, sorgeva poco distante, anzi, era quasi prolungamento del vivissimo Emporio di Rialto. La Contrada era zona ricca di botteghe, piena di gente, artieri, mercanti e lavoranti. Dalle dichiarazioni fiscali di quegli anni si può rilevare che vi risiedevano a lavorare e commerciare numerosi: Varotteri, Specieri, Coltreri, Spaderi, Pelizèri e Cimadòri… Vi abitava: Nicolò de Rizardo dalla farina, e c’erano Frutaròli, Piero dalle Stagliere, e Cortèleri, Miedegi e Lanèri ... C’era una rivendita di pane-Pistoria gestita da Antonio de Zane nel 1471, che consumava quasi 5.000 stara di farina annue ... Un bel giro di lavoro e affari insomma.

Sant’Aponal nel Sestiere di San Polo era una Contrada piena di vita, che quasi svelava e dipingeva la sua identità scrivendola sui muri:Calle, Ponte, Sottoportico della Furàtoladove c’era uno che fungeva un po’ da pizzicagnolo, e rivendeva pesce fritto e “vinàzzo sottobanco da poveraglia”in una casupola a pianoterra fumosa e buia. IFuratoleritenuti d’occhio dalla Serenissima, non potevano vendere cose riservate ai Luganegheri, né condire cibi con cacio, “onto sotil”, e grassi pena 40 ducati di multa e bando da Venezia e Dogado per un anno ... Se fossero stati Impiegati dello Stato o Pretiquelli scoperti a condurre una Furatola, sarebbero finiti in carcere, e avrebbero perso il posto o il Beneficio Ecclesiastico … Ma succedeva rare volte a Venezia … O meglio: succedeva, ma si tollerava: si chiudeva un occhio, e a volte tutti e due … Tutti sapevano, ma si andava avanti lo stesso … Bastava non far danni alla Serenissima, e non importunare il prossimo.

La zona di Sant’Aponal era anche Contrada di traffeghini e Prostitute… C’era ancora nell’aria l’antica memoria di quando un Nobile Davanzago, che era stato Capo Sestiere, s’era alleato con due sue amiche meretrici di Corte della Pasina aiutandole a resistere allo sfratto esecutivo imposto loro dai Signori di Notte. Il Davanzago aveva tirato fuori la spada, minacciato il Nobile Federico Michiel con i suoi amici, e gli aveva strappato di mano le chiavi della caxetta d’affitto ridandole alle due prostitute. La Serenissima in quel caso era intervenuta subito: processo, condanna, interdizione perpetua dai Pubblici Uffici per il Davanzago, e 100 lire di multa … L’onore del Nobile Michiel non si doveva toccare, ed era stato quindi adeguatamente preservato ... Che fossero attenti a non osare troppo quelli della Contrada !

Sant’Aponal nel 1509 era ancora Contrada vispa e popolosa: vi abitavano 1.858 Veneziani … La chiesa con una Madonna del Carminedi legno e vestita era ricoperta d’abiti e ori ... Era appena stato rifatto l’edificio a 6 altari, e la chiesa s’era fatta un nome in città e fra i Pellegrini sempre più rari di passaggio in quanto deteneva ed esponeva oltre alle solite Reliquie della Passione, anche la Testa del Profeta Giona che era stato mangiato dalla Balena biblica, il dito di Santa Caterina da Siena con cui ammoniva i suoi devoti ascoltatori, e soprattutto il braccio di San Sigismondo Re dei Burgundidal 516 al 523: primo Santo dei Barbari, la cui testa era finita nella Cattedrale di Forlì, e altri pezzi erano sparsi a Plock in Polonia nel Voivodato della Masovia sulle rive della Vistola; nella Basilica di Rivolta d'Adda nel Cremonese; e nella Cattedrale di Frisinga nella Baviera Tedesca.

Immagava molti la storia di San Sigismondo: uomo importante e famoso … Secondo la “Historiarum Francorum” scritta da Gregorio di Tours, Sigismondo era stato figlio e successore di Gundobado, aveva sposato una figlia dell’Ostrogoto Teodorico il Grande con quale fece alleanza nel 496. Incitato comunque in vita da Alcimo Ecdicio Avito Vescovo di Vienne, Sigismondo aveva abbandonato il paganesimo Arianoconvertendosi al Cristianesimo Ortodosso che impose anche ai suoi sudditi nel Conciliodi Epaon del 517mettendo a morte ogni eretico. Andò pellegrino a Roma incontrando Papa Simmaco, mentre l’Imperatore Anastasio I°lo aveva elevato a rango di Patrizio. Dalla moglie Ostrogota ebbe il figlio Sigerico erede al trono, che però fece uccidere perché accusato di aver stuprato la matrigna sua seconda moglie, poco prima che il suo regno finisse in mano ai Franchinel 534 … Sigismondo quindi non era proprio Santo del tutto ... Si diceva che era finito eremita ad espiare i suoi peccati nell’Abbazia di San Maurizio ad Agaunum nell’attuale Canton ValleseSvizzero, da lui costruita nel 515 a memoria della Tradizione secondo la quale la Legione Tebea era stata massacrata per ordine dell'imperatore MassimianoAugusto e da Diocleziano ... Non era vero che andò eremita ad espiare peccati … Dal 523 in poi, Sigismondo, in realtà, s’era battuto per il controllo dei territori con Franchi e Barbari suoi pari, ed era finito prigioniero ad Orléanscon moglie e figli, e lì venne decapitato con tutti i famigliari e fatto gettare in un pozzo a Colombe… Brutta fine per Re San Sigismondo, che a quel punto venne considerato anche Santo Martireveneratissimo da tanti in tutta Europa.

Lasciando perdere Sigismondo … Nel 1529 il Piovano Giacomo Grassolario di Sant’Aponal, prestigioso Notaio della Cancelleria del Dogevenne citato in giudizio dal Patriarca Querini in quanto “non aveva ottemperato alla sua proibizione di utilizzare nelle chiese durante le Feste dei Titoli e delle Schole: Sonadòri con trombe e corni con canti inonesti” ... Insomma aveva trasformato la Festa dell’8 settembre, la chiesa e dintorni in baldoria e garanghello, con canti, danze, e ubriachi molesti in Campo Sant’Aponàl e in giro per tutta la Contrada …  Altro che Devozione e Dottrina ! .. Il Piovano provò a difendersi dando la colpa al Gastaldo e ai Confratelli della Schola della Natività di Maria dei Fontegheri Venditori de farina o Farineri, Farinanti, che a loro volta dichiararono d’aver ottenuto opportuna autorizzazione per la Festa dallo stesso Vicario Patriarcale... Niente da fare: Prete, Schola e Devoti Confratelli dovettero rivedersi e “chiudere bottega” ... La Schola che aveva appena cambiato sede nel 1528 passando da San Silvestro alla Sacrestia di Sant’Aponal su iniziativa di un benestante Compagno "mercadante de Malvasia", e col consenso del Consiglio dei Dieci, venne momentaneamente sospesa dal Patriarca.

Poco importa … La Schola pur essendo stata messa in stadby, strinse lo stesso accordi col Piovano e i Preti di Sant’Aponalrealizzando la loro nuova Mariegola: “la Mare di tutte le Regole”; si diede come “sede di adunanza”la Sacrestia di Sant’Aponal; e si decise che i Fontegheriavrebbero avuto in uso in chiesa l'Altar de la Madona collocato a fianco di quello famoso della Schola dei Tagjapiera Veneziani; avrebbero inoltre ottenuto in uso “l’'Arca dei Morti”che si trovava nella Cappella per i loro Confratelli Defunti, insieme alla promessa di poterne costruire presto un’altra davanti a loro altare dove recitavano “i Suffragi”, e sempre lì si sarebbero accolti i nuovi iscritti Fontegheri recitando “un Pater-Ave, e basàndo la Mariegola""Tuti i Compagni li debbano poi tocàr la man (dargli la mano) in benvenuto”.

Curioso vero ? … Si stabilirono anche le contribuzioni e i sussidi con cui la Schola avrebbe sussidiato i Fontegheri precisando che erano esclusi dalla “Carità della Schola” quelli che fossero stati affetti da malattia incurabile, o non trovati a letto in caso di dichiarata malattia. Infine s’era detto e scritto che la Schola dei Fontegheri non avrebbe avuto diritto ad alcun rimborso per le opere e le migliorie realizzare in Sant’Aponal, qualora si fosse trasferita altrove. I Fontegheri allora aveva infisso in muro accanto alla porta d'entrata della Sacrestia, come loro “segno”,un bassorilievo in marmo greco rappresentante una Crocifissione(oggi quasi del tutto smangiato del tutto da intemperie e salsedine).

A Sant’Aponal c’era ancora la Calle e Ramo del Brusà, che si diceva si chiamasse così perché lì un tempo un edificio era stato distrutto dal fuoco su un'area diventata poi orto. La mezza leggenda raccontava, invece, che lì abitava “un brusà in carne e ossa”, un eretico dannato dato alle fiamme, il cui terreno maledetto doveva rimanere vacuo, incolto e non affittato a nessuno a monito perenne dell’accaduto.

C’era ancora Calle dell'Erbaròl, che si spiega da se ... Curiosissima una nota del dicembre 1510 redatta dal solito amabile Diarista Veneziano il Nobile Sanudo:“Adi 19 fo portato in Collegio uno mostro eri nato qui in Venexia in Campiello di Santo Aponal da uno povero Erbaruol, videlicet uno puto et una puta che si tieneno insieme davanti, videlicet do teste, 4 braxe, 4 gambe, chome apar per questa figura; el qual nacque eri, et vixe una hora: fono batezati la femena Maria, el puto Zuane: fo portati poi dal Patriarca et in Colegio, et cussì molti andono a caxa a vederli, et pagavano uno soldo, et fono imbalsamati. Et, cossa mostruosa, hanno un corpo solo”.

C’era ancora: Calle, Campiello e Rio e Ponte dei Meloni, che voleva dire anche delle Angurie e dei Poponi, dove ancora nel 1725 aveva bottega Bartolammeo Baggietta Barbitonsore accusato dal proprio garzone d'aver tagliato la testa col rasoio a un “Forèsto” per derubarlo, e poi d'averlo seppellito in bottega prima di gettarne il corpo dritto nel Canal Grande. Il Barbiere venne catturato e messo in prigione prima di scoprire che era innocente, in realtà calunniato dal suo maltrattato lavorante … che andò a sostituirlo in carcere … Storia questa però di un’altra epoca che lascio perdere.

Insomma la Contrada di Sant’Aponal ne aveva tante di cose da raccontare.

C’era infine la Calle del Luganeghèr che portava al Traghetto di Sant’Aponal che tragittava per la Contrada di San Luca e soprattutto di San Beneto oltre il Canalàsso.

Ecco ! … Fu lì, da quella parte che probabilmente andarono le donne della storia che vi sto raccontando. Abitavano precisamente in Calle della Malvasiaa Sant’Aponàl, che portava pure lei dritta al Traghetto affacciato sul Canal Grando.

Zona un po’ pericolosa e solitaria la Calle del Traghetto, a certe ore soprattutto. Tanto è vero che proprio lì negli stessi anni (05 agosto 1582) un certo D. Rossi da Cividale del Friuli assalì e ferì due Monache Converse del Santo Sepolcro in Riva degli Schiavoni ancora in giro per Venezia “a ora impropria”… Sembrò che fu “per affari d'amore e gelosia” … una delle due Monache venne colpita alla testa e l'altra al braccio ... Poi l’energumeno si diede alla fuga da Venezia ... Il Consiglio dei Diecilo condannò in contumacia al “Bando Capitale” e alla confisca di tutti i beni: 1000 ducati, che vennero versati “a beneficio del Convento del Santo Sepolcro”. Se avesse osato ripresentarsi a Venezia sarebbe stato decapitato “fra le due colonne” in Piazzetta a San Marco.

In Calle della Malvasia di Sant’Aponal(andatela a scovare ! con in mente questo racconto)abitava quindi Fulvia Brunalesco moglie di Lucrezio Cilla, insieme a sua sorella Valeria sposata con Girolamo Mariani o Maraini da Oderzo, che aveva una figlia: Splendiana. Entrambe le famiglie erano quindi originarie di Oderzo (paese noto a Venezia in quell’epoca per la sua predisposizione ad accogliere e sfornare pericolosi Eretici, Luterani, Calvinisti, nonché fattucchiere e malefiche Streghe e stregoni della risma di Francesco Stella da Buffolè che aveva procurato gran casino col Santo Uffizio dell’Inquisizione in giro per il Veneto e l’Italia del NordEst di allora).

Diversi di Oderzofacevano la spola con Venezia soprattutto a servizio dei Nobili Diedoche aveva possedimenti lì oltre che in Laguna. Poi impiantati nella Capitale finivano per restarci impiegandosi anche in altro e inventandosi un modo di vivere tutto Veneziano.

 

Fu lo stesso Lucrezioun bel giorno ad andare a bussare alla porta del Santo Uffizio di Veneziapresentandosi al Tribunale dell’Inquisizione. Andò a raccontare fra l’altro, che: “una certa donna  Splendiana cortisanella, insieme con sua madre Donna Valeria … come donne pessime, cattive et di mala vita quali sono senza timor di Iddio e dalla Santa Madre Chiesa, fanno tante stregherie, incanti e cose diaboliche in giro per Venezia … Tengono un magazzino pieno di scoàzze et altre poleronarie (cianfrusaglie), e lì si ritrovano a recitare preghiere strambe con Rosari senza Croce, e senza dire Amen alla fine … Poi con dell’Acqua Santa presa nelle chiese fanno degli Atti Diabolici sacrileghi…”

Ve le immaginate per un attimo le facce dei navigati e furbi Savi e Giudici Veneziani mentre ascoltavano quelle cose dette da quella specie di Campagnolo importato in città ? … Avranno pensato: saranno verità queste ? O questo qua è sballato e fuori di testa ? … come probabilmente lo saranno anche gli altri con cui avrà a che fare ? … Che venga qua solo per farci perdere tempo inseguendo le sue banali vendette personali e casalinghe ? ... Questa storia sembrano sia un insieme di beghe sciocche fra parenti.

Di sicuro non la pensavano allo stesso modo l’Inquisitore col suo entourage … C’era sempre in quei tempi la voglia nell’aria di tirare fuori l’acciarino per accendere qualche buon rogo ed estirpare così un po’ di Mali ed Eresie dalla società.

Curiosa comunque la figura di quell’uomo che andò a denunciare moglie e cognata … E sapete perché lo fece? … Forse …

Perché gli avevano detto che nell’Acqua Santa dell’Inghistera prelevata dalle donnine cercando di non farsi notare nelle chiese limitrofe a casa, era apparso il suo volto … Le donne lo ritenevano quindi reo della sottrazione e scomparsa dei beni di famiglia … Se li era forse impegnati per andarseli a giocare ? … Che ne aveva fatto ? … Chissà ?

Sta di fatto che bene o male le donne tramite i Sortilegi dell’Angelo Santo avevano incolpato proprio lui: uomo nefando, che aveva rubato i preziosi di famiglia ... Quel tesoretto meticolosamente conservato da chissà quanto tempo, per chissà quali avversità ... Disgraziato e farabutto minimo.

L’uomo da parte sua si dichiarò incredulo per quell’accusa secondo lui infondata, oltre che insolita nel modo con cui era nata … Proprio per questo s’era rivolto all’Inquisizione… Ma forse proprio non gli andava d’essere preso di mira da tutta la famiglia, o che perlomeno s’intrufolassero nei fatti suoi.

Insomma: finirono tutti citati in Tribunale, e comparvero davanti ai Savi all’Eresia che in quegli anni erano i Nobili Domenico Duodo e Zaccaria Contarini insieme forse a Giustiniano Giustinian il cui zio Paolo era considerato mezzo Santo … Non mancarono di presentarsi anche un buon numero di testimoni pronti a calcare la mano contro le donne confermandole come Streghe.

Comparvero: Giustina dalla Contrada di Santa Maria Materdomini: “che stava so del Ponte della Madonne oltre San Polo verso Santa Croxe”, e una certa Elena mugier de Ludovicoche stava drio alla Schola Grande di San Rocco”... C’era poi lo stesso Cilli rabbioso, che trascinò dentro alla faccenda perfino sua moglie Fulvia, che in realtà di “stregonèssi” ne sapeva più di tutti.

Era stata lei, infatti, a istruire le donne, e a suggerire quella trovata dell’Acqua Santa e dello Spergiuro.

Dalle chiacchiere di strada, quelle Verginelle insolite e un po’ fuori orario, erano state viste anche dal Gondoliere della “prima” del mattino del Traghetto intento a sistemare e ripulire lo Stazio de çitra de San Benèto ...Le aveva notate anche quello dell’“ultima all’Ave Maria di notte”mentre accendeva “il cesendetto a olio” davanti alla Madonnetta: "la Madre nostra", infissa in muro di Cà Tron (sostituita nel 1800 da una “Madonna con Putto” infissa sulla facciata di Palazzo Donà) nello Stazio di spalla, “dalla banda de ultra del Canalàsso”.

I Barcaroli-Gondolieri vedevano traghettare spesso quelle ragazzine fra Sant’Aponal e San Beneto, e uno di loro le aveva anche intraviste più volte infilarsi furtive nella chiesa di San Beneto, e uscirne poco dopo: “di fretta e circospette” provando a nascondere goffamente un’Inghisteria, quel vasotto a pancia baissa “d’uso de càsa”, che poteva contenere, che cosa, se non Acqua Santa sottratta in chiesa ?

Il Gondoliere le riconosceva quindi, perché le aveva notate più volte in giro, anche quando i Gondolieri col loro Gastaldo Sier Bernardin Favella s’erano recati a consolidare e confermare gli accordi col Piovano di San Beneto circa l’uso e l’occupazione della riva, dei gradini e del "portegheto" che erano proprietà del Parroco, e circa il quantitativo di candele da versargli come indennizzo per quell'uso.

Il frequentatissimo antico Traghetto di Sant’Aponal-San Benèto risaliva al 1293: “in Confinio Sancti Apollinaris ad tragettum Sancti Benedicti”, e costituiva il principale collegamento fra i mercati di San Polo e San Marco. Era un Tragheto da paràda (attraversamento) con 31 “libertà d’esercizio” (licenze)per i Compagni Barcaroli-Gondolieriautorizzati a trasportare ogni volta non più di sei persone ...

Oggi non c’è più.

Le donne allora finirono davanti al Tribunale dell’Inquisizione … Apparentemente non si persero d’animo e affrontarono decise l’interrogatorio e la prassi processuale … Sveglie quanto basta, ammisero ogni addebito, confermarono ogni presunta “gestualità Demoniaca”fatta a domicilio, e si autocensurarono ammettendo la loro colpa ... ma testimoniarono anche della loro ignoranza circa il significato dei gesti che avevano compiuto.

Più di tutte “squacquarò”e disse tutto Spendiana Mariani, che raccontò ai Giudici di come lei insieme alla sua amica Polonia, e a due tre ragazzine verginelle di circa quattordici anni, avevano fatto il Sortilegio dell’Inghistera pronunciando lo Scongiuro: “Angelo Bianco, Angelo Santo … Per la tua Santità ... Per la tua Verginità, dimmi chi è stato a robàr qua ?”

Toccò poi a Valeria, la madre di Splendiana, di parlare. Pure lei non si fece pregare nel dir la sua “verità” quasi ingenuamente: si … Era vero che s’era trovata con Polonia, e che avevano messo una fede nuziale sotto all’Inghistera piena d’Acqua Santa, e che una donna incinta con due ragazze vergini s’erano inginocchiate con una candela in mano recitando lo Spergiuro e invocando l’Angelo Bianco ... Loro non sapevano però che si trattava in realtà di un’invocazione al Demonio “mascherato da bontà angelica”.

Dall’acqua comunque era venuto fuori il volto del ladro … e si sapeva adesso chi era stato a rubare le cose di casa.

Per dare allora un qualche senso compiuto al tutto, si giunse infine al gesto ufficiale dell’Abiuraimposto alle donne dall’Inquisizione … che forse sperava di arrivare più in là.

Madre e figlia recitarono e sottoscrissero non senza un certo timore con un segno di croce perchè analfabete, l’atto formale di Abiura giurando sui Sacri Vangeli davanti al Patriarca Angelo Trevisan in persona, e al temibile Inquisitore Angelo Mirabini da Faenza… Tutto venne confezionato come Atto Giuridico dall’Avvocato Veneziano Giuseppe Vidali.

Tutto filò liscio e così si concluse … Non forse come avrebbe voluto l’inviperito Lucrezio Cilla che avrebbe voluto strapazzare per bene quelle donne … Le donne se la cavarono, invece, con soli 5 giorni di pubblica punizione: di “Banno-Berlina”fuori delle porte di qualche chiesa Veneziana … di Sant’Aponalforse ?

Poi tutto finì e venne messo a tacere dall’Inquisizione, che obbligò tutti al silenzio più assoluto su tutta la faccenda ... Ognuno se ne andò poi per i fatti suoi, e dopo quelle fosche vicende di chiacchieratissimi “Strighessi e Strigonerie” la vita delle Contrade riprese normalmente … Venezia sapeva assimilare tutto e tutti, si sapeva convivere benissimo e senza difficoltà con tante situazioni simili di Streghe, Megère, Strigòni e ciarlatani: “poveràssi: uomini e  donne qualsiasi, anco persone di rango a volte, tutti intenti a viver e campar inseguendo sogni e bisogni, nonché qualche fantasioso o concretissimo smorosèsso che finiva dentro ai letti o a intaccare i patrimoni.”

Anzi: non cambiò proprio niente di niente in Contrada di Sant’Aponal, dove il gruppetto delle donnette della Contrada s’era pentito e impegnato a percorrere la “retta via” ?

Macchè … Neanche a distanza di un anno dai fatti, all’Inquisizione Veneziana venne segnalato che la stessa Fulvia Brugnalesco faceva ancora le stesse medesime cose che faceva prima “inventandosi e prodigandosi ancora in ulteriori riti e arti magiche” ... Il Lupo perde il pelo ma non il vizio … Erano un po’ come noi di oggi, che una ne diciamo e cento ne facciamo. Ci teniamo strette e difendiamo opinioni e convinzioni, nonché scaramanzie e rimedi empirici su ciò che è giusto e utile fare o non fare, per poi continuare spesso a destreggiarci nel nostro vivere come più ci piace.

Comunque: le donne erano recidive, morbose megère, perniciose relapse da inquisire di più e di nuovo ?

Non se ne fece assolutamente nulla a Venezia per quanto ci è dato da sapere … I Veneziani avevano altro per la testa piuttosto che “la vògia de continuar ad andar drio ai borèssi de quei homeni e done ispiritài e mezzi matti”… La Storia continuò a ruotare e scorrere come se niente fosse accaduto.

Nel maggio 1606, comunque, il Senato Terra autorizzòla spesa e pagamento di 24 ducati,19 grossi e 10 piccoli a Mastro Alvise Stramassèr della Contrada di Sant’Aponal(dove vivevano 2.016 persone)“per il facimento di 24 stramazzetti di cordami damaschini e 4 di raso cremesin pontadi, fiochadi e distesi compreso spago, cordon per la realizzazione del Nuovo Bucintoro.”

Nella stessa Contrada, sempre più emancipata e vivida di ben 76 botteghe, secondo i Necrologi Sanitari dell’epoca, visse e morì il 07 ottobre 1609 il pittore Alvise Benfatto, detto “Dal Friso”, nipote di Paolo Veronese: “07 ottobre 16O9. Missier Alvise Benfatto Pittor de anni 65 in circa, morì da febbre in giorni 8, in Sant’Aponal”... poi …

Poi: basta … mi fermo qua stavolta.


Storie di Preti e Buranelli nel 1500-1600

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#unacuriositàvenezianapervolta 276

Storie di Preti e Buranelli nel 1500-1600

A volte fugaci lampi emergono dalle antiche cronache illuminando brevemente la notte storica dei Tempi andati anche dell’Isola di Burano … Basta osservarli curiosi un attimo, il resto viene da se.

All’inizio aprile 1504 la Schola de Sant’Albàn,Domènego et Orso con i suoi 180 Buranelli iscritti fece notizia in Isola. Si rilevò che la “Schola rischiava d’andàr a prisipìsio” perché era diventata molto povera: “caricàda e pesantìa” da numerosi debiti di Confratelli insolventi.

I Gastaldi della Schola davanti al Podestà di Torcello avevano spiegato: “Abbiamo molte spese de cereda coprire, diverse opere di Pio Soccorso e Beneficenza indispensabili da compiere in Isola … Forniamopastiai bisognosi di Burano nella Festa dei Patroni, e pan et candelaai Confratelli che vengono a costare soldi 24 ciascuno.” Come non bastasse, aggiunsero decisi e compunti, cappello in mano:“Abbiamo inoltre anche l’Altardei Santi Patroni da accudire e addobbare in cjèsa de San Martin”,e ultimo ma non ultimo: “e anche il Prete-Cappellanoda mantenere:che disè ogni giornoMessa a pagamentousàndoil caliciòn d’argento dorato della Schola eccetto un giorno alla settimana … che gli viene defalcato di norma dallo stipendio.”

Il Nobile Podestà di Torcello annui serioso e  attento: avevano ragione … Troppi oneri e troppe spese ... troppi debiti … e troppe persone avide e interessate in giro che facevano ciò che volevano impunemente ... Bisognava agire ... Far qualcosa prima che la cosa si gonfiasse e salisse “agli occhi e agli orecchi in Alto”.

Alcuni Buranelli vennero allora puntualmente segnalati al Podestà che d’autorità fece loro sequestrare in pegno qualcosa: a qualcuno venne presa la barca, ad altri le reti, a qualcun altro le cose di casa, il letto per dormire in un’occasione … Non è che allora si potesse tanto scherzare e tergiversare con la Giustizia della Serenissima.

A tal proposito … trascorse, invece, diverso tempo senza che “qualcuno”venisse toccato e cambiasse così veramente qualcosa … All’inizio di dicembre 1572, quindi ben settant’anni dopo, l’Officio della Santa Inquisizione di Venezia convocò a processo Prè Alban Tagliapietra da Buran, che dal 1552 era anche Cappellano della Schola de Sant’Alban dell’Isolapercependo 24 ducati annui portati a 28“con l’obbligo de dir Messa de bonòra per la comodità del Popolo dei Buranelli”.

Venne ammonito e obbligato a dir Messa sull’Altare dei Santi Patroni di sua competenza sotto pena di soldi 6 ogni volta che avesse mancato d’osservare a quel suo compito … La somma gli sarebbe stata detratta direttamente dallo stipendio ...  I Buranelli s’erano stancati di tollerare i suoi abusi, e che il Prete intascasse senza garantir i suoi servizi. Troppe volte avevano dovuto attenderlo in chiesa per la Messa, e lui non s’era presentato “lasàndoli a vardàr el sofitto in vuota attesa.”

In seguito lo stesso Prete Albano dovette comparire a casa di Giovanni Renio Vicario del Vescovo di Torcello, che abitava in Contrada di San Bòrtolo di Rialto. Lì davanti al Vicario provò a dire d’aver celebrato in giro su altari diversi solo per compiacere la Devozione dei Popolari ... La Schola de Sant’Alban de Buran gli ricordò prontamente che era lei a pagare il suo stipendio, e che era lui piuttosto ad aver recato danno alla Devozione dei Buranelli verso i Santi Patroni … Gli fu allora fatto espresso divieto di celebrare qualsiasi tipo di Rito fuori da San Martino sotto pena di 1 Mocenigo ogni volta che l’avesse fatto.

I fatti erano fatti … Pre Alban andava di continuo a dir e cantàr Messa a San Michele Arcangelo de Mazòrbo ... Sant’Anzòlo dopo el Ponte Lòngo… Era la vetusta e cadente chiesòla a tre navatelle divisa da magre colonne, col Coro de legno e la tonda absidiola, che versava in tale stato di degrado che stava in piedi per miracolo.

Perfino l’apparentemente sempiterno, munifico ed eloquente Doge della Serenissima: Francesco Foscari(65º Doge della Repubblica di Venezia che governò il Dogado per oltre 34 anni  raggiungendo la maggiore espansione territoriale della Stato Marciano, ma costretto all’abdicazione dal Consiglio dei Dieci per colpa delle vicende del suo sciagurato ma protetto figlio Jacopo ***) aveva concesso ai Procuratori della chiesa di Sant’Anzolo di Mazòrbo di vendere una casa dell’isola per provvedere a urgenti lavori di recupero e restauro.

All’epoca dei fatti la chiesupola Mazzorbese poteva contare sulle elemosine solo di un paio di centinaia d’Anime in tutto, ma sapeva lo stesso pagare bene le prestazioni del Prete Alban tanto da indurlo a rinunciare di presenziare a Burano.

Storie minime di Isole: “I denari de la Schola de Sant’Alban col Caldieròn de San Martin fanno gola a tanti, ma purtroppo a discapito de li obblighi che da essi derivavano.”

Storia irrisolta, tanto è vero che ancora secoli dopo lo stesso Consiglio dei Dieci fu costretto a imporre l’obbligo a tutti i Titolati, Preti, Chierici e Cappellani delle Schole e delle Contrade Veneziane, di Torcello, Murano, Burano e Mazzorbo: “de cantàr le loro Messe e accompagnar il Venerabile quando si deve portarlo agli infermi nelle case” …  “sotto pena” ovviamente, altrimenti non l’avrebbe fatto nessuno:“Che misero scenario tristo !  … L’avidità che s’avanza con la scusa dell’Abito e dei Riti, e con la prerogativa d’accompagnare sulla Strada per l’Aldilà.”… ieri come oggi ... Non è cambiato granchè.

Bollì di rabbia allora il Prelato Tagliapietra davanti al Vicario del Vescovo di Torcello minacciando di rinunciare al “Mandato”che gli aveva conferito la Rinomata Schola dei Santi Patroni di Burano.

“Risolverò io !”disse allora il Vicario di Torcello, che lo obbligò al rispetto di quanto stabilito dalla Mariegola della Schola minacciandolo di ulteriori multe e sanzioni come da Diritto Canonico.

Molla e tira … e tira e molla ... La Schola, visto che niente cambiava, si scelse ed elesse un nuovo Cappellano nella figura di Prè Mattio Della Grana preferendolo a Prè Cristofalo Dall’Acqua che s’era già preavanzato prendendo l’iniziativa di andare ad abitare nella casa della Schola nella Piazzetta dell’Isola Buranella prima ancora d’essere prescelto e nominato.

Sfortunata nelle scelte l’antica Confraternita dei Buranelli … In seguito scelse ed elesse ancora un altro Prete come “Cappellano a casa, Messe e spese”, nominò: Prè Bartolomeo Stella da Ferrara… e poi ancora toccò a Prè Nicolò Orio:“un Prete che si rivelò essere malandato e davvero indecente: Una vera vergogna! … ripetevano tutti in giro per Burano.”

La stessa Schola allora si autodeterminò a regolarsi, perché i 235 iscritti Confratelli “homeni e dòne” brontolavano e mormoravano che si eleggevano di continuo come Guardian e Officiali della Scholasempre i soliti raccomandati illustri: “I xè tutti parenti fra de lòri … i se vota uno co stàltro (a vicenda) ... Uno ghe da da magnàr a stàltro”  Secondo Giustizia chiunque poteva essere eletto.

Era risaputo poi che molti dei Confratelli, che avevano l’obbligo d’accompagnare i Confratelli Morti durante il Funerale, e di partecipare alle “Domèneghe Ordenàde” rimanendo in chiesa, se ne stavano regolarmente in Piazza e in Osteria durante la Messa infischiandosene della pena di soldi 5 imposta dalla Schola, che regolarmente non pagavano … Inutilmente FilippoDelegato Apostolico aveva provato a concedere nel 1544 un’“Indulgenza Plenaria di 40 giornidalle pene del Purgatorio” a chi si sarebbe recato a venerare devotamente i Corpi dei Santi Patroni esposti in chiesa di San Martin, soprattutto il giorno della loro Festa o la Domenica ... Povero illuso !

Non era cambiato niente: non l’ascoltò nessuno.

Sulla scia allora di quel ritrovata stagione d’effimero entusiasmo, si giunse ad eleggere alcune donne agli Offici Maggiori. Quasi: “a furòr de Popolo”: cioè con ben 206 voti favorevoli e soli 29 contrari vennero eletto sostituendo i soliti vecchi maschi bacchettoni e intransigenti che ricoprivano quelle cariche da sempre ... La Schola Buranella provvide poi a ridurre diverse spese superflue: tagliò via “le varie e inutili colaziòn e merendòte del Corpus Dominie della Vigilia de Sant’Alban”, la spesa di 20 soldi per comprare ogni volta due secchi di vino, il pane, e un’altra quarta di vino da dare a Confratelli e sopravenuti, e abolì anche i “fasiòli dei Morti” che la Schola offriva ai poveri dell’Isola “perché i se recasse tutti in cjesa a suffragar i Morti della Schola e de Buràn ...  Rimase solo la colaziòn de la Festa de Sant’Alban, in cui la benedèta Schola offriva a tutti i bussolai in honor dei Santi e della Magnifica Comunità dell’Isola tutta.”

Tutto a posto finalmente in Isola ? … Macchè !

Verso metà marzo 1611 l’Inquisizione di Venezia si affrettò ad allestire: “Processo per commercio carnale di una Monaca con un Prete”…. Nel tardo autunno dello stesso anno si presentò querela contro Prè Giuseppe Tagliapietra Piovàn de San Martin de Burano(1602-1642), che  aveva condotto fuori dal Monastero di San Vito de Pìsso una certa Monaca Diodatatravestendola da Prete.

Fu scandalo in isola … “E no !” dissero diversi Buranelli e Buranelle davanti all’Inquisizione: “Ve ben che sèmo tolleranti, ma il troppo è troppo.”

Nell’agosto di quattro anni dopo, fatalità, anche Alessandro da Buran di anni 20 e Paolo da San Stin da Vicenza, vennero impiccati per ordine del Consiglio dei Dieci della Serenissima di Venezia: “La c’è allora la Giustissia della Serenissima !”

Acqua sul bagnato che scivola via però …  Nel 1625, quando Burano contava 4.890 abitanti, e la vita religiosa in Isola era fiorentissima perchè c’erano: 3 Conventi con 90 Monache, e ben 44 Sacerdoti che si curavano delle Anime delle Monache e dei Buranelli ... Quando a Burano si contavano 971 case, 33 fra caxette e casini, 5 botteghe, 1 caneva e 1 taverna-osteria, 4 magazzini, 3 cavane, 13 forni, 12 Squeri, il Fontego della Farina, ed erano presenti attive 5 Confraternite e un Ospedale per i poveri … Era un tempo di crisi e difficoltà economica in Laguna, perché una terminazione degli Officiali alle Rason Vecchie concesse ai Buranelli uniti nella pescaggione di recarsi non più a uno per turno, ma due per barca e per volta fino ai Mercati di Rialto e San Marco per provare a incrementare le loro vendite ricavando qualcosa.

Beh … L’anno seguente in giugno partì un altro Processo “per scandali”… Nello stesso autunno un altro ancora: “per un Prete Secolare trovato in Parlatorio con una Monaca a far le loro cose.”… A fine maggio dell’anno seguente: altro Processo ancora: “per pranzo in Parlatorio di un Prete Secolare con due Suore; mentre un altro si era recato nella Foresteria del Monastero con una meretrice.”

Tanta roba insomma … Ma anche no, perché in quell’epoca l cose vi sto raccontando riempivano normalmente e spesso le cronache delle città e delle Isole un po’ ovunque.

Nel 1638, ancora, a ringraziamento d’essere stati risparmiati dalla peste che a Venezia aveva falcidiato più di 35.000 vittime, le Comunità di Torcello e Burano sollecitate da Marco Zen Vescovo Torcellano, e dallo stesso Piovano Buranello Giuseppe Tagliapietra: quello stesso della storia del 1611 rimasto al suo posto come se niente fosse accaduto; costruirono un nuovo altare in onore dei Tre SantiPatroni ponendoli insieme in un’unica urna come “SuperProtettori dell’Isola di Burano”.

All’inizio febbraio 1661, infine, una denuncia segreta alla solita Inquisizione Veneziana interessò il Piovan deSant’Anzolo de Mazzorbo(San Michele Arcangelo)insieme a Betta detta Bettolin: sua serva di casa … “donna che già di suo godeva di cattiva fama e di lingua senza paura”. Fu un gruppo “de servidòri e famègi” (famigli) del Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo ad accusare soprattutto la donna: “di recarsi più volte al giorno nei Parlatori del loro Monastero per compiere la sua attività di mezzana portando presenti, lettere e corrispondenze amorose a certe giovani Monache Nobili che la ripagavano per il servizio con anelli d’oro, lussuose cordele da testa, e con eleganti còtoli (gonne)… Una religiosa giovane e bella le aveva promesso perfino un paio di bracciali d’oro.”

Sette-otto anni dopo, a seguito di un’ennesima lite furibonda, ancora un Prete di San Martin, forse lo stesso della volta precedente,  mandò la sua Governante a dire allaBadessa di San Vito: “Tu sei una gran pubblica puttàna !”

Insomma a Burano non mancarono mai fatti e sorprese curiose capaci di riempire di continuo i pettegolezzi e le "stòrne" (maldicenze) sfoderate da molti in Isola.

Mi fermò qua … di lampi del Tempo delle Isole però ce ne sarebbero tanti da raccontare.


§§§§§§§§




*** Mestissima la fine dell’ottantaquattrenne Doge Veneziano Francesco Foscari: una delle più tristi dell’intera e poliedrica Storia della Serenissima. Il 22 ottobre 1457 la richiesta di dimissioni del Consiglio dei Dieci divenne ordine esecutivo perentorio nei confronti dell’anziano Doge. Il giorno successivo gli vennero tolte le insegne e gli abiti simbolo del suo potere, come da rituale si spezzò il suo anello Dogale, e venne indotto a uscire da Palazzo Ducale. L’anziano Foscari decise di farlo scendendo claudicante appoggiato al fratello Marco giù per la scalinata dei Giganti da dove era salito al momento della sua nomina Dogale: “Aveva guardato in faccia altero la Gloria entrando a Palazzo, sarebbe uscito a testa alta dalla stessa Gloria andandosene con onore.”

Morì una decina di giorni più tardi: il 1 novembre seguente, nella sua abitazione in Campo Santa Margherita, e con Funerale di Stato venne esposto ai Veneziani vestito da Doge, e poi accompagnato alla sepoltura nel mausoleo della Basilica dei Frari dal nuovo Doge Pasquale Malipierovestito da semplice Senatore.

Non gradì molto la cosa la vedova Dogaressa Marina Nani, che inizialmente rifiutò di concedere il corpo del  marito dimostrando di non voler affatto apprezzare quell’umiliante gesto ultimo e riparatorio messo in scena dalla Repubblica che in realtà, in modo diverso, le aveva tolto sia figlio che marito. Si ricredette comunque alla fine la Nobildonna, e lasciò fare pur non partecipando al funerale ... e andò a finire i suoi giorni nel completo anonimato in un terreno di sua proprietà.

Il Ponte del Diavolo a Torcello

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#unacuriositàvenezianapervolta 277

Il Ponte del Diavolo a Torcello

Questa non la sapevo, o perlomeno non mi ricordavo più d’averla letta … L’ho rinvenuta e rispolverata di recente da qualche parte … Non chiedetemi dove, perché non lo ricordo più.

Quando gli Austriaci occuparono Venezia nella prima metà del 1800, una giovane donna Veneziana, una Buranella forse, s’innamorò perdutamente di uno dei suoi belli Ufficiali dalla candida Regia quanto bigotta e austera divisa. Le divise si sa: da sempre hanno facoltà di ammaliare e catturare le donne … Chissà perché ?

Non ci vuole molto ad immaginare quanto accadde subito in famiglia, nel parentado, fra i vicini, nell’isola intera, e quanto saltò di bocca in bocca fra i Veneziani: una pioggia dicritiche. I genitori esasperati e grandemente disagio, pensarono allora di risolvere la questione allontanando la figlia da Venezia mandandola in Campagna ... per fortuna che la donna non era rimasta incinta, altrimenti sarebbero stati davvero dolori un po’ per tutti.

Allo stesso tempo però avvenne l’imprevisto … Il giovane soldato venne ucciso … Un bene nel male si giunse a dire, anche se non si venne mai a sapere chi fu l’autore materiale dell’omicidio. La famiglia non di certo, ma si vociferò che i mandanti fossero stati alcuni Veneziani che contavano con attitudini poco filoAsburgiche.

La giovane donna ovviamente e comprensibilmente non mangiò più, smagrì e s’appassì divenendo astenica al punto tale che s’iniziò a temere per la sua vita.

Quando si stava ormai per perdere ogni speranza, e i poveri genitori erano abbacchiati e afflitti dai rimorsi, si presentò un amico di famiglia, uno di quelli del parentado che compaiono e si fanno vivi “ad ogni morte del Papa”. Disse che c`era un modo per uscire da quella situazione, e per fare incontrare almeno un’altra volta la ragazza col suo “scomparso moròso”.

Possibile ?

“Forse anche si” affermò l’amico di famiglia facendo il nome di una Vecchiaccia maledetta che tutti chiamavano “la Maga”. Si raccontava in giro che avesse confidenza e familiarità non solo con i Diavoli e gli Spiriti, ma con tutto quanto concerneva con l’Oltre, cioè l’Aldilà.

Col Diavolo il Demonio ? … Mmm … Non era un giochino da farsi … Soluzione da brividi.

“Beh ?”disse la Madre, “In fondo che c’è di male  ? … Ne va della felicità e della vita della nostra ragazza.”

A farla breve … Si convocò la Maga-Megera, che subito si attivò evocando uno dei Demoni di sua conoscenza. Costui era proprio quello adatto perché teneva sotto alla lingua una chiave capace di aprire il Tempo e lo Spazio dell’Aldilà ... la usava di continuo per infilarci dentro le Anime che riusciva a catturare. Il Diavolo, infatti, le rispose subito proponendole un patto: le avrebbe concesso di far incontrare i due due innamorati se lei in cambio gli avesse offerto sette Anime di bambini cristiani morti prematuramente senza Battesimo ... Sette buone anime Dannate cioè.

“Ci stò !”disse la vecchia, “Dove faremo il cambio ?”

Parla e discuti e organizza, alla fine si disse che come location dell’incontro amoroso sarebbe servito un ponte isolato.

“Più isolato di quello di Torcello ?” ironizzò la vecchia … Quindi si scelse proprio quello.

“Quando si farà la cosa ?”

“Sotto Natale ovviamente … dalla parte destra del Ponte.”rispose lo Spirito Buio, “Così ci rifaremo almeno un po’ di quella volta in cui abbiamo perso un bel po’ d’Anime nell’ennesimo scontro col Bene Assoluto che è riuscito ad infilarsi fra gli Umani rompendo il Velo Eterno del Tempo vestendosi con un nome e un volto da Uomo ... Non ho ma digerito bene quella faccenda.”

La Maga Vecchiaccia maledetta lo lasciò dire … Le interessavano poco quei discorsi che sentiva troppo più grandi lei.

Si accordarono quindi per trovarsi di notte con la giovane per realizzare lo scambio ... Verso mezzanotte di una notte nerissima e senza Luna, la Maga consegnò alla giovane tremante una candela accesa intimandole di salire fin sulla metà del Ponte: “Stai zitta … Fidati … Non far nulla … e lascia fare ...” sussurrò alla donna che mosse i primi passi a salire i consunti gradini del Ponte.

La Vecchia subitamente iniziò a borbottare sommessamente certe formule incomprensibili, e qualche istante dopo il Demone Maligno in persona comparve gigantesco, nero e tremendo in cima al Ponte.

“Mamma mia ! … Aneme di tutti i Santi … della Madonna e di tutti i Morti.”sussurrò la giovane tremando come una foglia d’autunno per la paura. Non emise un suono però, neanche una parola ligia alle indicazioni della sgarrufata Maga.

Senza dire niente intanto, il Demonio sfilò da sotto la lingua una chiave d`oro porgendola alla vecchia salita a sua volta sul Ponte ... e un istante dopo la stessa Megera aprì l’adunca e secca mano lasciando cadere nell’acqua del canale la chiave miracolosa.

Non sfuggì al Demonio una specie di ghignò e smorfia strana che fece la vecchia donna ... Ma lì per lì non ci fece caso: lui era il Demonio, chi avrebbe osato burlarsi di lui ?

In quello stesso momento dall`altra parte del ponte giù a sinistra apparve come per miracolo il giovane Ufficiale Austriaco morto assassinato: era bellissimo, più bello che mai ... e la giovane Veneziana gli corse incontro passando tra Demone e Strega alla quale consegnò la candela accesa.

La giovane Veneziana rinata andò a perdersi dentro alla stretta senza Tempo dell’affettuoso abbraccio del suo amato.

Aveva vinto l’Amore e la Felicità, cioè aveva vinto il Bene ancora una volta ... e la Vecchiaccia Maledetta, forse memore di qualche sentimento che aveva provato in gioventù, socchiuse gli occhi cisposi e lagrimosi, e soffiò sulla candela spegnendola … Quel che era fatto era fatto: non si poteva più tornare indietro.

La Leggenda racconta che gli innamorati scomparvero per sempre dentro al buio notturno, stretti nel calore freddo di quell’abbraccio mortale. Sarebbero rimasti così per sempre attraversando il confine dei Luoghi e del Tempo che a nessun Umano è dato di conoscere e comprendere ... pena la Morte e la fine dell’Esistenza.

“Saranno felici ?” aveva chiesto in precedenza la Madre alla Strega.

“Credo proprio di si.” le aveva risposto lei senza guardarla in volto, e senza aggiungere nient’altro di più.

Sopra al Ponte, fra l’Aldiquà e l’Aldilà rimasero quindi il Diavolo e la Maga, con lo Spirito Buio che le diede appuntamento alla notte dell’ormai prossima Vigilia di Natale per ottenere “il saldo in Anime” che avevano pattuito.

Qualcosa non funzionò però ... La Vecchiaccia Maledetta crepò morendo nell’incendio della sua casa, e quindi non potè mai presentarsi sul Ponte per saldare il suo debito col Maligno ... Da allora, si dice, che ogni anno a Natale un Gatto Nero attenda inutilmente sul Ponte del Diavolo sperando che prima o poi qualcuno gli venga a portare quanto gli spetta ... Sono trascorsi secoli e non è ancora accaduto, ma non si sa mai … Chissà ? Potrebbe anche accadere.

Non ci credete ?

Provate allora ad andare a Torcello, ad osservare l’acqua sotto all’arcata dell’antico Ponte … Noterete che è sempre insolitamente immota, liscia e quieta a differenza della rimanente acqua di tutto il Rio di Torcello.

E avete capito bene anche perché … Perché c’è Lui là sotto disteso nell’ombra, arrabbiato e un po’ arrapato a dire la verità, perché ancora dopo secoli ha la sensazione neanche tanto vaga d’essere stato gabbato in qualche modo da quelle due donne Veneziane.

Attraversatelo il Ponte … ma occhio ai piedi però … che una mano adunca e nera non ve li prenda … E attenti anche a non fermarvi con la barca dentro a quell’ombra apparentemente quieta ma buia che sta di sotto ... Chi si è fermato là non è più tornato a raccontarlo.

 

Tutto e di più nelle Contrade di San Zuliàn, San Biagio e San Severo.

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#unacuriositàvenezianapervolta 278

Tutto e di più in Contrada di San Zuliàn, San Biagio e San Severo.

Il solito Pierazzo Gradenigoha scritto nei suoi interessantissimi “Notatori” alla data del 14 marzo 1773: “Bando e sentenza stampata, e in questa mattina publicata in rigor di parte presa nell’Eccellentissimo Consiglio di Quarantia al Criminal contro Vicenzo Politi, o sia Puliti, solito girare il mondo senza mestiere, e di nazione Romano; come quello che, stretta scambievole amicizia sino a giurarsi fratelli con Francesco Pasquin, Lavorante Tagièr nella Contrada di San Biaggio di Castello, con esso formasse società di vagabondi, non senza presunzione, che esercitassero l’odiosa professione de ladri, e borsaioli, finalmente restasse amareggiata questa loro unione a mottivo che il sudetto Pasquino ricoverò appresso di sè la moglie di esso Politi, ad oggetto quantunque non sincero, di preservarla dalle avvanzate minaccie del marito, che, scoperta l’occultazione, meditò insidie contro il Pasquino; anziché a 2 maggio 1768, nella Calle della Madonetta a San Severo, impugnato un coltello stilato, improvisamente vibrò due ferite al Pasquino; l’una nel torace a parte destra sotto la mamella; e l’altra penetrante in cavità dell’abdome con uscita dell’omento, ed offesa dell’intestini, per cui nel giorno seguente nell’Ospitale dei Santi Pietro e Paolo terminò miseramente li suoi giorni; che però, venendo preso sia impiccato fra le due colonne di San Marco con taglia a captori, o interfettori, di ducati 500.”

Che dire ? … Il fatto si spiega da se … Evidenzio solo: che accadde in Calle della Madonetta ... Ci sono passato proprio due giorni fa, a pochi passi dai Greci, e ad altrettanti da San Severo: solo una calle e un canale … La Contrada di San Severo,secondo quanto ricorda il Lessico di Fabio Mutinelli, è stata da sempre parte delle Isole Gemelle o Gemini riconoscibili fra i Sestieri di San Marco e Castello dell’Arcipelago Veneziano ... Molto ricordata nell'antiche carte di Venezia era la “Batùa di San Severo” ad indicare un percorso alternativo a piedi più riparato da seguire (battere) di preferenza  piuttosto che percorrere la più esposta alle intemperie e al sole Riva degli Schiavoni per recarsi al Mercato di Olivòlo-Castello ... L’insula di San Severoinizialmente posta sotto il Juspatronato(controllo-protezione)dei Nobili Partecipazio, passò ben presto (1185) sotto l’oculata gestione della Badessa delle ricche e potenti Monache Benedettine di San Lorenzo di Castello, che non mancarono d’accaparrarsi ogni diritto su San Severo, compreso quello d’“Inventio”, cioè di scelta e nomina del Piovano della Contrada, che doveva essere in tutto e per tutto una persona di loro gradimento per poter essere al loro completo servizio.

“Sette: San Severo … come e Sette Sante Piaghe de a Madona” esclamavano i Veneziani di ieri giocando in strada alla Tombola fra calli, corti e campielli … Alla fine della Serenissima, invece sussurravano diversamente sottovoce guardandosi intorno guardinghi: “Sette: San Severo … A remèngo San Severo !” mormoravano, perché l’ex chiesa ormai disfatta, era diventata prima ricovero dei lavoranti della Casa dell'Industria di San Lorenzo, poi officina di falegname, e infine Carcere Politicoadottato da Francesi e Austriaci per ammassarvi alla rinfusa i maltrattati e malmessi Veneziani.

Tristo destino quello della Contrada di San Severo: lì abitò anche l'Architetto Calendario: mirabile autore di tante belle e singolari parti e capitelli di Palazzo Ducale… Venne arrestato per “complicità”col Doge Marin Falier, di cui sempre a San Severo andò ad abitare la moglie rimasta “Derelicta”, cioè vedova del famoso Doge Traditore.

Nel 1500 quando Antonia(e basta … senza cognome) esercitava da prostituta “pieza lei stessa in Ruga Giuffa, poco discosta da San Severo, a scudi 2 la bòtta”, ben quattro Preti soggetti alle Monache di San Lorenzo abitavano in case distinte senza pagare affitto proprio vicino a quella donna … Loro officiavano San Severo delle Monache venendo pagati 12 ducati annui ciascuno … Antonia, invece, prestava un “servizio diverso”: “Sempre di commerci si tratta ... Antonia in proporzione prende di più !”ghignavano sarcastici i Veneziani della Contrada … Uno dei quattro Preti era Prè Daniel Grisonio, un altro: Prè Josepho Zarlino, e di un terzo e un quarto è andato perso nome e memoria … Si sapeva comunque che tutti e quattro ogni giorno si recavano a celebrare “a ripetizione” sui sette Altari della chiesa di San Severo: (San Severo, Santissimo, San Giovanni, Madonna, San Gallo, Sant’Andrea e Santa Caterina) per incassare i cespiti delle 8 Mansionerie di Messe di cui erano titolari le Monache di San Lorenzo. Da “quell’impresa” le Monache ricavavano da secoli ben 158 ducati annui insieme a  diversi  generi in natura.

Torniamo però all’iniziale Pasquinoammazzato di cui ho scritto all’inizio … Faceva il Lavorante Tagièr a San Biagio di mestiere.

San Biagio dove ? … e Tagièr: che mestiere era ?

La Contrada de San Biagio sorgeva e sorge a pochi passi da San Severo sulla Riva degli Schiavoni, sul bordo iniziale o estremo del Sestiere di Castello(dalla cui Matrice di San Pietro di Olivolo dipendeva). Sorgeva su un'altra delle isolette Veneziane anticamente chiamata “Làdrio”, o forse: “Adrio” ... ma detta: “dei Ladròni” dai Veneziani di San Biagio, che era zona portuale. La chiesa, infatti, veniva ufficiata in modo alterno in Rito Latino e Greco per andare incontro alle esigenze delle Comunità Mercantili Greche o Forestiere che giungevano a Venezia via mare stazionando, contrattando e commerciando proprio là nella Contrada Marittima di San Biagio sul Molo di San Marco.

SulPonte di legno di San Biagio prossimo al Ponte delle Catene dell’Arsenale (per via dei lunghi ferri attaccati agli stabili vicini per sostenere ii ponte girevole aperto al passaggio dei navigli uscenti o entranti) era proibito transitare e fermarsi sia passando a piedi che a cavallo: pena venti soldi di multa … C’era, infatti, sempre ungran concorso e andirivieni di popolo sull’attraversamento del ponte, per via che “di Quadragesima” tanti Veneziani erano soliti recarsi a frequentare i così detti “Perdoni de San Pièro de Castèoricchi d’Indulgenze preziose e di tante buone Grazie Plenarie utili per se e la propria fine, nonchè per il Destino incognito dei propri Morti.”

Già l’antica Cronaca Savinadel 1300 raccontava che in epoca di carestia: “fo in Senato deliberado de far un deposito in Venezia di formenti, et fo fatti alcuni magazzini di  granagliesul Campo di San Biasio”... In Contrada quindi esistevano un grosso Forno da pane e una trentina di botteghe dove vivevano da sempre quasi 700 persone: “miserrime” si diceva, tanto che i cinque Procuratori della chiesa di San Biagio non riuscivano neanche a far valere il loro diritto di ballottare l’elezione del Nuovo Piovano in quanto mancavano del requisito principale per poterlo fare: cioè l’essere proprietari degli stabili della zona … Non possedevano niente in realtà.

A conferma della precaria situazione della Contrada Veneziana, ancora diversi secoli, e mille passaggi di navi, merci, economie e storie di persone dopo, la chiesuola di San Biagio era mezza diroccata e cadente lasciata quasi del tutto in balia di se stessa … Perfino (1732) il padre del Piovano Domenigo Cimegotto pur essendo “di casa a San Biagio, e sano di mente e di corpo, solo un poco incomodato da pellagra”, fece testamento lasciando agli eredi, o in mancanza di loro alle Dimessedi Santa Maria della Concezione di Murano una sua casa … Neppure alla lontana gli passò per la mente di lasciare qualcosa alla traballante chiesa di San Biagiogovernata da suo figliolo:“una battaglia persa” disse, e lasciò la chiesuola e la Parrocchia in miseria.

Chiesa e campanile, infatti, risultavano cadenti ai sopraluoghi: con necessità del restauro … Anzi: di rifabbrica totale … Il Proto Giovanni Scalfurotto propose un ambizioso progetto di restauro per una spesa di complessivi 2.000 ducati … Ma chi li aveva da metterli a disposizione ? … Nessuno.

Tira molla, e molla e tira, secondo quanto raccontano ancora dai soliti “Notatori” dell’altrettanto solitoGradenigo: “Il 16 aprile 1749 il Patriarca Foscari pose la prima pietra della nuova chiesa di San Biagio su nuovo disegno di Filippo Rossi Proto dell’Arsenale ... Quattro anni dopo però, c’era ancora solo quella pietra iniziale mancando i denari, o se c’erano stati, chissà che strada avevano preso … Inutilmente s’invitò la popolazione per 2 giorni al Bacio del Sacro Manipolo in San Biagio onde aumentare denaro per la nuova fabbrica. Si provò anche a reperire fondi con caselle, turni e manipoli, lotterie, estrazioni di grazie e contribuzioni delle Maestranze dell’Arsenale e con contributi mensuali dei Devoti che si obbligavano a dare 10 o 20 soldi per 2 o 3 anni, e con caselle giranti per tutta la città.”

Niente da fare … Dopo due anni in estate, si era ancora quasi al punto di partenza … I “Notatori”raccontano ancora: “Nel luglio 1756 ci fu un nuovo invito a stampa per il Bacio del Sacro Manipolo mattina e dopo pranzo li giorni 25 e 26 susseguenti per aumentare l’elemosine ad erezione solecita della nuova chiesa parrocchiale.”

Finalmente l’ultimo giorno di gennaio 1757: “Suonarono le campane di San Biagio atteso essersi compiuto il nuovo campanile … Ma ahimè: che delusione ! … Il campaniletto era a vela, costrutto “alla romana”, cioè con una sola parete al posto delle quattro desiderate ... “Roba da miseria !” commentarono quelli della Contrada: “Non si è abituati così a Venezia.”  … E infatti avevano ragione: in miseria lo erano tutti davvero.”

“Ancora nella primavera seguente del 1758, il zelantissimo Piovano di San Biagio per vedere definita finalmente la fabbrica della nuova chiesa, fece pubblicare un altro manifesto a stampa con cui eccitava la Pia Devozione dei Cristiani della Contrada e della Città a contribuire in via di Associazione almeno con 4 soldi al mese ... Ma chi lo ascoltava più ?”

Tornando allora al PasquinoLavorante Tagièr di San Biagio ammazzato a San Severo … Serve ricordare che i Tagièri erano uno dei mestieri secondari prodotti dal grande indotto della Casa dell’Arsenale Veneziano… I Tagèrierano degli addetti generici alle carrucole e alle movimentazione di barche, navi e legnami dentro e fuori dall’immenso cantiere della Serenissima Repubblica … Era una professione simile a diverse altre con le quali interagiva fortemente connessa: i Soprastanti ai pèrni, ciòdi e àncore da nave, i Conzacanevi de la Tana (lavoranti di funi e cime da navi), iFilacanevo delle Schole di San Boldo e San Bernardino, i Tornidori e Busolèri, e ultima ma non ultima: l’impareggiabile attività delle donne Velère che tagliavano, cucivano e mettevano a punto le tele delle Vele ordite e preparate in precedenza dalle Orfane dei vari Ospizi e Istituti Cittadini voluti dalla saggia e generosa Pietas e Carità Veneziana.

Quella dei Tagièriera considerata un’Arte Piccola, secondaria, un’Arte solo di nome e senza reale costrutto e riconoscimento, che operava a sostegno delle Arti Grandi dell’Arsenale, cioè: i Marangoni da NaveCalafatti, i Sagomadori, i Fravi,  iSegadori, i Maestri agli albori e penoni, gli Squerajolie i Pegolòtti che riunirono in epoche diverse fino a 2.000-3.000 Maestranze Artigiane. Molti di quegli Arsenalotti dopo aver rigorosamente partecipato ogni mattina alla prima Messa inSan Martin presso le Porte dell’Arsenal, entravano a lavorare a turno al suono della campana sotto le tese, i tezoni, l'Isolotto e le Gagiandre dell’Arsenale provvedendo all’allestimento di chiglie, fiancate, cabine ed equipaggiamento di Galee Grosse o Sottili, Navi Tonde o Cocche, e Velieri per le Mude (spedizioni commerciali di Stato) della Repubblica. Molto spesso ottenevano anche di abitare attorno e accanto alla Caxa dell’Arsenal considerata patrimonio inscindibile di tutti i Veneziani, e arrotondavano le magre paghe fornite dalla Serenissima impiegandosi in qualche Squero delle vicinanze costruendo “barche da sotil”, cioè di piccole dimensioni.

A quel gran numero di Artigiani del Mare veniva in un certo senso riconosciuta l’immagine e la competenza esclusiva della professione, dando loro la possibilità di aggregarsi in specifiche Schole d’Arte, Devozione e Mestiere.

Ai Tagièri, invece: no … Insomma: erano Lavoranti semplici, generici e meno qualificati, gente in cerca di sbarcare il quotidiano lunario, manovalanza inferiore come i Bastasi (facchini)ad esempio … A loro era lasciato di provare ad aggregarsi in qualche modo qua e là secondo quanto riuscivano e seguendo le occasioni che si presentavano saltuariamente … Diversi Tagèri, ad esempio, finivano col gravitare con altri intorno al Sovegno dei Poveri dell’Arsenal di San Domenico di Castello… o provavano a sussidiarsi e tendere la mano alla decina di facoltosi iscritti della Schola dei Mercanti da Legname, che nel 1773 riuniva sotto ilPatronato di Santa Giustina quelli (quasi tutti originari della Magnifica Comunità del Cadore) che facevano commercio all'ingrosso del prezioso materiale da costruzione. Il legname veniva tagliato nei boschi del Cansiglio, Friuli e Cadore facendolo rischiosamente fluitare giù fino in Laguna sulle Zattere del Piave, che arrivavano passando per l’Isola di San Giacomo in Paludo fino alle Fondamente Nove, in Barbaria de le Tòle, all’Arsenale o sulle Zattere sul Canale della Giudecca nei pressi del porticciolo di San Gregorio alla Punta dei Sali dall’altra parte della città.Lì si accoglievano soprattutto le Zattere che fluitavano lungo altri fiumi come il Brenta  Non a caso (1532) la Schola dei Mercanti da Legname trovò sede presso la chiesa rotonda dell’Ospedal degli Incurabili che sorgeva proprio sulle Zattere.

In conclusione quindi il Pasquinoammazzato in Contrada diSan Severo era povero Tagièrche lavoricchiava e viveva d’espedienti sulle banchine portuali della vicina Riva di San Biagio.

Questo per ricordare anche che Venezia era sempre e comunque Porto di Mare aperto a tutto e tutti, e per spiegare come e perché tanti Veneziani erano d’indole tollerante e ben disposta verso ogni diversità, sempre molto attratti dalle risorse commerciali del Mediterraneo, dell’Europa, Africa e Oriente, ma anche curiosi di ogni estrosità e singolarità esotica che finiva ad affacciarsi o dar spettacolo in Laguna … Le Mudedelle Galee sempre in arrivo e partenza sui Moli di San Marco, i Pellegrini e i Mercanti che andavano e venivano, i baracconi della Fiera della Sensa in Piazza San Marco, la Mostra delle Meraviglie, la “Santa Giostra delle altrettanto Sante Reliquie” continuamente esposte ovunque in Città in un tripudio senza fine di Liturgie, Processioni ed Elemosine, le novità del Mondo Novo con l’Elefante, lo Struzzo, la Scimmia e il finto Turco imbonitore ciarlatano che non smettevano mai di mostrare ciò che già in fondo si sapeva, erano sempre nuove occasioni per comprare, “far crèser e giràr le economie”, aprirsi gli occhi e saperne un po’ di più …  Ovunque si diceva e sapeva che i Veneziani erano Mercanti, Politici e Naviganti furbi, arguti ed esperti, ma anche sempre pronti a perdersi divertendosi al gioco, nelle Osterie e nel Carnevale, o dietro alle gonne di qualche donna, o a stupirsi rimanendo imbambolati e curiosi come bimbi: “Appena ti ghe fa balàr un cavèo davanti.”

18 gennaio 1773, ancora nei Notatori: “Profittata la opportunità della oltrascritta venuta dell’elefante in Venezia, Alvise Milocco Stampatore e Librajo in Merceria dell’Orologlio, appresso la Piazza di San Marco, e alla Insegna di Apolline, fece tradurre dal Francese nell’Italiano, e publicare con le stampe, la storia di esso raro animale, esattamente scritta da Monsieur De Buffon Intendente del Giardino del Re dell’Accademia di Parigi e di quella delle Scienze ecc. Questo virtuoso libretto, pieno di varie e veridiche cognizioni rapporto alle qualità e proprietà di esso vasto quadrupedo, viene esitato al prezio di denari 1210 l’uno.”

Racconta e rapporta ulteriormente il Gradenigo: “10 Marzo; Giovedì, che divide per metà la Quadragesima; là onde, secondo antica consuetudine, viene permesso dalla Publica Auttorità alla plebe, di trattenersi nel solito divertimento di schernire, e deridere, le più attempate femine della Dominante, erigendo un adorno pergolato, e ponendo sopra di esso una statua rappresentante una donna vestita con abito di carta a fiori, con finta faccia senile, e con pettinatura e cuffia affettata, la quale, dopo li giochi di accoppare il gallo alla cieca; di mangiare le lasagne con le braccia legate ad un legno; di prendere un bisatto con li denti, posto entro una mastella di acqua tinta di negrofumo ( Fuliggine ricavata dai legni resinosi arsi); e il volo dall’alto al basso per via di una corda fatto da un cane, finalmente, fra lo sparro di codete e fuochi artifiziali, viene la figura moderatamente incendiata, ed eruttante frutta di ogni sorte, ma in altri tempi segata. Tale spettacolo si ammirò a San Luca. Si alzava un palco sul quale si collocava un fantoccio di vecchia, con una cuffia in testa e una maschera sul volto. Due guardie le rendevano onori in forma ridicola, successivamente veniva tagliato il ventre al fantoccio e ne uscivano fiori e confetti, infine il fantoccio veniva bruciato in Campo Rusolo e altrove,  massime in Corte dell’Orso a San Zulian.”

Raccontava, invece, Marin Sanudonelle sue “Vite dei Dogi”: “La notte di San Bartolomeo nacquero in questa terra due figliole nella Contrada di San Biagio vive e sane con tutte le loro membra, ma erano congiunte ad invicem a femore usque ad pectora, e pareva che si volessero abbracciare” ... Ecco anche qua ancora descritto l’estraneo, l’imprevisto, la cosa curiosa che sapeva ammaliare e dar spettacolo catturando i Veneziani.

A fine marzo 1773 il buon Gradenigo continuava a scrivere curiosamente: “Nella Bottega da Caffè del Signor Giacomo Giavarina appresso San Giuliano, in questa mattina si vidde comparire una ragazza questuante, chiamata Margarita Grandona, orionda da Como, e in età d’anni 14 la quale ha la mano sinistra mostruosissima, essendo li tre dita pollice, indice, e annulare, molto grandi più degli altri, e il braccio assai più  grosso del dritto. Le dita sono tutte articolate, e con facilità dalla medesima si muovono, ma non erano atti ad operare.”

Nella Contrada di San Zuliàn(San Giuliano)sulle Merceriedell'Orologio, de San Salvador, e nella Marzarièta de San Bòrtolocheandavanoda Piazza San Marco fino a Rialto, dove facevano il loro sfarzoso ingresso: Patriarchi, Cancellieri Grandi e Procuratori che regalavano pani di zucchero passando,era di continuo così. Lì accadeva sempre di tutto e di più, quasi la plastica sintesi quotidiana visibile dell’inesauribile voglia dei Veneziani di stupirsi e arricchirsi ulteriormente in maniera a volte anche spicciola e sempre diversa:A San Zulian stava e operava l'Arte dei Merciai condannata dall'Ufficio del Piovego durante la Fiera della Sensa per aver posto tettoie di tela non autorizzate in Piazza San Marco ... Il Maggior Consiglio magnanimo aveva concesso una riduzione della pena, ma Merciai e Calzolai vennero puniti individualmente lo stesso per aver esposto merci oltre il limite delle bancarelle sia a San Zulian che a San Bòrtolo di Rialto … Si repressero e si fecero rimuovere anche i banchi stabili collocati sotto ai portici della Merceria dove erano stati interdetti in quanto ingombravano la via communis … Non si doveva in alcun modo prolungare l'edificio all’esterno della bottega generando impàsso.”

Già fin da prima del 1400, nella Contrada al Ponte dei Tirali o dei Baretèri, dove abitavano circa 2.300 persone fra Veneziani e non, erano certificate come presenti in Calle Larga e Corte di Cà Quartierin Spadaria le proprietà, botteghe e botteghini, volte e magazzini delle Schole di San Giovanni Evangelista, dei Luganeghèri, dei Merciai e dei Marangoni, mentre ancora in Corte di Cà Quartier, in Calle dei Balloni e in Marzaria del Relògio c’erano le proprietà della Schola Granda della Misericordia che aveva una decina di caxette affittate ciascuna per 70-275 ducati variabili annui.

Nella stessa Contradadi San Julian in Ruga ormai da tempo era ben avviata l’attività di deposito e prestito iniziata dallo Spicier Nicolò Sturion. Non si trattava di Banche, ma di comuni attività locali di Statio-Bottega, che accettavano depositi da terzi e davano prestiti fissandone l’interesse “in base e a seconda di un certo dividendo, e dopo un certo tempo” cercando di aggirare la palese usura … Così capitava anche a Rialto nelle Botteghe delle Draparie di Carlo Marino, e al Tavolo da Banco di Marino Storlado, stimato dall’Erario per lire 16.000, che concedeva tranquillamente prestiti al tasso del 12% annuo, che poteva lievitare senza tanto preavviso anche fino al 24%.

Infermo per la peste del 1400, Marin Storlado, ricco sfondato, fece testamento davanti a quattro Commissari che avrebbero gestito i suoi lasciti e patrimoni. Fra loro c’era anche il Banchiere Soranzo che lui chiamava: “compatrem meum dilectum”. Storlado lasciò fra l’altro anche 300 ducati al Monastero del Corpus Domini di Cannaregio dove s’era sistemata e ritirata a vivere “comodamente”sua figlia Suor Maria Sturion ... diventata Badessaovviamente.

Secondo quanto segnalato nei pagamenti della Decima del 1530 alla Repubblica: Melchiorre Sessa figlio del defunto Battista faceva ilLibràro a San Zulian “All’Insegna della Gatta”, comeAntonio Moretto; mentre Marchantonio de Piero lavorava e faceva affari da Marsèr allo stesso modo di Zuane de la Nave de Cristofalo, Ambroso Zerbi, Francesco Lucadei o Locatelli e Zuan Matio da la Pigna quondam Ser Piero. Gregorio de Gregori, invece, era Stampadòr a San Zulian;Zanin de Zuane era Taschèr “All’Insegna del Galo”, cioè fabbricava e vendeva sacche; Piero Badoer di Misser Albertin era Dottor; e in Merseria lavoravano anche Costanza Lipomano relicta de Missier Marco el Cavalier; Giacomo Mazzoleni che vendeva Profumi, Unguenti e Muschi, Matio Bragadin quondam Tommaso che faceva l’Indoradòr, e Rado che lavorava sulle Stadère (bilance).

Dentro alla chiesa di San Zulian, intanto, ne capitavano un po’ di tutti i colori. Nell’estate 1540 Prete Carlo Renio che era sia Piovano a San Tomà al di là del Canal Grande, ma anche Diacono del Capitolo dei Preti di San Zulian, fece causa vincendola contro i Preti del Capitolo di San Zulian per ottenere l’elezione “per saltum”… Ciò provocò gran disappunto e rivalsa dei Preti di San Zulian che non riuscirono mai nell’intento di arginarlo, compreso suo fratello Nicolò Piovano sia di San Zulian che di San Maurizio, e Titolato pure di San Tomà, che aveva comunque votato a suo favore … Cinque anni dopo: Prè Francesco FabrizioTitolato del Capitolo di San Zulian, e già Cappellano della Schola di San Rocco, e Maestro del Sestiere di San Marco finì decapitato e poi bruciato con la documentata accusa di sodomia … Storiacce da Preti, direte giustamente, che culminarono in seguito nel dicembre 1621, quando altri Preti del Capitolo di San Zulian vennero prima “a male parole e poi dalle parole passarono ai fatti con zuffa ed effusione di sangue in chiesa, che dovette restare chiusa per tre giorni fino a quando venne ribenedetta e riaperta per mano del Patriarca in persona.”

Nel 1639 il Piovan di San Zulian, dove per Tradizione ogni mercoledì sera non s’era mai smesso di cantare“le Allegrezze e le Litanie della Beata Vergine Madonna con gran concorso di molti delle Contrada”, acquistò dalla Zecca della Serenissima un posto sicuro di lavoro “di Fanteria dell’Arzento”che sarebbe dovuto andare a beneficio di suo nipote Carlo Longodi soli 6 anni. Il ragazzino avrebbe potuto così usufruire per tutta la vita di quell’ambito posto di lavoro, goderne i benefici o affittarli ad altri, con l’obbligo però che quel compito in Zecca fosse esercitato come previsto ... e secondo la Legge.

Arrivò poi in Contrada di San Zulian il famoso quanto vanaglorioso Medico Ravennate Tommaso Rangone: Cavaliere, Filologo, Benefattore munifico: “che diceva, d’aver trovato il modo di protrarre l'umana vita oltre i 120 anni”… Riempì le facciate delle chiese e dei Conventi di Venezia con i suoi busti in marmo e bronzo fusi o scolpiti dal Vittoria che amava rappresentarlo fra sfere celesti, libri di Scienza e Dottrina e iscrizioni in Ebraico e Greco.

“Dopo aver arricchito con la sua sapienza e presenza, e resi illustri i Ginnasi di Roma, Bologna e Padova dove al Ponte Molin fondò il Collegio Ravenna per trentadue scolari.”, giunto a Venezia, Rangone rifabbricò la chiesa di San Zuliansu modello del Sansovino elargendo per lo scopo 900 ducati su una spesa complessiva di 1.600 ducati (i rimanenti 700 ducati furono messi a disposizione dal Capitolo di San Zulian), pagò anche l’organo nuovo per l’interno, e ancora a sue spese fece costruire la porta del Convento del Santo Sepolcrosulla Riva degli Schiavoni dove fece apporre ovviamente un’altra sua statua con epigrafe trasportata nel 1800 nel Lapidario del Seminario della Madonna della Salute…. Beneficò pura San Geminianoin Piazza San Marco, sua Parrocchia e Contrada, dove non mancò di collocare un ulteriore suo busto in bronzo finito oggi all’Ateneo Veneto.

Davvero bizzarro Tommaso Rangone… Nel suo testamento, redatto il 10 agosto 1577 presso il Notaio Baldassare Fiume, ordinò per se stesso un pomposissimo Funerale che sarebbe dovuto transitare da Piazza San Marco a San Zulian(dove sarebbe stato sepolto) percorrendo un lungo giro per la Città. Mentre passava la sua salma si sarebbe dovute suonare a stormo tutte le campane delle chiese di Venezia, e tutto il Clero sarebbe dovuto uscire sulla porta delle chiese con la Croce e l'Acqua Benedetta per aspergere il suo corpo defunto. Diede disposizioni inoltre di far comporre tre Laudazioni Funebri, di portar in processione al suo seguito i modellini della chiesa di San Zulian, le preziose suppellettili di casa sua, e i libri da lui composti, precisando perfino a che pagina dovevano rimanere aperti ... Prescrisse quali anelli si sarebbe dovuto mettergli alle dita, e come doveva essere vestito il suo Bibliotecarioche doveva aprire il suo corteo funebre.

Rangone morì … finalmente … a 94 anni, e, come aveva ordinato venne sepolto a San Zulian nel Coro della chiesa … Rimuovendo la lapide della sua tomba nel 1823, si trovò una cassa di marmo di Carrara particolarissima “a forma di corpo”, perché Rangone aveva previsto perfino un particolare incastro personalizzato su misura per collocare la sua testa, le spalle, le sue cosce e suoi fianchi da Morto ... Finì pure quel suo “strambissimo contenitore” nel Lapidario della Salute, mentre le tanto preziose sue ossa finirono nell’Isola-Ossario di Sant’Arian dietro Torcello frammiste a tante altre, Dogi e Nobilissimi compresi, di cui si perse ogni nome e memoria.

Nel maggio 1606 il Senato Terra fra le altre spese per il Nuovo Bucintoro autorizzò il pagamento di 128 ducati e 6 grossi a Mastro Zacomo “All’Insegna della Colombina”in Marsaria: “per oro, seda per cordoni e da recamàr, tende n 100, e 8 per batti coppa et felce.”

Era uno speciale Mondo a parte quello dei Marsèri Veneziani di Santa Maria a San Zulian: “Queste son le robe spectanti alla Merzaria e ai Marsèri de San Zulian”, che controllavano, misuravano e bollavano le merci nel Fontego della Ruga: “Tutti li drapi da sèda oro et arzènto; tuto l’oro et arzènto fillàdo; tutti quelli curano sèda et vendono sèda lavorata, zoè: tènta, tèlle, fostàgni, fòdre da lècto, et zupòni fati, sarzà, zambellòti, samiti, cordelàme da sèda, de rèvo e de fillo; cordoni et frixi, vellame de sèda, et ogno lauoièr de sèda, de arzènto et de oro et vellame de fillo de bombàso; scùfie et scufiòti; camise fate, lauorieri de tella de reuo, bombàso fillà et da fillar; stringhe, guanti, borse, carnieri, sacheti, tasche; broche, centi et maschere, filame; stafe, morsi e spironi et altre cose che pertiene a sellari et borchie de cavallo; ballanze et marchi; canevo, lin, soge, spagi, cengie, posne, baste, centine et centi; cortelli, rasori et forfese e subie da calleghero; canelle da agi da cusir, da pomolo, agi (aghi); magiette, bezete, tremolanti et copolete; spade, pugnali fatti, guaine et fodri da spada; cadene da cani et da chiave, martelli e tenagie; scorliri de laton e tuti lauoieri de laton fatti; pèteni, burati, spechi, fusi e fusaroli et dedali, calamari et penaruoli; Patre nostri e corone, fillo di rame, de laton, ferro, celloni, perponte, banchali, spaliere; calze, barète, cappelli; manegi da coltelli, zovi et zovedelli, zoiari fati, zocholi imbrocadi; savòn et savoneti; pèvero, carnieri, sacchi de tella; pontelli de laton e de fero da spade e pugnali, anelli e vergete de laton, strige et manegi da subie et Partesane inastade et ogni arme inastada, bende stagnade et de laton, et curame, valise, balse et basco de ogni sorta ...” 

L'Arte dei Marzeri (Merciai)o Revendinisotto l’altissimo Patrocinio di Santa Maria Assunta, era una fra le più facoltose e privilegiate di Venezia, onorata e considerata grandemente anche al Mercato di Chioggia e alla Fiera di Treviso. Ottenne a livello perpetuo per le loro “adunanze”dal Piovano e dal Capitolo di San Zulian: la “domuncola”(casupola) che era stata del Barbiere Andrea, sita nella Calle a fianco de la Cjèsa in Corte Ancillotto, e un altare all’interno della stessa per le sue private Devozioni dietro la corresponsione annua di 6 ducati d'oro “puntualmente contati in mano”.

I Marzeri amavano distinguersi fra Marzeri “da bianco”; da drappi e guarnizioni d'oro e d'argento”;“de Arte Grossa” (pelli, tele ponentine e sete varie); de Arte Fina” (veli e nastri);“da merci de Fiandra”; “da sède e romanette” (zambellotti e bottoni); “da gucchiere”; “da calze e maglierie”;da ferrarezza” (ferramenta e piombo);“da chincaglie”… C’erano poi iMarcerèti, cioè: i Merceri venditori ambulanti.  Fra gli iscritti aderenti però si annoveravano anche: gli Occhialeri; i Liutieri; gli Orologeri (venditori di piccoli orologi personali); i Latoneri (venditori di oggetti in ottone e latta); i Muschieri (Profumieri a Aromatari); gli Stringheri (venditori di legacci, laccioli, corregge); i Telaroli (pezze di tela); i Talgia verzini (legno per tingere in rosso); e i Pirieri (venditori d’imbuti).

Nel 1452 non vollero essere da meno delle altre Arti Veneziane nell'onorare la venuta a Venezia dell'Imperatore Federico III: “I Marzeri fecero un burchio grande, con un solèr da pope a prova tutto fornido de rasi, et in mezzo una torre granda e tonda, sulla quale tre file di putti una sopra l'altra, tutti vestidi de bianco come anzoleti, e con cembali in mano; erano più di 60, et in la cima erano tre come la Trinità, e si volgevano attorno a se stessi, tirado da ottanta remi; altro con gran ruota che girava con otto putti, degli angeli che sempre stavano in piedi dreto, e a pope l'effigie de tutti gli Imperatori Romani armati all'antica, poi tante Ninfe danzanti a suon di pifferi e trombe; era pur tirato da 80 remi ... Andò la comitiva da San Clemente alla casa del Duca di Ferrara apparecchiada de rasi et altre sede”.

Altra faccia della medaglia: nel 1593 si mise per iscritto “a eterna memoria” nella Mariegola degli stessi Marzeri la lamentela che troppi di loro passavano per la Schola a prendere candele per accompagnare qualche Morto al Funerale, ma poi evitavano di partecipare al Corteo Funebre tenendosi la candela: “Peociòsi ! … Avidi ! … Morti de fame !”… Il Capitolo dei Marsèridispone che concluso il Rito Funebre tutti avrebbero dovuto riconsegnare le candele, con sonora multa per gli inadempienti contravventori.

L’Arte dei Marsèri manteneva a sue spese 292 Rematori Galeotti della Flotta Veneziana  Nel1545 contava 500 Marzèri fra i quali c’eraAntonio de Venturin che vantava un capitale di ben 25.000 ducati, ma fra gli iscrittisi annoveravano anche 7 Marzèri nullatenenti, e un Marzer mendicante ridotto in miseria ... Gli Ebrei non potevano associarsi e far parte dell’Arte dei Marsèri, ma potevano però praticarel’Arte “in silenzio” nel loro Ghetto nel Sestier di Cannaregio.

Interessantissime alcune Scritture di Compagnia redatte circa alcune botteghe “del Nuovo Commercio” presentiin Contrada di San Zulian, quando (1712) in Contrada si contavano 219 botteghe, un inviamento da Forno, e 8 dei 118 Casini Veneziani.


Nicolò Caragiani e Francesco Roncalli di Francesco con Giovanni Maria Pasquinelli firmarono presso i Procuratori Sopra ai Banchi una Scrittura di Compagnia della durata di 5 anni su un negozio di seta, oro e merli d’oro e d’argento il cui capitale a disposizione assommava a 16.000 ducati. Riguardava il negozio “All’Insegna del Gran Kan di Moscovia” situato in Merceria della Contrada di San Zulian al Ponte dei Feràli: proprietà del Capitolo dei Preti di San Zulian.

Altra Scrittura della durata di 5 anni venne redatta fra Nicolò Passalacqua e Giacinto Bristotti di Domenico, inerente il negozio di seta ed oro con capitale di 16.364 ducati della bottega “All’Insegna dei Quattro San Marchi” sita in Merceria di proprietà degli stessi Passalacqua.

Caterina Pertugi vedova quondam Gerolamo Tangro e Gaudenzio Tangro fratello di Gerolamo firmarono un’altra Scrittura di Compagnia della durata di 5 anni sul negozio di panni di seta ed oro con capitale di 29.775 ducati riguardante la bottega “All’insegna della Vergine Beata”…  Domenico Pellicciolli ed Angelo Locatelli ne firmarono un’altra su un negozio di drappi di seta e drappi con oro con capitale di 12.000 ducati riguardante la bottega “All’Insegna dell’Amor della Patria” sita in Merceria di proprietà del Monastero di San GiorgioMaggiore ... A seguire: Antonio Bortoli figlio emancipato di Cristoforo e GB Recurti quondam Ludovico firmò per un negozio di Libri a stampa “All’Insegna della Religione” con capitale di 3.000 ducati sito in Merceria … Antonio Testa di Gasparo ed Antonio Rubinato del fu Domenico firmarono per 10 anni per un negozio di sete, romanette e telerie “All’Insegna della Volpe” con capitale di 8.300 ducati situato sotto l’Orologio in San Marco … GB Vicelli di Bartolomeo e Giovanni Pietro Amadis quondam (defunto) Alvise firmarono per gestire la bottega “All’Insegna della Generosità Coronata” in Merceria acquistata dai fratelli Goldini, che vendevano merci di Fiandra e drappi di seta con capitale di 23.084 ducati …  Francesco Roncalli quondam Francesco e Danne De Grandi quondam Pietrosottoscrissero un contratto della durata di 5 anni su un negozio di drappi di seta con oro fondato su un capitale di 7.812 ducati investiti sulla bottega“All’Insegna della Stola d’Oro” in Contrada di San Zulian …  Iseppo Pasquetti quondam Carlo e Giovanni Domenico Ricco di Massimo firmarono la loro Scrittura di Compagnia della durata di 5 anni sul negozio “All’Insegna ai Tre Cedri”che smerciava sete, passamanerie ed altro con capitale di 8.3480 ducati.

Infine: Domenico Ruberti e Francesco Locatelli con un capitale di 1.000 ducati stesero una Scrittura di Compagnia della durata di 5 anni per il negozio da Marzer di drappi di seta “All’Insegna dell’Ispirazione” sito in Contrada di San Marcilian presso il Ghetto, mentre Isabetta Madasco vedova di Valentin Barcella e Giovanni Maria Gaspari di AntonioI firmarono per il negozio di merci di seta “All’Insegna dell’Amicizia” situato in Fondamenta San Leonardo ai Due Ponti di Cannaregio una Scrittura di Compagnia della durata di 4 anni con un capitale di 11.500 ducati.

“Mezza figura al naturale rappresentante la Beata Vergine in atto devoto in quadro ovale, dipinta dal famoso Giobatta Piazzetta, desiderava venderla Francesco Pigozzo Caffettiere in Merceria a San Zulian “All’Insegna delli Due Arricordi”...  “La vera effigie di Marco Antonio Bragadin Patrizio Veneto, invece, che per la Fede e Patria fu scorticato da Turchi in Famagosta, sta rilevata in un Cameo di notabile lavoro, e viene esibito in vendita legato in anello dal gioielliere Girolamo quondam Pietro Scataja in Merceria tra San Marco e San Zulian “All’Insegna dello Sperone d’oro” ... Fu comprato dalla NobilDonna Chiara Bragadin …Nel negozio del Signor Giuseppe Vagner, Stampator e Librajo in Venezia nella Merceria a San Giuliano, vengono dispensate, al prezzo di lire due l’una, cento e vinti carte geografiche perfettamente impresse e delineate, ed eseguite con tutta la esattezza ... Frattanto comparvero le quattro prime, cioè la Carta Generale dell’Europa, quella della Polonia, l’altra del Mar Nero, e della Tartaria, e la quarta dell’Arcipelago, o sia Turchia Europea, come quelle che formano il teatro della guerra presente. Per compimento di tale opera, darà anche alla luce il Trattato Francese di Geografia del celebre Signor Roberto Vogondy.”

Nota diversa nel febbraio 1773, ancora riportata dai Notatori: “Fallisioni inaspettate, e sorprendenti, di Giovanni Battista Pretegiani, famoso Varottaro nella prima Merceria appresso l’Orologio; e di Pellanda riputato Naranciàro sopra il Ponte di Rialto vicino a San Bartolomeo; e del Signor Grossato, Spiciale da Droghe e Confetture nella Pescaria di San Marco.”

Sempre e ancora in Contrada di San Zulian dove abitò a lungo emorì un certo Fra Tommaso Babini Domenicano che sovraintendendo agli affari della non indifferente fabbrica del Tempio Nuovo di San Pietro Martire di Chioggia, si procacciava fruttuose elemosine che raccoglieva in tutta Venezia, venne atterrato il campanilotto ormai cadente della chiesa che al suo interno aveva un soffitto altrettanto rovinoso … Girolamo Pilotto famoso Orefice da Grosso,che teneva bottega in Campo de la Guerra, per sua Devotione nelle giornate di sabato girava per l’Officine da Caffè et Hosteriecontigue a San Marco onde raccogliere qualche elemosina per restaurare due altari di San Zulian ... Si continuava intanto, a far le Battagliole a canne e bastoni prima, e poi a pugni (proibite già nel 1509) sulPonte de la Guerradi San Zulian, come si faceva sui Ponti Veneziani di San Barnaba, ai Crocecchièri, a San Marcuola, ai Carmini, ai Gesuati, e a Santa Fosca presso San Marziàl.

In Calle e Sottoportico Fiubera a San Zulian c’eranoalcune “botteghe dafiùbe (fibbie), che secondo una parte presa dal Maggior Consiglio nel 1476 per moderare i costumi, “le pompe”, dei Veneziani, dovevano come “le cào (cintura)da donna” non valere più di quindici ducati ciascuna ... I Veneziani presi dallo sfarzo portavano ricche fibbie quadrate, rotonde e ovali impiantate sulle scarpe ... I vecchi Nobili pomposi le preferivano d'oro, i giovani d'argento, ma dovevano essere molto grandi, tanto che da entrambe le parti toccavano il suolo per terra.

In Corte dei Pignoli, invece, per via che lì si vendevano probabilmente pignoli o pinocchi, sorgeva un piccolo Ospizio di quattro stanze lasciate da Bonafemmina Diletti in usufrutto gratuito “per altrettante povere vedove di buona condition et fama de la Contrada” ... Ancora in Campiello, Sottoportico e Ponte dei Pignoli a San Zulian, era vissuto e abitava inCalle dei Pignoli: Agostin de Vincenti dai Pignoli quondam Tommaso, che fece testamento nel 1599 davanti al Notaio GianAndrea Trevisan ... Munifico, il Dai Pignoli oltre a lasciare diverse sostanze alla moglie Serena fiola del quondam Prandin dei Prandini, disse e scrisse che “morta lei, tutto il suo patrimonio doveva andare venduto, e destinato a celebrare quattro Esequiali annuali nella chiesa di San Zulian in sua memoria, e di dare cinque ducati annui per maridàr o monacàr povere donzelle della Contrada elette dal Capitolo della Schola del Sacramento co l'intervento de' suoi Commissarii.”

Sempre e ancora in Fondamenta dei Pignoli dentro a una Corte scònta c’era una magnifica “vera da pòzzo” realizzata dai Bon, fatta costruire dai Cittadineschi Menòr dalla Gatta insieme a dei marmorei sedili che un tempo circondavano tutta la Corte. Lì c’era un negozio-bottega-osteria “da Malvasia” gestito da Bortolo Filosi, che pagava cinquantasei ducati annui e due secchi di Moscato “a titolo di regalia” dandoli a metà fra Sebastiano dalla Gattae sua sorella Lucietta.

In Sottoportico e Corte delle Cariòle a San Zulian, presso la Calle dei Specchieriun tempo detta Calle delle Acque ... Messer Lorenzo dalle Cariolele costruiva nel 1564 in una casa-bottega di cui pagava pigione alla Piovania di San Zulian, che possedeva diversi stabili in Calle.

Un Marco Ancillottoaveva nel 1713 in Sottoportico e Corte Ancillotto a San Zuliàn la Bottega da Caffè, o come si diceva allora: la “bottega da acque della Spadaria”… Gli Ancillotto che abitavano là nella stessa Corte avevano fatto decisamente fortuna, perché come notificarono ai Dieci Savi sopra alle Decime, possedevano diverse case in Contrada di San Basilio nel Sestiere di Dorsoduro, altre ne avevano in isola a Murano, e avevano beni nel Trevisano e Padovano.

Nel Caffè Ancillottopraticava con i suoi amici (i fratelli Gasparo e Carlo Gozzi) il critico letterario torinese Giuseppe Baretti. A Venezia il Baretti, sotto lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, pubblicò la "Frusta Letteraria", un periodico col quale si proponeva di fustigare “...tutti questi moderni e goffi sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando”, operazione che a Venezia gli procurò molti nemici, tanto da costringerlo ad emigrare ad Ancona prima, e poi a Londra dove andò a morire.   

Tre Capi del Consiglio dei Dieci, avuto sentore in quei giorni di quella notizia, mandarono in sopraluogo Cristoforo dei Cristofoli famoso “Fante dei Cai”, una sorta di messo-segretario con poteri paragonabili quasi a quelli di un Inquisitore. Costui con molta semplicità comunicò al gestore che la prima persona che fosse entrata nel nuovo locale di lettura si sarebbe dovuto presentare immediatamente dinnanzi al Tribunale del Consiglio dei Dieci ... Detto fatto … La Bottega da Caffè non venne più aperta, e non si presentò più nessuno a leggere i giornali.

All’angolo con la Calle Larga c'era e c’è ancora lo stemma degli Spaderi con tre spade sotto a un Leone Marciano … La Spadaria a Venezia praticamente c’era stata da sempre (almeno dal 1200) con diverse botteghe di Spadèri e Cortelèri che producevano e vendevano su ordinazione: spade, pugnali, coltelli, lame, forbici, aghi, e foderi di ogni genere e misura.

Una vecchia Cronaca Veneziana ricordava gli Spadaj Veneziani vestiti di Rosso e Verde nel luglio 1574, intenti ad accompagnare remando dal Palazzo Cappello di Murano fino a San Nicolò del Lido di Venezia: Enrico III nel suo viaggio OltrAlpe per essere incoronato Re di Francia e Polonia. Il Collegio il 6 luglio di quell’anno aveva ordinato alle Arti Veneziane di allestire ciascuna una barca “convenientemente adorna con la quale partecipare al fastoso corteo navale per il celebrato Re”. Gli Spaderi comparvero allora con: “Una lussuosissima barca tutta addobbata a cuoi d'oro, con armi antiche e trofei, un'antica insegna di battaglia, e trentotto gajarde bandierine turchesche.”, mentre la Fusta o Bergantino dei Marzeri“risultò fra le più fastose barche, tanto da essere collocata a poppa del Bucintoro Dogale, accanto a quella degli Orefici che aveva un Fanò illuminato da arzenterie.” … I Marzèri spesero nell’occasione: lire 323 e soldi 6 di grossi per le fatture di stoffe per la vestizione dei rematori, per i Musici e mance, per donativi e “spese da bocca” ... Il prevalente motivo di tutta la decorazione dell’intera festa fu il Giglio dei Valois.

Erano “Uomini con le palle”gli Spaderi Veneziani… In Spadaria esisteva una pietra con quattro palle da gioco immessa sul selciato.  Nel 1700 era sorta l‘abitudine fra i Veneziani di mandare qualcuno nelle botteghe della Spadaria per farsi dare le quattro palle pattuite: “Prendile pure … Sono là fuori diceva il Bottegaio, “e portatele via se ci riesci.”, ed era tutto un ridere davanti all’ennesimo caduto nel giochetto popolare … Solo i bacchettoni e austeri Austriaci pensarono bene di andare a rimuovere la pietra ... Fine del felice giochino secolare.

Forzati ad unirsi come sottocategoria (Colonnello)dei potenti e ricchiMarzèridi San Nicolò di Bariospitati in San Zulian, c’erano con gli Spadèri anche i Vaginèri o Vaginài della Schola di San Giminiano e Sant’Elena. Costoro erano fabbricanti e venditori di custodie, foderi e astucci, non pensate maliziosamente ad altro, in quanto s’ispiravano nell’espressione generica alla famosa “custodia” naturale femminile. Seguendo la moda del tempo, i Vaginèri realizzavano evendevano oggetti lavorandoli in cuoio dipinto e ornato, oppure col legno legandoli insieme con metalli anche preziosi, niello, miniature, mosaici, osso o avorio, o in forme di lusso buone per ogni voluttà e tasca: “Vendevano anche: ventagli, pettini, specchi, libri, fialette odorose, penne e calamai, bicchieri, confetterie e sale che confezionavano alla Francese, alla Fiamminga, alla Spagnola o all’Olandese con ornamenti che richiamavano svolazzi, fogliami, volute, ma anche riprese di soggetti allegorici e mitologici secondo le tendenze artistiche del momento provenienti da tutta Europa, dal Mediterraneo, dall’Africa, e da non lontanissimo Oriente.”

1771: Venezia Serenissima era divenuta un po’ fatta e decadente”: andava ormai giù in picchiata in verità … Sulla Mariegola dei Vagineril'unico componente della Schola rimasto che godeva di una qualche forma di retribuzione era il Nonzolo della chiesa e Schola, “al quale venivano corrisposte 10 lire annue per portar gli avvisi, impissàr i mòccoli, e sonar la campanella.”

In parrocchia di San Giuliano terminò i suoi giorni il 14 giugno 1789, in età d'anni 84, l'architetto Tommaso Temanza. Racconta il Benigna che, durante il funerale: “nacque rissa fra il Nunzio della Schola del Santissimo di San Zuliane quello della Schola del Santissimo di San Giobbecon istrappo del manto dalla cassa mortuaria e gran scandolo di tutti.” ... Secondo voi: quale sarà stati il motivo ?

Nel maggio 1797, quanto la Serenissima Repubblica “stava tirando ormai gli spàghied esalando l’ultimo sfortunato respiro”, qualche facinoroso dalla mente agitata e surriscaldata andò in Calle del Nuovo Commercio in Contrada di San Zulian, ad assaltare furioso la casa e il negozio con l'annesso spaccio di liquori del Droghiere Tommaso Piero Zorziquondam Antonioconsiderato “partitante Francese”:“Per ore venne asportata ogni mercanzia, gli arredi e gli indumenti della bottega, e strappate persino le inferriate delle finestre, le porte e le finestre stesse lasciando solo i muri nudi e lo stanzone spoglio.”

Al Ponte dei Baretteri, invece, altri scalmanati gettarono in acqua e in strada tutti i libri del Libraio Foglierini che aveva ceduto metà della sua bottega all’Incisore Sardi. Secondo costoro era colpevole d’aver affisso un manifesto inneggiante alla Democrazia ... Stesso trattamento subirono i Librai Salvioli e Curti abitanti in casa sua: “Con le pagine dei vecchi manoscritti e Libri da Messa, da Coro e da Musica dei secoli passati, strappati finalmente via a viva forza dalle mani avare e avide degli ormai cenciosi Frati e Preti, sempre comunque pronti a vendere l’Anima di tutti per quattro soldi rinunciando ad ogni Verità e Libertà, si pensò bene d’incartare ortaggi, frutta, carne e pesce, e perché no anche la farina o qualsiasi altra spesa del Mercato e della Pescheria.” Il SalumaiofiloFrancese al Ponte dei Barcaroli venne trascinato in Piazza San Marco e ridotto in fin di vita, costretto a rivelare nomi di presunti complici e cospiratori, che vennero immediatamente catturati e tradotti nella fusta trasformata in prigione ormeggiata davanti al desueto Molo di San Marco.

Che squallore e tristezza nelle antiche Contrade Veneziane di un tempo …. Ma quanta Vita !

Pierantonio Andrea Giovanni Grattarol: insolito Veneziano della Cancelleria Dogale

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#unacuriositàvenezianapervolta 279

Pierantonio Andrea Giovanni Grattarol: insolito Veneziano della Cancelleria Dogale

Come sapete meglio di me, accanto ai forbitissimi Nobili Veneziani esisteva nella nostra Città Lagunare una categoria di persone e famiglie non meno ricche e prestigiose, ma di ceto considerato inferiore: i Cittadini Originari.

Niente da fare: non ci doveva essere Storia per loro disponibile ad accoglierli. Erano un Ceto(classe-casta-categoria) che veniva dopo dei Nobili dei quali potevano essere solo lecchini e ruffiani riverenti, o perlomeno sempre e comunque sottoposti. I Cittadini non avevano modo di scalare di categoria diventando Nobili pure loro, se non in rarissime occasioni, ma non mancarono lo stesso di ottenere prestigio, e soprattutto potere occupando posti nevralgici in quelli che erano i centri della complicatissima gestione burocratica della Serenissima Repubblica ... Non dimentichiamolo: Venezia era uno Stato.

Rimanendo in un certo senso dietro alle quinte, i Cittadini Originari con la loro grande competenza e maestria soprattutto Giuridica e Politica facevano funzionare al meglio il complesso ma funzionale apparato di San Marco e Rialto fungendo da Avvocati, Notai ed esperti Segretari dei vari Savi, Inquisitori, Ambasciatori e Magistrati della Serenissima … I Cittadini insomma, sono stati di sicuro delle Famiglie, che hanno contribuito grandemente a inventare la Storia di Venezia.

Fra tutte quelle Famiglie: che erano parecchie, ce n’era una: quella dei Grattarol o Grattariol.

Il Clan dei Grattarol non era affatto una famiglia di morti di fame. Erano, infatti: Medici, Avvocati e Mercanti distinti in diversi rami … C’era, ad esempio, il Ramo dei Grattarol Dalle Navi, che si occupavano ovviamente di Mercandia e Commerci spostandosi più volte in cerca di fortuna a Bergamo e Padova per poi tornare a stabilirsi definitivamente a Venezia. Rinunciato alla Nobiltà, era ovvio che provassero la scalata almeno alla Cittadinanza Originaria. Infatti l’ottennero fra 1605 e 1612. Un Grattarol giunse a ricoprire l'ambita carica di Segretario del Consiglio dei Dieci; mentre Giuseppe di Andrea Grattarol riuscì ad essere dal1713: Cancelliere Ordinario della Serenissima… Toccò quindi l’apice di quanto c’era di raggiungibile nel mondo socio-politico Veneziano dei Cittadini.

I Grattarol stavano benone economicamente: possedevano immobili, "fabriche coloniche” e appezzamenti di terra a Malamocco, Marghera, Carpenedo, Marcòn, San Trovaso, Lovadina, Conegliano, Campolongo, Battaglia, Camposampiero e Gambarare… Che ve ne pare ? Non male vero ?

Oltre ad essere Veneziani d.o.c. d’animo, i Grattarol erano anche figli del loro tempo. Infatti, essendo facoltosi, si preoccuparono di vincere la comune paura dell’Aldilà e del Giudizio Finale postmortem lasciando parecchi buoni soldini ai Preti della Contrada di San Lio dove abitavano perché mettessero in piedi “a suon di Messe” un buon Suffragio per la famiglia.

Non erano riusciti a diventare Nobili, ma a garantirsi un buon posto nell’Eternità ... Beh … Almeno questo: si.

A tal proposito, Ambroso quondam Zuanne GrattariolCancellier Grandodella Serenissima depositò per testamento nella Zecca di San Marco un capitale per finanziare una Mansioneria Mensileda 207 Messe da lire 171 l’una, che i Preti di San Lio, senza batter ciglio, riscossero e celebrarono puntualmente per 200 anni ...  Due secoli eh !

Non pago di questo, lo stesso Ambroso Grattariol lasciò ai Preti ulteriori 400 ducati perché si realizzasse nella stessa chiesa di San Lio una pala d’altare “a sua perenne memoria”.

Che ve ne pare ? … Un Veneziano encomiabile vero ? Un modello di persona davvero affezionata alla sua Contrada e alla Città.

Dieci anni prima di morire il Cancelliere Grande Grattarol dichiarò al Fisco Veneziano dei Savi alle Decime una rendita imponibile di 867 ducati annui, indice di sicuro limato abbondantemente al ribasso del tanto in più che potevano gestire e permettersi.

Figlio unico dello stesso fortunato e intraprendente Cancellier Grandofu: Pierantonio Andrea Giovanni Grattarol nato nel 1738.

Di lui si disse e scrisse: “Veneziano libertino imprudente, uomo sbagliato nel momento sbagliato … Viaggiatore inesperto in terre inospitali … Personaggio fra il tragico e il patetico.”

Di lui intendo raccontarvi qualcosa.

Dotato ovviamente fin dalla nascita di buone risorse economiche, fu un incredibile scialacquone ambizioso, capriccioso, leggero ma galante. Ancora giovanissimo, si ritrovò a Venezia perseguitato dentro al vorticoso gioco senza scrupoli della Politica e della Giustizia Veneziana. Di Pierantonio Grattarol in giro per Venezia si diceva: “E’ un orgoglioso, un imprudente, un puntiglioso commiserabile, un uomo d’umor viperino, bilioso, indomito, affettivamente arrischiato in mille avventure (erano un donnaiolo insaziabile), e per i più: è vendicativo e pericoloso”. In tanti a Venezia ce l’avevano un po’ a morte con lui, anche perché s’intrufolava dappertutto suscitando le ire e le invidie di tanti, e andava “a fregàr e insidiàr le più belle mogli dei migliori partiti ... accalappiandole per di più.”

Facciamo un passetto indietro per capire un attimo di più il Mondo Veneziano in cui si muoveva Grattatol.

A dodici anni PierAntonio Andra Giovanni Grattarol divenne orfano … Suo padre prima di morire precocemente "da tubercoli" nell’autunno 1750, oltre a lasciargli vitanaturaldurante un ingente patrimonio economico, si premurò di preparare al figlio la strada spianata per poter ottenere il “meglio del meglio” sulla sua stessa scia. Per ottenere questo, gli affibbiò come educatori e tutori il Padrino Andrea Diedo, e soprattutto Natale Dalle Lastre: un consulente espertissimo delle cose della Serenissima, che senza gran fatica introdusse il giovane in tutti i segreti del mondo politico ed economico veneziano.

PierAntonio quindi trovò fin dall’inizio ben indirizzato verso una probabile Vita fortunata all’interno della Cancelleria Dogale. Infatti venne introdotto in Cancelleria: prima come Estraordinarionel 1752, poi come Effettivo tre anni dopo ... Abile o non abile, a soli vent’anni era già diventato Segretario del Provveditore Generale della Cittadella militare di Palmanova nella Patria del Friuli, finchè nel 1765 venne richiamato a Venezia per conferirgli la mansione di Segretario dei Provveditori alle Artiglierie dell’Arsenale.

Un bel salto in avanti: niente da dire ... Grattariol stava diventando un uomo di successo:“per capacità e serietà professionale”, si diceva in giro di lui.

Fu, infatti, tutto un andirivieni a fianco delle alte cariche di Stato: passò alla Segreteria degli Uffici della Zecca, per poi ritornare di nuovo alle Artiglierenel 1771 ... Aveva 33 anni quando venne scelto come uno dei Segretari del Senato: funzione a diretto contato e conoscenza dei più importanti e delicati affari dello Stato Serenissimo. Da lì avrebbe potuto aspirare al Segretariato del Consiglio dei Dieci,o alla Diplomazia Veneziana nelle Corti Minori Italiane ed Europee… E perché no ? … Avrebbe potuto puntare anche all'ambitissimo incarico di Cancelliere Grande: la carica che aveva ricoperto con successo suo padre prima di lui … Sarebbe stato il  massimo possibile per un Grattarol … I presupposti giusti c’erano tutti.

Ve ne risparmio la lettura, ma sentiste in quale modo ruffiano e furbo PierAntonio Grattarol seppe essere plateale lecchino enfatico e adulatorio di Giovanni Colombo, cheoccupava la carica di Cancelliere Grande. In una Pubblica Gratulazione del 1766, Grattarolpareva proprio un gatto che si struscia facendo sfacciatamente le fusa a caccia di cibo. Leggendolo, si ha proprio l’impressione di uno abilissimo a sgomitare e spingere per trovare a tutti i costi un posto in primissima fila al sole.

La reazione dei Veneziani fu ferocissima. Venne subito preso in giro, "assalito e malignato"da tutti i Nobili, dagli ambienti invidiosissimi della Cancelleria soprattutto, e additato e sparlato in giro per tutta Venezia: “Chi crede d’essere … Chi vuol diventare quel Grattarol ?

La sua abilità insieme alla sua spudorata intraprendenza gli fecero però guadagnare la stima di alcuni eminenti Patrizi: Francesco Pesaro, Domenico Contarini, Angelo Emoe altri, che si schierarono apertamente a suo favore.

Grattarol si rese conto allora che quello era il suo momento: quello in cui forse avrebbe dovuto osare un po’ di più.

Che fece ?

Pensa e ripensa … Vista la nomèa non tanto bella che si era acquistato, e per darsi ulteriore tono facendosi notare emergendo di più, Grattarol fondò la primaLoggia Massonica Veneziana: “l’Union”... Si trattò di una figliazione diretta della grande Loggia Inglese dei Moderns, di cui Grattarol  divenne all’inizio Maestro Venerabile con la Patente di Riconoscimento Massonica n. 438.

Il nostro personaggio fece le cose per bene dando una sede alla Loggia segretain un appartamento prestigioso sito in Corte di Cà Da Mosto in Contrada di San Marcuola affacciato sul Canal Grande. Affittatolo inizialmente a un Milord Blandir, da lì riuscì a coinvolgere e associare diversi “fratelli Veneziani” di diversa estrazione sociale. C’erano alcuni Nobili Sceriman, Marcello e Dandolo, il Conte Thiene, alcuni facoltosi Mercanti e affaristi Ebrei e Greci, qualche “Forèsto”(straniero)di spicco, ed altri esponenti dell'entourage politico-amministrativo dell’apparato burocratico e istituzionale Veneziano … Il Grattarol seppe quindi coinvolgere “in quel gioco pericoloso” anche la Cancelleria Ducale insomma.

Figuratevi la reazione dell’ormai decadente seppure ancora ricca e potente Nobiltà Veneziana, giunta anche se quasi inconsapevolmente quasi al capolinea della propria travagliata ma fortunatissima Storia epocale.

Quella del Grattarol era di certo una vera e propria macchinazione a discapito della Repubblica … Il Potere era il Potere … Controllarlo di più o perlomeno metterci lo zampino era di sicuro prerogativa del Grattarol, che nel frattempo non smise mai di supportare ulteriormente la propria candidatura ad incarichi di prestigio dentro alla Repubblica Serenissima ... Volava alto, e voleva salire e innalzarsi ancora di più.

Vi risparmio tanti dettagli

Per inseguire i suoi scopi, Grattarol fece allora qualche altro azzardo … arguto forse. “Puntò con successo” prima Caterina Dolfin: “la Tròna” moglie (già divorziata dal NobileMarcantonio Tiepolo)del potentissimo Procuratore Andrea Tron detto: “el paròn”,Cavaliere dalla Stola d'Oro, uomo intelligente e potente giunto ai vertici del potere veneziano, aspirante Doge di sicuro.

Da qualche anno si diceva che Tron avesse ormai tutta Venezia in mano: era appunto: “el Paròn de Venessia”.

Caterina Dolfin, sua moglie, era una bella NobilDonna “ingegnosa”, emancipatissima, senza scrupoli né pudori, che aveva saputo collocarsi abilmente al centro della vita culturale e mondana di Venezia sposando Tron molto più attempato di lei.

Grattarol si diede parecchio da fare per corteggiarla e guadagnare i suoi favori. Non gli costò pochissimo quella sua specie d’impresa. Spese, ad esempio, 2.400 Zecchini anticipatigli dallo Stato e molti altri soldi propri allestendo banchetti e ricevimenti, vestendo abiti di lusso e contornandosi di domestici. Grattarol era un aitante “galletto ruspante”: fisico minuto, capelli chiari, fronte spaziosa, lineamenti sottili e sguardo accattivante: “Vestiva impeccabilmente di variopinte sete e rasi alla moda francese, con modi ricercati e manierosi non scevri di una certa arrogante presunzione di sé ... Grattarol sembrò quasi voler attrarre una greve e quasi generale ilarità col suo stile effeminato. Desideroso di emergere nel bel mondo, accanto ai doveri professionali non disdegnò di frequentare teatri, casini da gioco, salotti alla moda, ricevendo a sua volta sontuosamente nel suo palazzo in stile rococò, con grande dispendio di denaro, attinto alla cospicua dote della moglie, Santina Olivieri, di origine modenese e già ballerina, sposata a soli ventidue anni e dalla quale ben presto si separò, senza figli, per condurre una vita più leggera e libertina.”

Riuscì però nel suo intento d’invaghire la donna, che finì con l’intercedere presso il potente marito a favore del Grattarol.  Pierantonio Andrea Giovanni nel 1773 ricevette  l’incarico di “Residente presso la Corte Sabauda” andando a sostituire G.F. Zen. Seguì allora per breve tempo il Nobile Pietro Contarini Ambasciatore Straordinaria a Torino per felicitare Vittorio Amedeo III salito al trono di Sardegna. Successo per il Grattarol al seguito ? … No: fu un buco nell’acqua, perché improvvisamente la Corte Sabaudaper un vizio di protocollo ritirò il suo Ambasciatore a Venezia, e la Serenissima di rimando richiamò il suo sopprimendo la sede diplomatica di Venezia a Torino.

Non ci voleva.

Ma non solo … Era capitato anche che con quell’incarico concesso al Grattarolo, si fosse trovato messo involontariamente in diretta concorrenza con un altro protetto dello stesso Procuratore Andrea Tron, che gli passò davanti.

Tanta fatica per niente: Grattarol rimase a terra.

Come non bastasse, in parallelo, l’avventuroso Grattarol s’innamorò e intrigò anche con Teodora Ricci:fiammante attrice ballerina e comica incontrata al Teatro di San Salvadora Venezia. Era l’amante di Carlo Gozzi: rancoroso letterato teatrante iperprotettivo e gelosissimo, che però aveva un buon successo a Venezia, soprattutto fra quelli che contavano.

Un gran casino insomma, che fece chiacchierare tanto e tanti a Venezia, ma che non mancò di provocare reazioni e pettegolezzi nei confronti del Grattarol.

Intanto, quasi a simbolico risarcimento per il mancato “scatto di carriera”del Grattarol, il Senato gli assegnò il 22 gennaio 1774, su richiesta del Cassiere di Collegio e del Cancelliere Grande, un vitalizio mensile di 14 ducati: "onde quest'atto di grazie dia stimolo maggiore alle accette ed utili di lui applicazioni".  Grattarol incassò, e sembrò non risentire affatto della momentanea delusione per la mancata carriera ... Si prese una specie di anno sabatico, e col permesso del Senato girò per tutte le corti più significative d’Italia andando in Lombardia, Toscana, Calabria, Roma e Napoli da dove ogni volta rientrava a Venezia per far rapporto … Una specie di agente segreto della Serenissima ? … Forse.

A fine 1775 comunque, tornò a risiedere a a Venezia dove riprese l’attività nella Cancelleria Ducale aspirando nuovamente a cariche diplomatiche di prestigio, forte stavolta dell'appoggio di diversi illustri quanto potenti Senatori.  Nell'ottobre 1776, infatti, dopo aver perso un’occasione “d’essere eletto per Milano”, Grattarol ottenne finalmente ciò che lo appetiva di più, cioè: la nomina alla Corte di Napoli al seguito del Residente di Napoli Vignola.

Napoli finalmente !

Gli Amici lo celebrarono scatenandosi in eruditissimi e aulici Sonetti che risvegliavano i Miti antichi, e paragonavano Grattarol “ai Sommi e Vincitori Dei”.

Il potente Procuratore Tron, intanto, prese a non benvolere la relazione del Grattarol con sua moglieCaterina.

Sapete meglio di me come vanno a finire di solito certe situazioni: i nodi finiscono con l’arrivare al pettine, e le pentole lasciate a bollire finiscono col traboccare … rovinosamente a volte. Le donne se tradite poi, reagiscono e si vendicano … giustamente … A certi livelli poi sono capacissime di mettere tutto il mondo in confusione.

E infatti così accadde col Grattarol.

Tramite l’influenza del marito la inviperita Caterina ostacolò la nomina del Gratarol come Residente a Napoli.

Ma non solo … La libertina Caterina veniva canzonata dal popolino Veneziano per la sua eccessiva smania: la mania delle feste, del lusso e del Teatro. Erano arrivati a dire in giro su di lei:“E brava la Tròna, che vende el palco più caro de a mòna!”

Nel suo Palazzo di San Stae superfrequentato giorno e notte da tanti Nobili e parenti: d’intesa con lo stesso gelosissimo Gozzi tradito a sua volta, mise in piedi allora un’arguta quanto bassa rivincita su Grattarol e sull’attricetta sua spasimante. Fecero elaborare una vecchia opera teatrale in tre atti:Le droghe d'amorecaricandoneun personaggio: Don Adone, che assomigliava tantissimo al Grattarol.

Perfidi davvero la Tròna” e Gozzi.

La commedia comunque non venne subito rappresentata per via di un’improvvisa partenza da Venezia della Compagnia Sacchi, che allo stesso tempo interruppe la frequentazione amorosa di Grattarol e Teodora, e assopì di conseguenza anche i desideri di rivincita della Dolfine Gozzi.

Grattarol sembrò salvarsi per il momento ... Solo che la Riccitornò a Venezia e ripartì la relazione. Tutto quindi precipitò di nuovo.

Si rispolverò la commedia, malgrado l'attrice si opponesse di rappresentarla minacciando di rivolgersi alla Censurain difesa dell'onore e della dignità del suo amante ... La Censura Veneziana ?

Che problema era? … Tron e la Dolfin controllando tanti l’avrebbero superata facilmente. La vendetta si sarebbe realizzata.

Dopo aver provato più volte la Commedia nel salotto della stessa Dolfin, vincendo le incertezze dello stesso Gozzi che temeva le reazioni degli Esecutori contro la Bestemmia, si decise finalmente di portarla a Teatro affidando il ruolo “di Grattarol” a un certo Vitalba, che fisicamente anche gli assomigliava. Agghindato nelle vesti e istruito negli atteggiamenti in modo da non lasciare dubbi sull'identità del personaggio che rappresentava, si mise in scena la ferocissima quanto perversa satira.

E venne in giorno fatidico.

Preceduta da sonora pubblicità per tutta Venezia e negli ambienti che contavano, la Commedia con le scenografie dell’architetto-pittore Domenico Fossati(figlio di Giorgio) andò in scena la sera del 10 gennaio 1777 nel Teatro di San Luca traboccante di pubblico in ogni ordine di posti. Non mancava nessuno: erano presenti ovviamente Gozzi e Caterina Dolfin con tutto il suo codazzo di Nobili, parenti, e amici a caccia di gloria, e c’erano tutti i Nobili Dolfin da San Pantalon, gli Emo, i Barbarigo, e tutti i Nobili Zulian al gran completo. Ovviamente nei palchetti c’era pure lo stesso ignaro Grattarol.

Immaginatevi la scena e la ilare sorpresa: Don Adone era proprio  Grattarol in tutto e per tutto. Pareva proprio lui, così che ad ogni intervento dell’attore scoppiava l’ilarità generale di tutto il teatro che si rivolgeva divertito a canzonare e ridere di Grattarol. La Commedia venne interrotta a metà dell'ultimo atto, perché Grattarolperse il controllo, e si esternò in un’esageratissima reazione: si mise a ingiuriare apertamente Gozzi e compagni … Nel Teatro scoppiò un putiferio, e alla fine la sala venne sgomberata.

Quello che la Dolfin e Gozzi volevano che succedesse era però successo: l’immagine diGrattarol era rovinata.

A poco servì che Grattarol andasse il giorno seguente a presentare una supplica al Tribunale degli Inquisitori di Stato chiedendo di difendere la sua reputazione e la sua "fama svantaggiata"in quanto stava per partire per Napoli a nome di Venezia … Il Tribunaleoltre a ridergli in faccia, lo ignorò, anzi, pressato dal Procuratore Tron dietro alle quinte, costrinse lo stesso Grattarol a presentare pubbliche scuse scritte al teatrante Gozzi ingiuriato.

Le repliche della Commedia continuarono di sera in sera solo con lievi e ininfluenti ritocchi sulla trama per tutto il Carnevale … Venezia si sbellicava dalle risate su Grattarol… A niente servì che la stessa Riccisimulasse una sera un incidente in scena. Un Fante del Consiglio dei Diecisalì sul palco a rialzarla chiedendole, anzi: obbligandola a riprendere lo spettacolo … La Commedia fu un successone: il tormentone del Carnevale di quell’anno, e Grattarol fu costretto a chiudersi in casa dandosi perfino malato per non dover apparire al lavoro in Senato a Palazzo Ducale.

Sperò e tergiversò quindi, aspettando che arrivasse presto il momento di partire per l’incarico di Napoli … Provò a scagliarsi contro Tron e la Dolfindefinendoli come: "mali maggiori della Repubblica Serenissima"... Della Caterina Dolfin disse anche: "La prostituta patricia soggiogatrice d'un semi-dittatore insigne per talenti, per ricchezza, per passioni, per tirannide ..."

Non furono parole gettate all’aria senza effetto, ma ottennero l’effetto di mettersi apertamente contro al ProcuratoreTron con tutto il suo largo entourage. Ben presto l'isolamento di Grattarol mise fine alla sua carriera. Il Senato, per salvare il salvabile, gli suggerì "paternalmente" di presentare le dimissioni dall’incarico di  Residente a Napoli, e di riprendere le sue normali attività nella Cancelleria Dogale.

Era solo apparenza e l’inizio, perché poi traboccò tutto e arrivò il peggio.

Gli Inquisitori di Stato, che già dal 1774 erano informati tramite i confidenti Manuzzi e Andrioli, sulle attività della Loggia Massonica del Grattarol, erano rimasti quieti in attesa aspettando l’occasione giusta. Arrivò nel maggio 1777, quando giunse in visita a Venezia Federico Adolfo fratello del Re di Svezia, ed esponente di spicco dellaMassoneria Svedese.Grattarol allestì in suo onore "in tutta segretezza"un sontuoso pranzo a Palazzo Priuli di Cannaregio. Alla festa partecipò anche il Duca di Gloucestercon i suoi Cavalieri, e un Conte Colonna, che si beccò una severissima ammonizione da parte del Consiglio dei Dieci. La Loggia Massonica Veneziana venne smascherata, e Grattarol nella notte tra il 10 e l'11 sett. 1777 scappò precipitosamente da Venezia senza l’esplicita "permissione"del Consiglio dei Dieci.

Secondo una legge del Consiglio dei Dieci del gennaio 1665, quello era un pesantissimo reato per chi lavorava dentro alla Cancelleria di Stato: furto di segreti di Stato.

Grattarol venne quindi processato in contumacia e bandito in perpetuo da Venezia e da tutti i territori. A fine dicembre il Serenissimo Principe in persona comunicò che Grattarol era stato all'unanimità dall’Eccelso Consiglio dei Dieci privato in perpetuo: “del carico di Segretario, ed etiam di tutto l’Ordine della Cancelleria Ducale, e di tutti gli Uffizj, Grazie, Salarj, e Provvigioni ad esso concesse in qualunque tempo ... Sia bandito da questa Città di Venezia, e Dogado, e da tutte le altre Città, Terre, e Luoghi del Dominio nostro Terrestri, e Maritimi, Navilj armati, e disarmati definitivamente, ed in perpetuo.”

Gli furono confiscati tutti i beni, e si pose una taglia di 2.000 ducati sulla sua testa … e pena la forca se fosse tornato a Venezia: “Rompendo in alcun tempo il confine, ed essendo preso, sia condotto in questa Città, ed all’ora solita fra le due colonne di S. Marco supra un eminente solaro gli sia per il Ministro di Giustizia tagliata la testa, sicchè si separi dal busto, e muoja […]. Se alcuna persona dello Stato nostro, etiam che fosse congiunto con il suddetto Gratarol in qualunque grado di parentela gli darà in alcun tempo in questa Città, o in altro luogo del Dominio nostro, o fuori di esso, favore, indirizzo, danaro, o recapito, l’accetterà, gli somministrerà ajuto di qualunque sorte, ovvero averà qual si sia pretesto, o intelligenza col medesimo, cada in pena di Bando, Prigione, o galera, e confiscazione de beni, secondo la qualità di trasgressione, e delle persone.”

A Grattarol non rimase che avvalersi degli appoggi internazionali che gli garantiva la sua appartenenza alla realtà Massonica. Iniziò così una vita vagabonda e di peregrinazione in giro per l’Europa. Non fece più ritorno a Venezia.

Partì prima per Padovadove ebbe un incontro segreto col Barone K.E. von Wächteremissario del Duca Ferdinando di Brunswick esponente di spicco della Massoneria, poi andò a rifugiarsi a Ceneda (Vittorio Veneto) dove abitava un suo amico d'infanzia: il Conte Folco Lioni. Da lì inviò una lunga serie di lettere cercando appoggi da quelli che considerava i suoi amici fidati. Si rivolse al cugino Pietro Antonio ContariniCoadiutore presso l'Avogaria da Comun, poi al Nobile Emo, al Conte Sceriman e ad Agostino Mocenigo. Prese contatto perfino con  Titta Pelai “semplice pescaòr"attraverso il quale riuscì a saldare numerosi debiti aperti che aveva lasciato a Venezia ... Provò poi inutilmente a spiegare alla Serenissima i motivi del suo operare chiedendo "compatimento e ragione". A sua moglie Santina, assicurandole "il più sincero e cordiale affetto",  scrisse poche parole, dicendosi convinto: “d’aver preso la decisione che meglio conveniva alle mie vicende, alle ragioni mie, alla sensibilità e delicatezza del mio animo, alle ingiustizie sofferte, alla mia conservazione e alla mia stessa fortuna". Concluse augurandosi: “che in futuro avesse giusta occasione di rallegrarvi del partito ch'io presi."

La macchina della Giustizia Veneta si mise intanto sulle sue tracce: intercettò le sue lettere, interrogò suo cugino Contarini, ricostruì i passaggi della sua fuga, e sollecitò gli Ambasciatori Veneziani residenti a Firenze, Genova, Livorno, Napoli e Vienna perchè segnalassero l’eventuale presenza del fuggitivo Grattarol. Gli venne più volte anche comunicato personalmente di presentarsi a Venezia per costituirsi ... Grattarol neanche rispose ovviamente.

Alcuni “spioni Veneziani” fecero rapporto su Grattarolagli Inquisitori della Serenissima nell’ottobre 1777: “Sorprendente notizia vi aggiungerò Sappiate ch’egli venduti i suoi mobili, e una parte dell’equipaggio, che già avea inoltrato a Napoli occultamente, sparì da 15 giorni, né si sa ov’egli siasi rifugiato. Chi dice in America, chi nell’Indie Orientali, chi in Moscovia, e chi a casa del Diavolo … Per fuggire in faccia al ridicolo in cui si trovava esposto in questo paese; e quindi avea pensato degno di absentarsi per vivere occulto e più tranquillo in altro clima. E’ vero ch’egli parta per l’Indie Orientali Capo d’un vantaggio Commercio di Compagnia per la Svezia?”

Inutilmente Grattarol provò a distanza di qualche tempo ad assicurare a Giovanni Zon Segretario del Consiglio dei Dieci, di non aver sottratto ed esportato alcun atto della Repubblica: “per via dell'onore, il quale fu la guida eterna delle mie azioni, per cambiamento di cielo in me non cambia di forza"… Su tutto prevalevano e riaffioravano ogni volta le sue pesanti e diffamanti affermazioni contro il Procuratore Tron e sua moglie Caterina Dolfin.

La vicenda Grattarol però andò a pesare negativamente sul successo politico del Procuratore Tron la cui figura istituzionale traballò paurosamente. I Nobili Pesaro con Paolo Renier, che rappresentavano “l’opposizione”sua avversaria, gli soffiarono sotto agli occhi il posto da Doge.

Grattarol intanto raggiunse alcuni suoi amici Massoni a Braunschweig “città del Leone” nella Bassa Sassonia Tedesca. Il caso del Segretario del Senato Veneziano perseguitato fece parecchio clamore in giro per l’Europa interessando stampa e opinione pubblica … Poi si recò alla Corte di Stoccolma in Svezia dove si disse che venne nominato Governatore o Direttore degli Stabilimenti del Re nelle Indie Orientali. Sempre risiedendo in Svezia, Grattarol scrisse la sua “Narrazione apologetica” denunciando lo strapotere dell’Oligarchia Veneziana: “Stato nello Stato, un potere concentrato nelle mani di pochi Patrizi che macchinano dietro alle quinte nel Senato e nello stesso Consiglio dei Dieci minando le sorti dell'interno Stato Veneziano.”

L’opera di Grattarol venne distribuita in 600 esemplari divenendo un po’ il best seller dell’epoca. Venezia provò inutilmente a rallentarne la diffusione mettendo in campo anche l’azione di un anonimo Frate, che Grattarol definì: "Frataccio veramente Frate", e una Lettera di Carlo Gozzi che confutava le cose dette da Grattarol riproponendo il testo della famosa commedia: “Le droghe d'amore”.

Il libro ottenne ancora più pubblicità, favore e successo: venne più volte ristampato apparendo un po’ ovunque, anche in copie manoscritte e clandestine vendute nella stessa Venezia e nei suoi Territori ... Un successone editoriale insomma.

Grattarol si trasferì allora in Inghilterra provando ad inserirsi negli ambienti mondani di Londra, dopo aver ottenuto il supporto e i favori di William Morton Pitt Cavaliere membro del Parlamento, che lo ospitò nella sua tenuta di campagna prestandogli 8000 zecchini per saldare in parte i suoi debiti Veneziani. Un “pubblico avviso"d’inizio giugno 1781 invitava i creditori a rivolgersi entro un mese al negoziante di Genova Pier Francesco Tini che avrebbe provveduto al rimborso. Le somme non riscosse entro un anno sarebbero state devolute ai poveri e a qualche "Fraterna" o "Ospizio" Veneziano.

Grattarol, ricco della sua esperienza da Segretario Dogale, avrebbe voluto risiedere a Londra, e trovare un Pubblico Impiego all’interno dell’organigramma dello Stato Britannico. La Costituzione Inglese, però: vietava agli stranieri di poter ricoprire cariche di Stato.

Grattarol allora si trasferì a Lisbona in Portogallo(giugno 1782), quando  a Venezia i confidenti Manuzzi e Marcoleoni andarono subito a dire agli Inquisitori di Statoche Grattarol era stato inviato ufficialmente lì come Console o Soprintendente alla Mercanzia della Corte Inglese… Non era proprio così.

Non trovando però fortuna neanche in Portogallo, Grattarol decise di attraversare l’Oceano Atlantico sbarcando in America del Nord. Nell’occasione scrisse alle cugine Teresa, Chiara e Anna:"che sarebbe ritornato quando la Fortuna gli si fosse spiegata a favore"... Da Baltimora scrisse il 29 agosto 1784 all'amico milanese G. Viazzoli dicendogli che stava bene di salute ... Nell'ottobre dello stesso anno insieme a Marianna ed Enrico Baroni d'Adelsheim, e all'avventuriero M.A. Benjowski“Conte di spada” s'imbarcò per il Brasiledove giunse dopo un viaggio travagliatissimo. Lì rimase solo il tempo di riparare la nave e di far scorte, e subito ripartì diretto in Indiacircumnavigando l'Africa.

Brutta idea ! … Però ! ... Siamo sinceri: che intraprendenza !

Grattarol in verità non aveva più nulla da perdere.

Il suo viaggio si concluse infelicemente nel luglio seguente sulle coste del Madagascar, dove il Capitano del vascello su cui viaggiava lo abbandonò sulla costa con gli altri dopo averli derubati di tutto. A Grattarol prese le ben 800 sterline che aveva addosso.

Per qualche tempo “i sopravvissuti” non disperarono pensando di poter riaversi, e di poter ripartire in qualche modo diverso … Poveri illusi. Il 21 maggio 1786 videro avvicinarsi un vascello, e la mattina seguente il villaggio che ospitava Grattarol e compagni venne invaso da una ventina di soldati che razziarono tutto. Il Conte di Spada Benjowski provò ad opporsi e reagire, ma venne stecchito da un colpo di moschetto che gli venne sparato in pieno petto.

Grattarol sopravvisse, ma solo per andare incontro a “un’epidemia di febbre violenta", che si pensò fosse più che altro un avvelenamento da parte degli indigeni del posto. Grattarol morì nel più totale anonimato all’inizio ottobre 1785 in un villaggio poco distante da dov’era sbarcato, raccomandando fino all'ultimo al Barone d'Adelsheim di soddisfare i suoi creditori per salvare il suo onore.

La notizia della sua morte giunse a Venezia solo due-tre anni dopo attraverso corrispondenze di commercianti Inglesi e qualche racconto di testimoni viaggiatori. Inutilmente Andrea, cugino del Grattarol e suo erede provò a reclamare dallo Stato Veneto la restituzione dei beni confiscati al Pierantonio Andrea Giovanni Grattarol. La verità era che erano già stati venduti nel 1778- 79.

Si ottenne l’effetto opposto … Il Fisco e l'Avogaria da Comun Veneziani, sempre assetati di risorse, oltre a “rigettare con sprezzo le pretese degli eredi Grattarol”, non perse l’occasione di pretendere anche i beni dello stesso Andrea riconducibili alle confische, alle evasioni e alle condanne inferte al deceduto  Grattarol. Tutto ciò che in qualche modo era appartenuto al GrattaroI doveva essere quindi nuovamente confiscato e venduto. A tal proposito, s’ignorò anche una tardiva sentenza dei Giudici del Procurator che indicavano la restituzione alle sorelle Teresa, Chiara e Anna Gratarol.

Niente da fare: tutto perduto.

Nel frattempo “la Dora”: l’attrice-amante Teodora Ricci “era andata a morire pazza” nel Manicomio dell’Isola di San Servolo… Due anni dopo morì anche il Procuratore Andrea Tron: “el paròn de Venessia”, senza essere riuscito a scalare il Dogado. Più tardi: a fine secolo, morì anche Caterina Dolfin: “la Tròna” consumata di anni … il Capocomico Sacchi morì per mare durante un viaggio venendo buttato morto in acqua, mentre il Drammaturgo Carlo Gozzi, letterato e scrittore di Fiabe, fondatore dell'Accademia dei Granelleschi per la difesa della purezza della Lingua Fiorentina, strenuo oppositore del rinnovamento scientifico del secolo, e “fiero innimico degli scrittori(Carlo Goldoni, Pietro Chiari e Saverio Bettinelli)che sostengono nuove strampalate teorie”, morì nel 1806.

Solo dopo la definitiva caduta della Serenissima Gratarol venne parzialmente riabilitato ... Si ripubblicarono le sue Memorie nel 1797: “Anno Primo della libertà”, e su sollecitazione degli eredi e col supporto di "certe carte di A. Revendin e del rapporto del Cittadino Dandolo" si provò ad aggiustare i danni messi in atto dalla Serenissima contro il patrimonio familiare … Si chiamò perfino direttamente in causa lo stesso napoleone “perché dicesse almeno una buona parola sul caso Grattarol” ...  La Municipalità Provvisoria però fu incapace di rendere in qualche modo Giustizia alle sorelle Grattarol: “I beni venduti da tempo erano da considerarsi effetti dell’antico corrotto Regime Veneto ormai tramontato, della cui opera ed effetti la Nuova Municipalità non poteva farsi carico.”

Di Pierantonio Andrea Giovanni Grattarol rimase quindi solo la Memoria, che Elena Querini ricordò nelle sue lettere come: “… la gagliarda convulsione che occupò la mente del Grattarolo che lo portò fuori del nostro Stato …”

Un’altra curiosità della Storia Veneziana: miniera ricchissima senza fine, che merita sempre d’essere scavata e sindacata.

 

Il Confinio di San Lio al laudo

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#unacuriositàvenezianapervolta 280

Il Confinio di San Lio al laudo

San Lio… uno sguardo intenso nel cuore di Venezia … Non è facile riassumere una Contrada Veneziana.

 

Vi butto addosso una notizia del 1773 tratta dai Notatori di Pietro Gradenigo: “Allo spuntare di questo giorno, che è l’iniziale del nuovo anno 1773 m.v., fummo svegliati dall’impeto gagliardissimo di vento Scirocco-Levante, il quale fece cadere incessantemente copiosa e densa la neve, che ingombrò di molto li tetti delle case, e le strade della città con molto incommodo, e pericolo degli ambulanti. Questa giornata danneggiò assaissimo gli artisti, e li poveri, soliti girare qua e là, onde, per via di augurj fortunati e felici, lucrare consuete mancie da persone benestanti, e conosciute; ma la rigidezza intolerabile condannò molti a domestico ritiro. Si udirono anche disgrazie nella laguna appresso l’isola di San Secondo, dove si annegarono 5 giovani procedenti da Mestre e figli di alcuni bottegaj delle Contrade di San Lio e Santa Maria Formosa. Scarso fu anche il concorso del popolo alla Basilica di San Marco, nella quale oggi, e nelli due seguenti giorni, viene esposto, secondo la consuetudine, il Santissimo Sacramento alla publica venerazione, alla quale intervenne Sua Serenità con il Senato e fu presente alla predica.”

 

Un quadretto perfetto di una Venezia di ieri curiosissima, che non c’è più ovviamente.

Ancora nello stesso anno: “Per via di staffeta procedente da Brescia, si intese che Mario Colino, Barigello (capo degli sbirri) del Rappresentante di Salò Ser Gabriel Trevisan quondam Camillo, fu colpito nelle camare di esso Proveditore con archibugiate, ma non sino ad ora mortali, da tre fratelli Calcinardi, nipoti del fu Signor Giovanni Battista, anni fa ammazzato alla Gazara, e ricco cartaro sul cantone della Calle della Biscia appresso San Bartolomeo in Venezia.”

E ancora una nota dello stesso periodo circa la stessa Contrada:“il 18 Marzo 1685: il Serenissimo Maggior Consiglio., ascrisse alla Veneta Nobiltà, previo l’esborso decretato di 100mille ducati, li Signori Giacomo, Canonico, e Giuseppe fratello, e Angelo, Giacomo, Giovanni Domenico e Giovanni Donato, di esso figlioli. Erano ricchissimi mercadanti nella Dominante, e di essa famiglia tuttavia esiste Ser Faustino Padre, e Ser Piero figlio abitanti al Gaffaro. Il sudetto Giuseppe lasciò sei grazie da 25 ducati, l’una per maritare o monacare figliole della Contrada di San Lio, e queste vengono appunto estratte nella festa annualmente di San Giuseppe che segue dimani, e che era il Santo del di lui nome. La sudetta prosapia è cognominata Persico.”

Eccovi quindi tre lampi buttati là, che vogliono quasi riassumere quel che è stata la Contrade … Una fra le più vivaci e caratteristiche di Venezia in verità.

A tanti forse il nome di San Lio dirà poco o niente, ma per chi è Veneziano o appassionato di questa singolare quanto magica Città oggi convulsa e lasciata in balia di turismo e studenti, e orfana ormai dei Veneziani, quel nome significa, anzi: significava moltissimo.

 

Già nel superlontanissimo 1340 nel libro Spiritus s’iniziò a parlare della Contrada accennando al vicus qui in anguis specie retortus: “il vicolo ritorto a guisa di biscia”: la Calle de la Bissainsomma.



In quella calle nel 1300 erano andati ad abitare e lavorare parecchi Lucchesi giunti a Venezia portando con se certi particolari perfezionamenti dell’Arte della Seta: et a li Lucchesi fo consegnata la Calle de la Bissa et li fecero le sue botteghe.

Per questo per qualche tempo “la Bissa” venne chiamata “Calle de li Toschani“… Tornò ad essere rinominata Calle de la Bissa a fine settembre 1482, poco prima che si scoprisse il “Mondo Nuovo oltre l’Atlantico”, quando una sera accadde un fattaccio:“Sier Bernardino Correr della Contrada di San Pietro di Castello volle forzar Sier Hieronimo Foscari per sodomito et li tajò le stringhe de le calze (brache) in Calle de la Bissa a San Bortolomio, de sera“. Udite le disperate grida del Foscari accorse gente, e l’intraprendente Patrizio Correr venne arrestato finendo impiccato pochi giorni dopo“fra le due colonne della Piazzetta”. Il suo corpo nella stessa mattina venne bruciato, e le ceneri sparse per la Laguna davanti a San Giorgio Maggiore.

 

Venezia rimase come pietrificata ... ma i tempi e i modi allora giravano così.

 

All’inizio del secolo seguente (26 marzo 1506), il solito Diarista Sanudo andò a scrivere nelle sue memorie: in la matina achadete che apresso il Fontego dei Tedeschi in la Calle chiamata de la Bissa, a hora meza di terza, cazete (cadde) certa casa vechia, et amazò numero cinque persone che passava, et altre magagne ... cosa notanda.

 

Il 18 ottobre 1728: ancora cronaca.  Un grande incendio si sviluppò in Calle de la Bissa: prese fuoco tutto, e andarono bruciate diverse case. Furono gli Arsenalottiad accorrere per spegnere e domare l’incendio, e ci riuscirono “con febbrile lavoro e grande rischio”.

Potremmo proseguire a raccontare fino a domani … Venezia è sempre senza fine, anche se oggi sembra essere diventata un po’ senz’anima … Anima di Venezia erano un tempo le sue Contrade, che come sapete meglio di me: oggi non esistono più. Sono rimasti solo i toponimi più o meno variati, che sono un po’ come il sentore e il vago sapore del tanto che è accaduto un tempo. Una specie d’intensa eco di una Venezia che fu.

I Veneziani un tempo soprannominarono la Contrada di San Lio del Sestiere di Castello come: “San Lio al Laudo” per evidenziare il prestigio e l’importanza del posto. La chiamavano anche: “Contrada di San Lio Pappa”… Pappa con due “p” alla Veneziana, o forse “alla Buranella”, per richiamare comunque il Papa Sovrano di Roma e della Cristianità.

Fabio Mutinelli nel suo “Lessico Veneto” del 1851 scriveva fra l’altro: “Calle della Bìssa: viuzza della Città … appellala per le molle sue giravolte della bissa, biscia ... La chiesa di San Leone, volgarmente detta di San Lio, era anticamente di Santa Caterina, venne riedificata dopo il 1054 col titolo di San Leone Papa ... Nel 1520 fu di nuovo fabbricata, e nel 1783 a miglior forma ridotta. Era Parrocchiale, con sedici Sacerdoti e quattro Chierici, ed ora è Succursale dell'altra Parrocchiale di Santa Maria Formosa ...”

E’ difficile dirvi in poche parole che cos’è stata San Lio, San Bortolo e Calle de la Bissa per noi Veneziani di ieri. Andare da quella parte, in quell’ex Contrada: era un gesto, “un giro” che aveva un suo precipuo sapore, una sensazione piacevole e particolare. Dicevamo: “Vàgo a San Bòrtolo a buttàr un òcio a San Lio, ae Merceriè … E dopo pàsso par a Stràda Nòva” ... Quante volte abbiamo trascorso magari un intero pomeriggio andando a camminare da quelle parti ? … Significava entrare dentro a quell’atmosfera vivissima, che non era fatta solo dal conglomerato delle botteghe e dei bàcari-osterie delle Callette storte della bissabòvola colPonte de Sant’Antonio e delle Paste”, c’era molto di più. Intendevamo di sicuro un posto godibile dove potevamo fermarci a bere e mangiare qualcosa, o piuttosto acquistare, o più semplicemente: “far quattro cjacole (chiacchiere) e un fià de listòn (passeggiata) in compagnia andando in zò drio a la Salizàda e Calle de le Vèle co e pière sbùse … verso a Libraria Filippi, da Ratti, e dopo ancora: girando par San Zuliàn, e le Mercerie e San Marco, o voltando par Santa Maria Formosa.”

Era un piacere “andàr torsiàndo a seconda in giro par Venessia.” (andare alla derivadove ti portavano i passi). Era una specie di modo d’essere, più che far riferimento a un posto. San Lio era uno degli habitat ideali di Venezia dov’era piacevolissimo stare, andare e ritornare ... Esagero ? Non credo … San Lio era una specie di soffuso e vago sentimento in cui lasciarsi andare ogni tanto.

Non me ne voglia nessuno …. Oggi Cinesi e dintorni, e la ritornata massa turistica tornata a prendere d’assedio Venezia hanno cambiato tutto. San Lio non è più quella di un tempo, anche se è ancora e sempre là. Ha perso quel suo “sapore a pelle” che percepivamo … Rimangono le Cronache e le Storie, e i muri dei luoghi che quasi trasudano memorie purtroppo a volte quasi liofilizzate e dimenticate.

Nell’ottobre 1987, me lo ricordo benissimo, la chiesa di San Lio era ancora una delle 15 Rettorie Veneziane con annessa Casa Canonicagestite dall’ex Fondo Clero Veneto. In quegli anni era Rettore di San Lio Don Aldo Schiavon, ed erano quelli i tempi in cui dentro a San Lio c’era il quasi famoso “canarino col divano”.

Che ricordo !

Il Rettore di San Lio aveva allestito in chiesa quale “vezzo di modernità” un vero e proprio salottino allestendolo accanto all’Altare Maggiore. Aveva messo due divani perpendicolari, un tavolino con i fiori, delle belle Piante intorno, e a certe ore c’era anche il the con i biscottini. Poi c’erano le riviste e i giornali, un bel quadro collocato su un cavalletto, e una lampada da salotto. Non mancava che una bella gabbietta con dei Canarini cinguettanti … che poco dopo arrivò puntualmente.

Il buon Prete voleva dare l’impressione di una “casa di Dio” più colloquiale e confidenziale … Una specie d’atmosfera similfamiliare in cui sarebbe potuto accadere un incontro o una confidenza con“Qualcuno un po’ più su.”

Ha funzionato ? … Macchè ! … La chiesa è rimasta sempre la stessa: disertata e vuota, riservata solo a poche vecchiette di passaggio “che passavano a impissàr a candeletta par i Morti e par i vivi dopo a spesa”. La maggior parte dei Veneziani se ne rimaneva di fuori in Contrada, sempre più allergici verso quell’aria da psicanalisi un po’ asfittica e solo preteresca. Erano gli anni in cui a Taglio Corelli sul Po ci si vantava d’essere la Parrocchia più deserta d’Italia: con zero parrocchiani presenti in tutto … Record insolito, ma che marcava il fatto che i tempi erano cambiati, e che la Chiesa avrebbe dovuto un po’ cambiare con loro. Cosa che non accadde … ma lasciamo stare: sto andando fuori argomento.

Secoli fa, la Contrada di Sal Lio era un microcosmo vispissimo che dall’alba al tramonto andava ogni giorno animandosi fra affari, pettegolezzi e tanto altro. San Lio era sempre chiacchieratissima per via dei suoi Preti, che più che Clerici e Curatori d’Anime sembravano spesso abili affaristi ... Non pensatemi di parte: è la Storia Veneziana a raccontare.

Già durante il 1500, il Piovano di San Lio che pagava cantori, rombe e tromboni per la Festa del Titolo e la Settimana Santa, pagava spesso anche “per far disnàr con ale volte e al di de la Festa cum amici et Sacerdoti come ricerca la cortesia et humanità”… Non fu un caso se poco dopo venne processato e condannato il Prete Marco Benedetti di San Lio “per irregolarità gravi comprese fra: carnali, patrimoniali e vizi di gioco”Gli stessi Preti di San Lio nel 1657 finirono “col litigar fortemente fra loro per spartirsi le robbe trovate dopo la morte del quondam molto Reverendo Signor Pre Agostin Roccatagliata Piovan di detta chiesa"… Finirono tutti in Tribunale.

Famoso poi un episodio del 1743, quando il Predicatore in San Lio“che faceva tanto fracasso nei primi giorni di Quaresima(a Venezia durante la Quaresima si predicava quotidianamente in 37 chiese cittadine il Quaresimale.), s’era ridotto con le nude panche, senza credito e senza uditori”. Il motivo non stava tanto nella sua scarsa bravura omiletica, ma piuttosto nell’incoerenza fra ciò che predicava e proponeva, e quanto, invece, facevano o non facevano il Capitolo dei Preti di San Lio che gli stavano seduti accanto.  

La situazione era risaputa e considerata scandalosa ... Tutti a Venezia sapevano.

Prima di morire il Piovano Domenico Ravizza nel 1783 aveva “ridotto a miglior forma” la chiesa a sue spese trasformandola nel modo visibile ancora oggi. Fece abbattere il campanile che sorgeva incastrato fra le case, ridusse l’edificio a un’unica navata, fece decorare il soffitto da Giandomenico Tiepolo con “San Leone in gloria con l’Esaltazione della Croce, cinquanta Angeli e le Virtù Cardinali”, e lasciò tutto al suo successore: Prè Antonio Dureghello, che pensò bene di concentrare in un’unica sepoltura del pavimento tutti i contenuti delle Arche e delle numerose Tombe presenti e appese ovunque in chiesa, di cui però s’erano smarriti i nomi dei proprietari … Qualche tempo dopo, lo stesso Piovan Dureghello finì fra gli ostaggi segregati dai Francesi nella Prigione Forte di San Giorgio Maggiore, perché accusato con altri di congiura contro il nuovo regime d’importazione ultrAlpina. Le Cronache dell’epoca lo ritraggono frusto, scamiciato e malandato insieme a diversi ex Nobili Venezianiprivati di tutto e ridotti in carcere.

A inizio 1800, quando arrivarono i Francesi, i Giuspatroni di San Lio erano ancora per Diritto i proprietari degli stabili della Contrada. Erano loro a scegliere ed eleggere il nuovo Piovano della Parrocchia-Contrada, non il Patriarca o altre Autorità. Don Giobatta Garlandi fu l’ultimo dei Piovani Eletti di San Lio, e fu lui a consegnare mestamente al Piovano di Santa Maria Formosa il 24 ottobre 1810, i Libri Canonicidell’ormai soppressa e saccheggiata San Lio ridotta a Succursale dai Francesi ... Alla vicina ex chiesa della Contrada di Santa Marina le cose erano andate peggio, perché in quello stesso anno era stata demolita dopo essere stata trasformata in osteria.

Fece tenerezza a tutti l’immagine del Piovanodi San Lio che consegnava quella specie di “caretàda e imbarcàda de carte, che erano iRegistri dello Stato d’Anime e dell’Archivio di San Lio”. S’era iniziato fin dal marzo 1566 a comporlo, chiosando, documentando e ricordando tutto quanto accadeva nella Contrada, e se n’era interrotta la stesura solo durante la peste del 1639-56:“quando perfino i Preti tirarono le cuoia, e tutto venne condensato in un unico singolarissimo quanto curioso Registro degli Ammalati e Sospetti”.

L’anno seguente Patriarca e neonata Municipalitàdi Venezia discussero a lungo su come ridistribuire e spartirsi gli ultimi soldi dei Preti Veneziani finiti in miseria (non tutti), cercando qualche maniera per mantenerli: “… nel caso concreto ho assentito che delle tre congrue vacanti di San Lio, Santa Sofia e San Giovanni Elemosinarlo, quella di San Lio sia passata a San Pietro di Castello coll’onere di un assegno di lire 400 al Vicario di San Francesco di Paola e di lire 200 a un Coadiutore; quella di Santa Sofia vada a San Raffaelo Arcangelo, e quella di San Giovanni Elemosinarlo vada a San Marzial coll’onere dell’assegno annuo di lire 250 al Vicario di Sant’Alvise…” mugugnò e scrisse lo scontento e rassegnato Patriarca.

All’atto della soppressione, San Lio contava ancora circa un migliaio di Anime Venezianissime: “ … il 36% erano Nobili non abili al lavoro, mentre tutti gli altri si davano parecchio da fare per sopravvivere.”

Come vi accennavo, l’amministrazione dei Preti di San Lio non era del tutto trasparente e consona col loro ruolo … Anzi: era ingarbugliata, al confine col losco: “Ne venne fuori una gestione economica taciuta, fin troppo danarosa piuttosto che spirituale … soprattutto una plateale discrepanza fra dichiarato e amministrato.”

I Veneziani della Contrada erano perfettamente al corrente di che cos’era emerso circa i Preti di San Liodurante l’ultima Visita Pastorale del PatriarcaLudovico Flangini. Il Prelato non era passato a trovarli e salutarli per caso. Tutti sapevano, che pur rispettando sentimenti, devozioni e intenzioni dei Fedeli della Contrada, i Preti facevano girare parecchio denaro in chiesa, comportandosi da furbetti, e gestendo un vero e proprio tesoretto.

L’Eminente Patriarca di Venezia s’incazzò di brutto con loro, e li richiamò aspramente con una memorabile lavata di capo. Avevano davvero oltrepassato ogni limite con i loro sotterfugi e illeciti … Erano Preti in fondo. Li rimproverò innanzitutto per non aver officiato adeguatamente San Lio nei giorni festivi andandosene in giro per Venezia a raccattar soldi … Di conseguenza vietò loro di celebrare Messe ad ore strampalate o preste “a discapito di vecchi e infermicci”… Fece poi sindacare dettagliatamente tutta l’Amministrazione e i Libri Contabili della Chiesa-Fabbrica, i Libri della Cura d’Anime, dei Battesimi, dei Matrimoni con le relative Contraddizioni, delleCresime e dei Morti della Parrocchia.  Tutto gli sembrò estremamente trascurato, per cui ordinò che ogni tre anni si dovesse eleggere un Procuratore del Capitolo che doveva rendere conto di tutte quelle cose al Patriarca in persona. Avrebbe dovuto controllare gli Inventari delle robbe e suppellettili della chiesa:“delle cose di seta, lino e lana per l’uso degli Altari, le Croci, i Calici, i Candelieri, le Lampade, gli Argenti e ogni cosa di metallo e di valore presente in chiesa, nonché ciascuna Santa Reliquia con gli Attestati d’Autenticità delle medesime, con le carte delle Indulgenze Perpetue allegate, i Messali e i Libri del Coro.”

Ordinò inoltre di mettere uno Scrigno a tre chiavi in Sacrestia, conservato da Tre Preti, dove si dovevano depositare tutti i denari delle Messe Perpetue, Avventizie ed Esequiali ed altre che dovevano essere accuratamente scritte e segnate in apposito Libro elencando “entrate e uscite, e il corrispondente denaro”… A tal proposito, il Patriarca pretese d’aver sotto agli occhi la lista completa: “nome e cognome, età e Patria di tutti i Preti e Religiosi che officiano, risiedono e servono nella Contrada di San Lio.”

In altre parole: erano spariti fin troppi soldi ... La fiumana dei denari delle Messe: non si capiva bene che direzione avesse preso.

Il Patriarca volle ancora e subito sul suo tavolo la lista delle Schole, Confraternite di Devozione, e Oratori Pubblici e Privati esistenti, ospitati e attivi in Contrada di San Lio compresi tutti i loro antichi privilegi … Volle ed esigette: nomi e cognomi di uomini e donne iscritti, di chi e come e quanto avesse pagato, e di chi avesse fatto parte a qualsiasi titolo diverso alle attività di San Lio ... Pretese tutte le indicazioni e note dei Testamenti, dei Lasciti fatti alle Schole e ai Preti, “e di tutto il resto che fosse traducibile in denaro”.

Infine impartendo la sua Pastoral Benedizione e augurandosi che tutto procedesse per il meglio: “in santa pace a maggior gloria di Dio e a edificazione della Parrocchia di San Lio”, disse ai Preti: “Voglio Preti animati da zelo e obbedienza alle Leggi Sinodali di Venezia !” Poi quasi tuonò concludendo: “Verranno rimossi tutti coloro che si dimostreranno contrari … Non si tollereranno arbitri … e spero di non aver modo di dolermi dal controllo sull’Amministrazione dei Sacramenti in chiesa.”

Ma che avevano combinato i Preti ?

Era vero: San Lio era una piccola “macchina da soldi”, non diversamente da tante altre chiese Veneziane, Italiane e Europee … quasi tutte, eccetto che nelle povere campagne. L’epoca era quella: tutto nella Chiesa e fra i Preti, Frati e Monache funzionava più o meno così, soprattutto nelle città ... e non dimentichiamolo: Venezia era Capitaledella Repubblica Serenissima, con tutto ciò che poteva conseguire.

In effetti, secondo le numerose carte dell’Archivio di San Lio, le Donazioni con numerosi “punti di testamento”, Commissarie, Lasciti, Livelli e Legatiriguardanti cessioni ai Preti d’immobili, Mansionerie di Messe, Gestione di Arche e Sepolture in chiesa erano continuate per secoli … fin dal 1340 almeno ... C’erano poi copiosi documenti di controversie, lamentele e liti insieme a Statuti e Consuetudini, terminazioni e documenti dei Capitoli e delle attività delle Schole Piccole ospitate in chiesa … Anche quello durato per centinaia di anni: un ingente patrimonio insomma, che si sarebbe dovuto descrivere dettagliatamente nei Registri dei Conti, di Cassa e Contabilità, Preventivi, Committenze, Entrate e Uscite:“de la Condition (gestione)della Pieve, Fabbricha, Titolati e Contrada de San Leo”, nelleListe de Capitali dei Preti depositati nellaZecca di San Marco”, e negli“Inventari di beni, quadri, sacri arredi, argenti ed altre suppellettili che si ritrovano nella chiesa e Sacrestia della Parrocchiale e Collegiata di San Lio”.

Tanta ròba: San Lio era una bomboniera, uno scrigno d’Arte e Bellezza: un gioiello Veneziano inestimabile ... ma la gestione era confusa per non dire ingarbugliata e vaga … Non si capiva bene …  Una montagna di nomi, dati e notizie giustapposti: “Processi e Testamenti di Varisco-Ronzoni e Apollonia Piazza”; "Per li Commissari del quondam domino Francesco Vago Spicier “alla Calandra" contro Madona Elena Giminiani e Don Antonio Di Grandi";"Lite fra il Capitolo di San Lio e la Congregazione dei Preti di Santa Maria Formosa per la vendita di 25 campi in Villa Marzana di Rovigo lascito di Marco Antonio Patella … Lite dei fratelli Patella contro il fittavolo Bortolo Bacchiega.”; "Terminazione 4 agosto 1701 degli Eccellentissimi Signori Proveditori in Zecca che siino girati li ducati 3736 lire 20 condizionati dal nome del Reverendo Prè Antonio Rizzo quondam Giulio della Chiesa di San Leone Pappa di questa città, a nome della commissaria.”

E ancora: "Ecclesia Sancti Leonis contra livello Ronzoni et Donato Luchin ora Carminati"… “Livello di Roncade.” … "Pro Reverendo Domino Plebano Sancti Leonis Venetiarum contra consortes de Peregrinis de Villa Cornier"… "Processo sopra li campi della Piove et Fabrica di San Lio" Instrumento Schola dei Luganegheri per la Mansioneria di Angela Lavazzoni vedova di Alessandro Castelli” “Mansioneria Tommaso Canal del fu Antonio bladalaroli ad signum columnae” “Mansioneria Lucetta Sebenico moglie di Vincenzo Buffetti”“Mansioneria Paolina Vacca Marinelli vedova di Giovanni Andrea Cesana”… un fiume di soldi lungo secoli in cui i Preti attingevano a piene mani ...Ed è solo una parte del tutto ciò a cui accenno.

Il 20 giugno 1805 gli uomini del Patriarca iniziarono a interrogare il Piovano di San Lio: Don GioBatta Garlandi quondam Dominici di anni 57, che dichiarò, confermò e sottoscrisse i verbali della Visita Canonicaaffermando: “Ho circa 1200 Anime in Parrocchia e sono assistito dal Curato Don Giovanni Maria Falardi, e siamo 5 Confessori in chiesa ... Non vi sono ritardi nell’amministrazione del Battesimo, e succedendo casi di necessità non si tarda a supplir le cerimonie in Chiesa. Nell’amministrazione del Santi Sacramenti v’è tutta la diligenza, né mai accaddero disordini, e vi sono i competenti Registri …Celebro “Pro Populo” tutte le Feste, o supplisco nel seguente giorno feriale … V’è Dottrina di Putte ch’è molto frequentata; v’è Catechismo nel quale io mi presto, e Sesta Classe che fa il Reverendo Don GioBatta Boscaccio … Vi sono istruzioni sufficienti, e procuro di prestarmi a parlar io al Popolo dall’altare nelle Feste Principali … Si fanno tutte le Funzioni Ecclesiastiche in tutte le stagioni. I Titolari prestano il debito servizio: anche gli Alunno servono quanto possono ... Non ho che un solo Chierico, il quale si presta sufficientemente e quanto può al suo dovere …Tutti i Religiosi di questa chiesa sono buoni, vivono come si conviene al loro grado: anche in Parrocchia trovansi de Religiosi di buon costume…Il Procurator di Capitolo di mese in mese rende conto della sua amministrazione: manca un anno che termini il triennio … V’è Procurator di Cassa Fabbrica (Don Simeon De Luca), ed anch’esso di mese in mese fa Fondo di Cassa … la Fabbrica niente possiede e si sostiene coll’elemosine e coi Fondi d’Arca … Il Pievano possiede de’ beni in Trevisana ch’hanno per titolo, per antica tradizione Pieve e Cassa Fabbrica: io sono in disposizione detratte tutte le gravezze di passar alla Cassa Fabbrica la sua metà, perché essa sottostia ai pesi che ella appartengono… Di tutte le amministrazioni poi mi si rende conto … Qui i miei Preti vivono in subordinazione e buon’armonia meco: e ne sono contento … Niente altro avrei da aggiunger: senonchè ho trovato l’Archivio in qualche disordine, ma procurerò col tempo di riordinarlo.”

Furbone …

Dai resoconti, dai verbali e dalle indagini dei Curiali del Patriarca risultò che non esisteva laCassa-Fabbrica della chiesache appariva senza rendite … Solo dalla Mensa Capitolaresembravano provenire: 173,12 lire fra censi e incerti ... Alle spese ordinarie provvedeva ilPiovano, a quelle straordinarie, invece, ci pensavano le elemosine dei fedeli. IlPiovano Primo Prete del Capitolo di San Lio, gestiva oltre la Casa Canonicaanche una rendita di 3.519 lire proveniente dall’affitto di 4 case e 4 botteghe di proprietà della Chiesa, e riscuoteva un’annua Decima di lire 34. L’Ente Ecclesiastico di San Lio percepiva poi redditi da legati e da 35 campi in Terraferma, che pareva fossero di nessuno ...Sotto il Piovano Clemente Petrobelliil Capitolo di San Lio s’era comprato perfino nel novembre 1753 l'edificio-sede della Schola dei Luganegheri posto sulle Zattere di San Basilio dall’altra parte della Città …In chiesa c’era una Cassa che raccoglieva elemosine per le Sacre Suppellettili e i bisogni della chiesa dalla quale si ricavano 20 ducati al mese ... Si trovò scritto che veniva divisa a metà tra ilProcuratore della Fabbricache provvedeva alle spese correnti, e iProcuratori Secolariche avrebbero coperto le spese di eventuali restauri … Quali ?

Il Piovano Garlandiprovò a giustificarsi col Patriarca affermando che c’erano diverse spese da sostenere in Chiesa: doveva celebrare la “La Messa Pro Populo” in tutte le domeniche e feste di precetto dell’anno, che veniva a costargli lire 337, 7… Doveva poi pagare un’annuale gravezza di lire 11 al Reverendissimo Clero di Treviso, pagare altre lire 144,16 per 80 Messe dovute al defunto Reverendo Nadal Colonna, e due Esequi: uno in chiesa, e l’altro alla Veneranda Congregazione di San Salvador… C’era poi gli onorari di lire 49,12 da dare ai Preti Sagrestani; il salario di 80 lireper ilNonzolo-Sacrestano che manteneva le lampade della chiesa, suonava le campane, e forniva la chiesa nelle solennità del Titolare e dellaDedicazione;lire 78, 8 all’Organista e lire 18,12 al suo Folista; il Maestro del Canto costavalire 49,12… Poi c’erano ancora le ingenti spese per gli “aggravi della Pieve”: le ostie e le particole delle Messecostavano lire 44: il Vin da Messa“che viene daziato e computato a soldi 15 al giorno per un totale di circa lire 270, la spesa per il carbone ad uso della Sagrestia: 6 corbe a lire 54; l’Olivo per la Domenica delle Palme che costa lire 12; il Cattedrattico a lire 3,16; la festa del Titolare, e quella della Purificazione;l’imbiancadura e incolladura delle biancherie di chiesa a lire 90; i 24 pani di zucchero da dare ai Titolati, Sacristi, Curato e Organista il Giorno del Titolare a lire 2,10 alla libbra importano essendo libbre 38 di peso lire 90, e soprattutto le spese per le“buone cere” con cuis’illuminal’Altar Maggioreil giorno del Titolare e dellaDedicazione, e anche gli altri 3 altari nelleFeste Principali … Si accendono inoltre due torzi da libbre 8, cioè  da lire 93, nel Giorno dei Morti secondo il Legato della quondam Virginia Astori che aveva lasciato anche l’obbligo di celebrare in San Lio Pappa un bel Esequio ... C’è la dispensa delle candele nel giorno della Purificazione della Madonna Candelora del 2 febbraio: alli Signori (Nobili), ai Procuratori di Chiesa, ai Reverendi Capitolari, ai Giovani, ai Chierici e ai Primari Parrocchiani per un consumo di circa 60 libbre, che calcolate a lire 3,10 la libbra fanno lire 210… Infine ci sono le mancie metodiche inalterabili del primo giorno dell’anno per una spesa di lire 50 … Il tutto conta spese per lire 2.539, 19 ... A parte si assommano tutte le misure spese di acconciatura degli apparati, e biancheria, di provvista ampolle e baccinelle, di mantenimento di scovolini, di corde per campane, di rimetter lastre e vetri, di lavare in più tempi il pavimento della chiesa: tutte queste spese cadono a peso del Piovano le quali non si ponno calcolare esborsandosi le predette a piccole somme ora di soldi trenta, ora di lire 3  ... Anche tutte le imposte e tutti i pubblici aggravi estraordinari sono a peso del Piovano sicchè per questi dall’anno 1795 sino al presente ho esborsato lire 2.486.”

Ma quanto costava far funzionare San Lio !

Al Secondo Prete del Capitolo di San Lio spettava, invece, per antica tradizione un annuo Censo di lire 86,16 pagato dai Padri della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri alla Fava. Percepiva poi lire 62 dalla Schola della Beata Vergine del Parto; lire 24,16 dall’Arte dei Capelleri e la sua parte degli “Incerti di Stola bianca e nera”. (Stola Bianca indicava le offerte derivanti da Battesimi, Comunioni, Matrimoni, Cresime e offerte varie provenienti da Penitenza e Carità; mentre la Stola Nera più che spesso pingue e appetita dai Preti, indicava l’enorme massa delle celebrazioni legate agli Infermi, gli Agonizzanti, e soprattutto ai Funerali e agli infiniti Suffragi post Mortem).

Per carità ! … I Preti di San Lio Pappa non facevano mancare niente ai loro Fedeli-Parrocchiani di Contrada. Offrivano loro il dovuto: Prediche frequenti tutto l’anno, soprattutto nei venerdì di Quaresima; frequenti Processioniper calli e campielli; Esposizione Solenni del Santissimo e di diverse Sante Reliquie; s’insegnava la Dottrina Cristiana; si coltivavano Devozioni, e si ospitavano da secoli le Schole della Madonna Assunta, di Santa Maria dell’Umiltà, della Vergine del Parto, di Loreto, l’Assunta, l’Addolorata … Alcune Schole erano antichissime: risalivano al 1350.

La Madonna di Loreto di San Lio vestita e in legno dorato del 1733, ad esempio, (dal 1980 si trova alMuseo Diocesano di Venezia), secondo documenti antichi risaliva a una Madonna Vestitaposta sopra “albancòn de San Lio” fin dal 1580 … Nel 1623 contava 17 vesti “andanti da uso” alternate durante l’anno liturgico, e un abito prezioso, tre veli d’argento e tre di seta che venivano usati nei giorni di Festa. Quattro anni dopo gli abiti divennero 35 … Nel 1661 si donò alla stessa Schola: una Corona Imperiale d’Argento, e un’altra col globo che venne sovrapposta al Bambino che teneva in braccio ... Nel 1732 parti delle vesti della Madonna furono vendute, e il ricavato depositato nelle casse della Schola ... Con l’arrivo dei francesi a Venezia gli abiti preziosi dell’antico Simulacro Mariano vennero accuratamente messi a inventario dal Demanio: erano 14 … Ben presto divennero misteriosamente 6 in tutto.

Dove finirono ? … Si disse: “nelle disposizioni di francesi e veneziani “devoti”, che li trasformarono presto in denaro contante per le loro tasche e necessità.”

Per potersi iscrivere all’antica Schola della Madonna di San Lio, preclusa inizialmente alle donne, si doveva pagare una Tassa di Luminaria di 3 grossi. Ad ogni partecipazione obbligatoria ai Funerali dei Confratelli si dovevano offrire liberalmente, cioè per forza, altri 4 soldi di piccoli, mentre ad ogni “Levar Tolèlla”(convocazione del Capitolo della Schola) si dovevano pagare altri 4 piccoli ciascuno … Gratuita fu, invece, l’iscrizione per le donne quando finalmente vennero ammesse.

Gira e rigira: sempre e ancora soldi … Tanti soldi: parecchi: “... che ruotavano notte e giorno intorno e dentro San Lio”.

Per rimanere in tema, nella stessa San Lio era attiva anche una Compagnia di San Giuseppe; e la“Fraterna per il sollievo dei poveri di San Lio che provava insieme alle altre Fraterne Cittadine a risolvere il problema cronico della mendicità dilagante in Venezia. Nel 1825 le Antiche Fraterne Contradariali dei Poveri vennero riorganizzate secondo le Disposizioni Generali Cittadine Venezianedotandole di 20 Medici e 20 Chirurghi, che avrebbero operato nei 19 Circondarii Veneziani. Le Disposizioni precisavano che in ciascuna parrocchia ci doveva essere: “… un numero d’individui uniti sotto il titolo di Fraterna, che si prestavano gratuitamente ad assistere e a contribuire al miglior essere della classe degli indigenti, infermi e vergognosi … I membri delle Fraternità dovevano impegnarsi a contribuire annualmente con 2 lire austriache e 30 centesimi ciascuno”.

Ancora a San Lio si ospitava la Schola del Preciosissimo Corpo di Christo o Corpus Domini, o Confraternita del Santissimo, o del Venerabile… Risalgono al 1511-15 la Licenza del Consiglio dei Dieci e le prime convenzioni col Capitolo dei Preti di San Lio a cui la Schola chiese “di poter usufruire del luogo sotto l’organo dov’è collocata la porta grande”… La Mariegola della Schola determinò inoltre che Piovano e Capitolo della Schola: “… dovessero essere obbligati a far conciar la Cjesia in occasione della Festa del Corpo di Cristo, e di far la Processione come si fanno il giorno della Festa di San Lio.”

La Schola avrebbe garantito in cambio il pagamento di lire 4 al Sagrestano … Gli stessi Confratelli del Santissimo avevano l’obbligo di partecipare alla Processione del Venerdì Santo, e di accompagnare i Preti che portavano la Comunione a domicilio degli Infermi… Multa se non lo facevano … Messapoi ogni giovedì, e Messa Solenne ogni prima domenica del mese … Dal 1557 per ogni Confratello Morto e Sepolto si doveva pagare un ducato al Capitolo dei Preti di San Lio come risarcimento per la costruzione e mantenimento delle due Arche-Tombe realizzate in chiesa davanti all'Altare del Santissimo ... Non era un “giochino”, un impegno solo spirituale e interiore far parte della Schola: bisognava sborsare denaro di continuo … Cinquant’anni più tardi lo stesso Capitolo dei Preti di San Lio concesse ai Confratelli del Santissimol’uso della Cappella Maggiore che venne decorata e abbellita a loro spese collocandovi in parete “La lavanda dei piedi” realizzata dall’artista e miniatore Alessandro Merli, e la pala realizzata da Alessandro Spilimbergo pagato dalla Consorella Nobile e facoltosa Angelica Pellegrini ... Nel 1633 il Guardiano-Vicario della Schola commissionò a Pietro Muttoni il Della Vecchia per la parete sinistra della stessa Cappella Maggiore il quadro della “Passione di Cristo” come ringraziamento per essere scampati tutti alla peste (quella della Madonna della Salute) ... Nel Settecento la stessa Schola del Santissimo contribuì offrendo 50 ducati al restauro dell'organo … A metà secolo si compilò il “Catastico della Veneranda Schola del Santissimo Sacramento in San Leone Pappa”. Il registro è aperto da una miniatura raffigurante la serie dei Guardiani della Schola dal 1511 al 1751 disposti su una specie di albero variopinto ... Nella primavera-estate del 1752, la Schola fece un investimento: acquistò una casa in Contrada di San Canciàndalla Schola Granda di San Giovanni Evangelista, e la rivendette a sua volta dieci anni dopo a Domino Giombatta Giavarina quondam Martinper ducati 1800: procurandosi un lauto guadagno.

Qualche tempo dopo si relazionò ancora su San Lio:“Il problema di San Lio coincide con i suoi Preti … Ben 13 Sacerdoti e un Chierico ruotano e ronzavano coma Api sul Miele intorno alle attività e alle risorse della Parrocchia dove si celebravano ogni anno ben 4.132 Messe Perpetue; 55 Esequiali; 700-800 Messe Avventizie, e ci sono “da supplire” altre 4.815 Messe già pagate e garantite dalle secolari Mansionerie: un tesoretto di denari riscuotibile dalla Pubblica Zecca da saper far sapientemente giostrare.”

C’erano Messe da lire 23 fino a lire 204 ciascuna. I Preti di San Lio, esperti del settore, erano  soliti dichiarare: “Le Messe in San Leone sono ancora a 30 soldi d’elemosina e qualche volta a 36 e 36 ½ .” Intendevano dire che erano appetibilissime: più convenienti rispetto ad altre chiese Veneziane … Incredibile !

A tal proposito Don Giovanni Antonio Durighello Piovano della Collegiata di San Lio dichiarò al Patriarca il 16 settembre 1803: “Non esiste tabella di Messe ed Esequie perché non abbiamo ancora la riduzione ... Si uffiziano le Messe quando è possibile perché attesa la tenuità dell’elemosina alcuni si providero altrove … Un anno per altro le Avventizie sono 700 in 800 e sono tutte supplite … Dall’anno 1798 amministro il danaro Messe: lo tengo custodito in mia casa non essendovi scrigno in chiesa. Non ho ancor potuto far conto de miei civanzi, e se mi è graziato qualche poco di tempo, m’impegno di rassegnarlo esattamente ... Tutte le Feste di Precetto celebro la Messa Pro Populo … Le Messe da supplirsi incombenti su San Lio sono state tutte conteggiate con diligenza e dipendono da Capitoli di Zecca; de Particolari non ne ho da supplire ...4.815 Messe sono in deposito, e non vengono celebrate nonostante 4 Giovani di Chiesa tornerebbero volentieri a celebrarle con elemosina ridotta a Lire 2 come in altre chiese.”

Gli uomini del Patriarca continuarono ad interrogarlo, e lui dichiarò ancora: “Le case della chiesa, e la Tenuta e la Chiesura di Campagna si sostengono con dispendi e sacrifizi continui … Le affittanze si facevano a principio ad Triennium, e quindi ad annum: tanto per le Robbe di Venezia che di Campagna ...In Terraferma vi sono i beni nella Villa di Roncade: terreno di campi 28 circa con Fabbriche colonicheintitolati “Beni di Pieve” colle cui rendite deve pensare ai bisogni di Sagrestia ed altro; e in Villa di Biancade: chiesura di campi 7 circa con casòn capaci di rendere annualmente circa ducati 150 … Tutti gli stabili di Venezia e le Fabbriche di campagna sono di antica costruzione, e perciò bisogna di continuato dispendio per gli ristauri, sicchè in anni 12 da che sono Piovano in soli ristauri necessari ho spese lire 6.793 ... A Venezia San Lio ha una casa di residenza per il Piovano; una casa affittata a Francesco Bonomo per ducati 95 annui; un’altra casa e bottega affittate a Giovanni Antonio Cedro per ducati 52 annuali di rendita; un’altra casa pluriaffittata a più appigionati per ducati 118 annui; una caxetta data in affitto a Giuseppe Colussi per ducati 20 annui; altre 3 botteghe che rendono ducati 57 annui; e un Livello perpetuo dalla Ditta Giuseppe Carminati e figli che rende ducati 48 annui cioè lire 297, 12 …”

Un bel patrimonio … Quasi a ruota libera, il Piovano rese conto: “Circa l’elezione del Procuratore del Capitolo, si fa ogni tre anni: io mi trovo in tal incarico per il terzo Triennio, mi riservo di far sindacare le Casse da tutto il Capitolo quando cesserò da tal Uffizio ... Chiedo venia del trascorso … Ho fatto questo per evitare le dicerie, e la faraggine delle cose già accorse in precedenza in pubblico … Non posso lagnarmi della condotta di alcun Sacerdote: sono tutti buoni Religiosi, anche se vanno a cercar Messe e celebrarne anche altrove: Don GioBatta Boscaccio va a celebrare all’Ascensione in Bocca di Piazza San Marco, Don Gaetano Zeni e Don Alvise Cavalier vanno ai Mendicanti, Don Bernardo Lovisi va dalle Monache Mantellate rimpetto San Girolamo abitando da quelle parti … Solo Don Francesco Zini vaga in varie chiese, mentre Don Giovanni Maria Falardi va dalle Monache di Santa Giustina per le quali fa anche il Sagrestano … Vi è un deposito di Messe non esaurite per la mancanza di Religiosi essendo solo 8 che continuamente celebrano per gli obblighi di chiesa. Sono: io, Pre Andrea Costa Primo Prete Titolato, Pre Francesco Gattinoni Secondo Prete Titolato, Pre Lodovico Fontana Diacono Titolato, Pre Giuseppe Durello Suddiacono Titolato, e Pre Mariano Bentivenga … Pre Gio Batta Boscaccio, Pre Gaetano Zeni, Pre Bernardo Lovisi, Pre Francesco Zini e Pre Alvise Cavalier ritornerebbe volentieri a celebrare in chiesa qualor fossero ridotte le Messe a tassa maggiore, e così si addempirebbero gli obblighi correnti e si estinguerebbe il deposito.”

Curiosissimi i finanziatori del tesoretto: Lucia Arrigoni commissionò 81 Messe per testamento nell’ottobre 1696 pagando: 70 messe a lire 124, e 1 Esequie a lire 15,12. Antonia e Virginia Astori, invece, “comprarono per testamento”: 182 Messe da lire 312 nel 1741. Inoltre pagarono lire 93 a parte al Piovano per un Legato “con obbligazione di due torzi da libbre 8 l’uno nel Giorno dei Morti, e altre lire 24,16 per 1 Esequiale”;  Elena Betteni Orlandi nel 1660 “prenotò”62 Messe da lire 125 ciascuna; Elisabetta Bonotto subito dopo la Pestilenza ne ordinò 35 Messe da lire 57.7; il Reverendissimo Don Pietro Bruzzeda“segnò” 34 Messe da lire 68, e 6 Esequi da lire 82 nel 1679; Paolina Canal nel 1643 volle: 24 messe da lire 36 “con due torzi nel giorno dei Morti da lire 18”; mentre il ricco Nobile Sebastiano Cappello(1660) si accaparrò 27 Messe da lire 40.10 ciascuna, insieme a  1 Esequiale da 6.4 lire: “Non tantissimo per uno molto facoltoso come lui. Cappello è noto in Contrada per essere tirchio e avaro ... Lo fu anche in Morte.”

Ancora: Angela Lavezzari Castelli si assicurò nel 1646: 76 Messe da lire 146, e un Legato al Piovano da lire 4 … Potrei continuare a lungo: Zuanne Chegherle; Domenico Coronato; Ventura Tagliaferro; GioBatta Soldo; Costantina Sangalli; Varisco Ronzoni; Maria Roldi; Giacomo Rizzatti; Reverendissimo Don Antonio Rizzo; Giovanno Remessi; il NobilHomo Andrea Pisani; Apollonia Piazza; Innocente Perini; Angelica Pellegrini; Pietro Negri; Ambroso Grattarol; Maddalena De Mezzi … Giacomo Martini; Lucia Lodi; il NobilHomo Agostino Barbo: una bella botta nel 1647: 162 Messe da lire 272 ciascuna, 1 Esequie da lire 10,10 per due torzi nel giorno dei Morti da lire 18,5, e un Legato al Piovano da lire 17.18 … Ne salto molti altri … fino a Francesco Vago che ordinò: 290 “Quotidiane”da lire 664, ed Esequi, e Torzi nel giorno della Commemorazione de Defunti, e un legato al Piovano da ulteriori lire 13,8 … la Schola del Santissimoordinò ai Preti di San Lio per i sui Confratelli: 100: messe 52 da lire 80 con un Esequiali Comune da lire 24,16 … la Schola della Beata Vergine dell’Umiltà o di Loreto dispose ai Preti per 52 Messe da lire 104 e un Esequie da lire 12,8 riscuotibili dal Guardiano pro tempore della Schola… e l’Arte dei Cappellericol suo Gastaldo pagò per 13 Messe da lire 26, e un Esequiale da lire 12,8.

Infine la Commissaria delNobilHomo Giuseppe Persicocon Messe ed Esequi da 250 e 375 lire… col quale i Preti finirono perfino in causae Processo per una questione di “donzelle graciate dal quondam nobil huomo Giuseppe Persico".

Vi risparmio il resto … Pre Simon De Luca Alunno di chiesa e Procuratore di Fabbrica eletto nel 1803, riscuoteva mensilmente la dote delle Mansionerie assegnategli percependo: lire 33,13 ogni volta con l’obbligazione di supplire a tutte le spese attinenti alle Messe. Segnava tutto meticolosamente: “entrate e uscite” in un suo libretto.

Interrogato a sua volta Don Giuseppe Durello Suddiacono Titolatodi San Lio dichiarò irritato: “Sono almeno sei trienni che Piovano e Procurator di Capitolo non hanno mai reso i conti nonostante si siano fatti diverse eccittazioni al riguardo di Don Simon De Luca … il Primo Prete Don Andrea è vecchio e non ha la testa a segno, ma come Primo Prete del Capitolo di San Lio ha rendita di 305,84 lire da casa affittata in Contrada, perciò Don Francesco Gattoni Secondo Prete e Sagrestano con Don Ludovico Fontana Diacono lo sostituiscono e percepiscono per lui ...”

Fu poi la volta dell’Alunno di chiesa: Don Simon De Luca, che interrogato il 19 giugno 1805 aggiunse, dichiarò e sottoscrisse: “Sono più di vent’anni che il Piovano è Procuratore di Capitolo, e sono due trienni e più che non viene né eletto né confermato, e che mai rende conto dell’amministrazione nonostante molti solleciti dei Preti del Capitolo vivi e defunti ... Solo in un’occasione presentò una cartina ai Capitolari rigettata da Don Brigadi (defunto) in quanto non sufficiente come rendiconto formale dell’amministrazione ... Il Suddiacono Don Gattinoni, Don GioBatta Boscaccio e Don Lodivico Fontana potrebbero render conto specialmente della Cassa Fabbrica … sempre che vi sia in chiesa ? … Siccome poi il Signor Pievano non poteasi con questo solo provento a tutto supplire, con lodevole zelo una cassella instituì [in chiesa], in cui quotidianamente si raccogliesse per le sacre suppellettili, e bisogni della Chiesa … Il di cui mensuale ritratto sinora in cumulo non risultò, che in ducati correnti venti al mese, la metà dei quali sempre al detto Procuratore consegnata fu, e l’altra si contò in ogni mese alli stessi Procuratori secolari della Fabbrica di detta Chiesa per restauri della medesima, e debiti perciò da essi incontratti … Benchè dal soprallegato Decreto della Riduzione delle Messe per la Chiesa di San Leone apparisca essere l’Ecclesiastico Procuratore della Fabbrica di detta Chiesa in dovere di pagare siccome tutte le altre spese concernenti alle Messe, così ancora il vino bianco dal Signor Piovano somministrato; con tutto ciò il sopraesposto diritto della Fabbrica della Chiesa sopra la metà delli Beni Parrocchiali pare (salvo errore) che disobblighi il detto Ecclesiastico Procuratore assolutamente dal detto pagamento del vino bianco; poichè deve anzi il Signor Piovano rendere a lui conto della metà della rendita percepita dai di lui Beni di Roncade nello scorso anno 1804, e così sempre di anno in anno ... Vero è che egli protesta di non essere in dovere di rendere conto: perché tutta in detto anno impiegolla per le Funzioni solenni della chiesa: al che il detto Ecclesiastico Procuratore in adempimento del proprio uffizio obbligato si vede di rispondere con tutto il rispetto, che nondimeno le suddette spese da lui indicate render dee conto della metà della detta rendita nello scorso anno …”

Don Francesco Gattinoni Secondo Prete Titolare e Sacrista di San Liodichiarò preso da apprensione: “Sono stato eletto Titolato di Chiesa nel 1790: già da 59 anni sono stato ascritto alla chiesa di San Lio, ed avea 14 anni … Dopo ch’io sono in Capitolo una sol volta si fece Procurator di Capitolo Canonicamente, e questo successe già otto in nov’anni circa: saranno poi 20 in 25 anni che l’attual Piovano è Procurator di Capitolo e che era ancor Giovane di Chiesa ... Sotto il Piovano Casari si eleggeva il Procuratore di Capitolo ... A San Lio v’è Cassa Fabbrica: vi sono alcuni pochi beni in Roncade, e le rendite di questa vengono spese pella Sagrestia per i cui “pesi” fa tutto il Piovano che non rende conto ad alcuno di Cassa Fabbrica.”

Don Ludovico Fontana Diacono Titolato e Sacrista San Lio:“... Saranno 10 anni terminati lo scorso agosto … Sono ascritto alla chiesa di San Leone da 56 anni, cioè dal 1747: “Nescire (Non sono bene a conoscenza)…. I Libri Vecchi stanno in scrigno in Sagrestia, e i due ultimi sul nostro scrittoio: essi sono di quattro in quattr’anni, il penultimo termina nel 1800, il corrente terminerà nel 1804. Mai ho veduto che il Piovano si sia fatto ad esaminarli: forse egli li avrà esaminati in mia assenza ... Sono 27 anni che non si elegge più il Procuratore di Capitolo: mi sovviene che 7 anni fa il Piovano fu confermato Procuratore di Capitolo … Mai il Procuratore di Capitolo ha fatto in nessuna forma la resa dei conti … Don Brigadi gridava su ciò, ma il Piovano rispondeva che andasse di sopra che gli farebbe veder tutto ... Dopo la sua morte i Titolati non hanno più dato alcun eccitamento al riguardo.”

Nell’agosto 1865, infatti, fu Don Francesco Panciera Vicario di San Lio a guidare i firmatari di una Petizione all’Austria per far abolire la Commissione che gestiva gli ex beni Capitolari ed Ecclesiasticiridotti ormai a un terzo dell’originale … Tutti i redditi associati alla Parrocchia-Contrada di San Lio erano scomparsi: equamente spartiti fra Commissione Ecclesiastica e Demanio dello Stato.

Nel frattempo avvenne un riordino e rifacimento dell’edilizia dell’ex Contrada: si eliminò la Corte Carminati traslandone il nome a un tratto di Calle del Pistor, si ricostruirono diversi fabbricati prospicienti il Campo San Lio, si mise in comunicazione Calle della Malvasia con Corte Licini alla Fava, e si gettò un nuovo ponte per raggiungere la Piscina di San Zulian.

Mi rendo conto bene d’avervi dato un’immagine frusta e un po’ trista, quasi meschina della Contrada di San Lio riassunta nel Capitolo dei suoi Preti … Ma per fortuna la Contrada significava ben di più: pulsava di tanti Veneziani “nostràni” onesti che vivevano, agivano e lavoravano, e di altrettanti “foresti” che giungevano nella “Capitale” da ogni parte del Mondo.

“La Contrada del Pappa Lio” ai Veneziani richiamava di certo il “Lèo-Leòn”, il Leone Marciano, anche se il  Pappa Lio o Leone, con due “p”, tirava in mezzo il Sommo Pontefice Papa Sovrano di Roma, che si sa: ai Veneziani non era sempre e del tutto simpatico e graditissimo.  Sembra che all’inizio nello stesso luogo di San Lio dipendente dalla vicina Chiesa-Matrice di Santa Maria Formosa, ci sia stato un antico Monastero Veneziano titolato alla Croce o forse a Santa Caterina patrocinato dai Nobili Badoer. Un primo Piovano Badoario di San Lio avrebbe dato il vecchio Monastero della Croxe all’Abate di Santa Maria della Carità di Dorsoduroliberandosi della gravosa gestione monacale, avviando così la Colleggiata-Plebania dei Preti di San Lio… La dedica di San Lio, invece, si riferiva a San Leone IX Papa e ai decenni iniziali del secolo 1000, quando ci furono le lotte fra Aquileia e Grado, e il Doge Domenico Contarinirecuperò Grado appoggiato appunto dal Leone IX, che nell’occasione ricoprì Venezia d’Indulgenze e privilegi. Da quello quindi la dedica della chiesetta a tre navate in stile bizantino basilicale, col campanile in mattoni a canna a doppie lesene e cella biforata sormontata da cuspide con pinnacoli come rappresentata ancora nel 1500 nella Pianta del De Barbari.

A quell’antico Cenobio della Crocesito a San Lio e poi traslato altrove, risaliva forse l’annuale Tradizionale Processionale dei Confratelli della Schola Granda di San Giovanni Evangelista dei Frari nel Sestiere di San Polo, che si recavano in visita aSan Lio attraversando tutta Venezia. A quel pellegrinaggio venne legata la Leggenda del “Miracolo della Croce al Ponte di San Lio o Sant’Antonio” amabilmente dipinto da Giovanni Mansueti per la stessa Schola Granda di San Giovanni Evangelista (ora conservato all’Accademia).

Per conservare quella tradizione, un Decreto del Consiglio dei Dieci del 1474 ordinò di perpetuarne l’usanza.

Flaminio Cornerracconta la Leggenda:C’era tra i Confratelli di San Giovanni un uomo di corrotti costumi, appartenente alla Parrocchia di San Lio, il quale, invitato da un altro Confratello ad accompagnare la Croce in una cerimonia funebre, giacché essa doveva un giorno onorare anche i funerali di lui, empiamente rispose: “Né voglio io accompagnarla, né mi curo che ella mi accompagni” ... Allorché il perverso morì, venne la Scuola col Sacro Vessillo a seguirne i funerali; ma, giunto il corteo al Ponte di San Leone, la Croce diventò siffattamente pesante che non ci fu forza umana capace di farla proseguire. Accorso allora l’amico al quale egli aveva data l’empia risposta e riferì il fatto; onde venne in chiaro la ragione dello strano miracolo... Fu così che ad espiazione del fatto i Confratelli della Schola vanno a visitare processionalmente la Chiesa di San Lio o Leone.”



La Contrada di San Lio era ed è uno dei microarcipelaghi di isolette Veneziane legate dai ponti, circondata dal Rio di San Zulian e della Fava, che poi diventa Rio del Piombo e più avanti Rio del Mondo Novo ... Immaginatevi per un attimo la Contrada laboriosa e vispissima di San Lio a soli due passi dall’Emporio Realtino. San Liooltre che di Palazzi, Fondaci, case e caxette, botteghe, magazzini, locande e osterie, pullulava di Mercanti, Artieri, Bastazi e Bottegai intenti a chiassare e lavorare seduti in strada, sulle porte delle loro minuscole o grandi botteghe, nei “vòlti”, o sotto ai portici dipinti o spogli quando pioveva, tirava vento, e c’erano bora o scirocco con l’acqua alta sotto a cieli sudati o pallidi, che a volte diventavano gialli e traslucidi quasi fossero malati pure loro … Immaginate anche il profumo intenso di Pepe Nero, Zenzero, Spezie e Pellami che riempiva l’aria da mattina a sera mescolandosi con i colori viola, rosa e giallo, arancione e blu cobalto delle cose, ma anche con le fogge dei vestiti dei tanti che giungevano là da tanta parte del Mondo di allora ...ceste ovunque, tappeti e stoffe, prodotti di ogni sorta … un gran numero di Capitellidi Devozione appesi sugli angoli delle callette, sugli Stazi dei Traghetti, o in cima ai Ponti ... Un ambiente curiosissimo e stupendo secondo me.

La Contrada di San Lioera come punteggiata, quasi trapunta, coincideva con i suoi Nobili e Cittadini Originari … Parliamone.

C’erano nomi e Casati importanti e famosi, altri erano emergenti, altri ancora si avviavano al declino avendo perso la strada della Fortuna. Erano comunque loro a conferire lustro, identità e capacità economica e mercantile alla Contrada rendendola area di opportunità di lavoro e guadagno per tanti ... Già nel quasi impensabile perché lontanissimo marzo 1128 a Rialtopresso Romanus Presbiter et Notarius: “Valentino Sgaldario dal Confinio di San Leone fideiussore e Aurio Bembo del Confinio di San Salvador mediatore attestarono circa un “vadimonio” che Vitale Ingizo da Pellestrina diede a Pietro Soranza dal Confinio di San Cassiàn per il quale detto Pietro gli affidava una peschiera in Pellestrina con l’obbligo di pagare a Conzo ed Ottone Da Molin annui quattro paia di uccelli e cefali duecento.”

Oltre agli immancabili e prestigiosissimi Nobili Querini di Classe IV del Ramo di San Lio, in Contrada operavano i potenti Nobili Contarini che occupavano un palazzo del tardo 1500 alto ben cinque piani: cosa un po’ insolita a Venezia ... C’erano poi in un palazzetto archiacuto del 1400 i Nobili  Corner diventati Reali cioè fra i “grandi e principali” di Venezia, e i Giustinian trasformati in Faccanòn, che non intendevano essere da meno risiedendo in unPalazzo simile nel cuore delle Mercerie della Fava, dove fecero erigere una specola.

In Contrada risiedevano poi in Corte della Malvasia i Nobili Pizzamano di Casa Nuova e di IV Classe, che avevano ottenuto in concessione dal Comune Venezianoimportanti porzioni di “Campagna” nelle zone del Brenta irrigate dalla Roggia Rosà, dove s’impegnarono soprattutto nell’Arte Molinatoria e nel Commercio del legname. I Pizzamano non furono mai Nobili prestigiosi di Casa Granda, ma furono di certo fra quelli che le diedero parecchio “spessore”occupando di continuo diverse cariche del mirabile apparato della Serenissima. Fra 1697 e 1797, per ben 16 volte ricoprirono 33 cariche diverse di Reggimento di Stato nei territori della Repubblica. Nel 1545-46 M.Giannandrea Pizzamano fu Guardian Grando della Cà Granda dei Frari: uno dei Conventi più insigni e potenti di Venezia. Trent’anni dopo nel Capitolo convocato dalla Badessa Ludovica Morosini del Monastero di Santa Caterina di Mazzorbopresenziava fra le 28 Nobili Monache da Coro anche la Monaca Cecilia Pizzamano ... Ma da un Catastico dell’Avogaria da Comun si evince che fra 1705 e 1793 ben 13 distinti nuclei familiari dei Pizzamanovennero beneficiati per 38 volte dalla Serenissima con provvigioni e sussidi concessi solitamente ai Nobili decaduti considerati poveri e vergognosi ... Curiosità nella curiosità: nel 1763 il “sforzato di galea”Paolo Galiaz condannato due anni prima per ulteriori 7 anni dopo aver commesso un altro omicidio, si trovava a bordo incatenato sulla Galèa di Mattio Pizzamano dove scontò  25 anni di condanna al remo ... Mattio Pizzamanonell’ottobre 1797 fu fra i 35 Nobili Patrizi Veneziani accusati di congiura contro i Francesi. Vennero presi come ostaggi-complici e rinchiusi nel Forte dell’Isola di San Giorgio Maggiore ... Tutti i loro beni vennero confiscati.

Non posso in questo contesto non dire almeno una parolina su un Pizzamano famosissimo: Domeniconato a Corfù, dove suo padre Nicolò, dopo una discreta carriera al servizio della Serenissima (Conte-Capitano a Sebenico in Dalmazia, Giudice del Mobile, Savio alle Decime di Rialto), era diventato Provveditore e Capitano. Appartenevano a uno di quei rami dei Pizzamano impoveriti, ma che erano ancora benestanti in quanto possedevano oltre a Cà Pizzamano in Corte della Malvasia a San Lio, anche varie terre nel Trevigianoe nel Veronese, e diversi immobili a Venezia e Murano.

Un po’ fumino come persona, ma autorevole e deciso, Domenico Pizzamano fu uno dei diciotto Patrizi che si offrirono volontari per essere impiegati nella difesa di Venezia quando stavano per arrivar i francesi, che avevano già occupato Peschiera e Verona. Venne nominato Deputato al Castello e Porto di Sant’.Andrea del Lido e canali adiacenti con uno stipendio mensile di 110 ducati.

Disautorato e messo in disparte dopo una lite col suo potente Superiore Nani, finì Provveditore Sopra i Conti al Lido, privato però del comando di una nave. Ricevette un’indennità di 30 ducati per mantenersi una gondola, di cui gli fu risarcita anche la spesa di 248 lire venete. Poco dopo però, il Senato lo riabilitò dandogli l’incarico di Provveditore di San Maura … Non fece però a tempo a partire da Venezia, perchè il nemico francese incombeva, ed era necessario difendere il Porto del Lido da ingressi di bastimenti armati.

Pizzamano diede ordine che qualsiasi nave si fosse presentata in Bocca di Porto, doveva ancorarsi al Castello di Sanità. Se fosse stata nave straniera armata doveva ripartire subito, altrimenti i cannoni del Forte di Sant’Andrea avrebbero aperto il fuoco. Sette fregate Inglesie varie piccole navi Imperiali, infatti, ripresero subito il largo, ma furono i francesi a entrare provocatoriamente nelle acque Veneziane. Nella notte del 20 aprile 1797, tre unità napoleoniche si recarono sul Lido di Caorle catturando il pescatore chioggiotto settantenne Ménego Lombardo. Dopo avergli chiesto informazioni sulle navi, le fortificazioni e i soldati Veneziani, lo obbligarono a condurli verso il Porto di Venezia. Fu così che si presentarono in Bocca di Porto sparando le tradizionali salve di avviso-saluto, riconosciuti subito dalle vedette del Forte di Sant’Andrea. Pizzamano inviò subito inutilmente due lance ad informare la nave del divieto d'ingresso invitandola ad allontanarsi, ma visto che “Le Libérateur d'Italie”, il Brigantino francese armato continuava ad avanzare, non ci pensò su due volte, e diede ordine alle potenti batterie del Forte di Sant'Andrea di aprire il fuoco. La nave centrata più volte, venne poi speronata e abbordata dalla Galeotta Bocchese Annetta Bella comandata da Alvise Viscovich di Perasto. Morirono cinque marinai francesi e il comandante, altri otto vennero feriti e trentanove fatti prigionieri. Il pescatore chioggiotto morì una settimana dopo per le ferite riportate, ma fece a tempo a ricostruire sotto giuramento tutti i fatti raccontandoli ai Veneziani.

Eroico Domenico Pizzamano ! … purtroppo parecchio strapazzato in seguito.

Ancora in Contrada di San Lio vicino alla chiesa della Favaabitavano e operavano i Licini famiglia Cittadinesca non Nobile originaria di Bergamo. Oltre a possedere Arca di sepoltura di famiglia in San Lio, Giacomo Licini attivò nel luglio 1676 “un istrumento di livello” di ducati 600 a favore del Monastero di Santa Maria della Celestia di Castello ... Nel 1741 Bon Licini, ricco proprietario di Negozio di tele in Calle della Bissa avviato da suo padreAlessandro, si comprò “una casa in due soleri in Contrà di San Leo Papa dietro la Madonna della Fava in Corte detta del Piombo dando in permuta ad Andrea Massarini alcuni stabili di sua proprietà che possedeva alla Giudecca e in Contrada di Sant’Aponal e San Giminian presso Piazza San Marco.” 

In Contrada abitavano poi i Tasca considerati fra i 15 Casati più ricchi di Venezia. Nel 1645, in occasione della Guerra di Candia contro i Turchi, i Tasca divennero“Nobili Aggregati per soldo”con Annibale di Nicolò Tasca, che dopo iLabia e altre 10 famiglieversò all'Erario Pubblico 100.000 ducati … Si raccontava che il Tasca s’era presentato a versare i 100.000 ducati “in abito assai ordinario.”

In realtà, i Tascaappartenevano alla cerchia dei ricchi Mercanti di Seta provenienti da Bergamo. A Venezia avevano fatto fortuna diventando proprietari di diversi palazzi e botteghe nel Sestiere di Castello in Fondamenta e Calle Tasca, e a San Marco, soprattutto nelleContrade di San Bartolomeo e San Zulian dove in Merceria di San Salvador avevano le loro botteghe di“seta, lino, lana, Zambelotti e Camelòni (drappi di pelo di capra).” Possedevano inoltre un Palazzo a Portogruaro, Ville a Conselve e a Gardigiano di Scorzè, e dal 1648 alcuni opifici per macinare orzo e lavorare lino, e segherie per lavorare legname diretto poi all’Arsenale Venezianoattraverso il fiumeLemene. I Tascaerano conosciuti e apprezzati Notai Veneziani, che avevano relazioni commerciali con laFamiglia Bucareli Marchesi di Vallehermoso in Spagna, e a Venezia, come iSurian, Ottoboni, Medici, Zon, Vianol, Donini, Zaguri, Rubini, Piovene e Feramoscaebbero diversi Giudici nellaQuarantia Criminal.

Nel 1617: Piero Tasca fu Guardian Grando della Scuola Grande dei Carmini, come Giovanni Francesco Tasca nel 1628 … Nel 1644 i Tasca acquistarono da Cornelia Formenti Molin un palazzo cinquecentesco in Contrada di San Zulian prima d’imparentarsi con i Pappafava nel 1687 ... Nel 1727 Giulio Tasca dopo aver coperto la carica di Provveditore alle Biave divenne Senatore, e si diceva di lui che era un gran benefattore delle famiglie nobili basse e decadute, delle quali godeva quindi l’appoggio incondizionato invidiato dalle Classi Alte Nobiliari … Negli ultimi anni della Serenissima fra 1793 e 1795 Maria Tasca era Badessa del Monastero di Sant’Eufemia di Mazzorbo.

Continuo ?

In Contrada c’erano ancora i Toderini di San Lio: Nobili Veneziani di III Classe eMercanti di Merletti pure loro aggregati “per soldo” alla Nobiltà Veneziana con la Guerra di Morea del 1694 … Domenico Maria Toderini era Notaio a Venezia fra 1793 e 1824 … I Toderini possedevano una bella Villa a Codognè di TrevisoElena Querininelle sue famose lettere nell’ottobre 1777 raccontò che due Dame Veneziane: una Priuli nata Labia, e una Toderini nata Bon, furono costrette a starsene ritirate in casa in applicazione di un Pubblico Decreto che impediva alle donne di andare a Teatro senza maschera e “vestite con la massima indecenza ed ornate a capriccio.” in modo poco confacente allo stato Nobiliare.

INobili Orso di San Lio, invece, divenuti Nobili con altri 30 dopo la Guerra di Chioggia per aver sostenuto economicamente la Repubblica, vivevano nell’omonimo Sottoportego e Calle dell’Orsoin un palazzo in stile bizzantino affacciato sul Rio della Fava, dove c’era un pozzo di marmo rosso con scolpita l'arma gentilizia di famiglia “con l’orso in piedi” ... Altri degli Orso abitavano alla Madonna dell’Orto in un palazzo del 1500 ... Erano tutti giunti a Venezia da Lucca nel 1300 con altre famiglie dedite al Commercio della Seta… Nel primo decennio del 1500: Orso Giovanni Francesco era uno stimatissimo Notaio Veneziano.

Vi sto annoiando: lo so … Tenete duro: ho quasi terminato.

Nella Contrada di San Lio viveva in un palazzo del 1500 costruito dalla scuola di Pietro Lombardo il Casato dei Nobili Gussoni diventati poi Algarotti. Anche loro erano considerati tra i “Principali di Venezia”.

Nativi di Cividale del Friuli, si stabilirono prestissimo prima a Torcello nel 1294 utilizzando per i loro commerci il Porto di Treporti, poi si trasferirono a Venezia dove divennero unadei 15 Casati più ricchi della Città con Palazzo affacciato sul Canal Grande costruito dal Sanmicheli e affrescato da Tintoretto e Zelotti.

Nel settembre 1298 però: Marco Gussoni con Marin Boccon, Carlo Regio, Girolamo Sebalachi, Dario Falier, Sabà Sorian, Zamaria Dolce, Alessandro Baron e Pietro Erizzo vennero impiccati per ordine del Consiglio dei Dieci per aver sussurrato e complottato alla Porta del Maggior Consiglio…Altri 42 complici rimasti di sotto in Piazza San Marco si diedero alla fuga lasciando i territori della Repubblica, che li condannò a bando perpetuo sequestrando tutti i loro beni.

Dopo metà 1300 il Destino dei  Gussoni cambiò significativamente in meglio quando venne scavata la Fossa o Cava Gradeniga nel Castrum di Mestre-Marghera, Vennero, infatti, danneggiati i possedimenti di Domenico Gussoni, e il Consiglio dei Dieci lo rimborsò concedendogli una casa sequestrata ai Falier, anche se il fossato già nel 1345 venne riempito di terra e acqua stagnante, e si dovette scavare il Canal Salso fra San Lorenzo di Mestre e la Palada di Marghera.

Nel 1483 il Diarista Marin Sanudo elencando le case di pietra dei Nobili Veneziani presenti a Noventa Padovana: “Villa bellissima, piena di caxe di muro de Veneti  nostri, zoè di Hirnomia Malipiero, di Piero Vitturi, di Chimento Thealdini, de Troylo Malipiero et filii, di Martin Pisanelo …” non mancò di ricordare anche quelle dei Baffo, Marcello, Gussoni, Giovanni da Rio e dei Da Buvolo (Contarini del Bovolo ?).

Dopo metà 1500 i Gussoni si fecero costruire palazzi sul Canal Grande in Contrada diSanta Fosca affrescato dal Tintoretto, e in Contrada di San Vidal venduto poi ai Cavalli ... Andrea Gussonifu Ambasciatore Veneziano a Firenze nel 1576 … Nel 1587: Andreas Stimas Chierico da Padova di 72 anni insegnava Grammatica da 15 anni a Cà Gussoni:“ora a 5 alunni pizoli che imparano la grammatica semplice…”

Non a caso quindi, i Gussoni possedevano in San Lio una Cappella privata realizzatada Pietro e Tullio Lombardo(davanti alla Cappella, nell’Arca del Santissimo sul pavimento, è sepolto il Pittore Antonio Canal detto il Canaletto, che nel1745 abitava in Contrada con le sorelle in Corte di Cà Pizzamano pagando ducati 50 annui d’affitto. Si legge nei Necrologi Sanitari:“Antonio Canal d'anni 71 da febbre et infiamasion nella vescica giorni 5, morto all'ore 7 col Medico Musolo e Capitolo di San Lio”).

Durante il 1600 a casa del Senatore Francesco Gussoni dov’era ospitata una celebre collezione di quadri, si riuniva l’Accademia Delfica detta Gussonia che si occupava di eloquenza, e di cui era Protettore con altri Nobili … Nel 1607 il filoSarpiano Cavalier Vincenzo Gussoni fu Podestà di Vicenzaal tempo dell’Interdetto per Venezia di Paolo V, quando fra i Patrizi più combattivi si schierarono a difendere i diritti della Repubblica Serenissima contro i Nobili PapalistiConservatori. In seguito divenne Ambasciatore a Parigi (succedendo al fratello Andrea), e poi Ambasciatore presso il Principe di Savoia, Ambasciatore a Londra, e Ambasciatore nei Paesi Bassi ... Fu un grande uomo insomma … un gran Veneziano.

Nel 1731: Giustiniana Gussoni fuggì da Venezia col Conte Francesco Tassis di Bergamo col quale contrasse matrimonio clandestino, e rimasta vedova nel 1736 si rimaritò con Pietro Martire Curti finendo i suoi giorni a 27 anni, nel 1739, venendo sepolta agli Scalzi di Venezia ... Donna dei Gussoni sfortunata.

Vado avanti ?

A San Lio c’erano i Cittadineschi Algarotti con Iseppo Maria Algaroti quondam GiacomoPubblico Sensale, che comprò “per uso”nel 1748 da Lorenzo e Francesco fratelli Gerardie da Faustina Lazzari relicta (vedova) Gussoni due parti di una stessa casa-palazzo a San Lio alla Favarealizzata da Pietro Lombardo e bottega. LaCalle del palazzo venne nominata dell’Algherotto cioè degli Algarotti. Nella primavera di cinque anni prima un Algarotti Capitano di Navecaricò molto zucchero a Lisbona per conto del Signor Bonomo Algarotti Mercante Veneziano fratello del Conte Algarotti Lettaro Favorito del Re di Prussia. A Cadice caricò delle botti d’olio ponendole sopra alle casse dello zucchero. Come avete intuito, l’olio fuoriuscì finendo nello zucchero, e si guastarono entrambi i capitali. L’Algarotti pretese risarcimento dal padrone della nave, e gli venne data ragione dai tre Giudici del Magistrato dei Consoli dei Mercanti.

E gli Zocchi o Zocco, o Zucchi o Zucchini di San Lio dove li metto?

Abitavano inSottoportico, Corte e Calle della Bissafra le Contrade di San Bartolammeo e San Lio Pappa:“Un testimonio citato all'Avogaria per deporre circa la condizione della famiglia medesima, di tal guisa ebbe ad esprimersi: “La Famiglia è benestante; abita uno stabile di propria ragione, et ha molti altri stabili suoi in Calle della Bissa.”

Nel 1674: “GiovanBattista Zocchi Sansèr Ordinario traslatò il 19 luglio da Riosa Signorini et heredi del quondam Lazaro Stagerer habitante a Bressa due case e una bottega in Contrada di San Bartolammeo in Calle della Bissa”.

Dieci anni dopo, Andrea Zontini quondam Zuane“traslatò” un'altra bottega nello stesso sito, pervenutagli per prelazione ottenuta all'Uffizio dell'Esaminador: “sopra strumento del giorno 8 aprile di quell'anno, in atti d'Orlando Grazioli. Il NobilHomo GiovanBattista Zocchi, oltre di essere Sensale, era anche Mercante da Droghe, e Console della Religione di Malta. Dalla moglie Maria Evangelisti, sposata nel 1639, ebbe due figli: GiovanPietro e GiovanAntonio, che, giusta il testamento del padre si divisero, fra gli altri beni, anche gli stabili in Calle della Bissa ... Da Gio. Pietro Zocchi nacque G. Battista, e da esso i cinque fratelli Pietro Maria, Andrea, Gio. Domenico, Alessandro e Sebastiano, i quali vennero il 18 giugno 1755 approvati come Cittadini Originari … Nel maggio 1719, infine: uno Stefano Zocco Venezian di anni 38 venne impiccato a Venezia per ordine del Consiglio dei Dieci.”

A San Lio, infine e finalmente, c’erano i Carminati giunti a Venezia dopo essere passati per Milano, Genova, Verona e altre città dell’Italia settentrionale. Divennero Nobili Venezianinel 1687 “per la Guerra di Morea”. EranoMercantidi parte Ghibellinadalla Val Brembilla di Bergamo dov’erano proprietari della Rocca di Cà Eminente e del Castello sul Monte UbioneGià nel 1006 Papa Giovanni XVIII detto Boccadiporcoloroparente, aveva scritto un antichissimo “Breve”a Pietro Carminatiche aveva combattuto contro i Turchi conferendogli vari privilegi e i titoli di Conte e Cavaliere. AGiacomo figlio di Pietro, visto che era già Canonico nella Cattedrale di Santa Maria, garantì la possibilità di succedere nelVescovado di Bergamo tramite diretta nomina Pontificia.  

I Carminati a Venezia andarono a stabilirsi in Contrada di San Stae e Isaia dove c’era il loro Palazzo (oggi scuola e studio-foresteria per artistiospiti dell'Opera Bevilacqua La Masa) ricco di stanze con stucchi, caminetti e soffitti decorati, e il Ramo-Salizada che porta il loro nome. In Contrada di San Lio, invece, possedevano in Calle Carminati un vasto casamento oggi scomparso e trasformato in giardino.

Alle Dichiarazioni Fiscali del 1700 i Carminati figuravano sempre fra i 70 capifamiglia “Nobili Recenti abbienti” che dichiaravano 6.000 ducati e più d’entrata. Possedevano 400 ettari a Conselve, dove le loro proprietà s’intrecciavano con quelle dei Borin, Duodo, e Dondi dell’Orologio i cui vari rami avevano quasi 1.000 ettari nel Padovano. Ancora nel 1806, “in ultimis”, quando ormai Venezia Serenissima era morente: Gaetano Carminati da Crema acquistò daiGrimani-Giustinian la loro azienda di 181 ettari a Biadene sul Montello.

Basta adesso … altrimenti vi faccio scoppiare e scappare, se non è già accaduto  … Tutto questo per dirvi quali e quanti personaggi emergenti vissero a San Lio animandone la Contrada.

Accanto ai capitali e all’intraprendenza economica di Nobili e Mercanti stavano gli Artieri-Artigiani con tutti i loro Lavoranti che davano corpo alle aspirazioni commerciali dei ricchi imprenditori protagonisti incontrastati del corpo economico della Serenissima: “In quell’epoca Civico e Religioso si sovrapponevano, per cui la chiesa era il cuore della Contrada, il punto di riferimento di tutti. Il Tempo Religioso quasi scandiva e benediceva il Tempo Pubblico-Civico ed Economico del Lavoro e del Commercio, che trovava nel Divino e nel Devozionale la sua motivazione, l’Autorità e l’ispirazione in un circolo di ritorno che non finiva mai. Arti e Mestieri si consociavano in Schole dove competenza lavorativa e sociale si coagulavano e condensavano aprendosi poi al Caritatevole, al Divino, ai bisogni dello Stato, al Suffragio e alla Beneficenza Previdente per la vecchiaia, le vedove, gli orfani e l’infermità.”

San Lio sorgendo a pochi passi dall’Emporio Realtino, ne era quasi suo naturale prolungamento, per cui nella Contrada di San Lio operava, viveva e s’aggregava un fiume di persone eterogenee e operose. Già nel luglio 1289 di fronte al Prete-Notaio Marinus Vitalis di San Basilio: Bartolomeo Michiel del Confinio di San Liofece quietanza a Nicola figlio del quondam Pietro Viaro del Confinio di San Maurizio per alcuni negozi realizzati oltremare a Capodistriacon Marino Gradenigo per un valore di 22.719 aspri baricati .

Bella cifra ! … e posto distante da Venezia, non certo appena giù del ponte.

Tutto andava e arrivava a Rialto e nelle vicine Contrade: dove nel novembre 1360 Nicolò Tedesco“laborat ad manganum San Leonis”.

Nella tarda estate di tre anni dopo: Maria di Zara schiava e Fantesca di Zanino Bottaio di San Lio rubò da un cofano del suo padrone molti panni tra i quali: “quattro tunicas a pueris cum perulis et capetis argenti” ... Circa dieci anni dopo al tempo del Doge Andrea Contarini e degli imprestiti allo Stato per la Guerra contro i Genovesi che presero Chioggia, la Contrada di San Lio nel suo insieme si distinse per quando seppe offrire a Venezia, cioè 63.000 lire. I maggiori contribuenti della Contrada di San Lio furono 7 NobiHomeni e 18 contribuenti abbienti: Alberto Becher diede lire 1.000; Alvise Casellèr offrì lire 300; il Banco di Cambio della Contrada mise a disposizione lire 1.000; Fior Murèr de Sunesese diede lire 1.500; Federigo Samiter lire 300; Marco e Stefano dal Beretin Capelleri lire 500; Roco Bon dalla Risuola lire 1.000; Zuane Cafa Botèr lire 1.000; e Zuà Gabriel Gastaldo lire 500.”

Tre secoli dopo: nel maggio 1606: il Senato della Serenissima tra le altre spese autorizzò quella per il nuovo Bucintorodando mandato di pagamento di ducati 66 e grossi 7 a Mastro Alessandro Stramasser “All’Insegna del Sant’Antonio in Calle della Bissa per lana f.66 e per stramazzetti”. Autorizzò anche il pagamento di ducati 238 e grossi 5 e piccoli 1 a “Mastro Bernardo dalla Franze a San Lio per franze grande e picole de seda et oro e fiocchi et cordoni per le cortine, batti coppa e felze”, e il pagamento di ducati 92 e grossi 22 a “Mastro Zaccaria Sartor a San Lio per la fattura della coperta granda, felse, batti coppa, coltrine et altre spese. In tutto si spesero ducati 3.086  grossi 10 e piccoli 27.”

Sessant’anni dopo, in Contrada di San Lio abitava “il Sig. Zuane de Pietro Veler Fiamengo in uno stabile del NobiHomo Pietro Mocenigo in Calle delle Vele”, quando Marco Contarini era proprietario d'una casa “in Contrà de San Lio, in Calle dove si vende il giazzo”, e  Zamaria Rota Tornidor aveva un piccolo magazzino in Salizzada de San Lionon lontano da una bottega da Cassellèr“All'Insegna della Nave”in Calle della Nave ... La famiglia Nave non abitava là, ma nelle vicinanze della chiesa della Fava, che era parte della stessa Contrada.

All’inizio del seguente secolo, quello “dei lumi”, la Quarantia Criminal bandì Lorenzo Bazzato per aver ucciso una sera alle due di notte un diciannovenne milanese Giacomo Pezziaspettandolo in Calle di Sant’Antonio a San Lio vicino al Pistor. Con inaudita violenza lo colpì più volte al ventre con un coltello, poi sparì nel nulla, e non venne mai più trovato.

In contrada all’epoca c’erano 74 botteghe con un Inviamento da Forno con casa e bottega, e la vecchia Spezieria da Medicine o Farmacia “Al Pellegrin” condotta da Pietro Venanzio Consigliere(diverrà in seguito Farmacia Monico, poi Guerra) ... Sempre e ancora in Contrada di San Lio, Bernardino Savoldello quondam Antonio faceva il Pistor a San Lio al Ponte del Pistór dove fin da ben prima del 1670 si consumavano annualmente 6.788 stara di farina. Il Savoldello fece fortuna con la Pistoria, in quanto andò a investire 6.000 ducati nell’Arte dei Pistori di cui era iscritto. L'Arte dei Pistori possedeva “Inviamenti” ovunque in Città, ma gestiva soprattutto le due grandi Panaterie per la vendita del pane che stavano a San Marco presso il Campanile con 19 botteghe, e a Rialto di fianco alle Beccarie con 25 botteghe.

A metà secolo, quando morì in Contrada Pietro Guarnieri“valoroso artefice di liuti, violini ed altri strumenti d’arte, figlio di genitore di stessa professione”, secondo i“Notatori” di Pierazzo Gradenigo:“Antonio Dini da Roma che introdusse in questa Dominante l’ammaestramento di giovini nella rara Manifattura di Arazzi e Tappeti, attualmente lavora nella Contrada di San Lio un stupendo Pannello con la Vergine Madre ed il Bambino mediante fini lane colorite, intrecciate con fili d’oro e questo deve servire onde in avvenire precedere nelle più solenni Processioni la Veneranda Congregazione de Preti sotto il titolo di Santa Maria Materdomini. Il Dini gode uno stipendio mensuale et un privilegio concessole da la munificenza del Senato il 2 maggio passato ... Tempo fa costruì sino il vero ritratto di Ser  quondam Antonio che gli donò 30 zecchini.” … “A fonditori di piombo in Salizada a San Giovanni Crisostomo, in Contrada di San Lio et appresso la chiesa di Sant’Agostino fu concesso permesso di fondere piombi nelle situazioni nelli quali s’attrovano, dalla mezza notte però sino al levar del sole nell’inverno, dalle 5 sino alle 9 d’estate, sempre però in fornelli possibilmente appartati con la canna alata e situata in modo da non inferire incomodo e pregiudizio…”

Nella Contrada di San Lio lavoravano e si consociavano gli uomini della Schola di San Giacomo Maggiore o Apostolo dell’Arte dei Cappelleri di Lana e Pelliccia o Feltreri.Sul primo altare entrando in San Lioa sinistra c’era l’Altare della Schola dei Capeleri de Feltroadornato con una tela di Tiziano Vecellio, il famoso: “San Giacomo Apostolo di San Lio”. Il dipinto venne commissionato nel 1558 daVenturino di Varisco Mercante Bergamasco per essere collocato davanti alla sua sepoltura di famiglia, ma nel 1566 non era ancora pronto né l’altare né tantomeno il dipinto.

I Capelèri erano un’Arte Veneziana Antica il cui Capitolarerisaliva al febbraio-marzo 1280, e i cui prodotti finiti venivano bollati e foderati distinguendoli fra “Cappelli di castor, di mezzo Castor, d'Agnino di Spagna, di Gambello, d'Agnino di Padova, di lana pregiata o ordinaria”. I Soprastanti dell'Arte stabilivano le misure e le forme dei cappelli, esaminavano i lavori trovandone i difetti e valutandone la buona confezione, visitavano 3 volte al mese la trentina di laboratori dell’Arte, e controllavano che venissero rispettate le norme dell’Arte: “Non si dovrà lavorare di notte dall’inizio di febbraio a San Michele … Ogni Mastro non potrà stipendiare se non un solo altro Mastro, due Lavoranti e un Garzone ... La vedova di un Capelèr potrà continuare l'attività del marito Morto, ma solo per un anno.”

I Cappelleri Veneziani avevano in San Lio accanto all’altare anche la loro Arca di Sepoltura. Si congregavano là organizzando un tradizionale “Pasto comune di carità” ogni prima domenica di febbraio … Nel 1680 vennero rimproverati i circa 150 Cappelleri attivi a Venezia, perché da tempo trascuravano l'Altare, e disertavano la Festa del Patrono “con scandalo dei fedeli di San Lio”… I Cappelleri allora si giustificarono dicendo che nella stagione estiva quando cadeva la Festa del Patronomolti Cappelleri si trovavano fuori dalla Laguna impegnati nella Fiera di Senigallia. Si spostò allora la data della Festa.

Ancora il 05 ottobre 1785 il suddito Nicolò Parochi ottenne il privilegio per 15 anni di produrre a Venezia cappelli di truciolo candidi e colorati, di varia foggia e ornamentazione, simili a quelli prodotti anche a Mantova, Modena e in Toscana, e di gran moda in tutta Europa in controtendenza con la moda dei cappelli all’inglese, Francese, Tedesca e di Terraferma. Tre anni dopo, l’industria-fabbrica privilegiata del Parochi aveva una giacenza di 3.346 cappelli di pregio, inviava via mare 4 colli con 1.729 Cappelli alle Fiere di Sinigaglia tramite il socio Bortolo Celiniritornandone a Venezia 150 d’invenduti, e impiegava 170 persone quasi tutte donne che lavorano a domicilio in diverse Contrade Veneziane, soprattutto in quelle di Sant’Antonin e Sant’Aponal, o erano “figlie dell’Ospedale degli Incurabili”, o Buranelle o Converse e Monache del Monastero di San Vio di Burano… Per il Parochi lavoravano anche altri 15 civili, fra cui una donna, che non volevano essere nominati.


Oltre ai Cappelleri, a San Lio c’era anche l’anticaSchola dei Santi Quirico, Giuditta e Lucia dei Tiraoro e Battilorodel 1309 ospitata inizialmente nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo. Fu dopo una lite (1709) fra il Gastaldo Pizin Bossi e il Capitolo di San Lio, che i TiraBattilorosi spostarono accanto alla chiesa di San Stae affacciata sul prestigioso Canal Grande (1711)costruendovi la loro nuova sede. La loro decina di preziose botteghe rimase comunque a San Lio accanto agli Oresi, Zogelieri, Indoradori e Cuoridoro loro acquirenti concentrati a Rialto. I Tira-Batioro a foja(foglia) o a tassètto”(detti così per il loro piccolo incudine) erano un mestiere artigianale esclusivo, praticato da poco più di una dozzina di artieri ultra specializzati che riducevano l’oro in filo intrecciandolo poi con fili di seta che venivano applicati su stoffe ricamate e preziose; oppure riducevano l’oro in sottilissime lamine usate per confezionate "libretti e Breviari di pregio” ...  Quando nel 1595 i TiraBattiloro attivi a Venezia erano 41 in tutto, di cui 12 ormai vecchi e inabili al lavoro, in parallelo il Consiglio dei Dieci approvò gli Statuti, e autorizzò la Schola d’Arte-Mestiere della Nazione Tedescadei Batioro Alemanni, che associando una cinquantina di iscritti, fabbricava e vendeva “stagnole da colori” sotto la protezione di Santa Barbara. Non fraintendete: non era cosa da poco. Fabbricavano lamine d’oro inserendole dentro a doppie guaine di pelle o tra copertine lignee, e con queste decoravano mobili, cornici, suppellettili distinguendosi ma integrandosi con i Battiloro Venezianiper qualità e tipologia della lavorazione.  Poco prima della Grande Peste del 1620, i Battioro Allemanni intendevano ritornare in patria a causa della grave congiuntura economica del mercato veneziano. La Serenissima allora andò loro incontro riservando l’esclusiva di quei lavori solo a moglie e figli degli Artieri Tedeschi. Superato il periodo di crisi, l’Arte Tedesca-Venezianacontinuò la sua opera in Laguna fino al 1804.

Nel 1750: i Mercanti si lamentavano che i Filatori d’oro e d’argento avevano accresciuto di un terzo le loro pretese, nonostante da un carato d’oro traessero solo 12-13 braccia di filo contro le 15-16 che sapevano trarre un tempo. Dicevano inoltre che i loro figli avevano riempito l’Arte di gente inesperta e incapace. Risolsero ogni questione i Francesi giunti a Venezia all’inizio del1800: soppressero l’Arte trasformandone la sede in deposito di carbone, poi, vista che era scomoda, la lasciarono andare in rovina del tutto. Come ultimo atto frutto di connaturale alta e raffinata sensibilità: “vendettero le banche, gli inginocchiatoi, il vecchio altare, i seggi e gli schienali intagliati in legno dipinto della Schola dei Battiloro provenienti dal vecchio coro della chiesa di San Stae: come legna da ardere.”

Ho finito …Qualche mese fa ormai, giusto sul Ponte di Sant’Antonio a due passi da Campo San Lio, una vetusta Veneziana si lamentava incazzosa a gran voce: “E’ una vergogna ! … Diversi euro par una bossètta de disinfettante ? … e do euri obbligatori par la mascaretta par podèr entràr in Farmacia ? … Ma còssa xèla ? Un’oreficeria ?”

La Contrada di San Lio sta respirando e bisbigliando ancora ... sottovoce.



Le Muneghètte de Castèo

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#unacuriositàvenezianapervolta 281

Le Muneghètte de Castèo

Perché m’incuriosisce il piccolo complesso delle Muneghètte di Castello in Calle del Bastion al numero  2548 ?

Perché è uno di quei posti di Venezia che è come un “luogo non luogo”, un sito che sembra quasi non esistere perché semisconosciuto, e quasi “chiuso da notte”. Invece: c’è ed esiste a soli due passi dall’antico Arsenale, ed è come al solito un luogo ricco di Storia e vissuto.

Venezia non si smentisce mai.

“E Muneghètte de Castèo ? … E xè un buso, ‘na vècia colombèra par come che e xè fatte.”

“Ma ghe abitava i Colombini in antico ?”

“Ma no ! … La dèntro ghe gèra dee Colombine … Quee vècce Venessiàne zitelle e mèze matte che ghe gèra ‘na volta.”

“E gèra: Mùneghe allora ? … Suore.”

Mi piace un sacco rimanere a volte ad ascoltar parlare i pochi Veneziani di ieri rimasti.

Le Muneghettedi Castello, da non confondere con le Muneghette di San Simeòn a Santa Croxe, era uno dei tanti Ospizi che un tempo punteggiavano le Contrade Veneziane. Si trattava di realtà minori di un’edilizia sanitaria e assistenziale di una certa efficienza, che oggi non esistono né potrebbero mai più esserci.

Le Muneghette erano e sono un piccolo complesso talmente nascosto e incorporato dentro all’amalgama delle case e della Contrada di San Martin, che quasi non si vede, e pare non esserci. E’ l’ennesima conferma che Venezia è sempre curiosa e interessante, e quasi ogni pietra ha qualcosa da raccontarci e svelarci.

Il piccolo complesso sorge nell’omonima calle nella labirintica quanto stupenda Contrada, proprio a due passi da Campo Do Pozzi, e a pochi metri dalla Fondamenta e Rio delle Gorne in cui s’aggettano le mura della grande e laboriosastorica “Casa dei Venesiani”: l’Arsenale.

Il nome completo e corretto delle Muneghettesarebbe: “Conservatorio delle Pizzoccherete o delle Muneghette o Venerabili Madri Terziarie Domenicane di Santa Maria del Rosario”.

Già … Il nome così lungo e pomposo dice quasi tutto da se, cioè che anche in quell’angolo remoto di Venezia: “c’era ed è successo qualcosa”.

Scriveva Don Sante della Valentina, Cappellano di San Rocco nel 1852, che Santa Maria del Rosario col Convento de le Muneghette de Castèo erano sulla lista delle chiese, Badie e Monasteri secolarizzati e demoliti. Aveva ragione, in quanto l’edificio era stato convertito dalla Regia Marina Austriaca nella: Prisòn de Muneghette.

Secondo l’“Annuario Amministrativo e Commerciale d’Italia” del 1889, le Muneghette appartenevano in antico “alle pertinenze e Benefici delPrimicerio di San Marco”: che in pratica era il Vescovo Privato scelto e investito dal Doge di Venezia. Venezia aveva già il suo Vescovo Capo della Cristianità dipendente dal Papa di Roma: era il Vescovo di San Pietro di Castello o Olivolo, che gestiva la Città-CapitaleSerenissimarimanendosene “in periferia”, in fondo al Sestiere: a Quintavalle.

Per secoli Doge e Venezianihanno voluto far intendere al Papadi Roma che sapevano essere indipendenti anche da punto di vista Religioso. Non tanto circa la Dottrina e Verità della Fede … anche su quello qualche volta: pensate all’episodio di Paolo Sarpi e all’Interdetto … ma in riferimento al controllo e alla giurisdizione sul Clero, sulla gestione dei soldi e sulla conduzione dei Fedeli. Insomma: non se ne parlava che Doge, Nobili e Venezianifossero soggetti al Vescovo di Castello o al Patriarca di Grado riassunti poi nel Patriarca di Venezia. Venezia voleva e doveva rimanere libera: una specie di Chiesa nella Chiesa ... Non in maniera scismatica s’intende, ma ciascuno con i propri Diritti e il proprio spazio al sole, le proprie Liturgie, e le proprie convinzioni e tradizioni.

In conclusione: Venezia si eleggeva il suo Vescovo Privato Ducale, che era come una filiazione spirituale del Doge e dello Stato Marciano, che poteva pacificamente convivere col Patriarca eletto dal Papa. Il Papa da parte sua: mai e poi mai riconobbe alcuna autorità al Primicerio di San Marco.

Consideratela forse una cosa complicata, ma i Veneziani erano abituati a dire in faccia al Papa: “Se San Pietro è stato il numero uno della Chiesa, San Marco è stato di sicuro il numero due … San Marco è stato a diretto contatto col Cristo scrivendo le sue parole nell’Evangelo, cosa che non ha fatto Pietro: pescatore analfabeta ... Venezia Serenissima quindi, non potrà mai essere considerata da meno del Papa.”

Erano così i Veneziani di un tempo: tosti … E non solo in quell’occasione.

Nella concretezza dei fatti, il Doge si considerava indipendente dal Foro Ecclesiastico nel giudicare il suo Clero Dogale; aveva il suo Seminario “sfornaPreti”indipendente da quello del Vescovo di Castello a San Nicolò di Castello in Riva degli Schiavoni(abbattuto e cancellato dal napoleonino) a cui era annesso il vecchio Ospizio-Hospedal de i Marineri; e aveva un suo proprio Rito Liturgico antico col quale si celebrava a San Marco: il Patriarchino.

La giurisdizione del Primicerio di San Marco e dell’Ecclesia Ducale si estendeva a Venezia su ben 12 realtà Ecclesiastiche diverse: la Basilica di San Marcoin primis, che era la “chiesetta privata” del Doge … Poi controllava San Giovanni Elemosinario di Rialto e San Giacomettocon le relative Collegiate dei Preti, San Basso, San Geminiano, San Zulian e la Pietà, cioè Santa Maria della Consolazione con l’annesso Ospizio degli Esposti… Aveva controllo ancora sull’Hospedale dei Feriti dei Santi Pietro e Paolo di Castello di fronte al riottoso Monastero di Sant’Anna, “sull’Isola di San Servolo dei pazerelli e degli invalidi” in mezzo alla Laguna; su San Filippo e Giacomo: enclave dove risiedevano i Canonici e Preti legati al Primicerio; sulla Rettoria dell’Ascensionecioè su Santa Maria in Broglioo in Brolo in “bocca di Piàssa”, antico retaggio dei Cavalieri Templari finito nelle facoltà del Doge; sull’antico Priorato di San Gallo Abatecon l’annesso Ospizio delle Vecchie; su Santa Maria dell’Anconetta a Cannaregio; sulla chiesa di Santa Maria dell’Arsenale giusto sulla Porta della Caxa dei Veneziani … E perché no … anche sulla Vergine del Rosario annessa alla Casa delle Terziarie Domenicane delle Muneghette di San Martinodi Castello supportate dai Frati Domenicani di Venezia.

Le Muneghètte erano quindi di Juspatronato Dogale, cioè sotto la diretta tutela del Doge.

L’Ospizietto venne eretto nel 1318 in Corte Peschiera verso Campo Do Pozzi accanto a un perduto Oratorio di San Giovanni Battista di San Martin per via di una disposizione testamentaria di Giovanni Pollini. Il generoso donatore lasciò il necessario per realizzare un “ricovero per almeno sei poveri Marinai, ciascuno dei quali dovrà percepire 24 ducati annui in mia memoria.”

Vennero nominati allora degli Esecutori Testamentari: il Priore della Schola Granda de la Misericordia di Cannaregio e il Priore della Schola de Sant’Orsola di San Zanipolo(Santi Giovanni e Paolo), e partì il progetto che venne realizzato diventando operativo in soli quattro anni. Come da testamento, l’Ospizio venne affidato all’amministrazione della Schola di San Cristoforo dei Mercanti della Madonna dell’Orto, e alla stessa Schola di Sant’Orsola.

Contrariamente però a quanto disposto dal Pollini testamentario, invece di accogliere sei poveri, l'Ospizio venne ridimensionato fin dall'inizio accogliendo al massimo tre Marinai.

La differenza in denaro ?

Semplice … Le risorse vennero destinate alla costruzione di un piccolo Oratorio titolato a San Zuane Battista giustapposto all’Ospizio, che venne abbellito con due pitture commissionate a Palma il Giovane: “San Giovanni che battezza il Redentore” e “la Vergine col Bambino”… mentre venticinque ducati annui presero la strada delle tasche del Priore dell’Ospizio, e altri venti vennero assegnati annualmente alle spese di gestione dello stesso Oratorio ... ossia: ancora nella disponibilità dello stesso Priore.

L’Oratorio in seguito scomparve, e rimasero i tre Poveri Marineri ospitati gratuitamente, e il Beneficio Economico intascato dal Priore dell’Ospizio di turno ... Tradizione popolare vuole che alle Muneghette sia deceduto Andrea Chiribiri: ultimo Pedoto (pilota)Admiraglio del Bucintoro Dogale

La Chiesa-Conventino delle Muneghette sorse in Contrada di San Martin de Gemino, dove già risiedevano fino dal 1427 alcune Terziarie di San Domenicodette appunto Muneghette, anche se Monache non lo erano affatto.  Erano delle Pizzocchere Veneziane, cioè delle minuscole comunità di sole Pie Donne ultraquarantenni, spesso nubili o vedove, dedite soprattutto ad esercitare Opere di Misericordia, assistenza ai malati, devozioni, e insegnamento alle fanciulle della Dottrina Cristiana e delle Buone Maniere, però senza Voti e Obblighi Monastici temporanei o perpetui, e ispirandosi alla Regola Francescana, Domenicana o Carmelitana.

L’inziale Pizzoccheraio delle Muneghette era del tutto chiuso verso l’esterno in ogni senso, stretto attorno al chiostro-cortile centrale a portico con logge sovrapposte unite da una scala ovale “a lumaca”. Sembra che scale e Cappella siano state disegnate da Baldassarre Longhena, o perlomeno dal suo entourage.

Sopra l'ingresso principale di Calle de le Muneghete, venne posto nel 1500 un altorilievo con la Madonna del Rosario fra San Rocco e San Cristoforo, e si pose anche una Croxèta(crocetta) con incise alcune iscrizioni e le iniziali del motto dell'Ordine Domenicano a cui s’ispiravano le donne: S.N.D.B.” cioè: Sit Nomen Domini Benedictum (Sia lodato il nome del Signore), e: Sia Laudato il Sa[n]tis[s]imo Sacrame[n]to e O Maria Ora Pro Me”.

Trascorse il Tempo … cioè i secoli.

Per via del compito meritevole delle Pie Donne Pizzocchere, nel 1401 il Vescovo di Castelloapplicando alcuni privilegi concessi dal Papa Bonifacio IX, concesse loro di potersi confessare e ricevere i Sacramenti dai Padri Predicatori, esclusa Pasqua, dentro al loro Claustro.

Nel 1433 Allegranza Biancomorendo lasciò per testamento casa ed orto alle Muneghette, che incrementarono così le loro risorse e la loro indipendenza economica … Solo un paio di secolo dopo però, nel 1616, alcune Venerabili Monache Domenicaneprovenienti dalla Contrada dei Santi Apostoli di Cannaregio si associarono alle Muneghette di Castello. Nel 1641 ottennero il permesso d’erigere una chiesuola-Oratorio dedicata alla Madonna del Rosario, riproponendosi di mettere in piedi nel 1649 una vera e propria Comunità di stampo monastico con Clausura e Offiziatura del Coro, e soprattutto col diretto supporto e tutoraggio economico e politico del Dogein persona col suo Primicerio Marciano.

1649 agosto 21 consenziente il Capitolo dei Preti di San Martin, il Patriarca Gianfranco Morosininon entusiasta della concessione, concesse a sua volta alle Monache la facoltà di poter celebrare una Messa al giorno nel loro Monastero … ma solo una e non di più.

Nel 1665, quando le Pizzocchere di San Martin diventate Monache possedevano ormai una rendita annuale di 154 ducati da immobili siti in Venezia, il Capitolo dei Preti di San Martin si rifiutò di andare a celebrare Messe da loro in quanto: “…ardiscono nell’esporre casselle pubbliche, nel tener aperto l’Oratorio tutto il giorno, farvi dir Messa da Sacerdoti fuori del Capitolo con amministrazione dei Sacramenti, Benedizione delle ceneri, esporre il Cristo per l’adorazione il Venerdì Santo ed altre Fontioni, che s’aspettano solo a noi Parrochi…”

Poco male … Le Monache si rivolsero altrove per trovare Preti disponibili, e nell’estate di tre anni dopo ottennero anche dalla Congregazione sopra i Vescovi e Regolari di poter accogliere nella comunità non solo donne mature ma anche giovani di 18 anni compiuti … Le Muneghette ebbero quindi anche un Noviziato-Educandatoa disposizione dei Nobili Veneziani della zona ... Il futuro era garantito.

Non si sa molto altro sulle vicende che hanno caratterizzato la microstoria delle Muneghette di Castello... Si sa, ad esempio, che qualche anno dopo, nel 1670, una delle Muneghette: Suor Maria Giacinta Basso partì da Venezia e si recò a Coneglianoper suggerire la Regola del Terzordine Domenicano alle Monache del Corpus Domini del posto … Sempre lei più tardi, si recò a fondare altri tre nuovi Conventi “dependance e figliazione delle Muneghette di Venezia”a Macerata, Monte Oro e Montefiore.

Sulla scia di tale successo, nel 1682 si pensò di costruire un nuovo Oratorio più grande alle Muneghettedi Castello, con porta aperta sulla pubblica via … e con immediata vertenza intentata dal Capitolo dei Preti di San Martin contro le Monache, che però vinsero la causa ottenendo di poter conservare il Santissimo nel loro Oratori, di poter “tener sepoltura”, e di poter far celebrare nel loro Oratorio da chi volevano loro (in particolar modo dai Padri Domenicani) senza dover rendere conto al Capitolo di San Martin.

Successo delle Muneghette… e batosta per i Preti di San Martin a cui bruciava non poco la perdita considerevole delle Elemosine calamitate dalle Monache che vivevano a soli due passi da loro.

Perché non ci fossero ancora dubbi al riguardo, ancora nel marzo 1750 il Senato della Repubblica decretò che: “Il Collegio delle Terziarie delle Muneghette del Rosario, beni e rendite tutte… rimangano sotto la protezione Pubblica, annesse ed aggregate alla chiesa Ducale di San Marco” … I Preti del Capitolo di San Martin erano avvertiti: se toccavano le Muneghette avrebbero dovuto vedersela direttamente col Doge.

Poi come si sa, a Venezia cadde tutto e andò in rovina con l’arrivo dei Francesi. Con la soppressione realizzata dal Decreto 28 novembre 1806, gli ambienti delle Muneghettevennero consegnati alla Marina, che fin da subito vide il luogo adatto per essere trasformato in Carcere Militare. Nella stessa estate le 7 Religiose Domenicane rimaste alle Muneghette di Castello: “antico Pizzoccheraio”, vennero prima concentrate nel Monastero del Corpus Domini di Cannaregio (attuale Stazione Ferroviaria), e poi costrette a dismettere l’abito da Monache e mandate a casa loro. Le Muneghette col fortunato Oratorio vennero chiusi, e gli ambienti occupati dai militari “che ne fecero manbassa”.

Ancora: durante la Dominazione Austrica di Venezia(1798-1866), le Muneghette venivano considerate uno dei più accoglienti e meno aspri Carceri Austriaci. Dai prigionieri era quasi desiderato andare là per la sua minore austerità.

Fra 1798 e1805 avvenne la repressione Austrica dei filofrancesi Veneziani che finirono dentro alle Muneghette, poi nel 1814-1848 la repressione di Patrioti e Carbonari, che vennero raccolti ancora là.

Nel 1821 si tenne nell’Isola di San Michele e nei Piombi il famoso Processo Politico contro Pietro Maroncelli, Silvio Pellico e compagni che terrorizzò i Veneziani portandoli a 13 condanne a morte da eseguire “in Piazzetta fra le due colonne”. Vennero poi tramutate “per grazia” in anni di carcere duro a Lubiana e nel terribile Spielberg dall’Imperatore Ferdinando.

Fu pesante la presenza Austrica a Venezia: repressione dura e stato di Polizia con mille divieti, censure, controllo di Teatri e Chiese, legge marziale e proibizioni di ogni sorta, chiusura di tutti i locali pubblici alle 10 di sera, e arresti e impiccagioni al Campo di Marte, cioè qui: a Santa Marta dove abito io adesso sull’attuale Marittima del Porto sul Rio de la Scomenzèra: il parcheggio che vedo fuori dalla mia finestra.

Maddalena Montalban Comello venne arrestata nel 1863 “per alto tradimento” e incarcerata di continuo, mentre Teresa Danielato Labia organizzò una protesta silenziosa contro il Regime Austriaco: “Fasèndo listòn in Piazza San Marco co coccarde, nastri e abbigliamento tricolore.”… Comparve in Piazza l’Arciduca Massimiliano con al braccio l’Arciduchessa Carlotta del Belgio, e tutti fuggirono per evitare il peggio che s’era fatto imminente.

Venezia ex Capitale era punteggiata da 15 Caserme Austriache: Santa Marta, Tolentini, Santa Maria Maggiore, Incurabili, Gesuiti a Cannaregio, San Salvador, San Francesco della Vigna, il Sepolcro in Riva degli Schiavoni: Caserma dei Carabinieri tuttora, Santa Maria Celeste, cioè la Celestia di Castello, San Francesco di Paolatrasformata poi in scuola, San Daniele, San Pietro e Quintavalleex Sede Patriarcale, e San Cosmo e le Convertitealla Giudecca… e sette erano le Prigioni Austriache in Città: San Severoe il Carcere Militare della Muneghette a San Martin, lo Stockhaus delle Beccarie a Rialto: “il luogo delle rimanenze e degli scarti umani”, le Prigioni al Ponte della Paglia, quelle dell’ex Convento di San Michele in Isola destinato poi a Pubblico Cimitero, la Casa di Correzione alla Santa Croxe della Giudecca istituita dai francesi nel 1801, e le Vergini di Castello demolite nel 1869 per ampliare i bacini dell’Arsenale.

I Veneziani disertavano le manifestazioni austriache in Piazza San Marco compresi i concerti della banda musicale andando a passeggiare sulle Zattere. Rifiutavano anche le nomine, e rimanevano assenti alle convocazioni delle Congregazioni Provinciali e Centrali per le quali venivano obbligati regolarmente a partecipare come membri ... volenti o nolenti.

Abbandonato e chiuso poi per “alquanti anni”, le Muneghètte disastrato venne comprato nel 1884 dalla Congregazione di Carità Cittadina per concentrarvi e alloggiarvi “alla buona”ospiti e donne anziane povere dei diversi Ospizi Cittadini rovinosi in “condizioni igieniche fin troppo basse”. Si chiusero così diversi antichi e storici Ospizi Cittadini inviandone gli ospiti alle Muneghette: l'Antichèr detto Ospissio del Moriòn (fondato nel 1312) in Contrada di Santa Ternita; l’Ospizio-Hospedaletto Della Frescada (1320) in Contrada di San Vio e Modesto nel Sestier de Dorsoduro; l’Ospizio di Corte dei Pignoli in Frezzeria: l’Ospizio Querini (1290) in Contrada di San Pietro di Castello; e l’Ospizio da Pesaro detto anche Hospeàl de Sant’Anzolo (1309)in Contrada di San Giacomo dell'Orionel Sestier di Santa Cròse.

Già dal 1807 con i francesi ogni forma di assistenza e ricovero venne riunita sotto il titolo della Congregazione di Carità, titolo mantenuto dagli Austriaci, che lo distinsero dall’ Elemosiniere, cioè la Commissione di Pubblica Beneficenza.

Con la Legge Fascista del 1937 la Congregazioni di Carità divenne Ente Comunale di Assistenza(E.C.A.)con la possibilità di decentrare gli Istituti di ricovero. Due anni dopo nacque l'I.R.E.(Istituzioni di Ricovero e di Educazione), con lo scopo di amministrarli, ed E.C.A. e I.R.E. furono federate insieme fino al 1975, quando gli E.C.A. vennero soppressi.

A quel periodo risale l'ultimo restauro delle Muneghette nel 1973, che divenne: “Moderno Pensionato per accogliere almeno quaranta ospiti, perlopiù: donne anziane o sole.”

Passo successivo fu la cessione da parte dell’I.R.E. (diventerà I.P.A.V. nel 2020) del fatiscente ex Istituto delle Muneghette in comodato gratuito per trent’anni alla Caritas Veneziana. L’operazione diede inizio a una pluridecennale stagione travagliata di stallo e inutilizzo dell’ex Ospizio.

Fin dal 2007 e a più riprese almeno fino al 2012, si presentò alla Regione Veneto un complicato “Progetto di adeguamento alle norme di prevenzione incendi da sottoporre all’approvazione del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco ...Lavori di ordinaria manutenzione per la messa in sicurezza e valutazione del rischio, esecuzione di campionamenti dei materiali contenenti amianto presenti nei locali sottotetto dell’ex convento Muneghette sito a Castello 2616.”

Nel frattempo, Charitas e Istituzioni Sociali hanno cercato in più occasioni di usare il complesso delle Muneghette come “hub e luogo assistitoper varie situazioni d’emergenza, come, ad esempio: gli sbarchi dei Profughi del Nordafrica, o per supplire e risolvere provvisoriamente disagi di singole persone e famiglie Veneziane e non ...Ancora nel  2011-2012 sopravviveva l’idea di sistemare Famiglie alle Muneghette appena l’ex ospizio fosse stato liberato e messo a norma.

Il complesso sempre più fatiscente, intanto, ha vissuto momenti di difficoltà gestionale al pari di altri Enti simili dell’I.R.E., come la “Ca’ di Dio”, ad esempio, (casa d’assistenza pubblica fin dal 1272), per la quale si sono cercate locazioni alternative (2016-2017)prima di giungere alla sua chiusura definitiva con la vendita e la destinazione ad uso Alberghiero

Era  del 2015 un Avviso Pubblico” tampone per:“Lavori di sostituzione caldaie e ripristino c.t. C/o ex convento Pensionato Muneghette”.

Poi la penultima pagina della storia delle Muneghette, che l’ha vista diventare ennesimo regno dei poveri” coinvolto inuna lunga serie di contradditorie vicende di degrado assoluto. A più riprese e a diverso titolo le Istituzioni Religiose e Sociali hanno sostenuto “una selvaggia gestione caoticadelle ex Muneghette” ospitando o lasciando insediarsi liberamente situazioni di difficoltà avviando un’emergenza abitativa durata diversi anni conuna ventina di residenti problematici: famiglie in crisi economica e senza casa, coppie in difficoltà, pensionati a volte invalidi o malati e realtà simili. Emblematica di quell’epoca era la porta dell’immobile sfondata, aperta ad accogliere situazioni anonime di ogni tipo nel degrado più totale: appartamenti sbarrati, chiavi scomparse, ospiti misteriosi che entravano dalle finestre ... paura per chi in qualche modo soggiornava nelle Muneghette.

Squallide le ultime descrizioni delle Muneghette: mancanza di utenze domestiche, riscaldamento, acqua calda, luce e gas, infiltrazioni e muffe, calcinacci, rifiuti e fatiscenza negli stanzoni e nei corridoi, condizioni di vivibilità drammatiche aggravate dall’acqua alta eccezionale e dalla mancanza di riparazioni.

Arrivò allora il tempo del “dictat sanatorio” e quasi liberatorio imposto dalla Charitas: “Il Pensionato  deve essere liberato perché non a norma e per urgenti lavori di straordinaria manutenzione e messa in sicurezza, in modo da non mettere in pericolo la vita delle persone che sino ad oggi lo abitano”.

Lo sgombero delle “Nuove Povertà” non è stato affatto indolore creando situazioni limite e contestazioni patrocinate dal Gruppo 25 Aprile, che sonogiunte fino all’orecchio capiente di Papa Francesco. Si è giunti allora a sistemazioni transitorie in Albergo in attesa di soluzioni e bandi comunali per nuove assegnazioni residenziali.

Nel recente giugno 2021 infine: una specie di speranzoso lieto fine.

Le Muneghette di Castellosono state coinvolte in un progetto di ambiziosa rinascita, che le ha trasformate finalmente nella neonata sobria ed essenziale Casa San Giuseppeinagurata e benedetta di recente dal Patriarca. Affidata alla custodia della Famiglia Tripodi, l’ex Muneghette è destinato ad essere: “Laboratorio di Carità”, “Luogo duttile per l’accoglienza e l’accompagnamento di persone a disagio”, e Centro Servizi Diocesano-Patriarcale dove unificare tante iniziative sparse sul Territorio Veneziano finite ormai in palese crisi per cause economiche o per carenza di operatori.Nella neonata Casa San Giuseppe si sono conglomerate diverse opzioni pastorali del Centro Storico: gli Uffici della San Vincenzo e della Charitas Diocesana, il Consultorio e Centro d’Ascolto di Santa Maria Materdomini, l’ex Mensa di Betaniadiventata “Casa dell’amicizia” per 40 personeaffidato alle Suore di Maria Bambina storiche e indomite conduttrici della Mensa-Dormitorio della Tana di Castello all'Arsenale(22 posti letto per persone senza fissa dimora).

Con inusuale quanto lodevole trasparenza sull’operazione, il Patriarcatoha comunicato d’aver speso 930.000 euro tratti da Fondi Diocesani, “8 x 1000” e “Carità del Vescovo” per restaurare, mettere in sicurezza e rendere nuovamente disponibili i 2000 mq sparsi su 3 piani dell’ex Ospizio Muneghette.

In una profusione generosa di titoli modello “Evangelico-Terrasanta” si sono creati: la Cappella Redemptoris Custos , leDimore Betlemme, Santa Bakhita e San Giovanni Paolo II. Il tutto per ospitare persone affette da vario genere in difficoltà:separati, nuclei famigliari finiti per strada, profughi del Mare o della Guerra, donne o minori in difficoltà, anziani abbandonati e ragazze madri, ma anche stanze di studio per ospitare iniziative formative di volontari e operatori, gruppi e associazionismo di varia natura come Scout o Ritiri Spirituali.

Il Covid e le necessità dei tempi, ma non solo quelle, hanno di sicuro cambiato la mappa della povertà sociale, ma anche l’organizzazione della Carità dei Preti e della Chiesa divenute forse obsolete, dispendiose e inadatte nei tempi e modi: forse anche “complicate e poco chiare nella gestione”a volte.

Encomiabile comunque l’idea di far rinascere leMuneghette … Magari altre organizzazioni, attività e Movimenti Cristiani presenti sul nostro Territorio fossero altrettanto limpide, generose e trasparenti nel condividere quanto fanno e quanto passa nelle loro capienti e nascoste tasche “in nome di Dio”.

Verissimo che: “Nella Carità la mano destra non deve sapere quanto fa la sinistra”… Altrettanto vero che tante Verità “andrebbero gridate e mostrate senza tanti timori e veti sui tetti”… se sono per davvero“Buone e Limpide Verità”.


In ogni caso le Muneghettedi Castello sono state e sono un altro angolo di Venezia che insegna e svela tante cose curiose inducendo a pensare.

 

 

Fra Campanere e Periclitanti

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#unacuriositàvenezianapervolta 282

                                     Fra Campanere e Periclitanti

Venezia è sempre stata tutto e il contrario di tutto: Devozione sfegatata, Mito, Leggenda. La Cittò è sempre stata impegnata a dare il meglio di se per essere il top di topo: “l’eccellenza e la qualità” nel Diritto, nella Politica, sul Mercato, ma anche nel peggio: nella fame, e nel darsi botte da orbi, nel raggirare o condannare squartando a destra o sinistra, o abusando in ogni modo. Venezia sempre piena di chiese, Sante Reliquie, Schole, Monasteri e splendidi palazzi, ma anche di bèttole e luride Prigioni, Casini di bari e lusso, Carampane, Castelletti e bordelli vari, nonchè d’infinite caxette infime dove la miseria e l’ignoranza erano stabilmente di casa a volte guastando anche le regole basilari della convivenza naturale fra Padri e figli e parenti tutti.

Fra l’esuberanza sguaiata di un Carnevalee l’austerity mesta e penitente di una Quaresima, qualsiasi soppruso era non dico ammesso, ma perlomeno taciuto e coperto se si trattava soprattuto di Nobiltà o Ecclesiastici … Non  a caso la Serenissima si è dotata per secoli di un’infinità di soluzioni (come tante altre città) atte ad ospitare I frutti dell’illecito, e per leccarsi le ferite di tanti disagi e magagne dall’effetto cronico o insanabile.

La lista dei “Luoghi del Soccorso” della Serenissima Repubblica la conoscete: “Pietà, Santa Maria del Soccorso, Zitelle, Convertite, Penitenti, Terese”, senza contare le centinaia di Ospizi e Hospedaletti grandi (Incurabili, Ospedaletto,San Lazzaro dei Mendicanti) e piccolo sparsi per le Contrade Veneziane buone per ogni forma di male e povertà.

Traggo da cronache Veneziane qualsiasi: 1730: “Il NobilHomo Pietro Priuli ed il suo socio Mercante di seta Pietro Signorini decidono che:“..dagli utili che piacerà a dio concedere a soradetta Compagnia, dovranno essere estratti 2% per essere dispensati in Opere Pie come tra essi compagni resterà accordato.”

Sei anni dopo nella nuova contrattualità per iI Lavoro dei Veneziani del settore, i soci Agostino Rubbi e Francesco Occioni s’impegnarono a riservare ogni anno 300 ducati “da destinare a carità ed elemosine”, confermando le volontà e disposizioni già in atto dal 1718 … Don Francesco Milesi ricevette denaro da Giovanni Luigi Occionicon le parole: “Per implorar l’Assistenza Divina … Resta convenuto dalla corrente Compagnia di far celebrare ogni anno Messe 200 a sollievo delle Anime Penanti in Purgatorio, acciò queste porgano preci all’Altissimo che tenghi lontane le disgrazie … e ducati 50 valuta corrente d’essere metà per cadauna delle parti disposti in elemosina a piacimento loro.”

Curiosa iniziativa … Stessa cosa fecero gli eredi: i quattro fratelli Occioni, nel 1804: “curandosi però di ridurre a100 le Messe, e a 30 ducati correnti l’esborso del denaro a favor dei poveri per via dei tempi diventati difficili”

Sulla stessa sintonia, nel  1781, la Società di seta Bianchi-Passalacqua:“Sembrava voler contrarre una specie di mutua obbligazione col Padreterno scrivendo:  “Perchè Iddio Signore benefichi e feliciti la presente Società con abbondanti utili e copiosi vantaggi, si doverà dalla Cassa del Negozio estraere ogni anno la summa di ducati 50 correnti da lire 6,4 da essere distribuiti in elemosine per una metà dal detto Sig.Bianchi Capitalista e per l’altra metà dal detto Sig.Francesco Direttore conforme sarà dalle loro coscienze additato.”

L’anno seguente: il Setificio Zaniboni provide a versare 75 ducati correnti annui previsti: “Due terzi della somma verrà distribuita fra i poveri della Contrada di Santa Croce dov’è ubicata la Tessitura nei pressi del Monastero di Santa Chiara (dove a breve sarebbe sorta la Manifattura Tabacchi). Il rimanente andrà ai poveri della Contrada di San Martino di Treviso dove opera la Tintoria della Società.La suddetta elemosina sarà col mezzo del Direttore Zaniboni pagata in mano de Parroci o delli Presidenti di Fraterna per tal oggetto.”

La Compagnia della Tintoria Zavaletti-Caenazzo stabiliva a sua volta: “Che ogni settimana si faccino celebrare 2 messe della Cassa del Negozio in suffragio delle Anime del Purgatorio acciò intercedano prosperità et aumento al negozio medesimo.”

Sorrido perplesso: quei poveri diseredati diventati “in morte” anche “Anime Purganti e Penanti in Purgatorio”, erano stati qui stessi Padroni-Dirigenti premurosi a produrli e renderli tali sfruttandoli e dando loro stipendi da fame in condizioni lavorative pessime, senza diritti e privati di molto altro ancora soprattutto le donne… La Coscienza imprenditoriale si sentiva comunque a posto, e ambiva che anche da Morti i dipendenti facessero “buon viso a cattiva sorte” a favore dell’Azienda ... Tutto giusto e in regola, come da copione … O forse no ?

I tempi, le persone e le Istituzioni funzionavano così con buona pace di tutti. 1700 e 1800 furono secoli in cui a Venezia se da una parte in modo bigotto s’era portati a tutti I livelli a mascharare e tenere tabù tante cose, dall’altra ci si peoccupava con qualche spicciolo donato di “mettere una toppa: un tacòn, di far tornare I conti salvando capra e cavoli” su situazioni che avrebbero meritato, invece, d’essere smascherate e portate allo scoperto facendo Giustizia e facendo cadere più di qualcuno giù dal suo prezioso caregòn (seggiolone):”Un’epoca con diversi falsi basabanchi e ciavasanti, un po’ doubeflace Politico-Religioso coperta da dorata facciata di Dedizione, Santità e Onestà.”


Fra le ultimissime iniziative sorte in Laguna prima che il problematico napoleonino spazzasse via tutto: buono e cattivo insieme, ce n’è una da ricordare perchè forse un po’ dimenticata. E‘ quella delledue sorelle Caterina ed Anna Castelli, che vissero in quell’epoca come proprietarie della rinomata Fonderia di CampaneCastelli “All'insegna della Madonna” da cui uscirono anche le campane di San Moisè.

A loro succedetteronella proprietà i Dalla Venezia che spostarono di un poco la fonderia appena giù dal Ponte dei Dai.

Cosa un po’ insolita: vero, parlare di Campane e Fonderie a Venezia ? La Fonderia sorgeva sull’attuale Rio Terà de le Colonneverso Piazza San Marco, a soli due passi da Santa Croce degli Armeni: area depressa bonificata e interrata dove fino al 1837 scorreva il Rio delle Strasse fra Rio dei Scoacamini e Rio dei Ferali che andava a costeggiare la zona dietro alle Procuratorie Vecchie di San Marco:RIVO AGGERRATO ACUQAEDUCTU SUFFECTO VIA NOVA APERTA EST 1837 dice una lapide collocata in zona.

Lì dunque c’era un Ponte della Campaneche scavalcava il Rio immettendo nella Calle dei Fabbri. Troppo costoso per i francesi prima, gli austrici dopo, e per gli stessi Veneziani scavare i canali. Si ritenne meglio imbonirne alcuni, così da liberare le Contrade dai miasmi e valorizzare ulteriormente alcune più centrali. Poco importava se si mandava in tilt la storica rete dei canali Veneziani dove da sempre: “sei ore a crèsse e sie ore a càla”mantenendo il secolare, anzi: millenario equilibrio naturale dell’habitat Lagunare.

I Fabbri di Contrada erano fra l’altro ancheFonditori di Campane, cioè: “facevano gètto di metallo fondendo campane e campanelle di ogni sorta e misura, nonché altri oggetti in bronzo come mortai, e cose simili.”

L’Arte della FonderiaCampanaria era antica a Venezia, importata dai Bizantini sulla scia delle abitudini Greco-Orientali. A Venezia si raffinò ulteriormente in quanto la vita della Città era scandita nelle ore in ogni angolo. Ai Veneziani piaceva scampanare all’inverosimile:“Ogni Contrada batte le ore sulla sua pignatta.”… Ogni casa, palazzo, chiesa aveva la sua campanella, senza contare quelle dei Tribunali, dei Capitoli dei Monasteri e degli Ospedali. Se c’erano occasioni speciali poi: vi lascio intendere. Ogni pretesto era buono in Laguna per scampanare: Feste, Messe e funzioni di ogni sorta, Ricorrenze, Funerali, Matrimoni, Processioni e mille altre solennità inventate e patrocinate da un esercito di Schole, Monasteri, Parrocchie, Preti, Frati e Muneghe ai cui richiami i Veneziani non si sognavano di non aderire e resistere in alcun modo:“ Fra piccole, sonèlli, mezzane e campanoni era tutto un fracasso da mattina a sera, e anche di notte … La Campana Prima Marangonaannunciava inizio e fine del lavoro dei Carpentieri dell’Arsenale e delle sedute del Maggior Consiglio; la campana Seconda di Nona segnava mezzogiorno; la Trottiera Terzasuonava il vespro, e dava il secondo segnale ai Nobili che dovevano affrettarsi spronando le cavalcature per partecipare alle riunioni del Maggior Consiglio; la Campana di Mezza terzaoQuartaannunciava le riunioni del Senato; la minore “la piccola” annunciava le esecuzioni capitali, mentre il “plenum” a distesadi tutto il coro-concerto delle campane contemporaneamente annunciava le grandi occasioni Liturgiche e Statali dei Giorni Ordenadi e delle Feste, che erano almeno una quarantina l’anno.”

Nell’occasione dell’elezione del Doge Domenico Selvonel lontanissimo 1071 si scrisse:“Quam magnus etiam campanarum tum fuerit sonitus nullius dicti vel scripti expositione animadverti potest”. Non meravigliò quindi un decreto del Consiglio dei Diecidel 7 febbraio 1424 M. V., che proibì di suonare le campane cittadine:“a prima hora noctis usque ad matutinum Sancti Marci”.

Ricordo che da bambino il mio vecchio Piovano Marco Polo dell’Isola di Burano mi diceva più che spesso: “Dai Stefano ! … Sòna un segno de campane che cusì xè Festa !” ed io allora accendevo tutti i bottoni delle campane del Campanil Storto de San Martin in Isola, per dare appunto un “Signum” che scandiva e interrompeva il ritmo della ordinata vita quotidiana della collettività Buranella ... A volte le lasciavo suonare proprio a lungo, perché fosse proprio Festa, tanto è vero che i Buranelli non ne potevano più, e mi mandavano a quel paese: io insieme alle campane e a tutto il resto ... Memorabile una volta: obbediente all’ordine del Piovano accesi le campane, e me ne andai a giocare al pallone nel campetto dietro alla chiesa … Chi le sentiva più ? … Le sentirono bene però I miei compaesani ... e vi tralascio il resto.

Fin dal 1286 a Venezia si ricordava Mastro Enrighetto esperto nella fusione delle campane. Fin da quell’epoca si faceva riferimento ad alcune stationesdedite all’Arte di fondere campane e altri oggetti in bronzo. Nella Contrada di San Luca nel Sestiere di San Marco c’era una “Statiòn Grande dell’Arte de Campane” non distante da Calle dei Fabbridove operavaMagister Vetor attivo fino in Abruzzo, Magister Lucas (1320), Manfredino da Venezia, che nel 1321 fuse una campana per San Giovanni in Sacco lavorando campane in tutto il Triveneto e fino in Puglia; e Vivenzio col figlio Vittore che nel 1320 fusero la campana oggi in Castelvecchio di Verona, e la “Campana dell’Arengo” di Vittorio Veneto (1342); e  Mastro Vittore da Venezia, che fuse assieme al padre la campana per la Cattedrale di Verona (1358), ele tre campane della Torre del Duomo di Chioggia (1354), dove andò poi ad aggiungere campane anche Mastro Antonio figlio di Vittore nel 1426 e 1431.

Del 1361, invece, la notizia dei fratelli Vendramo dipendenti di Vincenzo Campanato o Campanariusproprietario di parecchi immobili a Venezia confinanti con la proprietà diSer Michiel Campanato e fradelli,e di terreni a Mestreautori di molte iscrizioni incise su campane.  La bottega dei Vendramo fondeva oggetti distribuiti in Centro Italia, Toscana, Gemona del Friuli (1340 e 1393), Istria, Dalmazia,Castel Tesino, Verona, Lucca, Fermo, Teramo, Urbania, ed esportava fino a Malta (1370), Cipro e Alessandria d’Egitto.

Nello stesso 1361 Vivençius dettò il suo testamento davanti al Notaio Rana, dichiarando d’avere alle sue dipendenze nella Statiòn Granda de San Luca: sette operai e due apprendisti o famigli. Con lui collaboravano anche suo nipote Belo, i due figli Vettor e Nicoleto e il fratello Nicola: tutti Mastri Fonditori riconosciuti di campane, lavèzi e mortèri.

In un inventario del 1456 vennero contati 209 tra lavèzi e mortèri pronti, 100 forme di campane grandi, mezzane e piccole e battacchi, e altrettanti fusi per “far far le forme in più volte”.

Una dinastia Veneziana diversa diCampanati o diDelle o Dalle Campanedel 1500 abitava e operava in Contrada di San Pietro di Castello, dove fino al 1661 sorgeva forse un’altra fonderia di campane. Nel 1500 a Venezia era attivo il laboratorio artigiano di Giovanni Pietro Fucina e di Gasparo Dalle Campane, che produssero un“sacro bronzo” venduto nel 1526 a Orsogna (Chieti in Abruzzo) tramite Simone Peri Campanaro, Mercatante di campane e fonditore Veneziano.

Nel 1600 entrarono in gioco nuove famiglia di Campanari attivi a Venezia: De Toni, Ciotti e Di Calderani. Macarin, e la Fonderia De Poli che fino a tutto il 1700 oltre a campane fondeva anche mortai, pestelli, e piccole bocche da fuoco in quanto l’artiglieria pesante Veneziana veniva prodotta in esclusiva all’interno del superprotetto Arsenale.

La Fonderia De Poli ha disseminato di campane diversi luoghi della Serenissima e numerosi Stati Esteri: Modena, Bologna,  Francavilla al Mare di Chieti (una campana per Santa Maria Maggiore 1664), e Borgo di Bonavicina a San Pietro di Morubio di Verona (1673), avviando altre fonderie anche in Trentino, a Ceneda dal 1453 (una campana per il Duomo 1481), Udine(una campana per Castagnaro), e Trieste (una campana per San Giusto 1606).

Nel 1700 continuò ancora il commercio di campane a Venezia prodotte dai Ravenna, Zambelli, Plati, Briseghella, Alberghetti, Martini, e da Nicola, Vincenzo e Domenico Cancian Dalla Venezia che consociate con la ditta Baso di Santa Maria Nova, misero campane in diverse chiese Veneziane: San Giorgio Maggiore (1791), San Pantalon (1801), San Marco: sostituzione della Marangona e del Campanòn de Candia (1808) e la Nona, Pregadi e la Trottiera (1819), San Zaccaria (1815), San Lorenzo (1827) e Sant’Andrea della Zirada (1838) rilevando i locali della Fonderia in Calle dei Fabbri che era stata delle Sorelle Castelli.

Rieccoci quindi alle due Sorelle Castelli.


Nel 1751 quando i Birri della Serenissima uccisero in Laguna il Buranello Antonio Vio di professione “sartorello” considerato un prepotente intollerabile già bandito più volte dalla Repubblica, sorse a Burano (1749-1797) la “Compagnia del Patrocinio delle Donzelle Periclitanti” con lo scopo più che palese dal suo stesso nome. Già l’anno precedente il Padre FilippinoFrancesco Rossi di Burano aveva organizzato insieme ad alcuni benefattori una Compagnia laica di 5 Cittadini per gestire un “capitale depositato” con lo scopo di fornire “dote da 300 ducati a fanciulle giovani  fra 14 e 18 anni, già svezzate e ben addentrate nelle cose del vivere in quanto più di qualche volta traumatizzate e violentate, o reduci da esperienze travagliate, perdite dei genitori e incauti abbandoni … Le povere donzelle periclitate venivano ospitate e poste in educazione in casa di alcune Maestre Cristiane o nel Convento di San Vito di Burano, e vivevano delle solite generose elemosine dei Buranelli e di quelle diZente Nobile e Honesta de Venezia”.

L’anno seguente si provvide a redigere lo “Statuto delle Donzelle Periclitanti”, e s’iniziò a tenere un “Quaderno dell’Onoranda Compagnia intitolata: “Il Patrocinio delle Donzelle Periclitanti”, un “Quaderno rendite per Maritar e Monacar Donzelle Periclitanti”, e un “Giornal de Cassa per maridàr e munegàr Donzelle Periclitanti” in cui si segnavano gli interessi dei capitali investiti in Zecca; le rendite provenienti da alcuni immobili posseduti in seguito a Burano; le entrate delle due grosse “Commissarie Testamentarie”di Gasparo Caffrè(1778) e di Nicolò Donà quondam Nadal marito di Marina Nani Donà della Contrada di Santa Fosca in Venezia; e le liste in ordine alfabetico delle fanciulle col pagamento effettuato delle “dote”.

Di fatto s’iniziò ad ospitare Periclitanti a Burano solo nel 1782, perché Don Rossi morì nel 1763 lasciando le sue risorse all’ “Opera Pia” compresa la “casa in piazza” che venne però comprata dal Medico Albano Zampedri.

In realtà l’esperienza dell’ospitalità a Burano delle Periclitanti era una specie di trampolino di lancio che predisponeva le ragazze ad entrare dentro alle rinomate strutture Veneziane, a servizio delle Casate Nobiliari, o in Scuole o educandati privati finanziati da nobildonne filantrope e benemerite, da dove spesso finivano col maritarsi “con qualche bòn partido” o vecchio Nobile facoltoso, o ancora più spesso per vestire l’abito da Converse(non da MonacheCoriste Professe: ruolo riservato a NobilDonne con disponibilità di “doti”da non meno di 1.500 ducati e fino a 6.000) in qualche Monastero come quello di San Vito di Burano o qualche altro in Venezia Le Periclitantidovevano essere: “… in tutto povere, evidentemente Periclitanti, e soprattutto di vivacità e qualche avvenenza”(le bruttone erano proprio sfigàte del tutto … poverette).


A proposito di “Periclitanti”… In quegli stessi anni Carlo Belli Avvocato Veneziano scrisse preoccupatissimo al Tribunale della Serenissima chiedendo di porre fine alle molestie che il Padovano Antonio Ferrarese suo Servitore procurava alla sua casa e soprattutto a sua figlia minore “da lui già deflorata, rapita et resa incinta”… Da parte sua l’aveva già licenziato e non intendeva concedergli un “matrimonio riparatore”; aveva inoltre già tolte le sue figlie dal Monastero di San Vito di Burano per assistere la madre e un fratello di soli sei anni, lì comunque rimaneva “ancora in educazione” la figlia maggiore; soprattutto si dichiarava incapace di presidiare la propria abitazione a causa delle “sue incombenze di mezà e di Foro”… Qualche tempo dopo un Fante degli Inquisitori dello Stato Serenissimo accompagnò Antonio Ferrarese fuori dello Stato Veneto … ed era il 26 aprile 1760.

Qualche altra Periclitantedi Burano finì ospite nei Monasteri diEste e Padova, e solo nel 1807, il capitale, gli interessi degli investimenti in Zecca e le rendite delle Periclitanti di Burano provenienti dagli immobili posseduti in isola vennero incamerati dall’Istituzione delle Penitentidi Venezia sita sulla Punta estrema del Sestiere di Cannaregio.


In sincronia probabilmente con l’iniziativa delle Periclitanti di Burano, secondo quanto scrisse Luigi Perotti nel 1846 nel suo:“Memoria sui Luoghi Pii e sulle Confraternite Laiche di Venezia”: “Volgeva l’anno 1748, quando il Reverendo Padre Rossi dei Preti dell'Oratorio, si fece a chiedere al Veneto Senato il permesso di aprire un Asilo per le fanciulle in pericolo. I Governatori delle Zitelle, temendo che potesse venirne pregiudizio a quella Pia Casa nel caso di legati, vi si opposero, rappresentando che in sussistenza dell'Instituto che sopravvegliavano, non abbisognava aprirņe un secondo; tanto più che ampio era il locale delle Zitelle e capace anche di contenerne maggior numero; per cui, trattandosi di una instituzione perfettamente uguale, sarebbe stato opportuno, anzi che dividerla, tenerla unita. Il Senato, per conciliare le premure delle due parti, con decreto  28 agosto 1749 permise al Padre Rossi di effettuare il suo disegno, a condizione per altro, che le fanciulle per esso raccolte, prendessero il titolo di Periclitanti, e che la casa, che avrebbero abitata in Venezia, fosse non altro che un deposito d'onde si sarebbero sparse, a breve termine, nei Conventi di Monache della Terraferma per esservi educate e mantenute co' mezzi de' quali avrebbe potuto disporre la nuova institzione … Il buon esito avuto dal Padre Rossi nella sua domanda, fe' nascere desiderio d'imitarlo a due sorelle Castelli, proprietarie di una fonderia di Campane. Offersero esse al Senato, che prontamente vi aderì, di dedicarsi esclusivamente alla educazione e al mantenimento di 12 fanciulle, al fine poi di collocarle a seconda delle oneste brame che avessero spiegate. La casa delle Castelli venne aggiustata a stanza delle alunne che furono chiamate ad abitarvi, denominate Discepole della Beata Vergine volgarmente le Campanare, dalla professione delle loro institutrici.”

Le due sorelle Castelli Campanare o Campanate, insomma, fautrici della fusione diuna campana per la chiesa della Contrada di San Luca, vendettero nel 1758 la Fonderia-bottega livellando altre proprietà che la loro famiglia possedeva alla Giudecca fin dal 1553 presso il Ponte Piccolo acquisite dai Grassetti e Perelli. Due anni dopo acquistarono una caxetta, posta in fondamenta de la Contrada della Croxe Grande, dove fondarono come Benefattrici l’Ospizio de le Campanare Periclitanti e Discepole della Beata Vergine”.

Solo vent’anni dopo (03 ottobre 1778) il Collegio-Conservatorio di Fanciullevenne ufficialmente riconosciuto dal Senato Veneto come Opera Governativa: “a condizione che non si erigesse un nuovo Ospedale cioè un nuovo Istituto Assistenziale, e non avesse un Oratorio Pubblico.”

Il patrimonio delle Periclitanti fruttava la rendita lorda di Lire Venete 16.112,12. Avevano inoltre Capitali depositati in Zecca per ducati effettivi 281,046:19 ... Le rendite di ognuna delle Campanare ammontava a Lire Venete 342:7, e tenevano in proprietà ulteriori Capitali in Zecca per la somma di ducati effettivi 7631:11.

L’Opera Pia delle Campanere Periclitanti fu attiva fino al 1797, quandocaduta la Repubblica, e in applicazione dei decreti del 1807, l’Istituto-Ospizio venne soppresso trasferendo le ospiti presso il grande Ospissio delle Zitelle della Giudecca.

L'edificio in realtà rimase vuoto e inutilizzato, fino a qualche tempo dopo quando ritornò di nuovo a ospitare giovani educande cambiando nome in Ospissio del Beato Giovanni Marinoni. Il tutto fino al 1850, quando caxetta, vicina antica chiesa di Santa Croxe e annesso Convento vennero del tutto demoliti per allargare gli ameni Giardinetti Papadopoli(oggi di fronte al Ponte di Calatrava a un passo da Piazzale Roma).

Ancora negli anni 80, quando facevo il Prete a Venezia, ho raccolto tristissime confessioni “d’insospettabili” che sottoponevano vedove e ignari bimbi e bimbe ai peggiori sopprusi in cambio di un tetto dove stare, e di quattro soldi per sopravvivere. Quei bimbi e bimbe, così come certe donne, furono fra gli ultimi ad essere ospitati in quelli che furono i resti degli antichi “Soccorsi e Opere Pie della tramontata Serenissima”. Gli insospettabili che li avevano traumatizzati e trascinati in basso in quelle squallide condizioni, spesso andavano ogni Domenica a collocarsi elegantissimi in primo banco in chiesa davanti a Dio con a braccio la bella sposa e la perfetta famiglia. Non mancavano mai di  far centellinare pomposamente l’obolo generoso della carità adergendosi a modello di ogni bella virtù.

Che schifo mi facevano quelle orribile facciate !… Le ho sempre considerate disgrazie vigliacche davanti a Dio, sulle quali non si sarebbe dovuto tacere per via del segreto confessionale. Quel che mi schifava di più era il fatto che diverse persone “per bene” che tutto sapevano, ritenevano che era bene per tutti che regnasse quel totale velo di omertà e silenzio sopra quelle situazioni rimaste impunite: “Ci penserà alla fine Dio Giudice di tutti, che tutto vede e tutto sa” mi ripetevano bèceri e ricchi di compatimenti e scuse anche certi miei Confratelli Preti, che non intendevano toccare in alcun modo certi “castelli di carta vuoti ma benemeriti” che primeggiavano comunque nella Società dei Buoni.  

Colori politici multicolori gestiti dal vento si sono alternati nel gestire Venezia allineandosi nel tacere come i loro predecessori mantenendo lo “status quo” del sistema così come hanno fatto tanti, Sindacati ampiamente venduti, e Politicanti e Sindaci sempre in primo banco in Basilica di San Marco a baciare patriarcali mani, per poi andare a comprare per poco o niente le terre dei contadini Veneziani per farne futuro Aeroporto, o discarica delle peggiori cose prodotte dal moderno benessere industriale … Tutti sapevano tutto di tutti, ma era comodo sussurrare che forse non era accaduto niente per rispetto alla memoria dei Tanti, e dei Principi, e dell’onore delle Istituzioni, e della solidità affidabile della Struttura Sociale.

Bah ! … Che falsi ipocriti ! … anche se grandi affabulatori assistenziali.

Anche questa comunque è stata Storia Veneziana.

 


“Luglio col bene che ti voglio … a Venezia ”

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#unacuriositàvenezianapervolta 283

“Luglio col bene che ti voglio … a Venezia ”

 

“Luglio par i Veneziani xè tempo par l’acqua de: Angusigole, Bisatto marin, Cappe Sante, Caustelli, Sfogi e Volpine … Par terra, invèsse: xè Tempo de seminàr Cerfoglio, Indivia e Ramolacci ... par aria, ancora, col giorno decimoquinto s'apre legittimamente ogni caccia. Essendoché la selvaggina ancora è dispersa, e la novella non è pur anco bene adulta, sono vaganti bambocci senza ordine ...  Si cacciano Gambirli, Totani, Tramontanelle, Cocalette, le prime Folaghe, e l'Anitrozze.”

Una dimensione del vivere a Venezia di sicuro diversa da oggi.

Spulciando nelle Cronache Veneziane, sempre di Luglio a Venezia sono accadute tantissime cose …

Fin dal superlontanissimo luglio 1177: Venezia inziò “a salir in scàgno”ospitando l’Impero di Federico Barbarossa e il Papato di Alessandro III dopo due mesi d’intense trattative diplomatiche. Quel giorno il Doge Sebastiano Ziani col Vescovo di Castello-Olivolo e le massime autorità della nascente Serenissima si recarono a San Nicolò del Lido per accogliere solennemente la nave dell'Imperatore che rimase a Venezia fino alla fine di settembre. Il grande incontro di riconciliazione fra i due mondi-potenze accadde con la mediazione Dogale dopo ben diciassette anni di guerra. Quel giorno Venezia assunse significativa figura nel panorama Europeo-Mediterraneo di quelli che contavano, e l’incontro fra i due Grandi si concretizzò nella Pace di Costanza.

Nel luglio 1249, invece, il Doge Jacopo Tiepolo abdicò dal Dogado poco prima di morire: “Il Doge non muore mai.” Disse … Due anni dopo Papa Innocenzo IV concesse ad Jacopo Belegno Primicerio di San Marco, l'uso della mitra, dell’anello e del bastone pastorale: il Doge aveva così il suo Vescovo Personale Privato.

Nel luglio 1268, invece: mori un altro Doge Veneziano singolare: Zeno Renier. Abile in politica e affari, accumulò l'ingente fortuna di circa un milione e mezzo di lire d’oro. Pio e benefico, però: per testamento lasciò incredibilmente gran parte delle sue sostanze ai poveri, agli infermi e a molte chiese veneziane. Alla moglie lasciò il palazzo e 3000 lire, a patto che non si rimaritasse di nuovo ... Ai carissimi e amatissimi nipoti: condonò i debiti ... e basta.

Al Zeno, sempre in luglio, successe il Doge Lorenzo Tiepolo famoso "Generale da Mar" contro i Genovesi che andò a sconfiggere ad Acri. Con la sua nomina s’iniziò ad applicare il nuovo complicato sistema di elezione che durò immutato fino alla fine della Repubblica. Il Maggior Consiglio estraeva a sorte fra i suoi componenti 30 nomi; questi ne tirano a sorte fra loro altri 9 incaricati di designare 40 elettori. I 40, a loro volta, ne tirano a sorte altri 12, che ne eleggono 25 incaricati di tirarne a sorte 9. I 9 rimasti ne designano 45, che ne tirano a sorte 11, i quali ne eleggono 41. Questi ultimi, dopo essere stati confermati dal Maggior Consiglio, procedevano alla elezione del Doge, che doveva ottenere almeno 25 voti …. Tiepolo ne ottenne 25: e fu Doge.

Dal luglio 1282 si ordinò, invece, la chiusura notturna a chiave del Ponte di Rialto… Quattro anni dopo un'ordinanza della Serenissima vietò alle navi di gettare zavorra in mare al di qua di Jesolo ... Nel luglio 1298: “Si ordinò di non gettare immondizie nei canali. Apposite barche settimanalmente le avrebbero raccolte pattugliando i canali Veneziani.”

E ancora in un luglio lontano nacque dapprima come Magistratura Provvisoria(1310) il famosissimo Consiglio dei Dieciformato da Nobili incaricati di vigilare sulla Sicurezza dello Stato. Non potevano essere parenti tra loro, non ricevevano stipendio, non potevano accettare doni di alcun tipo, nè potevano ricoprire altre Magistratura nello stesso tempo. Duravano in carica un anno, alternandosi fra loro ogni cinque-sei mesi, non erano rieleggibili, ma avevano poteri illimitati, disponevano di una rete segreta d'informatori, di un'armeria personale, e di un proprio corpo di polizia. Trascorso l'anno tornavano privati cittadini privati di tutti i privilegi.

Quando passava il Fante dei Cai disarmato e vestito di nero, cioè il temibilissimo Messo che portava gli ordini del Consiglio dei Dieci, anche il più orgoglioso dei Nobili abbassava la testa in segno di saluto e rispetto, mentre i popolani si facevano il segno della croce.

Sempre a luglio morì a Venezia il Doge Marino Zorzitalmente amato dai Veneziani che si dovette nascondere il luogo della sua sepoltura per impedire che il popolo si recasse a dissotterrare la salma per farne Reliquie delle sue vesti (1312). Solo più tardi lo si seppellì a San Giovanni e Paolo: Phanteon dei Dogi.

Nel luglio 1360 vennero frustate pubblicamente Margarita "revendigola", Beruccia vedova di Paolo d'Ancona, Maddalena di Bologna e Lucia "schiava": “per aver esse portato in modum ruffianorum, lettere amorose ad alcune Monache del Convento di San Lorenzo a Castello.”… le giovani Nobili Veneziane imprigionate nei Monasteri Veneziani incominciavano a svegliarsi ed agitarsi … era un inizio.

Nel luglio dell’anno seguente morì a Venezia il Doge Giovanni Dolfindopo soli cinque anni di Principato. Eletto Doge mentre stava partecipando alla difesa di Treviso assediata dagli Ungheresi, raggiunse Venezia aprendosi il varco tra le file nemiche con la spada in pugno e perdendo un occhio strada facendo. Portò sempre una benda sotto al berretto da Doge ... Essendo vedovo, morì assistito nella malattia ultima dal Fisico Albertino da Padova.

Gli successe … fatalità ancora in luglio … Il Doge Lorenzo Celsisotto il quale la Repubblica Veneta prese il volo come potenza allestendo la flotta marina più potente del mondo di allora, e assumendo il monopolio di tutti i mercati dell'India e dell'Estremo Oriente. Uomo deciso e raffinato, teneva a Palazzo Ducale una scuderia di superbi cavalli e un piccolo serraglio di animali esotici compresi alcuni leoni.

Morì malamente sobbarcato da una miriade di documenti infamanti, con la stessa infamia di traditore per la quale era stato decapitato il Doge Marin Faliero. Ma nel luglio 1365: Il Maggior Consigliodecretò la distruzione di tutte quelle false accuse indicando che il nuovo Doge Marco Corner(tardo d’età e di scarse fortune finanziarie)affermasse pubblicamente nella sua prima adunanza del Consiglio, che il suo predecessore era stato indegnamente calunniato di misfatti commessi contro il Comune di Venezia risultati falsi.

Nel luglio 1372 a Venezia si scoprì l’ennesima congiura ordita contro lo Stato da alcuni Patrizi Veneti affini alla politica di Francesco da Carrara. Bartolomeo Grataria da Mestre considerato il protagonista principale della congiura venne portato a Rialto dove: “tagliatagli la mano destra et legatagli al collo, fu strassinato a coda di cavallo sino a San Marco, et fu squartato nel mezzo delle colonne di Marco e Todaro, et li quattro quarti appicati ne li soliti luoghi”.

Due anni dopo in luglio, Francesco Petrarca morì ad Arquà sui Colli Euganei dove stava in villeggiatura da qualche anno. Fu trovato morto all'alba col capo chino sulle pagine di un libro: Le confessioni di Sant'Agostino” dissero alcuni, l’“Eneide”dissero altri ... Poco importa, abitava di solito a Venezia nel Palazzo delle Due Torri sulla Riva degli Schiavoni che gli aveva assegnato la Repubblica Veneta che lo considerava “Grande Amico”.

Nel luglio 1389, invece, una certa Orsa Veneziana, approfittando della partenza del marito per Corfù, abbandonò i figli, si prese le cose di valore che c’erano in casa, e andò a vivere in casa del Piovano di San Samuele: Prè Francesco Carello mettendosi a convivere con lui. La Serenissima reagì: condannò al carcere a vita la donna, anche se cinque anni dopo ottenne la grazia. Tremendo, invece, il Piovano Carello di San Samuele. Avvalendosi dell’immunità Ecclesiastica, venne coinvolto in un’altra sentenza del 6 settembre 1391, in quanto scoperto in flagrante adulterio con Lucia moglie del Nobilomo Marco Barbarigo. La donna venne condannata a due anni di carcere e a perdere la dote per esser stata col Prete ed aver abbandonato il tetto coniugale ... E il Prete ? … Niente di niente: tutto come non fatto.

In vari luglio diversi del 1404, durante la Guerra contro i Carraresi Signori di Padova (1404), duecento Fanti Venezianientrarono nella "bastia" di Gambarare, dopo aver indotto al tradimento il Capitano della Bastia dandogli seimila ducati. Subito saccheggiarono tutta la zona e Sambrusòn: "pigliando e rubando qualunque a trovava".

L’anno dopo, sempre in luglio: 20 Ambasciatori da Verona giunti a cavallo fino in Piazza San Marco di Venezia, consegnarono le bandiere, il sigillo, il bastone del comando e le chiavi di Verona, in segno di spontanea dedizione a Venezia e al suo Doge.

Nello stesso mese estivo: vennero condannati ad esser sepolti con la testa in giù in tre buche appositamente scavate tra le colonne della Piazzetta di San Marco i Preti Taddeo Buono della chiesa di San Marco, Pietro Andrea di San Simeone Profeta e Prete Andrea di San Giacomo dell'Orio. Erano stati incaricati dai Carraresi di Padova di appiccare con dei complici alcuni incendi in diverse Contrade della Città. Scoperti, vennero condannati a morte d'accordo con le Autorità Ecclesiastiche Veneziane.

In un ulteriore luglio, si decretò che: “Ogni anno si pubblichino in Maggior Consiglio i nomi di quelli che rubassero beni dello Stato, e ciò per tutta la vita loro"(1416) ...  Quattro anni dopo … sempre in luglio ovviamente … Il Doge di Venezia Tommaso Mocenigo invitò i Cadorinia fare atto di dedizione alla Repubblica Veneta. Durante la riunione un Cadorino gridò: “Eamus ad bonos Venetos ! (Andiamo dai buoni Veneti !). L'assemblea e il popolo radunato in piazza si unirono al grido entusiasta, e da quel momento iniziò il dominio di Venezia sul Cadore, che seppure godendo di grande autonomia, fu sempre fedelissimo al Leone di San Marco.

Enrico di Barbante fabbricante di "verrettoni" da Pavia venne condannato (nel luglio 1426) al taglio della testa tra le due colonne della Piazzetta. Dietro ricompensa di 2.200 ducati era stato incaricato da Filippo Maria Visconti Signore di Milanodi appiccare un incendio nell'Arsenale dei Veneziani. Fattosi assumere come lavorante nella Caxa dell'Arsenal, s’era incautamente confidato con un Arsenalotto … che non ci pensò su un attimo, e andò dritto a denunciarlo dalle Autorità Veneziane.

Nel luglio 1446 le Schole dei Battuti di Venezia dovettero smetterla di suonare le loro campane "a morto" per i loro Confratelli per più di mezz'ora al giorno … Il troppo stroppia sempre e in ogni caso.

Nel luglio 1453: una flotta di trenta navi Veneziane imbarcò in fretta e furia l'Imperatore Baldovino, il Podestà di Costantinopoli Marco Gradenigo, il Patriarca Pantaleon Zustinian, e altri tremila profughiche lasciarono in fretta la città per riparare a Negropontesfuggendo agli incombenti Turchi … Fu la fine epocale dell'Impero Latino d'Oriente.

Nel luglio 1454: “il cielo pianse su Venezia: si scatenò un grande uragano che arrecò grandissimi danni in città ed in tutto il territorio Lagunare.”… Nel luglio dell’anno seguente morì a Venezia Paolo dalla Pergola: primo Maestro stipendiato dalla Repubblica, detto “Dottore insigne perspicacissimo”. Teneva pubbliche lezioni di Logica, Filosofia e Teologia nella famosissima Scuola di Rialto sita presso la Chiesa di San Giovanni Elemosinario di cui era il Piovano ... Secondo la testimonianza, forse esagerata, di un discepolo: insegnava 14 ore al giorno: dalle 7 del mattino alle 9 di sera.

Il Senato Veneto decretò la costruzione della nuova Pescheria di Rialto nel luglio 1459: “Per far veramente comodo el luogo de la Pescaria, siano atteradi gli edifizi dal canton dela Fruttaria fino al canton del Rivo dela Becaria; et da un capo a l'altro sia fata una riva la qual serva al Tragheto de Sancta Sofia, a la Pescaria et a quele persone che conducono polli et altro da la Terraferma”.

Quattro anni dopo in luglio: i Cadorini donarono a Venezia il Bosco della Vizza o di Sommadida chiamato da allora il Bosco di San Marco. Andatelo a vedere: stupendo ancora oggi … Fornì per secoli il legname per costruire le navi dell'Arsenale dei Veneziani, e dopo la caduta della Repubblica venne depredato dai francesi per rifornire l'Arsenale di Tolone.

Nel luglio 1470: i Turchi conquistarono l'isola di Negropontenel mare Egeo. Risultò inutile l’ultima disperata difesa dei Veneziani che contrastarono l'avanzata Turca casa per casa. Al momento della resa, il Sultano Maometto assicurò al Bailo Veneziano Paolo Erizzo che “avrebbe avuta salva la testa”...  Infatti lo segò vivo a pezzi senza toccargli la testa.

Nel luglio di tre anni dopo, morì a Veneziaper flusso" all'età di settantaquattro anni il Doge Niccolò Tron seppellito ai Frari di fronte al Doge Francesco Foscari. Piccolo di statura e d'aspetto sgraziato, col volto quasi scimmiesco per via di una barba lasciata crescere incolta in segno di lutto per il figlio trucidato dai Turchi, a Venezia lo chiamavano: “il sòrse”(il sorcio). Si deve a lui un'ardita riforma della moneta veneta in un momento di grave crisi economica per la Repubblica quando i Milanesi avevano messo in circolazione una gran numero di monete venete false. Tron fece coniare una nuova moneta d'argento: la Lira Tròna dal suo nome, sulla quale fece incidere il suo volto al posto del tradizionale San Marco. La moneta godette di grandeprestigio sui mercati mondiali, e diede origine al detto popolare: “Bruto ma bon, come la lira trona.”

Morì di luglio (pare in Polesine) il navigatore veneziano Alvise Da Mosto(1483). Appassionato di viaggi, si trasferì in Portogallo al servizio dell'Infante Enrico il Navigatore. Effettuò così l'esplorazione delle Coste dell'Africa spingendosi oltre la foce del Senegal, e tentò di risalire il corso del fiume Gambia. Nel 1456, in compagnia del Genovese Antoniotto Usodimare scoprì le Isole di Capo Verde. Le relazioni dei suoi viaggi furono d'aiuto al Cosmografo Fra' Mauro autore del celebre mappamondo Muranese (oggi conservato alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia).

Nel luglio 1487 il Consiglio dei Dieci decretò che tutte le fornaci da stoviglie e Bocalèri esistenti a Venezia fossero trasferite alla periferia della città: per evitare pericolo d’incendi, per mantenere pura l'aria, e per il decoro della Capitale della Repubblica.

Durante i luglio del 1500, capitò che il Senato Veneto decretò d’affidare ai pittori Lazzaro Bastiani(primo maestro di Carpaccio) e Benedetto Diana l'esecuzione di tre stendardi da innalzare sulle antenne di Piazza San Marco nei giorni festivi (1505): “Dovranno essere in seta rossa e oro, lunghi diciotto braccia, larghi tredici. Il compenso pattuito é di 630 ducati. Inoltre, se i gonfaloni saranno eseguiti (dice il decreto) «con degna, fedel et perfetta opera, verrà dato ai due pittori anche un beveràzo (una buona mancia per fare una bella bevuta)”.

Leggendo le cronache del Diarista Marin Sanudo circa luglio dell’anno seguente, veniamo a sapere: “E in questo zorno poi disnar da uno franzese fo amazà Jacomo Gradenigo: haveva benefici et feva la sua vita a San Salvador, homo pacifico, et per voler pacificar la moglie col marito, fo amazato dal deto marito, era francese e falconier del re.”

Nel luglio di tre anni dopo ancora: nel 1509,  ad Asolo, occupata dalle truppe imperiali, scoppiò una rivolta popolare provocata e diretta da Agenti Veneziani. Alcuni insorti, fra i quali c’erano soprattutto gli abitanti di Pagnano, gridarono: “Marco ! Marco !”, e occuparono la cittadina, disarmarono il Presidio Spagnolo, e diedero alle fiamme l'Archivio Pubblico distruggendo preziosissimi documenti storici.

L’anno dopo, in luglio, le truppe dell'Imperatore Massimiliano, giunte a Feltre, intimarono la resa alla città. I Feltrini risposero a cannonate e si batterono con ardore ed impeto sulle brecce delle mura aperte dall’artiglieria imperiale di un esercito di 12 mila uomini. Gli Imperiali alla fine prevalsero, trucidarono quasi tutti, e diedero alle fiamme la città riducendola in tre giorni a un mucchio di rovine. I Veneziani, che riuscirono poco dopo a riconquistarla, datarono le loro lettere: “dalle ceneri di Feltre”.

 

Il Senato veneto nel luglio 1512 autorizzò Nicolò de Manòli detto Sbisào, a progettare e realizzare la sua opera di recupero di una nave affondata nei pressi delle Isole di Brioni (piccolo arcipelago istriano presso Pola oggi in Croazia). Precursore dei moderni palombari, il Manòli aveva inventato: “un certo vestimento. cosa davero sopranatural, cum el qual va sotto aqua, et dice di poter stare per ore sei senza nocumento, lavorando come se el fusse in terra piana.”

L’anno dopo in luglio si collocò sulla cuspide del Campanile di San Marco a Venezia: una statua in legno rivestita di lamine di rame rappresentante l'Arcangelo Gabriele. Scriveva Marin Sanudo per l’occasione: “In questo zorno fo tirato suso l'Anzolo de rame indorado con trombe e pifari a hore 20; et fo butado vin e late zoso in segno di alegreza, che prego Idio sia posto in hora bona et agumento di questa Republica.”

L’anno dopo ancora in luglio, e siamo nel 1513, Padova era assediata dalle truppe Spagnole. Davanti a Porta Santa Croce si presentò un araldo a chiedere la resa della città in nome del Viceré Don Raimondo di Cardona. Bartolomeo d'Alviano Comandante dei Padovanilo accolse benevolmente, gli donò un bel vestito, e lo pregò di portare al suo Viceré“alcuni rinfrescamenti” (bibite) per togliersi la sete in quanto faceva molto caldo. Dopo di che lo congedò, aggiungendo ironicamente: “Scusami col tuo Capitano se non gli posso mandar anche le narànze, perché voglio ch'el vegna a tuorsele de persona.

Due luglio dopo ancora: è ancora Marin Sanudo a raccontare: “In questo zorno, da poi disnàr, fu fato una forca al Traghetto de San Silvestro, zoè di qua da San Luca, apresso la caxa di Corneri da la Piscopia, e fo apicado uno ladro, qual era familiar de caxa barcaruol ... che con molti altri rupe una feriada e intrò in caxa, e robò molte robe... E’ stà preso di apicarlo, e cussi foffato ... Ha moièr e fiòli; era honesto homo.”

Nel luglio 1525 si mise in vendita all'incanto a Venezia un palazzo sul Canalgrande in Contrada di San Samuele. Si trattava di Cà del Ducacostruita su progetto di Bartolomeo Bon, ed iniziata dalla famiglia Corner che intendeva fame una sontuosa reggia con saloni ancor più grandi e belli di quelli di Palazzo Ducale. Nel 1461 il Palazzo era stato acquistato dal Duca Francesco Sforza di Milano da cui prese appunto la denominazione di Cà del Duca ... Rimasti però incompleti i lavori per mancanza di denaro, passò in proprietà del Governo Veneto che se ne sbarazzò mettendolo in lotteria. Fu vinto da Alvise Dolce che era in possesso del fortunato biglietto n° 5420.

Nel luglio 1540,invece, un certo Natale Veneziano Ufficiale della Magistratura Veneta dei Signori di Notte, si buttò giù dal Campanile di San Marco inaugurando la serie dei suicidi dal campanile che nel tempo si dice siano stati più di cento ... Nello stesso mese un potente fulmine cadde su San Zanipolo(Santi Giovanni e Paolo)incendiano la cupola, e mettendo in fuga i terrorizzati Frati Domenicani che se ne stavano a pregare nel Coro di sotto.

A luglio faceva sempre un caldo insopportabile a Palazzo Ducale, per cui venivano disertate le sedute del Maggior Consiglio. Si autorizzò allora l'apertura di due nuovi poggioli nel salone, ed era il luglio 1552, mentre due lugli dopo: Jacopo Sansovino firmò il contratto per la fornitura di due statue colossali simbolo della potenza terrestre e marittima di Venezia. Vennero collocate nel cortile di Palazzo Ducale in cima alla scala che da loro prese il nome di Scala dei Giganti.

Nel luglio 1560: si destinò “a deposito di rovinàzzi" il tratto del Lido da San Lazzaro alle Quattro Fontane. "Due soprastanti agli scarichi delli fanghi e rovinazzi" sorvegliavano in modo energico e severo gli scarti edili della discarica ... Nel 1589 divennero quattro in carica due anni, e rieleggibili.

Nel luglio 1574 giunge a Venezia Enrico III Re di Polonia futuro Re di Francia. Il giovane e simpatico Re conquistò i venerandi Senatori della Serenissima che decretarono in suo onore accoglienze mai viste: regate, ricevimenti, un banchetto da tremila convitati e la recita in Palazzo Ducale di una tragedia con accompagnamento musicale di Claudio Merulo. Inoltre gli fecero visitare le segretezze dell’Arsenale dove in un giorno solo, sotto i suoi occhi stupiti, fecero costruire dalle maestranze una Galea Veneziana armata di tutto pronta a navigare.

E tornò la Peste a Venezia … Nel luglio 1576 in ottemperanza delle disposizioni emesse dal Magistrato alla Sanità vennero eletti tre Nobili per ogni Sestiere cittadino per gestire l’epidemia ... L’anno dopo, sempre in luglio: si decretò il pellegrinaggio annuale del Doge e di tutta la Signoria e dell’intera Città al Tempio del Redentore Liberatore della Peste costruito alla Giudecca ... La tradizione sta continuando ancora oggi nel 2022.

Due anni dopo quel luglio, e ancora in luglio: Venezia perse la pazienza: “Pena la forca ogni bravo forestiere deve lasciare immediatamente i territori dello Stato Veneziano!”

Nel luglio 1582, invece, il Podestà di Portogruaro a nome della Repubblica Serenissima, intimò alla popolazione di cessare ogni tipo d’ostilità contro i Caorlòtti(abitanti di Caorle) lasciando che venissero con le loro barchette a vendere pesce e a provvedersi di biade e di vino.

Dieci anni dopo in luglio (1592) morì a Venezia suicida per ipocondria, il bravo pittore Francesco da Ponte detto il Bassano. Annunciò il Necrologio Sanitario:“Missier Francesco Bassano pittor de anni 42 se butò zozo da un balcon per frenesia.”Figlio dell’eccellente Jacopo, aiutò il padre nei lavori di Palazzo Ducale realizzando alcuni quadri del soffitto nella sala del Maggior Consiglio.

Anche i luglio del 1600 non mancarono di note e sorprese.

A inizio secolo (1602) un decreto del Senato stabilì che la somma necessaria per la dote e il corredo delle "novizze"(promesse spose) non doveva superare i 1300 ducati … Troppi spropositi in giro per Venezia: 5.000-6.000-7.000 ducati di dote … Un affronto alla povertà di tanti Veneziani ...  Quindici anni dopo in luglio si elessero i "Capi di Contrada sopra il pacifico viver".

Dal Senato venne formata in luglio una commissione di dodici savi, otto effettivi e quattro supplenti, incaricati di regolamentare definitivamente il corso dei fiumi Piave, Marsenego, Dese, Sile, Zero e Meolo ... Era luglio 1620 per la precisione … e l’incubo della Peste stava incombendo ancora una volta. Fra i tanti morì di Peste a Venezia (nel luglio 1629)anche Messer Paolo Rimondo, e i Veneziani tirarono un respiro di sollievo. Rimondo era un personaggio piuttosto turbolento, uno di quei Bravi malvagi, che spadroneggiavano per Venezia e Terraferma offrendosi al miglior offerente, incuranti delle Leggi, disposti a compiere qualsiasi sorta di male seguendo una pseudogiustizia del tutto personale.

Nel luglio 1644 si diede ordine di costruire il ponte che collega le isole di Burano e Mazzorbo nella laguna Nord.

Tre anni dopo in luglio ovviamente, per sostenere le spese della Guerra contro i Turchi, la Serenissima concesse l'iscrizione nel Libro d'Oro della Nobiltà Veneziana di quelle famiglie che avessero offerto 100 mila ducati, di cui almeno 60mila in dono più altri 40mila a prestito. Furono 77 le Nuove Famiglie aggregate che in quell’occasione entrarono a far parte a pieno titolo del Patriziato Veneto.

Due anni dopo ancora in luglio, si celebrano a Venezia le nozze del futuro Doge Silvestro Valier con la bella e ingegnosa Elisabetta Querini. La sua antica e potente Famiglia Patrizia era stata esclusa per sempre dall’accesso al Dogado per aver preso parte alla congiura di Baiamonte Tiepolo nel 1310.  In quel modo, tramite la Dogaressa Elisabetta, i Querini arrivarono in qualche modo al Dogado per parte di donna.

Nel luglio 1660 morì a Padova Francesco Maffei, pittore vicentino fantasioso e bizzarro, potente nelle composizioni e gustoso nel colore, che aprì la via della pittura veneziana del 1700. Marco Boschini nella sua “Carta del navegar pittoresco” lo dipinse dicendolo: “Pitor no da pigmei ma da ziganti, Maestro, che in quatro sole penelae fa che ognun tegna le çegie inarcae. Manieron che stupir fa tuti quanti.”

Nel luglio 1686, invece,  nacque a Venezia il compositore Benedetto Marcello detto “il Michelangelo della Musica”, autore dell'“Estro poetico-armonico”, nonché arguto scrittore. Nel suo “Teatro alla moda” satireggiò piacevolmente sul divismo dei cantanti del 1700, mentre nelle briose poesie vernacole ironizzò sui mediocri rifacitori della Tragedia di Euripide: “Ifigenia in Tauride che viva xe restada
in man de Greci, Latini e Francesi, per le man vostre alfin resta amazzàda.”

Nel 1700: tempo e secoli dei lumi, Venezia annaspava, inciampava, scivolava incerta perdendo i pezzi. Si fermava a filosofeggiare e discorrere, si dava alle Lettere, alla Cultura, alla Musica, al Canto del Mito e al buon vivere in Villa, trascurando le economie e la cura delle aspirazioni del Governo. Una Serenissima sempre splendida, ma pantofolaia: in vestaglia e ciabatte, china su se stessa.

Nel luglio 1718: Austriaci e Veneziani firmarono il trattato di Passaromtz con i Turchi. Venezia si dichiarò neutrale e disarmata, conservò le sue ultime conquiste in Epiro e ai confini dell’Erzegovina, ma dovette abbandonare le ultime basi nelle Isole Cretesi ed Egee.

Nel luglio 1724 Il Tipografo Ermolao Albrizzi fondò l’Accademia Letteraria Albrizziana con sede in Calle della Cavallerizzatra la Schola Granda di San Marco e le Fondamente Nuove. Scopo dell'Accademia era: “stampare ogni specie di opere, o degli Accademici, o di edizioni rare, o di manoscritti non mai pubblicati, e ciò col denaro che da tutti i letterati d'Italia si raccoglie". Il ricavo della vendita dei libri era destinato ad incrementare la biblioteca e a coniare medaglie con l'effige dei più illustri Accademici.  Il Senato protesse l'Accademia fino al 1745 quando la soppresse.

Nel luglio 1764 i Fornai Veneziani disputarono una curiosa regata sul Canale di Cannaregio usando come imbarcazione le madie per impastare il pane, e come remo mestoli di legno.

Venezia decadente provava poi timidamente a salvare la facciata: nel luglio 1720: gli affittacamere Veneziani obbligati a dare in nota gli ospiti al Magistrato alla Sanità, si costrinsero a non tener più di due letti per stanza e ciascun letto per non più di due persone … Nel luglio  1734: "Le mendicanti che conducevano mala vita venivano condannate alla berlina." ... Un Decreto Suntuariodel luglio 1750 prevedeva che: "Le dame, scambiandosi visita, non si offrano bibite e dolci per oltre il valore di un ducato".

Nel luglio 1763, invece, per rimediare alla decadenza degli scambi commerciali, la Magistratura dei Cinque Savi alla Mercanzia propose d’istituire a Venezia una Camera di Commercio. La proposta venne bocciata, ma poco dopo, a causa della guerra d’indipendenza Americana, dal momento che la maggiori potenze navali erano impegnate oltreoceano il commercio marittimo veneziano rifiorì notevolmente al punto tale che a Costantinopoli-Istanbuloltre il 52% delle navi nel porto erano Veneziane.

Nel luglio 1778 si rinnovò ai CiechiVenezianiil permesso di chiedere l'elemosina nelle chiese, purchè in silenzio e in non più di quattro per chiesa e per volta ... Nel luglio di dieci anni dopo, una terminazione proibiva i cani vagabondi, e “prescriveva ai botteghieri di tenere tutto il giorno fuori della porta uno mastello d’acqua dolce e netta.”

Infine arrivarono i luglio del 1800: età di Rivoluzioni, Novità, Motti dolorosi e stravolgenti, eroismi e novità.

Curioso luglio 1815 ad Asolo coperta di neve, con freddo siberiano e branchi di lupi affamati che scorrazzavano per le vicine campagne.

L’anno dopo a Venezia, in luglio, venne messo sopra la porta centrale della Basilica Marciana un Leone di San Marco:“Ma é così smuntoche appare misterioso e morto di fame.” scrissero i giornali:

L’anno dopo ancora, tanto per cambiare: in luglio, il Governo Austriacomise in vendita a Venezia la gigantesca statua di napoleone eretta durante l'occupazione francese in Piazzetta dei Leoncini. Venne comprata dallo scultore Bosa per 3000 lire, ma prima della consegna la Polizia Austriaca ne fece sfigurare la testa a colpi di martello in modo da renderla irriconoscibile. Il popolo, inoltre, non fu da meno, per conto suo si era accanito con farle ulteriori “altri servizi”.

E siamo al luglio 1849, quando un anonimo Veneziano propose ironicamente di cambiare i vecchi nomi di ponti e calli veneziane con altri nomi affini moderni e più corrispondenti alla situazione politica del momento: Ponte Stortodoveva chiamarsi: Ponte dei Decreti, Ponte Caèna: sia detto della Libertà; Calle del Gambero sia chiamata Calle del Progresso ... e via così ... Se ne fece poco o niente per fortuna.

Nello stesso mese a Venezia, un brulotto (piccola imbarcazione)carico di materiali infiammabili provocò gravi danni alla Fregata Austriaca Venere esplodendo. Il nemico si lamentò che i Veneziani ricorrevano a mezzi tanto “vili” ... “L'Austria” commentarono ironicamente i giornali  Veneziani: “conduce una guerra delicata e generosa: bombarda le città, ma rifiuta i brulotti come cosa bassa e indegna. Dimenticando poi di averli usati per prima.”

Quasi a rappresaglia, nello stesso mese gli Austriaci inviarono su Venezia alcuni palloni aerostatici carichi di razzi incendiari affidandoli al capriccio del vento. Secondo le intenzioni degli inventori i palloni avrebbero dovuto incendiare irrimediabilmente la città. La trovata fu accolta con grandi risate dai veneziani. Sui giornali apparve un articolo firmato “el Gobo de Rialto”, nel quale si proponeva ironicamente che tutte le mogli e i figli dei Magistrati Austriaci, salissero sui tetti delle case provvisti di mantici per meglio dirigere i palloni incendiari.

Il  terribile bombardamento su Venezia però poi accadde per davvero, e gli Austriaci raffinarono non poco le loro abilità aeree. Svegliate in piena notte dal tremendo frastuono, le donne abbandonarono le case con i bimbi al collo, brontolando: “Nato d'un can de un Todesco, gnànca dormir in pase i ne làssa ... Viva Venezia!” Non fu episodico il bombardamento, ma durò ventiquattro giorni, provocò 120 incendi domati dalla popolazione rimasta sempre calma e disciplinata senza mai reagire in eccesso. Sulla città caddero circa 23.000 proiettili argutamente chiamati “narànze da Vienna”, che i Veneziani non mancarono di raccogliere andando a venderli all'Arsenale con discreto guadagno.

Intanto il Comando Austriaco di Piove di Sacco decretò … sempre di luglio … la condanna a morte di cinque patrioti: Giuseppe Bullo e Vincenzo Signoretto da Chioggia pescatori; Angelo Monticello da Pozzonuovo muratore; Antonio Marcolin da Pordenonefalegname, e Luigi Fernaroli da Fiesso di Polesine fittavolo. Erano stati catturati mentre tentavano di portare ai difensori di Venezia due barche cariche di viveri: due vitelli, undici pecore, quaranta polli, cinque cassette di limoni, quattro di uova. La sentenza di morte per fucilazione venne eseguita in giornata.

Nel luglio 1855, invece, venne impiccato Pier Fortunato Calvi di Briana di Noale sugli spalti di Belfiore. Calvi aveva organizzato e diretto l'insurrezione e la resistenza agli Austriaci nel Cadore; aveva partecipato alla difesa di Venezia, combattuto valorosamente a Mestre, Brondolo e Treporti meritandosi la promozione a Colonnello per merito di guerra. La sua fierezza e gentilezza commossero perfino i carcerieri e i carnefici Austriaci: al Giudice che gli lesse la sentenza di morte: offrì un sigaro; al boia che voleva aiutarlo a salire i gradini del patibolo disse: “No … Grazie. Le mie gambe non tremano ... Viva l'Italia!”

Nel luglio di dieci anni dopo, il Comando delle Bande Armate Venete emanò un proclama da Calalzo di Cadore per incitare alla riscossa contro gli austriaci: “Cadorini! Insorgiamo, nel santo nome d'Italia, per molestare alle spalle il nemico della nostra Patria, per tagliargli la ritirata, per minacciarlo ovunque tenti posare. I nostri padri, da questi monti, ci insegnarono a vincere o a morire. Dimostriamo al mondo ché sappiamo imitarli nel valore e nelle vittorie. All'armi, dunque, all'armi! Uniamoci tutti! Viva l'Italia !”

Pochissimi accorsero ... Anzi: Garibaldi si arrabbiò moltissimo. In realtà i Veneti avevano già avuto notizie su come i “liberatori”Piemontesi avevano trattato le popolazioni meridionali dopo averle “liberate”.

Poco dopo comunque, quando una frana di fango, massi e ghiaia precipitò giù dal Monte Antelao su Cancia, frazione di Borca di Cadore, seppellendo 13 case e uccidendo 12 persone, l’Assemblea Straordinaria di Pieve di Cadore venne aperta dal patriota Don Natale Talaminiche lesse e disse: “Come dopo settanta anni di schiavitù babilonica il popolo d'Israele risalutava le fatidiche rive del Giordano, così dopo settanta anni di servaggio straniero (dal 1796 al 1866) il popolo del Cadore risaluta la bandiera della libertà.”

Subito dopo, i delegati dei ventidue Comuni della regione, proclamarono l'unità del Cadore accorgendosi però ad ottobre che la bandiera della libertà non era più quella dello Stato Veneto, ma quella tricolore Italo-Piemontese dei Savoja.

Nel luglio 1885 si attivò a Venezia il nuovo Acquedotto che assicurava alla cittadinanza la quantità d'acqua necessaria seppure ancora non di buonissima qualità. In pochi anni a mezzo di condutture sublagunari, l'Acquedotto venne esteso anche a Murano, alla Giudecca, al Litorale del Lido e ad altre isole dell'Estuario.

Nel luglio 1893 a Venezia, durante il tradizionale Banchetto dei Gondolieriprecedente la Regata Storica sul Canalgrande, il Sindaco Riccardo Selvatico recitò per la prima volta la famosa poesia da lui composta per l’occasione: “No gh'é ne la storia del mondo una festa più bela più splendida Venezia de questa: incanto de popoli, de re e imperadori, delizia, martirio de artisti e scritori.  Superba memoria de un tempo passà, inutile invidia de çento çittà.”

Nel luglio 1903 morì anche il patriota Francesco Beltrame da Conegliano. Da giovane partecipò alla sommossa Padovanadell'8 febbraio1848 contro gli Austriaci, dove si batté usando come arma un grosso ciottolo e riportando quattro ferite da colpi di sciabola. Ancora convalescente, accorse tra i primi alla difesa di Venezia. Daniele Manin, commosso per il suo coraggio, gli disse:“Vàrda de guarir presto, e de farghela pagar cara ai Todeschi.”

Stava cambiando tutto però nei luglio del primo 1900.

Giusto a metà luglio 1902 alle 10 del mattino: il Campanile di San Marco ondeggiò lievemente, e calò adagio su se stesso cadendo: “Vinto da mortale stanchezza di secoli, il colosso se ga cufolà quasi gentilmente, senza causare vittime. L'orrendo fragore é seguito da un tragico silenzio sulla Piazza resa quasi buia dal polverone. Costruito su fondazioni romane nel IX secolo, colpito più volte da fulmini, scosso da terremoti, il campanile era l'orgoglio dei Veneziani, el paròn de casa ... In una guida del 1500 si legge: “Nol par cosa de piera, ma hora el pianze, hora el ride; el parla forte con la buòra, el sòna pian con el sciròco.”

Riunitosi d'urgenza immediatamente il Consiglio Comunale deliberò di ricostruirlo subito dov'era e com'era.

I grandi cambiamenti comunque erano ribaditi inequivocabilmente dalle notizie che arrivavano da fuori Venezia: “dalla campagna”.

I giornali di Vicenza registrano, con sorpresa nel luglio 1909, i progressi della circolazione automobilistica in città: “Quest’elegante e rapidissima vettura, spavento e terrore dei viandanti, affacciatasi timidamente all'alba del secolo, aumenta continuamente il suo passaggio, di giorno e di notte, per Vicenza. Nella sola giornata di ieri sono transitate ben quaranta automobili.”

Nel luglio 1931 si piantò su progetto dell’Ingegnere capo del Comune di Venezia Eugenio Mozzi, il primo palo del nuovo Ponte trans-lagunare a fianco al vecchio Ponte Ferroviario per unire Venezia alla Terraferma per via carrozzabile.

Infine il 9 luglio1935 morì a Villa Fietta di Paderno del Grappa, il Cardinale Pietro La Fontaine Patriarca di Venezia ... Uomo singolare, acuto, dotato di vasta cultura, scrittore in elegante stile. Di costumi semplici e austeri però, quasi ascetico, d'inverno rinunciò al riscaldamento nel Palazzo Patriarcale e negli ultimi anni rinunciò anche all’uso della gondola per essere povero come i poveri Veneziani.

Bel esempio d’uomo di Venezia sfiorito a luglio.

Quante cose successe a luglio a Venezia … e vivendo noi, ne stanno accadendo altre in più.

Redentòr: ieri come oggi

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 #unacuriositàvenezianapervolta 284

Redentòr: ieri come oggi



Incombe ormai la Notte Granda: quella Magica, la Famosissima, la Festa delle Feste Veneziane, “quèa de a gran magnàda co i fòghi sora a testa.” … Gli epiteti non mancano, e tutti sapete bene ciò che significa.

Ci sono tutti gli ingredienti in scena il Ponte sul Canale della  Giudecca è aperto, il chiesone votivo anche pieno di Fraticelli che vanno e vengono mascherati, gli zatteroni con i pirotecnici sono allestiti, le rive piano piano si stanno affollando di tavoli e musica, Veneziani, invitati e  gente.  Le cucine ribollono ormai da un pezzo per preparare prelibateze … e non, così come le fondamente della Giudecca e delle Zattere sono tutta una passarella di barche, barchette e barconi con il solito sfoggio di chi vuol dar da vedere d’avere il meglio e il più grosso ... La plebaglia che s’accalchi pure sulla riva … com’è sempre stato.

Ritorna una Giudecca e una Venezia notturna festosissima, satura allo spasimo d’attesa, di popolo e allegria, di luci, atmosfere e colori. Una Venezia sudata, palpabile, corporea, eterogenea e multietnica, ma capace ancora una volta d’indossare l’abito da sera. …

Sentite un non dimenticato Venezianissimo D.O.C. che mi piace tantissimo.

Ancora nel 2004 scriveva sul “Nostro Redentor dei àni andài”. 

Secondo me sa riassumere benissimo il sapore autentico di Venezia da non dimenticare e perdere: “Se parla tanto de la Notte Famosissima attuale, ma a confronto de quella dei nostri tempi questa xè una paccottiglia fatta ad uso e consumo dei turisti. Voglio invece far conoscere come eravamo usati noi di quei tempi, e nel Sestier de Santa Croxe, a festeggiare degnamente questa nostra festa, seconda forse solo al Nadal (Natale) … La narrerò cusì: un po’ in lingua forèsta e ’na scjànta in lengua nostràna.

Dònca: se cominciava un par de setimane prima. Intanto nostro pàre prenotava una batèla da Romano a Sant’Agostin par andar a prenderla il sabato mattina per prepararla. Poi per le due domeniche prima andavamo con i sàndoli,  a do, a do: zii e nevodi e fradei, in giro per la laguna in cerca del “mastego”: i più gagliardi anche la sera, “ a fajaròto co l’acetilene” per pescare quello che si trovava. I più veloci, invece, per le isole in cerca di “comprare” (con la fionda…) qualche ànara di quelle che erano abituate a girare per i canali, vicino alle case dei contadini ... Quelli che andavano a pesca erano dispensati dal rientro presto alla sera, in quanto i “sfogi” si prendevano alla notte. Ma comunque c’erano sempre le sardèle da comprare a Rialto. 

La cerimonia del “saòr” iniziava immancabilmente al martedì. Nel frattempo i più piccoli dei fratelli e cugini, aiutati dalle mamme, preparavano i “baloni”, con la carta colorata, colla, e bastoncini di “grisiole”. Al sabato mattina tutti assieme ad andare in giro per i giardini a prendere le fresche frasche per coprire la barca: il primo giardino a fare le spese era quello del Palazzo Cappello in Rio Marin, sede della Guardia di Finanza, dove, complici i piantoni, prendevamo la maggior quota, assieme alle rame di làvrano (alloro), oppure andavamo in giro per i rii dove sapevamo esserci delle frasche a picandolòn fuori dei muri dei giardini. Al pomeriggio si iniziava la preparazione della barca: quattro “mezi murali” ai lati, spaghi in abbondanza per tenerli e per la struttura della copertura, quindi si posizionavano sopra le frasche. Si metteva la tavola e le banchine, fatte con un paio di tavole da mureri e si cominciava a fornire la barca: candele, acqua, vino, ànare, saòr, polenta, fasiòli cònsi, patate, angurie (messe in acqua dentro dei sacchi e legate alla barca per mantenerle al fresco), ultima di tutti arrivava la nonna, accolta con un bel battimano. Dal Rio de le Muneghette, dove abitavamo, dovevamo andare alle Zattare a San Basèjo. Si usciva dal Rio Marin, Canalazzo a Santa Chiara, Canal de Scomenzera e Zuecca, e finalmente: San Basejo. 

La Galleggiante era posizionata davanti al Molino Stuky, ed era uno spettacolo vederla. Il pontile d’attracco delle navi dell’Adriatica era gremito con tavoli e sedie e pieno di gente che cenava. Lo stesso dicasi per tutti gli altri pontili dei bar e della Bucintoro. 
Alle nove in punto spegnevano tutti i fanali delle rive della Zuècca e delle Zattare, venivano spente le luci della Galleggiante: rimaneva accesa solo la chiesa del Redentore, e i “padelàri” 
(padellieri) accendevano i loro padelloni con le candele rosse, ad una distanza di circa 10 metri l’uno dall’altro. Tutto il Canale della Zuecca era di un colore rosso veneziano, e vedere la barche con i palloncini accesi era uno scenario impossibile da narrare.

Quando i padelàri avevano spento l’ultima candela, iniziavano i primi fuochi da dietro Stuky e duravano circa mezz’ora. Dopo di che si riaccendevano le luci e iniziava la Festa: chi vogava, chi mangiava, chi cantava e suonava, ci si riconosceva da una barca all’altra, si legavano le barche l’un l’altra per stare più in compagnia, e ci si scambiavano le cibarie, i complimenti alle varie nonne che avevano cucinato tutto quel ben di Dio si sprecavano. Alle volte ci si avvicinava alla Galleggiante per ascoltare la musica e per intonare i cori delle canzoni rigorosamente veneziane. Alle dieci e mezza iniziavano i secondi fuochi, dietro la chiesa del Redentore: il segnale veniva dato dai fanali che si spegnevano. Intanto la Galleggiante si era spostata al Ponte Longo. La seconda ondata finiva verso le 11, 15. E si ricominciava come prima. Intanto ci si spostava tutti, piano piano, verso il Ponte Votivo per passare sotto e inviarsi verso il Bacino San Marco, e si spostava anche la Galleggiante fino al Redentore. E sempre cantando le nostre canzoni: nessuno si azzardava ad accennare un “O solo sole mio”, o “Funicolà”: arrischiava un bagno fuori programma!

A mezzanotte, dopo che la Marangona aveva finito i suoi rintocchi, iniziava la terza, e la più bella fase dei fuochi: da San Zòrzi (San Giorgio Maggiore). La bellezza dei fuochi di quelli anni è ancora negli occhi di quelli della mia età: quelli di oggi, quando si riesce a vederli, si dimenticano subito! Poco prima dell’una si avevano i tre “botti” finali, e tutto finiva. Allora c’erano le barche che si accalcavano attorno alla Galleggiante per continuare la Festa in canale e sulle rive sia della Zuecca che delle Zattare. E la festa continuava fino all’alba. I più giovani, e senza anziani a bordo, si avviavano verso il Lido per aspettare lì l’alba. 
Rammento che le barche erano talmente numerose che si poteva passare dalla Zattare alla Zuècca attraverso le barche! Non c’erano maxitaxi, non c’erano i barconi gran turismo, motonavi, cabinati … La festa ERA NOSTRA, non “multietnica” come è costumanza d’oggi! 

E’ dagli anni ’70 che è stata trasportata tutta in Bacino San Marco! … Questi governanti ce l’hanno scippata di brutto per favorire gli interessi degli albergatori e delle agenzie di viaggio. A noi veneziani lasciano solo l’incombenza di fare da comparse, e gli occhi per piangere!


La Festa del Redentore, come è ben noto, è stata istituita quale ringraziamento per lo scampato pericolo della peste del 1574. Il Tempio del Redentore, su progetto del vicentino Andrea Palladio di Pier della Gondola, è sorto alla Giudecca e le feste a esso dedicate sono sempre state fatte alla Giudecca. La Signoria inoltre, per agevolare il flusso dei veneziani al Tempio, fece da sempre gettare dei ponti di barche attraverso il Canal Grande e il Canale della Giudecca. In questo modo le Feste coinvolsero tutti i Veneziani delle Contrade dei Nicolotti, ossia: Giudecca, Zattere e zone limitrofe, e la Città intera. Fino a pochi decenni fa, la Festa si continuava tra l'attuale zona di San Basilio e le Zitelle. La festa si svolgeva, come adesso, nella terza domenica di luglio, continuava fino al 29 dello stesso mese: festa di Santa Marta. Era una festa molto e molto sentita dai Veneziani: vi si svolgeva il ''palo della cuccagna'' in acqua, il tiro alla fune da una fondamenta all'atra, corse con i sacchi, la gara delle ''Lavandere'' (non va dimenticato che Santa Marta era la Patrona delle lavandaie): “.. de larghi sfogi çercar l’aquisto unir compagni de alegro cuor e a Santa Marta, coga de Cristo, farghe la dedica de un bon saor…”

 


Venezia respira ancora di Tradizioni e Storie nell’afa estiva di luglio … Serve un po’ di orecchio per ascoltarle, e un po’ di voglia per lasciarsi prendere e portare perché tutto non perda il suo buon significato.

Pettegolezzi e Cronachette della Venezia di ieri.

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#unacuriositàvenezianapervolta 285

Pettegolezzi e Cronachette della Venezia di ieri.

Mia Suocera, buonAnima, si dilettava a raccontarmi di come aveva vissuto fin da ragazzina e da donna nella sua Contrada dell’Anzolo Raffaèl nel Sestiere di Dorsoduro qui a Venezia ... Per me era una goduria fermarmi ad ascoltarla a volte: “La Contràda dell’Anzolo gèra un mondo a parte … Già oltrepassare il ponte e la calle del Confinio era come fare un viaggio, affrontare un’alterità ... Quelli delle altre Contrade erano Venessiàni di sicuro, non Forèsti (forestieri), ma erano in ogni caso estranei, di un’altra banda, di un altro modo diverso d’essere … Se viveva intensamente in Contrada: tutti stretti, vicini, giustapposti, quasi fossimo un’unica cosa: una grande e allargata famiglia … Se una mattina non si riapriva come sempre una finestra, era subito allarme e pubblica domanda e preoccupazione … Se si combinava qualcosa d’insolito o losco, se si frequentava un amante: tutti lo venivano a sapere in pochissimo tempo … Niente sfuggiva, si era tutti “miciziài” fra noi, quasi parenti … Qualsiasi cosa accadeva era subito e sempre affare di tutti: un immediato congetturare e interrogarsi su come, chi e perché … Niente sfuggiva a chi abitava in Contrada: l’orizzonte comune era quello, non c’era nient’altro.

“Ninna oh ! … Ninna oh ! … Tre civette sul comò.” cantavamo dentro alle caxette ai piccoletti nelle culle. Li ninnolavamo di braccia in braccia, come fossero di tutti ... In un certo senso si nasceva, cresceva, viveva e moriva in compagnia: sempre dentro alla stessa Contrada: “Lola ha le scarpe nuove … Ma non manda i figli a scuola … Che è successo ? … Che avrà ?” non era solo una canzonetta da canticchiare: ma dipingeva la realtà che avevamo davanti agli occhi.

Le Contrade erano luoghi d’infiniti pettegolezzi … Era quindi tutto un continuo osservare, bisbigliare, congetturare, raccontare, cercar risposte e spiegazioni, riferire e commentare … Era la regola comune del vivere dei Veneziani di ieri ... Se mancavi un giorno, chi t’incontrava si sentiva in obbligo e dovere d’aggiornarsi su di te, come tu facevi sugli altri.

Chi portava una novità avvertiva la sensazione di poter in un certo modo destabilizzare un po’ la vita e la quiete di tutti … Si poteva essere un uccello del malaugurio, ma anche “un benedetto” che portava buonenuove scuotendo un po’ tutti dal torpore e dall’appisolamento delle cose quotidiane sempre uguali, sempre le stesse … La novità ti costringeva a pensare e a reagire ... Magari fuoriusciva dalla Locanda o dall’Osteria, o dalla bocca di qualche Serva-Massera di qualche Nobile o Monastero … Era come una ventata d’aria fresca, una puntura sul vivo che ti faceva scrollare di dosso la solita quotidianità opaca scandita dal suono della solita campana, e dal ritmo sempre uguale dell’acqua: “che sei ore a crèsse e sei ore a càla”.

Dal Fruttivendolo-Verduraio, dal Fornaio, in Pescheria o dal Biavaròl non si andava solo per comprare, ma anche per “sapere del Mondo”, e lì come gli uomini in Osteria o dal Barbiere, arrivavano le notizie portate dalla barca che passava per i canali provenendo dalla Terraferma, o dal barcarolo de Casàda che tornava dopo aver barcamenà i Siori, i Nobili, i Paròni e i Mercanti in giro par i Fonteghi e Rialto, o sulla Muda in partenza o in arrivo dai Moli di San Marco dove approdava il Resto del Mondo, dell’Oriente e del Mediterraneo … La Contrada della mia giovinezza e infanzia è stata come un laboriosissimo formicaio, chiuso e spalancato insieme, perché sempre con orecchio e occhio attenti sul destino di tutto il resto del Mondo.”

Quanto mi piaceva ascoltare quella donna !

“I Sjòri vivevano dentro alle loro alte mura, chiusi e sorvegliati dietro ai possenti portoni … Come in mondi speciali alieni, microcosmi riservati a parte … Erano come un’altra Storia, persone per le quali il Tempo pareva scorrere in maniera e con ritmi diversi … Uscivano per acqua, dalla Porta da Mar per non mescolarsi col resto della plebaglia e col popolaccio senza nome che gravitava sempre e comunque attorno a loro … Anche di loro si doveva sapere tutto … Perché no ?

Si sapeva bene che lì dentro a quelle corti chiuse, e a quei palazzi pieni di tutto: mangiavano, bevevano, si vestivano lussuosamente, e si divertivano facendo di tutto: musica, feste, canti e balli … Sapevamo che avevano il denaro, col quale progettavano di andare a commerciare fin in capo al Mondo … Sapevamo dello stuolo grando o piccolo dei domestici che avevano, dei Fattori e dei Procuratori … Avevano i libri e la Biblioteca, le opere d’Arte, i gioielli, la cassa armata di famiglia con i Libri dei Conti, e l’Oratorio privato per vedersela direttamente con Dio … Avevano il Prete o il Frate di Casàda, che spesso era anche tutore ed educatore dei figli, e delle Nobilissime Signore ... A volte non c’era distinzione e confine fra Palazzi e Monasteri, perché i Nobili e le Nobildonne diventavano Badesse e Vescovi, e Cardinali, Alti Prelati … Dentro ai Palazzi si leggeva, scriveva, pensava, parlava, cantava, poetava, danzava, suonava, governava e comandava … Si progettava e costruiva Venezia.

I Siori comunque erano umani pure loro … Di notte anche i Nobili sognavano alla stessa maniera di tutti, e anche a loro capitava ogni tanto di svegliarsi ansiosi e avvolti dal terrore angosciante della Peste, della Morte o della Guerra, che facevano tremare e preoccupare tutti indistintamente ... di tutto questo si voleva sapere noi della Contrada … di come Venezia in fondo unificasse tutto e tutti in un’unica coloratissima gioiosa e triste Storia.”

Verso mezzogiorno in una Malvasia sconta presso la Calle della Bissa in Contrada di San Lio, davanti a un “bòn gòto de vin: una bella ombrètta e un cichèto”, due Bastàzi(facchini)della Stadèra(bilancia pubblica)de Rialto si spartivano e raccontavano il loro quotdiano sentire: “I te gha ditto del vagabondo che gha buttà in acqua el so compare de disgrassie a Rialto ?”

“No.”

“I abitava in strada insieme sotto alle stesse volte dei Porteghi de Rialto ... Quelmalciapà buttà in canal, forse imbriàgo, nol xè venùo più su … Forse gèra troppo gelide eacque de a Laguna, o forse troppo grève e gonfio el capotòn ch’el gavèva indosso ... I gavèva sbarufà tutta la notte par gavèr el posto mègio e riparà sotto al pòrtego ... Che brutta fine ! … Morto nègà(annegato).”

“In che mondo che vivemo ! … Gho sentiò che i Tintori Lucchesi protesta par a so condizion … Cossa dovarissimo dir noialtri Venessiani che semo sempre qua da secoli a tataràr (lavorare)?”

“El mondo gira e volta xè tutto ugual … Se venùo fòra che a la Zuèca (Giudecca) che xè un Prete Brigante, e anca un Prior d’Ospissio ch’el se gha rancurà un bel  gruzzolo in campagna a spese dei vèci miseri ... Che schifo !”

“E l’ultima ? Ti a gha sentia ? … Gli Avogadori da Comun gha condannà a un anno de prisòn Sandro Lombardo.”

“Chi ?”

“Lombardo dai ! … Non ti te ricordi: “el sbirro de Rialto” !”

“Ah: si ! … Quello che praticava l’Angela da Zara, la puttana che lavora e abita al Castelletto de Rialto … Dentro al postribolo de le do matrone: la Lucia Negra e l’Anna da Verona ... Si … Adesso gho presente.”

“Si … Proprio lu … Se dise in giro, che un bel giorno le donne non gliel’hanno data come il solito, e lui ubriaco, dopo un violento litigio con loro, gha appiccà el fògo (fuoco) a tutti i letti che ghe veniva sottomàn ... Par fortuna che xè accorsi subito Bastazi e Arsenalotti a stuàr (spegnere) tutto, altrimenti tutta Rialto saria deventà un gran fogaròn ... Alla fine el xè sta interdetto in perpetuo dal mestièr, e da ogni Pubblico Ufficio, e i lo gha messo al bando a vita dalla zona del Castelletto … Se i lo trova un’altra volta a bazzicar là dentro e a infastidir le donne: el xè morto ! … I pol copàrlo sul momento.”

“A Repubblica no scherza caro mio ! … I Signori di Notte, i Cinque a la Pace, e le Guardie Sestierali i xe pratici, immediati e decisi nel far Giustizia ... I xè temibili, no i vàrda in faccia a nessun … Basta do testimonianze scritte, un inseguimento, una cattura e un verbal … che ti xè degià morto stecchio.”

“Anca màssa ! … O quasi … Dipende da quanto che ti xè disposto a sborsàr.”

“Par carità ! … Se sa ben … Tutti sa che anca lori i xè gente violenta che mèna e man, ma anca: corrotti e arroganti … I xè spesso coinvolti e  pressolài, i maneggia, imbrògia, i vende tutto e tutti … Anca so màre se fosse el caso, pur de ottener qualcosa.”

“Però quando che i se attiva, i va par e spicce: i tàgia man, i cava qualche òccio, i fa saltar qualche testa, e i butta certi in prisòn oscura e serada buttando via a cjàve ... I fa Gistissia insomma.”

“SI … Più o meno … Dopo i ghe arraffà e intàsca tutto queo che i pol ciapàr … e alla fine ai disonesti e ai traditori i ghe butta xò a casa par far mostra e dar bon esempio.”

“Xè giusto dai ! … Chi perturba, fa sollevation contro el Ben Publico ... Chi sussurra in Consiglio per far nuovi ordini, o congiura volendo abbatter il GovernoChi solleva el Popolo, xè parzial e ribelle, o millanteggia e tratta co i nemici, o xè mandatario, parteggia, o aderisse ai Signori Esteri … Xè giusto che ghe vègna confiscà tutto, che i vègna picài a testa in zò, strangolai in prisòn, annegai e decapitai fra e do colonne in Piazzetta … Xè ben che i vègna squartai e appesi in quattro parti perché tutti veda, sappia e capissa.”

“I  farà a fine de Gerardo “dalle lance longhe: traditor”, ch’el gèra prima tanto contestabile e stimà: capo dei Fanti dell’Esercito della Serenissima durante l’assedio de Trieste ... Dopo el se gha schierà co i Triestini aprendo la porta della “bastia” Veneziana: i li gha fatti entrar ... Ti sa che fine ch’el gha fatto vero ? … I lo gha lancià vivo con un mangano direttamente sul campo dei Triestini … e fine della storia.”

“Me vien in mente anca de: Giacomo Morellato e dei tre Preti traditori che concertava coi Carraresi de Padova d’incendiar Venezia … I ghe svelava ai Padovani i progetti dei Veneziani che assediava la città gettando biglietti co saette (frecce) dentro a le mura ... I li gha picài a testa in zo in Piazza, per ordine del Consiglio dei Dièse, mentre altri li gha cussii dentro a sacchi e annegai al Lido … I Novello da Carrara i li gha strozzai tutti in prisòn insieme ai fiòi ...” (1405).

“Come (1416) Giorgio Bragadin, che gèra Ufficial al Sal … El gha intacà a cassa, e sottratto ingenti somme frodando mèza Venessia … Dopo el xè scampà a Portogruaro, dove el gha sparlà a tutti de Venessia ... I lo gha bandio appiopàndoghe una taglia de 10.000 lire … Impudente, el xè venuo a Venessia lo stesso, el xè finio piccà fra e do colonne.”

“Come Enrico de Brabante strasinà a còa de cavallo par mèza Venessia, e dopo squartà perché el gavèva provà a incendiare l’Arsenal spedio da Filippo Maria Visconti (1426)

“Come Francesco Carmagnola: Gran General d’Armata, ma traditòr de a Repubblica … ch’el xè finiò decapità e cavà de lengua perché non parlasse e imbrogiàsse più.”

“Xè vero … I o gha sepeìo ai Frari (1432).”

“Beh: Malipiero racconta che a volte basta davvero poco … Bartolammeo Memmo xè sta appiccà fra e Colonne Rosse de Palazzo Ducale perché el gha maltrattà a parole Domenego Erizzo, e perchè el gha da “del bècco” al Doge Cristoforo Moro (1471).

“E Andrea Contarini allora ? … Ti o desmènteghi ? …  I ghe ga tagjà a man destra, e po i ghe gha messo el capestro per aver da una botta sul naso al Doge Francesco Foscari (1430).”

“Se xè par queo: Santin Benzòn ribelle xè sta tirà par un pie co una cadèna in una barca par tutta la Brenta … I o gha rimorchià finchè no xè restà più niente, e el xè sta consumà dai pèssi (1510) … Amedeo da Cologna xè sta appiccà per aver esploso una pistola in Piazza San Marco el Venerdì Santo durante a Procession: el gha fatto impaurir tutti (1522).”

“EAlessandro Bon ti o ricordi ? … I ghe gha cavà a testa, perché el se gha inventà de rivelàr una falsa congiura per intascàr un premio (1566).”

“E Francesco Fulin ? … che l’andava a robar i effetti de i morti de Peste ?” (1575)… Appeso anca lu.

“Giusto così ... I gavaria dovùo anca brusarlo quel sacrilego privo de ogni rispetto par i Morti !”

Le notizie delle pubbliche sentenze giravano e rigiravano di continuo per Venezia generando sempre gran chiacchiericcio e clamore saltando di bocca in bocca:“Nobile o non Nobile … I ghe gha spicà a testa fra le colonne anca a Gabriele Emo … El gha assalìo in tempo de paxe una Galea Turchesca passando a fil di spada tutti i homini, e gettando in acqua tutte le donne … Troppo fanatismo … e soprattutto: troppa fame de far bottin e saccheggio(1585)... I gha copà anca queo che imbriago che gaveva perso una gran somma al gioco, el xè andà par strada bestemmiando e ferendo col coltello un’immagine della Madonna: tratti de corda a cavallo fin davanti al Capitello sfregià, taglio de a lingua e d’un orecchio, e dopo: decapità e squartà … Giustizia fatta (1557).”

“Come co GianBattista Pesaro, che i gha appiccà coll’archibugio attaccà ai pie (piedi) … Cusì el gha smesso de attentar alla vita de Carlo Zane: suo suocero.”

“Beh: qualche volta i se sbaglia … Come quea volta col povero Forner Piero Faciol, che i gha impicà come omicida … Dopo i gha scoperto ch’eò gèra innocente … Troppo tardi (1507).”

“Qualche volta però ghe vol proprio sentenze del genere: come quando i gha decapità e brusà el Prete Francesco Fabrizio Titolato de San Zulian e Cappellan de a Scuola de San Rocco … El gèra anca Maestro de Scuola del Sestier de San Marco, e l’approfittava de a so posizion par insidiar i putei … El Cosiglio dei Diee lo gha sistemà par e feste ... Ghe sta ben … a quel porco ! Ch’el vàga nel più profondo degli Inferni ! (1545)

“Come el Prete Piero Leon Rettor dell’Ospizio de le Convertite della Giudecca, che gha fatto peccato carnal costringendo tutte le recluse (1561).”

“E Alvise Negro el Cordellina ? … Stessa fine dopo aver lungamente usà carnalmente de so fia ... Homo degenerà.”

“Condannà a carcere a vita anca ella però: perché a gèra d’accordo(1556).”

Storie, storie … storie di Storia capitate a Venezia fra acqua e cielo.

Era già passata da un bel pezzo la prima ora di notte, quando giù per le scale di Palazzo Ducale uscivano in strada dalle Cucine del Doge, chiacchierando fra loro: un lavapiatti, un aiutocuoco, e un cameriere del Doge: “Che giornata ! ... Che lavoràda ancùo!”

I Nobilissimi commensali se n’erano appena andati da poco scomparendo nel buio notturno Veneziano dondolati dentro ai Felz delle loro sontuose gondole: “Che pranzo che gha organizzà el Doge Gritti ancùo!(1523)

Tutti i Venessiani sa quanti maneggi ch’el gha fatto par essere eletto Doxe … Tanto xe vero che el Popolo non l’ha neache applaudio quando el gha gettà el denaro in Piazza durante el giro in pozzetto: troppo falso ... Neanche i regali de Farina, cibarie e Legne gha sortio effetto …  El Popolo Venessian gha occi e rècce: no perdona.”

“Ma al Doge no ghe interessa: a lu preme de tenerse boni quelli che conta ... Ancuò el gha organizzà un gran pranzo par i quarantun Patrizi che lo gha sostenùo ed eletto ... El xè andà avanti mesi a procrastinar l’appuntamento per via de le complicazioni politiche co Francia, Germania e Italia, ma ancùo (oggi) dopo tanti rinvii: el gha fatto un gran desinàr nella sala granda de i so appartamenti privati.”

Racconta il Diarista Marin Sanudo lo stesso fatto: “Tre ore prima di notte cominciarono a venir gli invitati in la sala parechiada con fogàre et co gran lusso de damaschi e drapi de veludo, et il Doxe era vestido de restagno d’oro, di martoro, con un manto bianco e oro a fiorini et la bareta etiam bianca con frisi d’oro e col bavaro di armelini.”

“Non erano presenti tutti i suoi amici, ma solo trentaquattro su Quarantuno perché Sier Antonio Tron Procurator non va a niun pasto, Sier Pier Boldù, Alvise Diedo e Zuane Bolani erano fuori di la Terra (città), Sier Andrea Foscolo xè Locotenente in la Patria del Friul, Sier Zuan Moro non xè venuo per la morte di Sier Sebastian so fradelo, e Marco Contarini xè malado“

Il banchetto fu sontuosissimo: dieci portate con concerto Musicale e canto di virtuosi: “Sarà costado almeno trecento ducati … Portata prima: Zenzaro (zuppa) verde in taze, bozolai, scalete e vin di Malvasia ... Secondo piatto: uno fazan per un, smembrado, rosto, vin de Vernaccia … Terzo: Caponi lessi, carne de vedello, manzo bianco, vin moscado ... Quarto: Pavoni e Nomboli rosti, savor co i vovi ... Quinto: Pernise e Caponi rosti, Fugazine, vin grego …. Sexto: Colombini e Lònze de vedello roste, salade e patate ... Septimo: Torte, una zala e una bianca, cavi de late in taze, vin de Cipro ... Octavo: Marzapani, naranze e pomi ... Nono: Aqua odorifera a le man ... Decimo: Confeti di varie sorte e vin de Friuli bianco ... Alla fine a tutti i commensali xe sta consegnà un cestèo d’argento pien de confetti con lo stemma del Serenissimo Principe.”

“Che Paradiso e gran Cuccagna !”

“Già … Nell’allestir festini e festoni a Palazzo Ducale, noi Veneziani non siamo secondi proprio a nessuno ... Ricordo el pranzo nella Sala del Maggior Consiglio par Enrico III Re di Francia ?(1574)…. Nella sala addobbatissima e degnamente apparata spiccava su tutte le tavole quella del Re coperta da un baldacchin di broccato d’oro finissimo ... C’erano almeno 1200 pietanze predisposte, e si era pronti a soddisfare almeno 3000 persone ... Si sarebbe potuto aspettarsi più lusso di quello ? … miglior sollecitazione de la sensibilità, del palato e del buon gusto ? … Non credo proprio.”

“Sotto al Cielo della Serenissima se rimane sempre a bocca aperta, a pancia piena e soddisfatti ... Venezia sa sempre concedere il meglio del meglio quando ci si siede a tavola … Non sfigura mai, anzi: tutti hanno da imparar da lei … Ho visto sedere accanto Gentil’huomini, Patrizi e Nobili d’ogni sorta, e c’erano: Ambasciatori, Cardinali, il Nunzio Apostolico, e Duchi, Cavalieri, Procuratori, Senatori della Repubblica e una folla di Delegati e Consiglieri … Ho perso il conto delle vivande sofisticatissime, delle cacciagioni, dei pregiati Colombini, Fagiani, Pavoni, Pernici e Galli Cedroni … e poi: i confetti, gli zuccheri lavorati in fantasmagoriche e illusorie figure e rappresentazioni araldiche e allegoriche(spongàde)... I Marzapane (1530) venivano offerti “con figadeli in loco di pan", e poi ancora: dolci a base di pinoli (pignochàe), pistacchi (pistachee)farina, mandorle serviti con amido e Acqua Rosata (saònie)e storti (cialde), focaccine, bussolai (ciambelle), fritole e cai de late (panna) ... Si seguiva la moda lanciata da Zorzi Corner Cavalier (1508), che offrì una “colatione” a Bartolomeo d'Alviano, riproducendo in zucchero tutte le recenti conquiste fatte dai Veneziani a Gorizia, Cormons, Trieste e Pordenone, condendole con stupefacenti immagini di castelli, navi, ninfe, animali, personaggi e stemmi.”

“Beh … Quest’ultimo di oggi è stato un banchetto speciale, aggiunto ai soliti che si tengono sempre a Palazzo nei giorni di Santo Stefano, nella Festa di San Marco, il giorno de la Sènsa, e nei giorni di San Vito per ricordare la congiura sventata di Bajamonte-Tiepolo, e nel giorno de San Girolamo … Si spendono sempre parecchi denari, e c’è sempre un tripudio di vasellami pregiati, scelti manicaretti, primizie, regali, e fiumi di Vino dall’Oriente e dall’Occidente … Uno spettacolo ogni volta.”

“Chissà quanto verrà a costare alle casse della Repubblica tutta questa magnificenza ?”

“Tutti lo sa … El Doge Pisani de Santo Stefano (1755)ha speso 2.075 ducati per il solo banchetto del giorno di Santo Stefano; 2.235 per quello de San Marco; 2.444 per quello dell'Ascensione … Addirittura: 4.764 per quello dei Santi Vito e Modesto, e ha speso 573 ducati per quella che ha denominato “colaziòn de San Girolamo” … Tutte spese come da dota de Matrimonio: migliaia di ducati per volta … Xè sempre un tripudio de canti e suoni dei Virtuosi Musici portài a Palazzo dalla Cappella Ducale de San Marco, e ghe xè recite e improvvisazion de Dame singolarissime, giochi, rappresentazioni di favole pastorali e comiche, litanie di mottetti e sinfonie, danze e tanto altro sotto ai soffitti che ritràe Venezia Serenissima seduta a tavola col Tempo, con Nettuno e Bacco, fra Virtù e i Vizi e ogni forma di Verità della Storia.”

“Però ! … Che esborso che fa lo Stato !”

“Ma no ! … Sembra tanto, ma spesso tutto questo vien a costare al Doxe quasi niente, perché a Serenissima da sempre se gha premurà de caricare su altri la maggior spesa de tutto sto festeggiar … Convitti e banchetti di Stato da tempo immemore vien puntualmente rifornii dai Pescatori delle comunità di Chioggia, Grado, Caorle, Pirano, Adria, Loreo e Marano … Di queste obbligate forniture se ne fa quasi una questione di Stato e di Fedeltà alla Serenissima, tanto che queste cittadine suddite vien puntualmente sollecitàe, riprese, e perfin chiamae ad udienza se per caso le tarda nel loro “dovere” de rifornir el Palazzo.”

Magie della Politica Veneziana … Ieri come oggi: non è cambiato nulla.

“Che lusso soverchio e smodato però ! … una Serenissima godereccia da e man sbuse.”

“Vero … La Serenissima se xè accorta de esageràr … Infatti, per salvare la faccia oltre che le casse per la Guerra, ha messo più volte freno a tanta eccessiva opulenza  … Nel 1497 un viaggiator Tedesco giunto a Venezia xè rimasto stupefatto nel vedere una bella giovane sposa de un ricco Cittadin Veneziano: “Indossava gioie di non meno di seicentomila ducati di valore.” ha scritto. (Viaggio in Italia nel 1497 del Cavalier Arnolfo di Harff di Colonia sul Reno).”

“I Sopraprovveditori e Provveditori alle Pompe gha deliberà sommariamente de ridurre e calmierar il fasto de certi convivi, comprese certe feste monacali o di nozze, e le esagerazioni de le Compagnie Cittadine  … Basta nozze da capogiro “in restagno e panno d'oro”, e con doti da sproposito da diecimila ducati come quella della figlia di Zuan Francesco Loredan quondam Marco Antonio, "bellissima zòvene",  che sposò Zuan Francesco Giustinian quondam Girolamo il 18 febbraio 1531 … Basta “diabolici strascichi e zoccoli decorati e intarsiati, troppo alti che allungano ulteriormente le vesti rendendole ancora più costose … Basta ventagli d’avorio e osso lavorato in oro e argento, adornati di perle, e con pregiate pellicce de Lovi Cervieri, Linci et Zebelini e penne esotiche: “Semplicità, essenzialità." Ha gridato il Decreto ... Basta cappelli e cappelletti costosissimi e stravaganti in testa, ma si usino solo semplici "scùffie d'oro et d'argento", e niente di più ... Anche i pasti di carne, ad esempio, non dovranno avere più di una portata di rosti e lessi, nelle quali non dovranno esservi più di tre sorte di carne diverse … Basta montagne di Polli, Galli, Colombini Fagiani, Pavoni e Selvaggine indorati sui vassoi “in foglia d’oro” … e basta anche al pescato, ai fritti, agli antipasti, ai saladi, ai marzapani e confetti, che non potranno essere più di due … Le Ostriche, ad esempio, si potranno servire solo in banchetti con non più di venti persone ... e l’indicazione ufficiale è che le Colationi siano semplici e servite in stoviglie di terracotte e rame, e non più d’oro e d’argento … Sono cambiati i tempi: si fa austerità ... pena anche qualche multa salata per chi non si adegua avventurandosi nel proibito ... e bando, privazione degli Uffizi, e prigione per chi è recidivo o non vuol ascoltare e adeguarsi.”

“Hanno ragione … Venezia è diventata fin troppo libertina e impenitente, oltre che troppo buongustaia ed edonista … E’ conveniente un vestire schietto, sobrio e honesto, di un solo colore, anche se rimarranno lo stesso i veludi, i rasi, i damaschi e gli ormesini, i broccati, i merli, le sete e bavelle … Venezia non ci si ridurrà mai in penosa miseria, ma si dovranno evitare le code eccessive, le cascate sgargianti d’oro e d’ argento, le zogie di ogni sorta pendenti da ogni parte, le camiscie lavorate in lusso davanti e in cavezzo, anche dove nessuno vede.”

“Si … Proprio così: basta ricchi festoni su porte e finestre, i tamburi, le trombe, i pirotecnici che scoppiano come artiglierie a squarciare la quiete di calli e campielli a ogni ora … Basta Donne vestite da Madonne con strati su strati di Martore, Zibellini, Armellini e pelli pregiate addosso, guanti lavorati in oro e argento, manicotti, medaglie, bracciali e collane pesanti da fa piegare la testa, capelli imperlati di rare lavorazioni di vetro o smalto intrecciati a cordoni d’oro.”

“Un po’ di buon senso insomma …”

“Si … Basta petti e seni prosperosi ostentati al vento … E’ giusto che vengano ridotte barche e carrozze smodate, abbellite con mille stramassetti e pennacchi, le gondole con i Felzi dipinti, ricoperti di seta, arazzi e panni … e tutti quei valletti, famègi e barcaroli addobbati come Re, e come il Doge per la Festa de la Sènsa …. Solo alle Autorità sarà lecito usare cose prestigiose per dar lustro alla Repubblica…  Dentro alle case e palazzi non si dovranno più usare lenzuola e guanciali lavorati in oro e d'argento, ne baldacchini e apparati di seta, e padiglioni stuccati e dipinti ... I decreti sono chiari: non ci dovranno più essere Battesimi e Cresime con più di sei Compari … che non dovranno regalare se non un marzapane ciascuno  … senza altre cose mirabolanti, anelli, e donativi in denaro superflui … Non si dovranno  più superare i 20 ducati di spesa.”

“Venti ducati al massimo ? Ma quale Nobile si manterrà ligio a questo limite di spesa ?”

“Nessuno si sa … Ma Venezia intende dire che “il troppo stroppia” … e che i Veneziani devono smettere di sentirsi come quei mitici Dei Gloriosi dipinti su soffitti e pareti … Devono piuttosto misurarsi con le Economie e mirare alla Pace ... pur stando attenti che sotto a Ombrella e Baldacchin no ghe sia un Doge fanfaròn portà a spasso in Bucintoro con una Dogaressa solo vacua e pompòna al braccio ... Deve essere bòna l’immagine, ma anca el contenuto.”

Discorsi, discorsi … dentro a una Venezia storicamente sempre altalenante e combattuta fra lusso smodato e mondanità, e buon senso Civico e giusta economia delle cose … Una Serenissima, almeno sulla carta, preoccupata di non lasciare indietro nessuno.

Frasi che ricorrono ancora oggi a distanza di secoli, a riprova che in fondo non è cambiato molto, e non si è capito granchè dopo lo scorrere di tanta Storia ... La nostra Umanità rimane sempre uguale, con le sue fisime, le sue voglie di potere, e la sua smania godereccia a spese di chi è più fragile e sa meno alzare la testa.

Viceversa nell’ombra protetta del Claustro delle Vergini di Castello, non lontano dall’assiduità laboriosa della Caxa dell’Arsenale dei Veneziani, due annoiatissime Monache Nobilissime chiacchieravano amabilmente rilassandosi accanto alla frescura del pozzo: “Giostre e saltimbanchi in Piazza xè deventài dozzinali ultimamente … No divèrte più come un tempo … Anca i Teatri annoia par a so pochezza, sebben i sia deventài sempre più costosi.”

“Xè vero: no ghe xè più quell’aria frizzante e divertente de un tempo … Ancùo ghe xè tutto quel popolin insipido, e quèa poveraglia che s’infiltra dappertutto … irrita e disturba … I xè un mondo troppo estraneo dal nostro ... Ne resta solo del far eleganza e spettacolo dentro a e nostre Cjese, e nel privato dei nostri Parlatori, Oratori, Palassi e Monasteri.”

“No sopporto più neànca mi tutto quel strasinarse per ore in Processioni blaterando, spettegolando e cantando come imbriaghi in giro par le calli, fondamente e campielli de le Contrade … Xè demoralizzanti a volte certi spettacoli, i sembra una torba de esaltài andai in confusion.”

“Gho sentio de a Procession organizzada (1515)all’Abbasia de i Servide Cannaregio: “par placàr l'ira de Dio contro Venezia”… Cusì andava disèndo quel Predicatore Elia da Brescia, che gha organizzà e intruppà oltre quattrocento putti e putte vestendoli tutti de bianco e co la candela in man … El gha coinvolto anche tre Schole, i Frati, e tutte le fèmene, e assai popolin de la Contrada ... Una vagasiòn (confusione) general !"

“Mah ? … Par mi e xè tutte cose basse, manifestazion da poco … Come tutte quelle Feste Patronali de le Scholette Piccole, che e finisse sempre in balli e baldoria, avvinazzamenti, e qualche volta anche in risse … Ti vol metter a confronto le nostre Solenni Vestizioni de le Nobili Monache, o la raffinatezza de le nostre Esposiziòn, l’eleganza, il fasto, i canti, la musica, gli addobbi, l’incenso, e le belle Prediche erudite che savèmo metter i pie e andèmo ad ascoltàr ? … Xè un altro Mondo: un altro Cielo.”

“A proposito de Sermoni e Prediche ? … Me vien da ridere … Ti sa ben che ultimamente in Città xè tutto un accorrere per presenziar a Sermoni e Quaresimali de grido ... Grandi e piccoli se sposta e accorre da una parte all’altra de Venessia per poter cogliere con i propri orecchi il meglio del meglio ... Ghe xè a volte cjese piene de sempliciotti trasognai a bocca aperta, che no perde una parola de quanto vien sigà (gridato) dall’alto dei Pulpiti.”

“Chissà che cosa i capirà ? … Niente secondo mi: una parola su diese.”

“El bello xè che Monasteri, Parrocchie e Cjese fa vere e proprie lotte per primeggiar e prenderse gli oratori migliori, più acculturati e spettacolari e simpatici.”

“Tutti boni par attirar fiumi de elemosine ... Altro che Dottrina, Eloquenza e gradimento del Popolo Cristiano ! ”

“Quest’anno vien applaudio dall’uditorio e frequentà grandemente el Molto Reverendo Padre Teresio de San Cirillo … El xè un Carmelitan Scalzo che vien da Malò … In Quadragesima el gha fatto de quee prediche a San Moisè, che ghe gèra zènte fin in strada e in riva par ascoltarlo … Alti Ecclesiastici, Nobili Cavalieri, Ambasciatori e Procuratori, perfino il Doge e la Signoria: tutti ammirati e attenti in prima fila co la bocca vèrta (aperta) a ciapàr mosche.”

“O a ciaprà (prendere) el sonno davanti a tutti come xè capità a Missier Barbaro … La Contrada e i Nobili gha avùo modo de ridere par almanco un mese ... e quel gran Nobilhomo se gha ziogà a reputaziòn russando in Cjèsa davanti a tutti ... Xe andà el Servo a scantinarlo e svegliarlo tirandolo par a manèga, perché a Cjesa intera non deventasse un teatro a son de ridare.”

“Anca in San Lorenzo a Castello, quest’anno ghe xè un bon Oratòr: un certo Conte Abbate Luigi Pellegrini, Nobile da Verona, che xè sta Gesuita un tempo … Gran parlatòr, ammaliatòr de Aneme e Persone (1773).

“Anche dalle Benedettine de San Zaccaria che xè un famosissimo Abbate Antonio Venier … Veneto, ma fragile e indisposto de salute … L’anno scorso durante la Predica el xè sta ciapà da convulso, e el xè svenùo dentro al Pulpito … Gran strepito in Cjesa: i gha dovuò soccorerlo … e le Muneghe de San Zaccaria lo gha pagà lo stesso senza ch’el gabbia concionà (proferito)neanche una sola parola ... Troppi digiuni se disèva in giro … Paura del manfiguràr gha ditto altri ... In ogni caso e Muneghe gha ditto civilmente e co prudenza, che se capiterà ancora un fatto del genere, l’Oratore: bravo o no bravo ch’el sia, sarà congedà dal Pulpito prestigioso de San Zaccaria, dove non xè ammesso che capita fatti del genere.”

“A San Cassiano de Rialto predica un Abbate Bartolameo dal Monte: Missionario Apostolico da Bologna, mentre a San Polo ghe xè un Teatin: un certo Padre Gaetano da Asti.”

“Gho sentio anca che a San Lorenzo e Mùneghe gha acconsentio che alcune loro Nobili Educande recitino e cantino alcune parti del dramma in musica “Demetrio” nel Chiostro della Clausura alla presenza dei parenti ... Si sono vestite tutte pomposamente “all’eroica”, secondo il modo teatrale, con gran soddisfazione della Abbadessa Donna Marina Vendramin, di loro stesse, dei consanguinei, e di tante Dame, Nobildonne e amiche che sono accorse a presenziare …Per la Festa del Patrono poi, le Monache hanno organizzato un coro con 400 persone fra voci e strumenti diretto dal famoso Maestro e compositor Sassone da Hasse … L’orchestra appoggiata dietro al portale d’ingresso di fronte all’altare abbracciava tutta la larghezza della chiesa, ed era sollevata dal suolo di dodici piedi e distribuita in compartimenti abbelliti con estremo gusto …C’erano tutti i grandi nomi: Corner, Foscarini, Dandolo, Badoer, Marin, Donà … Per i partecipanti c’erano colonne che sostenevano tutta “una macchina” per ospitarli decorata con nastri e ghirlande ... C’erano numerose file di seggiole disposte in mezzo alla chiesa dando lo schienale all’Altare … Al concerto seguì la Messa, e il tutto durò cinque mortali ore caldissime, che pareva quasi di soffocarsi in cjesa … Le Monache tutte Nobildonne andavano e venivano dietro le grandi inferriate separate dall’Altare, conversavano e distribuivano a tutti ventagli e rinfreschi ... Celebrante e assistenti sudavano copiosamente, si asciugavano di continuo, e sembravano attendere con la più viva impazienza il successivo pranzo ristoratore(1754-1773).”

“In parallelo … El Patriarca Querini gha scoperto una Mùnega de la Celestia piena de drezuòle (treccine) de cavelli in testa … El gha tòlto direttamente una fòrfe (forbice), e el gha provvedùo de persona a tagjarghe i cavèi: la gha pelocàda par far Penitensia ... E dopo el xè andà a spogiàr un'altra Mùnega insubordinada a San Biasio de a Zuèca, che a sfoggiava davanti a tutti una gran peliza damaschina bianca fodràda de Martori … Te par ròbe da far in faccia a tutti in un Convento ? (1513 e 1525) ... I xè fatti che grida vendetta a Dio, oltre che al Popolo.”

Contemporaneamente, sulle Fondamente Nove de Cannaregio, giusto in faccia all’Isola de Muran, andava e veniva la barca dei Buranelli, “che faseva avanti e indrio” con l’isoletta in fondo alla Laguna ... Con lei viaggiava anche il fiume delle novità e dei pettegolezzi: Ti gha sentio ? … L’altra notte de marti grasso, mentre qua, appena al de là dell’acqua: ghe gèra a danzatrice-acrobata de Francia in casa del Patrizio Zuan Cappello a ballar sui trampoli ritmando el tempo coi sonagli, e simulando el gioco de a spada, e de la sensuale pànsa (1532), el Nobilissimo Baldissera da Canal con do so complici "stravestii", gha fatto una gran bravada da Carneval. El gha fatto irruziòn a Rialto sfondando una bottega, e el gha portà via de tutto: formazi, parsutti e luganege … I Zàffi lo gha scoperto e refà in fragrante … Che gran matùzzi e fiòi de un can che xè sta Nobiltà ! (1522)

Dall’altra parte della Città Lagunare intanto, in Contrada de San Barnabaprecisamente, il sole del mezzogiorno picchiava forte come ovunque in Città, ma non tanto da far chiudere le bocche delle donnette che discorrevano in piccolo gruppo accanto alla fontana: “A Signoria de Notte e a Quarantia al Criminal gha processà finalmente el  nevòdo del Piovan:  el Zàgo Zuanne de San Barnaba.”

“Gèra  ora  ! … Sarà cusì finio sto scandalo (1587).”

“El gavarà finio de robàr le elemosine in cjesa, le cere e tutti i vestiti “da Messa” ... O savèva tutto el Popolo ormai.”

“I Preti de San Barnaba ghe dava a colpa ai ladri par nasconderlo, ma no ghe gèra nessun ladro, né alcun segno d’efraziòn su e porte de a Cjesa né de a Casa dei Preti … Doveva essere par forza uno de casa.”

“Xè sta lù: el Zàgo … Anca un orbo se saria accorto, come se gha accorto i Fabbriceri de San Barnaba … Stefana: a compagnessa del Zago, a sfoggiava una camisètta del tutto identica alla cotta da Messa ch’el Piovan de San Barnaba gha ditto: scomparsa … Che ingenui ! … No i pensarà minga che i Venessiani sia tutti tonti ?”

“Alla fine a gha confessà tutto … Gèra el Zago de San Barnaba a regalarghe e ròbe ... El gavèva perso a testa par ella, e siccome non gaveva schèi da darghe, el ghe dava a ròba de cjesa … Quando i lo gha arrestà, el gha ammesso tutto: sia el trasporto par la Stefana, che i furti in cjesa, che tutte le busje ch’el gha contà … Cinque anni de remo in Galea el se ga guadagnà.”

“Secondo mi i xè anca pochi, perché tutta quea ròba robàda xè simbolo de i sacrifici e de le offerte de tutti i Venessiani de la Contrada, che gha sacrificà e se gha cavà el pan de bocca par offrirghe a Dio, ai poveri e alla Cjesa tutte quee ròbe cusì pressiose … I dovaria vergognarse, e punirlo de più.”

“Mah ?  … I parla già de ridurghe a pena perché el Prete xè reo confesso … magari i ghe darà un fia de carcere, e dopo i lo rimandarà a casa ... Come se niente fosse successo.”

“Sperèmo de no: che ogni Ingiustissia non scorra via come l’acqua de a fontana.”

Gridavano come ossesse le Cicale nascoste negli spazi dei Giardini Verdi d’intorno … Venezia era come sempre splendida … Trasudava Vita e Storie come i suoi Veneziani.

 

1623: Domenico Baldin da Spinea

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#unacuriositàvenezianapervolta 286

1623: Domenico Baldin da Spinea

In quello che oggi è l’Ateneo Veneto nell’ex Contrada di San Fantin accanto alla Fenice, fin dal 1300 era ospitata la facoltosa Schola dei Picài, detta anche della Giustizia o della Bòna Morte ... La Schola possedeva inizialmente nell'Isola di Santa Maria delle Grazie un'Arca (tomba) atta ad ospitare i resti dei condannati a morte decisi dalla Serenissima. In seguito si provvide di un apposito terreno più comodo e capiente ai Santi Giovanni e Paolo dietro all'abside della chiesa, dove c’era anche la Cavallerizza ... A fine agosto 1623, anni in cui a Venezia spadroneggiava la Peste, Domenico Baldin da Spinea venne condannato dal Consiglio dei Dieci all’impiccagione in quanto “ladro et sassìn da strada”. L’ultima notte prima della sua sentenza, era rimasto a confortarlo in carcere un Confratello della Schola dei Picài.Verso mattina: “nella semioscurità de la prisòn seràda”, Baldin afferrò uno sgabello, assalì il Confratello dei Picài sfondandogli il cranio, indossò la sua cappa nera, e fattasi aprire la porta del Carcere di Palazzo Ducale, scese nel cortile e poi si dileguò nel buio del primo mattino dandosi alla fuga.

Fu preso ? … Boh ? … Chi lo sa ? … Non si seppe mai ... forse.


Gli Acquavitai Veneziani di San Stin

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Gli Acquavitai Veneziani di San Stin

Quella della Graspètta non fu mai prerogativa esclusiva di Campagna, o tipica dei Rifugi, delle Baite e della Malghe di Montagna … Anzi.  Venezia fin da sempre fu piena di “facitori, intrugliadòri e alambiccadòri de Gràspa” e affini di ogni sorta. Sappiamo anche, che fin da secoli remoti i Veneziani ne fecero una vera e propria Arte e Mestiere “ricca de secrèti”, come d’altronde si faceva quasi su tutto a Venezia.

“L’Acqua di Vita è il frutto della ricerca della Divina Essentia, l'Elisir dal Cielo, il distillato di Conoscenza Umana e Filosofia Ermetica, la Quinta Essenza di ogni cosa, l'Elemento Puro ... E’ l’Acqua Ardens, l’Anima Vini, l’Acqua Vitae.”

Nei secoli passati si è provato a distillare qualsiasi sostanza Vegetale, Animale o Minerale, dallo Stramonio al Sangue, ma le “maggiori Virtù” si ottennero con l’Acqua di Vite: l’Essenza del Vino, considerata adatta:"ad infinitos morbos, tam interius quam exterius".

Secondo il Medico Arnaldo di Villanova della fine del 1200:“L’Acquavite dissipa ogni Umore superfluo, rianima il Cuore, guarisce le coliche, asciuga l’Idropisia, le febbri, preserva dalla Peste eliminando l'aria pestilente; supporta la debolezza degli occhi; cura le ferite; giova contro i dolori di Polmone, Milza, Intestino, Denti e Testa; toglie le macchie dal viso, il cattivo odore dalla bocca e dal naso; favorisce la digestione; rilassa; fa vomitare il sangue marcio; rinforza la memoria; è efficace contro l'itterizia e le balbuzie; espelle i vermi; schiarisce la voce; converte la sterilità in fertilità; ringiovanisce l'Huomo prolungandogli la Vita; lo rinnova di dentro, e quasi novella Fenice lo rende agli occhi altrui spettabile e mareviglioso."

Fu per tutto questo che un po’ ovunque: dai Palazzi alle case, dai Conventi di Frati e Monache alle Canoniche dei Preti si provò sempre a produrre l’Acqua per la Vita, e divenne quindi davvero labile il confine e la distinzione fra Liquoreria, Speziaria e Farmacia, cioè fra i preparati farmaceutici, una buona bevuta e i ritrovati alchemici, in quanto tutti miravano in un modo o nell’altro a rendere migliore la Vita … E ci riuscirono parecchio.

Anche perché ieri e per secoli, non dimentichiamolo, si è avuta un’idea della Vita-Esistenza, e del funzionamento del nostro corpo molto diversa dalla nostra di oggi. Si era convinti che tutto e “ogni complessione” dipendesse dai Quattro Umori: Aria, Acqua cioè Flemma, Terra e Fuoco. La Fisiognomica descriveva in base agli Elementi i quattro Temperamenti Umanie i caratteri, i volti, i modi d’essere di ogni persona. Le Quattro età che viveva ogni Uomoe Donna, e la Personalità di ciascuno si distinguevano nel: FlemmaticoCollerico, Sanguigno e Melanconico. Ciascun caratterecorrispondeva, interagiva e dipendeva, chi più e chi meno, da quei quattro Elementi Vitali di base, che a loro volta subivano l’influsso di molteplici cose: come, ad esempio: le congiunzioni e gli allineamenti dei Pianeti e delle Stelle dello Zodiaco.

L’Acqua di Vita era capace di modificare, alterare o migliorare con efficacia quelle caratteristiche che stavano come in sottofondo, incorporate in ogni Essere Vivente.

Noi di oggi, ricchi delle conoscenze scientifiche moderne, abbiamo perso, giustamente, quel modo un po’ primitivo e limitato d’intenderci, che era di sicuro curioso. Lo rispolvero brevemente …

Gli Uomini e Donne dal Temperamento Malinconico o Melanconico si consideravano soggetti agli effetti dei Segni Zodiacali di Terra, cioè: Toro, Vergine e Capricorno, e dei Pianeti Mercurio e Saturno. Erano Tipi Atrabiliari, cioè affetti da eccesso di Bile Nera che ristagnava nella Milza. Per questo erano solitamente magri, deboli, emaciati e pallidi, dall’andatura pesante e dalla postura cadente, incurvati, rallentati nei movimenti e privi di slancio. Erano persone “fra Blu e Nero”, cioè: avari, tristi, depressi e inquieti, spesso accigliati e poco inclini al sorriso, gente introversa, autocontrollata nei sentimenti, fin troppo riflessiva e pensosa, realisti pessimisti tendenzialmente  disfattisti, che prediligevano il freddo e il secco … Corrispondevano al Tempo Autunnale della Maturità Adulta Umana.

Venivano considerate Donne Melanconiche quelle magre, ritrose, poco amichevoli e scarsamente disponibili, quelle volubili, quelle sterili, o le zitelle senza marito. Donne spesso sofferenti di mal di testa, e dalla schiena dolente dovuti appunto all’eccesso della presenza della Bile Nera che ristagnava dentro al loro corpo. Secondo la loro costituzione, erano portate prima o poi a gonfiarsi improvvisamente per via del liquame e delle impurità che si accumulavano dentro di loro, non fuoriuscendo con la depurazione mensile del ciclo femminile.

Il Melanconico poteva esprimersi facendo tanto male quanto tanto bene: poteva convertire il piombo in oro, o essere Filosofo eternamente sorpreso dalle cose del vivere, un Veggente-Sapiente capace di captare ogni Bellezza, ma anche una persona instabile, ostinata, ansiosa, sprezzante, fino ad essere: disperato suicida, o uccisore di persone per raptus improvviso.

I Melanconici per riequilibrare il freddo secco che aveva dentro, dovevano assumere cibi caldi e umidi come: Asparagi, Datteri, Fichi, Mandorle, Mele, More, Uva, Vino rosso, Zucchero e Dolci in grado di bilanciare l'amarezza della loro eccessiva Bile Nera

La persona Collerica-Biliosa, invece, era un Carattere Difficile per via dell’eccesso di Bile Gialla che portava sempre con se stazionando in Cistifellea e Fegato. Anche il Collerico sarà una persona magra, ma asciutta e slanciata, di bel colore. Sarà però un’irascibile facilmente eccitabile nei modi, un irruento esagerato ed aggressivo, un permaloso, furbo e mutevole, un generoso superbo, bellicoso e stravagante a causa dell’influsso dei Segni Zodiacali di Fuoco, cioè: Ariete, Leone e Sagittario, e dell’effetto del Solecol Pianeta Marte.

IlCollericosarà un uomo estivo dal bel colorito e dalla vista acuta e penetrante, uno che amerà il caldo e il secco, un espansivo solare, un generoso, fiero ed energico capace di diventare impavido, risoluto e ostinato. Apparirà quasi un eterno giovane adolescente, con i tratti del passionale e ambizioso, del propositivo attivo voglioso sempre d’affermare la propria personalità.

I Collerici sono spesso capaci d’essere intraprendenti imprenditori e leader trascinatori, ma sanno diventare anche perfetti egoisti per frustrazione, trattenitori di astio e risentimento.

“Le Donne Colleriche hanno la pelle dura, vene evidenti e colorito pallido. Sono portate ad apparire ed ad avere molta cura di se. Per questo vengono spesso considerate intelligenti, attraenti, intraprendenti e simpatiche. Sono di solito molto fertili seppure pudiche, amanti fedeli e onorate, temute e rispettate dagli uomini che amano il loro carattere che li sa intimidire. In realtà sono donne che non si fidano completamente, sono fredde e calcolatrici, libere, non soggette a superiorità, non si lasciano per davvero riscaldare da sentimenti ed emozioni, sono instabili, irrequiete e aggressive … Se non si sposano soffrono di dolori fisici, divengono deboli perché non sanno a quale uomo donare la loro fedeltà … Sembrano per apparenza migliori di quel che sono.”

Il Collerico per riequilibrarsi dovrà mangiare cibi freddi e umidi come l'Acetosa, le Amarene, le Arance, la Borragine, i Cavoli, i Cetrioli, l'Indivia, Meloni, Melagrane e Prugne.

C’era poi ilFlemmatico: persona linfatica, che portava in se un eccesso di Flegma, cioè d’Umore Acquatico. Corrispondeva a un tipo psicologicamente lento, mansueto e talvolta impacciato, un beato appagato amante della quiete, incline alla pigrizia, placido e sereno. Una persona comunque talentuoso, capace di concentrarsi con infinita pazienza sotto l’influsso dei Segni Zodiacali d'Acqua, cioè:Cancro, Scorpione e Pesci, e della Luna e Venere.

Il Flemmatico amerà il freddo e l'umido per via della Linfa che risiede soprattutto nella sua testa, da dove discende nei polmoni defluendo poi da naso e bocca. Per questo sarà di solito di colorito pallido e spento, bianco di colore, per via del torpore del suo metabolismo stagnante e rallentato. Sarà un vecchio invernalemancante di vivacità, flemmatico appunto, un tipo acquoso, ghiandolare, ormonale che tenderà a gonfiarsi e ingrassare diventando solitamente tondeggiante e vegetativo, poco attivo, dedito ad assecondare unicamente le sue funzioni vitali di base, a mangiare e dormire evitando occupazioni e impegni troppo dispendiosi.

Sarà comunque un amante dell’ordine, un diplomatico bonario, amante delle Virtù, una persona affidabile.

Nell'alimentarsi, il Flemmatico preferirà cibi caldi e secchi: Finocchio, Frutta Secca, Menta, Pepe, Ravanelli, Sale, Spezie e Vino rosso.

“La Donna Flemmatica sarà una tranquilla taciturna, una femmina molto pratica e concreta, stabile, priva d’inclinazioni, di aspetto severo, senza tanti ideali, progetti e scopi … un Essere Nerastro, forte e capace, quasi mascolino, ma che sa essere anche lascivo e voluttuoso nei rapporti amorosi, molto fertile e perciò con molti figli.”

Infine c’era il Sanguigno: un tipo rubicondo, gioviale, allegro, goloso, amante della sessualità per via dell’influsso dei Segni Zodiacali d'Aria, cioè: Gemelli, Bilancia e Aquario, e del Pianeta Venere.

Nel Sanguigno l'eccesso d’Aria che agisce dentro alla respirazione, nella circolazione e nel sistema nervoso, è causa della sua continua mobilità ed eccitabilità, del suo metabolismo accelerato, dell’aspetto robusto, e del colorito roseo E’ un individuo agile e scattante, pieno d’energia e dinamismo, leggermente malizioso, curiosissimo e vivace. E’ spesso un artista, un creativo intuitivo, un loquace chiacchierone che sa esprimersi bene, un comunicativo brillante e allegro, pronto di riflessi, ma di rimando è spesso anche un superficiale, un disordinato nelle cose e negli intenti del vivere, un volubile irrequieto e insoddisfatto: “… per loro natura i Sanguigni hanno sempre bisogno di un rimedio ... Il loro corpo vive in una continua condizione d’irritazione … Sono sempre in preda a desiderio intenso, col piacere che scaccia il dolore, ma che innesca la ricerca di piaceri che siano più forti ... Il Sanguigno possiede il dono di saper riconoscere lo Spirito, cioè il Bello, ma non sa sublimarlo, è poco intelligente in realtà.”

Dovrà quindi curare l’eccesso del suo Umore Rossoassumendo cibi freddi e secchi, aspri e amari capaci di riequilibrare il Sangue Caldo e Umido che ha dentro: Aceto, Cicoria, Fragole, Limoni, Mele Cotogne, More e Pere. 

“Le Donne Sanguigne dal colorito chiaro e limpido, la carne morbida piacevole, i vasi sottili e il sangue sano privo d’impurità. Per questo sono portate all'Amore; amano i lavori artistici, sono riservate, e sempre molto considerate, ricercate e desiderate dagli Uomini … Sono tuttavia generalmente tendenti a ingrassare, nelle mestruazioni perdono poco sangue, il loro utero è sviluppato e forte, per cui sono fertili sebbene non partoriscono molti figli … Quando vivono senza marito e non hanno figli da curare, tendono ad ammalarsi …”


Torniamo però all’Acquavite, l’“Elixir Vitae”, l’“Acqua Celestiale”degli Acquavitai Veneziani capace di andare ad influire insieme al Vino su tutti quei tipi-caratteri, sui comportamenti, le reazioni umane, e sugli effetti di ogni Umore Astrale e Corporeo.

“Piglia once sei di Vin Bianco buono, cimette di Mortelli, di Moriche, Lentisco, Sorbe, Ancipresso … Anca once tre di Balaustia; once una di Scorza delle radici di Noce, Piretro, Glassa, ossa de Dateri bruciate, Rose bianche in botoni, Cannella fina … Pèstisi ben ogni cosa, e mèttasi nel lambico, o in una storta di vetro a distillare col fuoco soave, fin che n’esca tutta l’humidità e non distilli più. Metti l’Acqua Distillata in una caraffa, e dentro ne metti once due di Polvere di Corno di Cervo bruciato, et once una di Sangue di Drago in polvere, e tienla al Sole ben turata, per quattro dì, rimenando spesso, poi ti potrai lavare i denti con tal Acqua, che è la miglior del mondo, e da gran prencipi.”

“Per preparare l’Aqua Celestiale, la quala se chiama Elisir Vitae, saranno necessari più di cinquanta Semplici di origine vegetale, dramme due di Mele biancho e netto, e tanto Zucaro fino, a peso quanto due volte dell’insieme precedente. Il tutto, pestato e amalgamato, dovrà essere posto in una boccia di vetro perfettamente otturabile, con tre volte tanta Aqua de Vita distillata ... Facta cum diligentia et electa dala fleuma e dale fece, dopo averla lasciata chiusa per due giorni, bisognava mettere la bòza in suso lo fornello cum lo suo lambico sopra e cum lo suo recipiente a distillare cum lento focho. El ne uscirà una Aqua chiarissima, pretiosa. E continua el focho, fino a tanto che l’Aqua comenza a mutar colore, zioè che serà biancha. Quest’ultima Acqua, pur non essendo utile nella preparazione dell’Elisir Vitae, poteva essere impiegata per far imbianchare la faza de le done ... Sapi che questa Aqua è lavamento de Rezine e grandissime done ... La prima Acqua invece andava posta in una boccia di vetro, chiusa a tenuta stagna, con altrettanta Aqua de Vita, la quale se chiama Mater Balsami ... Poi la metti a destilar a lento focho o per bagnomaria ... E prima distillerai una Aqua chiarissima e odorifera, maravigliosa, la quala tu recevi per sé; e quando lo lambicho comenza a mutar colore, e l’Aqua ne uscirà a modo de aqua pluviale, muta lo recipiente e riceve questa secunda Aqua fin a tanto che vederai uscire la terza Aqua che è in color de sangue, la quala riceve per sé in una ampola bene serata cum cera, che non possa per nulomodo spirare alcuno spirito, e salvala como faresti una preda pretiosa e como uno tesoro ascoso: che in questo è lo mazor tesoro e si è più nobile secreto che suso l’altra sia.”

Gli Acquavitai Veneziani consigliavano l’uso dell’Acqua Vitae per le sue proprietà cicatrizzanti e antisettiche, per curare ferite, piaghe ed emorroidi, per far maturare ascessi e foruncoli, per curare le infiammazioni degli occhi e dell’apparato genitale femminile. L’Aqcua Vitae era buona inoltre, per curare la Calcolosi: “Se uno la usarà per quindici dì, uno mezo chugièro, in breve tempo ogni Lepra, ogni Stiticho, Idropicho, Paraliticho, Sinchopo, Cadùco, Gotta artethico, Siaticho, Sagnario sarà guarito …”

“L’Acqua Vitae: de veghio fa zòvene, e del morto vivo … Quando tu vederai uno apresso el tratto de la Morte, e ch’el sia abandonato per morto, e tu li meti in bocha una goza de questa terza Aqua per modo che lui la ingiotisca, in manco de dire tre Pater Nostri, pigliarà forza e revegnerà. E cum la gratia de Dio de quella infermitade sanarà”.

Non vi sorprenderà quindi sapere che molto presto a Venezia sorse un’apposita Schola degli Acquavitai o Acquaviteriche associò e regolamentò tutti gli interessati e i commercianti del Mestiere e della preziosa bevanda.

Nacque ovviamente un’altra Storia Veneziana.

A Venezia fino al 1787 ci fu anche un vero e proprio Fontego de l'Aqua Vita e dell’Arte del Sulimàr, cioè della Distilleria, con tanto di “Libri Pubblici e Quaderni Bollati e Cartati del Fontego”, che si trovava in Contrada di San Provolo (poco distante da Piazza San Marco) all’inizio o fine del Sestier di Castello

Il Fontegode l'Aqua Vita e del Sulimàr serviva per supervisionare e controllare contrabbandi, maneggi e illeciti sulla produzione e consumo dell’Acquavite in Città:“che non doveva essere di Puro Spirito, ma unicamente di Saponata e Campanella Mercantile al 4“. L’Arte degli Acquavitai era tenuta a consumare ogni anno: 52.000 secchi d’Acquavita del Fontego, ma spesso ben 33.000 secchi rimanevano invenduti in deposito.

Questo vi farà quindi già intendere come la categoria degli Acquavitai Veneziani ha sempre preferito far affari per conto proprio, liberi più che potevano delle imposizioni e dalle ristrettezze imposte dallo Stato Serenissimo.

Tracce della produzione e commercio dell’Acquavite a Venezia risalgono al lontanissimo 1300 … Curiosamente, furono donne le prime protagoniste di quell’antico commercio … Gli uomini, forse, erano più sbevazzòni che commercianti.

Nell’ottobre 1373 venne redatto in rogito notarile un contratto di Società-Compagnia valido 3 anni del tutto simile al contratto delle Colleganze Marittime che si stendevano nell’Emporio di Rialto. Davanti al Notaio Fantino Rizzosi presentarono Uliana vedova di Marco de Cresinben della Contrada di San Marcuola, e Caterina Congelo vedova di Francesco della Contrada di San Marcilian (San Marzial), entrambe del Sestier di Cannaregio.  Entrambe le donne intendevano impegnarsi nell’Arte del Solimàr mettendo a disposizione e investendo nell’impresa un capitale di 300 ducati ciascuna ... Ulianaaggiunse anche la sua manodopera, e quella di una sua schiava (a proposito di chi afferma che non esistevano gli Schiavi a Venezia).

Da contratto quindi, a conti fatti e detratte le spese, ad Uliana sarebbe spettato 2/3 del guadagno, mentre 1/3 sarebbe andato a Caterina … Chi delle due avesse contravvenuto ai patti, avrebbe pagato una penale di 200 ducati d’oro ... Si sarebbero lavorate: “Solphere, Cenabrio, Arsenico e Cusegal, e si sarebbe refatta Canfora et ogn’altra cosa che aspetasse all’Arte del Sulimàr (distillazione), sia per vendere o barattare i prodotti, o per conto terzi ... Le spese accessorie previste sarebbero state “per un Fatòr che tegnerà el conto di la Compagnia, et farà li suoi fati in Rialto e oltro, e per fito di stancon e de volta e de legne e di boce, de lavorenti si farà bisogno e de ogni altra cosa necessaria ala dita Compagnia.”

Contratto interessantissimo secondo me … Un quadretto sull’Arte dell’Acquavitaedi un tempo lontanissimo a Venezia.

La vera e propria Schola degli Acquaviteri sorse più tardi, e verso la fine della Storia Veneziana viene ancora ricordata ospitata, e presente e attiva in Contrada di San Stin, cioè Stefanin: una delle Contrade più piccole e dimenticate del Sestiere di San Polo di cui le Cronache raccontano poco o niente ... Bellissima la Farmacia-Spezieria “Ai do San Marchi” che sorgeva proprio in Campo San Stin, conservata oggi al Museo di Cà Rezzonico.

Chissà se lì facevano e vendevano anche la Grappa ?

Ancora nel 1725, si contavano a Venezia almeno 30 Cànevedove i Canevànti vendevano regolarmente anche l’Acquavite… Nel 1759, invece: non si dovevano superare le 99 botteghe che vendevano Acquavite nelle Insule di San Marco e Rialto, mentre era autorizzata l’attività di altre 107 nelle altre Contrade della Città ...  Secondo la famosa statistica del 1773, l'Arte degli Acquavitai col suo Gastaldo che sceglieva il vino per l'"abbrùgio"annoverava: 319 CapiMastro, 103 Garzoni e 242 Lavoranti, che venivano impiegati a Venezia in oltre 155 inviamenti, 6 banchetti, e 30 posti chiusi atti, che volendo, potevano diventare altrettante botteghe … Nel 1775 le fabbriche di Acquavite di Bovolenta e Sil erano ancora gestite e controllate direttamente dall’Arte degli Acquavitai Veneziani.

Solo tardivamente alla Schola degli Acquaviteri si associarono anche gli uomini dell’"Acqua negra", cioè: i Caffettieri del Caffè, e già che c’erano, si tirarono dentro anche i Venditori di Cioccholata, e di Ghiaccio e Bevande Calde o Fresche prima, e quelli del Rosolio poi: che era bevanda molto diffusa, apprezzata e assunta soprattutto dal popolino Veneziano.

Il Rosolio nient’altro era che: Acquavite aromatizzatacon essenza di olio di Rose, mentre il Mistrà era Acquavite aromatizzata all'Anice e diluita in acqua.

Curiosa la storia della Confraternita-Corporazione degli Acquaviteri Veneziani. Erano noti non solo per la loro vitalità produttiva e commerciale, ma anche per essere molto rissosi e furbi nell’agire. Numerose sono le liti degli Acquavitai raccontate dalle Cronache Veneziane: “Vi sono otto o dieci Caporiòni dell’Arte degli Acquaviteri, che stanno sempre in carica, andando di una in altra senza che alcun altro che non sia della loro fazione possa mai sperar di entrare in governo ... Fanno alto e basso, tutto quello che vogliono, e tengono tutti gli altri fratelli sotto di loro oppressi.”

I così detti “Caporiòni” avevano bottega nei luoghi più centrali e di maggior traffico di Venezia: al Fontego dei Tedeschidi Rialto, in Bòca de Piàza a San Marco, e “in Canonica verso San Provolo” dove c’era il Fontego dell’Acqua di Vita, e in Contrada di San Giovanni Crisostomo a due passi dall’Emporio Realtino dove s’incrociava ogni tipo di scambio, persona e commercio.

Quei Caporiòni erano dei veri e propri furbetti, perché usavano dei prestanome per occupare i posti migliori, e per coprire il reale giro e la consistenza del lavoro controllato da pochi ricchi che volontariamente eludevano “la regola dei 100 passi”della distanza fra botteghe simili imposta dalla Serenissima. Pur di averne l’esclusiva e alzare i prezzi e i guadagni, arrivarono a comprarsi quasi tutte le rivendite del Mestiere aprendone una solo ogni 200-300 passi. Arrivarono anche ad affittare botteghe ad alcuni perché le tenessero chiuse o aperte per soli 4-5 giorni l’anno “per salvare l’apparenza”, e fecero di tutto per ridurre e ostacolare l’attività dei così detti “raminghi da fuori Venezia”, che non erano “Possessori titolati d’inviamento o bottega”, ma producevano e vendevano come ambulanti senza sede autorizzata, senza limiti d'esercizio, e soprattutto: senza appartenere all’Arte degli Acquaviteri.

La Serenissima furba più degli Acquavitai, ovviamente si accorse “del giochetto”, in quanto vide diminuire paurosamente le entrate dei Dazi dell’Acquavite, e del Ghiaccio-Caffè. Perciò intervenne nel 1658 propinando multe di 100 ducati ai prestanomi, disponendo sull’apertura delle botteghe, ed espellendo per 10 anni i facinorosi dell’Arte.

Fin dal 1596 si era approvato un Dazio o Tagliòn sull’import-export dell’Acquavite fra Venezia il Modenese, Udine, Rovigo, Treviso e Chioggia. L’Acquavite arrivava spesso “grezza” a Venezia, si pagava il trasporto, e la si depositava in Contrada di Sant’Aponal poco distante dal Mercato di Rialto. Da lì, dopo averne saggiata la bontà tramite “la prova delle flèmme”, cioè dandole fuoco, l’Acquavite veniva distribuita in tutte le Caneve e Botteghe della Città dove veniva elaborata, cioè “raffinata” per la vendita.

Un secchio d’Acquavite, cioè 10,73 litri di Grappa, veniva a costare al Bottegaio dalle 14 alle 17 lire compresi i Dazi che si pagavano a Rialto prima che il prodotto venisse spartito fra i vari acquirenti. C’erano 6 mesi di tempo per pagare il Dazio sull’Entràda dell’Acquavite, cioè sulla sua produzione, e un anno per pagare il Dazio sul Consumo dello stesso prodotto ... I contravventori ritardatari avrebbero pagato “una mora” del 10% sulla quota da pagare.

Esisteva a Venezia tutto un commercio elaboratissimo sulla vendita, commercio e distribuzione dell’Acquavita, che passava di mano in mano, ogni volta alzando il prezzo ... ieri come oggi ... Esisteva un Conduttore del Dazio sull’Acquavite, che trattava il Monopolio esclusivo del commercio dell’Acquavita col Governo della Repubblica, ma faceva riferimento all’Arte degli Acquavitai circa le quantità del prodotto che veniva trasportato e distribuito in giro per Venezia e la Laguna a spese dell’Arte stessa. Alcune volte il Conduttore del Dazio dell’Acquavitesubappaltava la vendita dell’Acquavite nella Terrafermaaggiungendovi “una sopratassa di 4 e di 10 soldi per lira”. sui rispettivi Dazi d’Entrata e Consumo.

Curiosa la figura di quel Conduttore del Dazio dell’AcquavitaeScotidòr(esattore)del Dazio Ghiaccio-Caffè per Venezia e Dogado. Rimaneva in carica per 8 anni con l’obbligo di versare all’Erario della Repubblicala somma di 25.000 ducati annui ... punto e basta. Come, con chi, e in che modo lo faceva: erano affar suo ... Il Conduttore guadagnava su quanto riusciva a ricavare oltre alla cifra che doveva ad ogni costo allo Stato ...Gli era severamente proibito di far concessioni e di lavorare con gli Ebrei, e se non pagava quella somma “in due parti”, cioè “ad ogni serrata di 4 anni”, avrebbe dovuto sborsarla di tasca propria.

Fu verso la fine del 1618, che il Capitolo Generale degli Acquavitai con 86 Acquaviteri, si riunì nel Convento dei Domenicani di San Zanipolo(Santi Giovanni e Paolo), per ballottare e approvare i primi otto capitoli del loro nuovo Statuto-Mariegolastabilendo di continuare a ridursi (riunirsi)presso il Refettorio dei Padri Predicatori e Inquisitori… Quale posto più adatto ?

Nell’Arte si accettavano come iscritti anche "forestieri non sudditi",a patto che riuscissero a superare la “Prova d'Entrata”, e la successiva “ballottaziòn del Capitolo Generale della Schola”(votazione per approvare l’ammissione alla Schola, che doveva avere almeno 2/3 dei voti favorevoli dei presenti). La “Proba d’Entrada” consisteva nel riuscire a produrre Acquavite d'Anice e Vernice di Liquore… Se qualcuno riusciva malignamente ad iscriversi all'Arte degli Aquaviteri privo dei requisiti previsti, la Schola sarebbe stata multata di 100 ducati, 1/3 dei quali andava al denunciante che rimaneva anonimo.

Dal 1637 però, gli Acquavitai Grapparoli, dopo diverse divergenze e debiti con i Padri Domenicani di San Zanipolo, si spostarono dall’altra parte della Città accanto a pochi passi dalla Cà Granda dei Francescani Conventuali: altro colosso dei Religiosi Veneziani, andando a pagare 100 ducati annui d’affitto ai Preti del Capitolo della Contrada di San Stin. Lì riprese la tipica attività confraternale della Schola degli Acquaviteri: “che inizialmente badavano a risparmiare, e a non imbarcarsi in spese pazze per la Festa Patronale, o in spee per abbellimenti estremi della loro sede, come accadeva spesso nell’ambiente delle Schole Veneziane.”

Accadde il contrario, invece … Gli Acquavitai s’invaghirono presto di un Altare proprietà di un certo Antonio Rota Manfei, che finirono col comprare nel 1648 per 200 ducati. Solo che nel 1654 dovevano ancora finire di pagarlo avendo consegnato al proprietario solo 50 ducati … Finirono tutti in Tribunale, e l’Arte degli Acquavitai si trascinò in ristrettezze, processi e debiti … per secoli !

Ciò nonostante, nel 1662, l’Entrata Ordinaria del Dazio sull’Acquavitasempre in crescita costante, figurava come voce permanente e significativa dell’intero bilancio dello Stato Veneziano.

Curiosissime ancora le vicende del 1733, quando: Zuanne Mano assunse la gestione del Dazio dell’Acquavita dalla Serenissima per 25.877 ducati insieme a una giacenza di Acquavita nel Fontego impossibile da smaltire. Capita tardivamente la scelta sbagliata, Mano subappaltò il Dazio al Veronese Giuseppe Personi: che inconsapevole e sprovveduto più di lui, si ritrovò con un debito di 40.000 ducati altrettanto impossibile da smaltire.

Nel 1734-37 l’Arte degli Acquaviteri per non farsi carico dei debiti del Fontego dell’Acquavita, rifiutò la gestione del commercio dell’Acquavite legata al Dazio dello Stato. Intervenne allora quasi di prepotenza il Senato e la Conferenza dei Governatori alle Intrade rappresentata dai Governatori: Pizzamano, Diedo e Soranzo, dai Deputati: Mocenigo e Vendramin, e dagli Aggionti: Giustinian e Morosini, che imposero agli Acquaviteri Veneziani l’uso di fabbricare l’Acquavite con Vini imposti e gestiti dallo Stato. Chiusero poi tutte le Caneve e le rivendite Veneziane sopprimendo ogni privilegio dell’Arte, e imposero a tutti l’utilizzo del Fontego Pubblico con i suoi prodotti:“Vari tipi di Rosolio aromatizzati, il “Canelin”: Cannella Garofalata, Mandorla amara, al bergamotto, all’Anice o “Anesino” e “Mistrà”, al Finocchio, al Maraschino, alla Melissa. Ed ancora: Rosoglio Barbados francese, Rosoglio di Seleno, Spirito di cedro e Acqua d’oro di Portogallo, Vino Raffinato Schiamone, Vino Bianco Ordinario.”

Tutta merce venduta a carissimo prezzo: “roba cattiva … e la gente va in collera e si nausea ... Quel che si vendeva in un giorno non si vendette in un mese.” Nel 1748 in Calle dei Cerchieri in Contrada di San Barnaba si scoprì un Fontego abusivo attrezzatissimo che vendeva incontrollato prodotti di ogni sorta … Andò male anche per il nuovo Conduttore dei Dazi sull’Acquavita, che dichiarò fallimento dopo appena 4 anni, in quanto s’era assunto un impegno con lo Stato per30.000 ducati provando ad agire contro la palese ostilità degli uomini dell’Arte dell’Acquavite.

Nel 1750 l’Arte degli Acquaviteri Veneziani provò a smuoversi e a riprendere l’iniziativa: prese in affitto, poi comprò per 270 ducati la volta-locale n° 20 presso il Mercato “nel primo solèr de le Fabriche Nove dieRialto, le Case Rosse ... sopra il Canalazzo, dove custodire con la dovuta diligenza: Registri, Libri e le altre carte dell'Archivio della Schola.”

Dieci anni dopo, dopo numerosi contrasti interni, l’Arte provò a prendere in gestione il Dazio dell’Acquavite dallo Stato autotassando ciascun iscritto “per 30 soldi al secchio” per sopperire all’annoso problema dei debiti e delle giacenze inutilizzate rimaste nel Fontego di San Provolo. Si venne a compromesso con la Serenissima rivedendo l’entità del Dazioda pagarle fissandolo a soli 8.000 ducati annui, e decidendo di utilizzare “per l’abbrugio dell’Acquavite Veneziana”: metà (poi per 1/3) dei Vini di Stato. L’Acquavite alla fine sarebbe stata venduta a 14 soldi la libbra, e non più ai precedenti 18 soldi … L’Arte degli Acquavitai stava annaspando e provando a salvare il salvabile degli affari … un po’ come stava facendo l’intera Serenissima.

Si giunse poi anche ad espellere dalla Città e dallo Stato Veneto i Grigioni Svizzeri nel 1766. I motivi furono altri in realtà, ma i Grigioni trafficavano al ribasso, producevano in proprio, vendevano il prodotto come ambulanti, e partecipavano scarsamente alle attività dell’Arte tenendo aperte le botteghe perfino nei giorni festivi … Poi l’Arte spendendo 200 ducati provò a prendere il controllo anche della produzione dell’Acquavite prodotta in Terraferma ad Adria e Padova … Si era nel 1781: era tardi ... In quello stesso anno, quando c'erano 260 Facchini-Bastazi senza titolo che lavoravano per le botteghe dell’Arte, la Schola degli Acquaviteri “con la sua Banca, il suo Gastaldo, il Vicario, lo Scrivano, 3 Compagni e 3 Sindici eletti per 3 mani di election la prima domenica di giugno”si chiuse storicamente “ai Forestieri”… Brutto segno.

Nell’agosto 1776 gli Acquavitai chiesero l’esonero “per i vari incomodi, danni e li pregiudizi che ne derivano” dalla partecipazione con due botteghe alla Fiera della Sensa in Piazza San Marco, che doveva essere in se un grande palcoscenico promozionale dove mettere in mostra “le bontà dell’Arte”. L’insolita riunione degli Acquaviteri Veneziani per decidere al riguardo si tenne nella Schola dei Fruttaroli in Casselleria in Contrada di Santa Maria Formosa. C’erano presenti 138 Acquavitai di Città, e intervenne anche il Giustizier Vecchio Cassièr, che era esterno all'Arte, scelto dalla Banca della Schola, ma rappresentante dello Stato … 98 furono i votanti favorevoli, e 40 quelli contrari … La petizione non venne accolta dalla Serenissima, e gli Acquavitai, nolenti o volenti, dovettero presenziare in Piazza an Marco con i loro banchetti e i loro prodotti tipici.

Infine nel 1797, quando Venezia Serenissima nel suo insieme era ormai morente, l’Arte degli Acquavitai dava ancora segni di vitalità contando ancora 749 iscritti ... In quella stessa epoca però fioriva ormai grandemente il contrabbando delle Acquaviti da fuori Venezia, e la produzione-vendita dell’Acquavita era diventata abusiva e incontrollata anche in Città e in Laguna … I produttori privati di Grappe e Acquaviteagivano e commerciavano incuranti “delle gravezze” che incombevano sulle loro teste, e dimostrando di non aver paura della: “pena-condanna a dièse anni de prisòn, del Bando e del rèmo a Galèa” ... Inutilmente quelli dell’Arte ripetevano: “Fuori dell'Arte resiste solo una degenere matrice alchemica con sembianze losche ... Gli Spargirici ed i contrabbandi di Ràcchia Istriana, dal Montenegro e dalla Dalmazia ... Anziché distillatori, sono Desfilatori ... Diffidatene !”

Nessuno li ascoltava …  Poi comparve napoleonetto, che spazzolò via tutto e tutti … e a Venezia si ricominciò da capo su tutti un po’.

Rimase l’Acquavite … ma non gli Acquavitai … e neanche Venezia Serenissima.

 


Venezia diceva anche così

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#unacuriositàvenezianapervolta 288

Venezia diceva anche così

Fabio Mutinelli nel suo “Lessico Veneziano” riporta fra le tante cose anche alcune espressioni curiosissime del Dialetto Veneziano di ieri. Alcune sono modi di dire davvero divertenti … secondo me … L’antichissima fraseologia Veneta, ad esempio, diceva: “Oggi mi sento: biàto” intendendo dire di sentirsi e vedersi: allibito e pallido per via di qualcosa d’indistinto che stava accadendo, rivestito come di un senso di perplessità e incertezza, quasi di confusione.

Si diceva poi: “Me sènto badanà”, per sintetizzare la sensazione d’essere: stranito, insolito, floscio e “trambasciàto”, come si può essere, quando si viene presi dall’ansia e dall’affanno, o anche dall’umidore eccessivo dell’afa: “della caldàna”… Corrisponde a quel sentirsi un po’ svampiti, senza voglia di fare e andare … forse: esausti e demotivati: “Me sènto badanà”.

Termini bellissimi secondo me: coloriti e pregni di significato … Purtroppo perduti.

Ve li immaginate i Veneziani e le Veneziane di ieri, che un tempo parlavano così fra calli, rive e campielli?

“Come va ? … Ti me par: Rosso ingalbanà (rosso acceso, come la resina del Galbano del Libano che col tempo diventava rossiccia).

“Mah ! … Còssa ti vòl che te diga ? … Ancùo me sento un fià biàto … badanà … So ingiandolìo dal freddo (tormentato, instupidito)… No gho vògia de star là a fanfrugnàr (rovistare e trambustare in cerca di qualcosa)… Fosse anche una fasìna de legna (fascio)da butàr dentro al camìn sotto a la pignàtta ... Staria là incoattà (accovacciato, accoccolato con la testa sotto all’ala come gli uccelli) a far niente, e basta.”

Bellissimi !

Fra 1348 e 1360, e poi nel 1480, quando a Venezia: “ghe gèra carestia, e el Magnolèzo (pane mangereccio) dei Pistori veniva fatto con 3/4 de formento e 1/4 de Riso, s’inarpesàva i Morti(si arpionavano le tombe-Arche dei Morti alle pareti), e s’imborgàva(mettevano i ferri)i Sforzài (Forzati), continuando l’“Hebdomada Muta” de tener ferme anche le disperate campane dei Morti … come nella Settimana Santa ... Questo perchè infieriva su tutto e tutti la Giandussa o Glaindussa, cioè la micidiale Peste o Mal di Mazucco.”

Quando passava per strada una Meretrice con la Scabbia, un Puttanòn Gratapanze messo a disposizione spesso da una Fasservizi(serva)Ruffiana e Ochèla(loquace), si diceva: “Ecco che pàssa una Dorondòna Gratòsa… una Magiàta(giovialona, allegroccia) con le Mùle(scarpe leggere senza calcagno, ibrido fra scarpa e ciabatta)o i Mulòti(zoccoli di legno col tomaio in pelle, usati anche da Pescatori, Pescivendoli, Fantèsche, Massèe e Lavandere)ai pie (piedi)… Non a xè de certo una Maria de legno (magra, fredda e insulse, simili alle sagome della Festa delle Marie che si portavano in giro per Venezia), a pàr (sembra)piuttosto: una Farèssa, cioè un donòn, un femenòn o una femenàta feconde e prolifica de figli: una Figliaticela infrisàda ed entrante (ostinata, incaponita, che se la passa bene), che butta i fiòi (figli) dall’alba al tramonto in strada, o li deposita direttamente alla Ròda dei Esposti e de i Trovatelli della Pietà fingendose ‘na Madalèna (Maddalena pentita, lamentosa).”

A Venezia arrivava sempre di tutto: merci e persone di ogni sorta … C’erano i Paghiales o Pactuales: i Fattuali che stringevano alleanza e desideravano immedesimarsi con i Veneziani corrispondendo loro un tributo detto appunto: “Pacta”... C’erano: Patagnòti Mercatanti Siciliani, specialmente da Messina, che fra l’altro portavano a Venezia panni di cotone, e Cutulognes Francesi(coperte) importate da Barcellona.

C’erano poi: Zambèli(imbroglioni, impiccioni) che s’infiltravano dappertutto e in ogni affare finendo poi a Placitàr(accusati) davanti ai Tribunali …  Il Placido era la Causa Criminale con cui gli Avogadori accusavano “a porte aperte”i rei di Plagia o Mallevarie davanti al Consiglio dei Quaranta al Criminal: “Ciò: ad esempio altrui, a terrore degli scellerati, e a soddisfazione dei buoni, affinchè essi apprendessero come a Venezia si facesse indifferentemente a tutti Giustizia.”Patàr, invece, indicava: patteggiare con ladri e banditi per poter rientrare nello Stato Serenissimo finendo di pagare la Penàzza(mancia estorta), ed evitando le Zembàe(botte) dei Birri dell’arresto o della traduzione da un carcere all'altro.

In giro per Venezia ancora c’erano quelli che soprannominavano Falilèla, che corrispondevano a certi Villici, Campagnoli, Galeotti volontari che venivano assoldati e reclutati per pochi soldi da un Fapèle(ingaggiatore, caporalato d’uomini)o Mèngo col modo di fare da Fàrfo(voce autorevole, e gergo da Sbirro) e Gregùgno(voce bassa, finta aggraziata, come da fasullo Greco raffinato). I Falilèlafinivano a servire sulle Galee a remo, o negli Ippagoghia vela (navi portacavalli). Venivano scherniti, canzonati e presi in giro di continuo dal Popolino soprattutto, a volte anche presi a gnàsse(botte) ... C’era perfino una canzonaccia che ad ogni verso alternava un ritornello che sbeffeggiava i Falilèla Ninfadàri (effeminati): “I Falilèla xè stràmbi Zinzapopoli (fanno ragazzate, leggerezze), si vestono in piena estate di Gàmbelo e Gambelòtto (Cammello)per far apparenza … Sono intentii (litigiosi), stanno a guardare il niente grattandosi la barba o una Gàlta o Guànta(guancia) ... I xè zente che prova a inraisàrse(mettere radici) in Laguna e in Città abitando misere soffitte e luminàli(abbaini) ... Si credono abili Sjor Gasparo Guantadòr(validi borsaioli, complici e ricettatori), mentre in realtà sono solo bassi e ingenui Frisopìni o Frisopine fufìgnài (strapazzati) che si credono furbi e gherminella (scaltri), ma che, viceversa, vengono presi in giro in quanto facilmente raggirabili ...Si dice di loro, che quando salgono sulle navi mangiano zuppa di macinatura o tritume di Frisòpo: el Maszamurro, al posto del buon PanBiscotto che usano di solito “come Grazia” i Veneziani.”

In parallelo a loro, ci sono anche Hòmeni Fentizzi, cioè: “Quella gente del Popolino Grasso e appena agiato, che è pigro, lento, effimero, fièvole (deboli e stanco) e poltrone ...Spesso vivono ingalonài e ingatolài(si diceva di nave che rischiava di piegarsi e rovesciarsi col vento, avviluppata, inzampigliati e attorcigliata)… I Fentizzi sono: Fiàmola di carattere, cioè: banderille legate alla punta di una lancia, o sulle estremità degli alberi di una nave, messe al servizio del miglior offerente senza badare a coerenze, risultati e convinzioni. Sono zènte appariscente che si lascia flottare liberamente al vento, privi di valore e significato come un nastro vezzoso legato ai capelli di una donna, che può significare tutto o niente ...Sono gente: Fumàda, altiera e albagiosa, un fià Fùmia (tanta) per l’idiotismo, bisognosi d’essere inanzolài dal Cielo, e de la protesiòn de Santa Fèmia (Eufemia)e del Gesondio(Gesù Dio).”

Secondo antichi documenti Veneziani, in quella stessa epoca tanti erano: “Nui e crùi (nudi e crudi), poveri in canna, miserabilissimi … Chi non era Patrizio Lustrissimo (illustrissimo)o Magnifico, che viveva trastullandosi civilmente di rendita fra ori, argenti, zòje (gioielli)e contanti scuciti in mano ai Jocolàri (Gioiellieri), era semplice Venessian Plebeo e ludro (vestito di cenci, a volte s’impeciavano per farne fiaccole)che andava a Lumàr de notte(pescar di notte con una lucerna”; o andava a porre Escandurie (trappole)per prendere i Totani di Valle … Altre volte andavano anche a lumàr nell’invernèssa (inverno mite) tendendo agguati in giro di giorno e di notte.”

“C’erano poi i “Magnapègola de Castèo”, che lavoravano nel Contrabbando o da Lavèzeri(Calderai e Pentolai); s’inciurmavano in qualche Maràn a Vela, o Manzèra o Burcjo da buoi che faceva spola fra Dalmazia e i Macelli di Venezia; piantavano pali o Mede (brìcole) in Laguna, nei canali e nella sboccatura dei fiumi;o si prestavano a forza di magre braccia a far la Parenzàna, cioè ad apparecchiar le navi a prendere il mare, o a Libàrnavi, bastimenti, navicelli (alleggiarle, sollevarle, equilibrarle scaricando o spostando parte del carico su barche piatte più piccole)o Ubi investiti o ingiaràti(arenati) ...Altro Popolino Veneziano era Lavorante andando per le Isole e in Terraferma a servizio del Saltàro dei Boschi(guardaboschi), o prestando manodopera per il Piovegàn del Magistrato del Piovego che apprestava i lavori di acque e strade pubbliche ... Nel 1676 il Piovegàn era: Carlo Bulinoto di Mestre, che si occupava di accomodare il Terraglio per facilitare il passaggio delle merci da e per la Germania.”

Infine c’erano mille e altre persone in giro per la Città Storica Bagnata: “C’erano: Zònfi (monchi), sordi, òrbi, muti e zòtti (zoppi)che con Endègoli e Preteste varie (scuse, sotterfugi) non facevano niente, o mendicavano soltanto aspettando il miracolo della Provvidenza … Facevano Listòn e Passèlego (cicaleccio), o s’adergevano da Moscardin (provocatore amoroso) in Piazza San Marco(passeggiando avanti e indietro lungo le Liste bianche di marmo del pavimento della Piazza). Ogni tanto entravano ad accendere una Ròta (candela tonda,candeluzza, cerino fatto a cerchio, che ogni domenica o giorno festivo si offriva al Doge: “omni die Dominico rotai duas, unam ad legendum lectiones, et alteram ad cantandum responsoria”)nel candelaio della Basilica di San Marco; ovvero andavano ad assistere da Murlòni(sciocchi)agli spettacoli, alle Momarie e alle Bombarie(bubbolarie)di buffoni che si fingevano eroi; ovvero stavano a giocare a Morelle con pallottole e piastrelle fino a paìr (smaltire)la bàla (la bevuta); o rimanevano a bocca aperta stupiti di fronte a qualcuno che gli sventolava davanti una Zèttola misteriosa(ritaglio di carta)che indicava tesori misteriosi, e pratiche magiche meravigliose venute dal lontano e Oltreterracqueo Oriente.”

Venezia viveva, pulsava, diceva e parlava …


“Cèrdo sum”: sono Ciabattino.

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#unacuriositàvenezianapervolta 289

“Cèrdo sum”: sono Ciabattino.

I Caleghèri Tedeschi della Corte de la Pelle o del Curàme a San Samuèl

Se vi spingete a Venezia da Campo Santo Stefano dentro al bigolo stretto e poco illuminato della fenditura della Calle delle Botteghe, proprio di fronte alla porta principale del gran chiesone che è stato dei Frati Agostiniani, v’imbatterete ancora oggi in fondo a sinistra in quel che rimane della Schola dei Lavoranti Calegheri Tedeschi ... Oggi ospita una piccola Galleria d’Arte, che forse è rimasta affossata durante il Covid … Non so bene, dovrei tornare a guardare di nuovo.

Quell’area un tempo era parte integrante della Contrada di San Samuel, che confinava con quelle di Sant’Anzolo e San Vidal, ma su tutta la zona prevaleva l’influenza dei potenti e titolati Agostiniani del Convento di Santo Stefano, che davano nome anche al Campo principale della zona poco distante da Piazza San Marco.

E’ lì in fondo alla Calle delle Botteghe, che si può ammirare insieme a molto altro, quella scarpa d’altri tempi incisa sulla pietra, che ho postato qualche giorno fa su Facebook e Instagram incuriosendo diversi di voi.

Preciso subito un paio di cose: Lavoranti Tedeschi… non Mastri-Maestri: è diverso … Nelle Arti e Schole dei Mestieri Veneziani si distingueva fra Mastri d’Opera(rappresentati col cappello in testa), Lavoranti, cioè Assistenti (rappresentati a capo scoperto), e Garzoni-Allievi-Apprendisti:sottoposti, serventi (rappresentati ancora più piccoli, riverenti, inginocchiati e timidamente a capo chino).

Così li potrete notare rappresentati anche nel bassorilievo in facciata della Schola dei Caleghèri Tedeschi, dove si vedono 5 affiliati Caleghèri Tedeschiscolpiti di fronte alla Madonna.

Ho detto poi: Lavoranti Tedeschi… non Veneziani … Per Tedeschi a Venezia s’intendeva non solo gli Allemanni Teutonici, quelli dalla Germania per capirci, ma tutti gli Imperiali, e quelli che in qualche modo gravitavano attorno all’Impero oltre i confini della Serenissima. Si chiamavano “Tedeschi”anche quelli dell’Alto Adige,e tutti quelli provenienti da Belluno, dalle Montagne Venete, ma anche da Gradisca d'Isonzo, e dalle Valli Lombarde e Bergamasche ... Un gran centone insomma.

I Lavoranti Calegheri Tedeschi vanno distinti quindi dai Caleghèri Veneziani (quelli della Schola di San Tomà per capirci), che ebbero storia e vicende a parte, e dai quali i Tedeschi sono stati sempre ben separati.

Quella di Campo di San Tomà nel Sestiere di San Polofu fin dal 1446: sede preminente di riferimento dell’attività degli Scarpai o Scarperi o Calzolai Veneziani.  Nella più defilata zona della Contrada di San Tomà, oltre il Canal Grande, e più lontano dal centro cittadino e dai posti commerciali di San Marco e Rialto, l’Arte dei Calegheri Veneziani collocò definitivamente la sua pomposa sede. Prima, quando contava ancora poco ed era scarsamente sviluppata in Città, l’Arte si riuniva a Capitolo in Calle Crosera nel Sestiere di Castello. Le prime aggregazioni dei Calegheri Veneziani risalgono al 1200, il Cronista Martino Da Canal li ricorda in sfilata ad omaggiare il neoletto Doge Tiepolo nel 1268 ... Il loro primo Capitolare-Statuto Corporativoè databile: 1278.

Da lì, cresciuta in prestigio e in volume d’affari, l’Arte si trasferì a Santa Maria della Carità(Accademia), dove le Cronache raccontano che celebrava la Festa del Patrono Sant’Anianoil 2 dicembre, noto per le sue leggendarie interazioni con San Marco ... Fino a quando passò a San Tomà, dove Pietro Lombardocommissionato nel 1478 da Gastaldo e Massèr dei Caleghèri, riassunse a colori sul portale della facciata della Schola, tutta contrassegnata da figure di scarpe, le vicende del Santo Aniano e dei Calegheri Veneziani.


I Calegheri Venezianisono quindi diventati una delle Arti Cittadine più importanti … Non a caso sono stati rappresentati più volte nei “luoghi simbol” del potere politico ed economico della Serenissima. Si fa riferimento ai Caleghèri Venezianinella Basilica Dogale Marciana, dove Sant’Anianoè raffigurato in uno degli smalti della Pala d’oro, nella Pala Feriale realizzata da Paolo Veneziano nel 1345, e in due mosaici sulle Cantorie e nella Cappella Zen ... Tanta ròba per un Mestiere !

Ma non è tutto …

Un paffuto Caleghèr Veneziano si può vedere rappresentato su uno dei Capitelli di Palazzo Ducale. E’ bellissimo con pettorale, il grembiule, i ferri del mestiere, e l’iscrizione “Cèrdo sum”: sono un Ciabattino … Ciabattini intenti al lavoro si riconoscono anche nell’Arco dei Mestieri sulla porta principale della Basilica di San Marco … Al Museo Correr si può vedere esposta l’Insegna dell’Arte dei Caleghèri, che in passato era collocata insieme a quelle delle altre Arti Veneziane nella sede del Magistrato della Giustizia Vecchia di Rialto.

Il titolo di Caleghèri e Zoccolèriè segnato e visibile ancora oggi sui listòni bianchidella pavimentazione di Piazza San Marco dove vevivano collocati i banchetti per la Festa-Fiera della Sensa. In Piazza San Marco si teneva anche mercato settimanale ... Insomma: a Venezia c’era e c’è tanto che richiama Scarpe e Caleghèri.


Il termine Calegheri, lo sapete, deriva da “càliga o galìga: la scarpa-sandalo utilizzata soprattutto dai Romani … Erano Cerdònes: i militari con i sandali … Tirandola un po’ sul significato fa un po’ sorridere:“lo squadrone dei Legionari in ciabatte.”

Ve li immaginate i potentissimi e famosi soldati Romani con i sandali“co i òcci”, come quelli che indossavamo noi da bambini ?

Fantasia … lasciamo perdere.

 

Era il Magistrato alle Beccarie che controllava a Venezia il rifornimento di pellame e cuoio per i Caleghèri ... Chi poteva, pochissimi, teneva scorte limitate nei magazzini: la Serenissima vigilava acutamente e instancabilmente su tutto e tutti … Cronache Veneziane raccontano che gli Artigiani Caleghèri Veneziani erano spesso gente boriosa, a volte facinorosa, iraconda e attaccabrighe … Esistono gli atti di diversi processi, immancabili a Venezia, intentati dai Calegheri e contro di loro per secoli, conaccese discussioni e contrasti sulla concorrenza troppo sleale o eccessiva, sui prezzi esosi o stracciati praticati dagli ambulanti “Foresti” e dai Consazòcoli abusivi non autorizzati dalla Schola, sui Lavoranti preclusi e impediti nell’accesso alla carica superiore di Mastri dell’Arte, sulla maggiore o minore abilità nel lavorare cuoio vecchio o nuovo per confezionare scarpe, zavàte e stivali, e sui diritti della Schola non pagati, sui debiti ancora non riscossi.

 


A Venezia si distingueva fra: Socholàri o Zoccoleri i cui zoccoli furono molto usati per secoli, ePatitàri che realizzavano i Patiti”(pattini o suole di legno adattate poi al piede con strisce di cuoio). A volte li realizzavano anche con eleganti disegni, e li intarsiavano in osso e madreperla ... C’erano poi iSolàri, che ritagliavano curiosamente vecchie suole di cuoio per applicarle sotto alle "calze"in sostituzione delle scarpe, come pratiche “scarpe da casa”.

Fin dal 1500, soprattutto le Cortigiane Veneziane, usavano Calcagnetti in legno e sughero con zeppe in cuoio o velluto alte fino a 50 centimetri. Erano utili forse per proteggere gli abiti da fango e acqua alta, o“per non far andar tanto in giro le donne” si diceva … Era un po’ come camminare sui trampoli ... Furono perfino vietati per via delle rovinose cadute, che procurarono anche qualche aborto.

Sapete quante erano le botteghe da Caleghèr e da Zavatèr a Venezia nel 1765 ?

Erano 330 ! … Sorprendente vero ? … 29 nel Sestièr di Santa Croxe: il 65% di tutte le botteghe del Sestiere; 75 nel Sestièr di Castello; 77 in quello di Cannaregio; 56 a Dorsoduro; 34 a San Poloe 59 nel Sestièr di San Marco… Prima ancora, nel 1729: le botteghe da Caleghèr erano arrivate ad essere: 374 in tutto ... Non male vero ?


A Venezia un paio di scarpe invernali costava circa 10 lire ... Lire 1 per il curame della suola e i sopratachi, lire 3 per la copertura in vitello, lire 1,05 per soletta, tacchi e filo, lire 3 per la fattura del Lavorante, e lire 1,15 per l’utile da ricavare.

Nel 1770-71, il Sestiere di San Marco che contava 20.762 Veneziani, consumava più di 8.900 libre di cuoio in 54 botteghe da Caleghèr, che contavano circa 400 clienti. A Dorsoduro dove risiedevano 28.635 Veneziani, si consumava più di 8.310 libre di cuoio in 59 botteghe, che servivano circa 485 persone. Nel Sestiere di San Polo con una popolazione di 10.536 Veneziani, si consumavano 6.190 libre di cuoio in 31 botteghe, che avevano una clientela media di circa 340 persone. A Cannaregio, con una popolazione di 33.061 Veneziani, si consumava 10.502 libre e 8 once di cuoio in 60 botteghe con più di 550 clienti. A Castello dove abitavano 34.181 Veneziani, si consumava 15.532 libre in 67 botteghe, servendo circa 450 persone. Infine a Santa Croce, dove abitavano 13.861 Veneziani, si consumava 3.551 libre e 2 once di cuoio in 23 botteghe, che servivano più di 600 compratori.

Interessante vero ?

Torniamo però ai nostri Lavoranti Calegheri Tedeschi di San Samuel.

Ad essere preciso, dovrei dire chela Schola dell’Annunziata dei Lavoranti Calegheri Tedeschi era una specie di microcittadella di riferimentocon annesso Ospizio in Corte della Pelle o del Curàme dove sorgevano i magazzini dei Caleghèri. Già dalla fine del 1383 i Lavoranti Calegheri Tedeschis’erano congregati fra loro in Calle de le Botteghe come “Schola chiusa di Nazionalità” ottenendo l’apposito permesso sia dal Consiglio dei Dieci che dal Doge Antonio Venier. Al Doge i Caleghèri Tedeschi avevano presentato una particolare Supplica riferendogli che diversi … troppi … giovani apprendisti “di buona famiglia”, terminato il loro tirocinio come Garzoni dell’Arte a Venezia, si trovavano senza sbocchi occupazionali, costretti quindi per sopravvivere a imbarcarsi come “serventi” sulle Galee di Mercato Veneziane “dove rischiavano spesso la vita senza alcun frutto”.

Quella dei Lavoranti Tedeschi divenne quindi una delle “Scholae Comunes” di Venezia in cui ci si associava non solo per Mestiere,  Devozione o Nazionalità, ma anche per essere “Consolidales”, cioè persone che si scambiavano sostegno economico, assistenza sanitaria nella vecchia, infermità e accompagnamento in Morte.

Il Simbolo-Logodella Schola dei Calegheri Tedeschi era una “M” di Madonna, sormontata da una corona sostenuta da tre eleganti scarpe. Lo si può notare a fatica in facciata, ma è ben visibile anche sull’Altare dei CaleghèriTedeschi dentro al chiesone di Santo Stefano(è stato rinominato come Altare dell’Addolorata, il secondo a sinistra entrando)… Fu costruito nel 1496, quando da poco la scoperta dell’America aveva ribaltato i tradizionali equilibri commerciali …Dedicato all’Annunziata(tipica Devozione d’ambito e sensibilità Germanica d’ispirazione Riformata-Protestante), aveva ai piedi l’Arca(tomba) per inumare i Morti della Schola. Una seconda Arca sarebbe stata ricavata nello spazio fra le due porte del Convento e Chiostro dei Frati Agostiniani ... Un’altra Annunciataè visibile anche sugli stipiti della Porta della Schola in Calle delle Botteghe ...Ai lati dell’Altare si sarebbero collocate alcune panche per il comodo del Celebrante e degli intervenuti. Sul nuovo Altare: Pietro de Boemia e Fredericus de BavariaConfratelli Calzolai Tedeschi, ottennero dagli Agostiniani di celebrare 50 Messe Domenicali di cui 5 Cantate nelle Feste Mariane di Febbraio, Marzo, Agosto e Settembre: la Natività di Maria, la Visitazione, l’Assunta, quindi Ognissanti a novembre, la prima domenica dopo la Festa di San Nicolò, e il primo lunedì dopo la Festa di San Giacomo del 25 luglio.


Non fu un caso se i Lavoranti Caleghèri Tedeschi si affidarono, pagando 16 lire annue, alla “Cura Animarum” degli Eremitani Agostiniani di Santo Stefano. Quello degli Agostiniani era un Ordine Religioso molto diffuso, potente e popolare in Germania, dove intesseva tradizionalmente stretti rapporti con le Confraternite e Corporazioni locali. Anche a Venezia gli Eremiti Agostinianiavevano ben attecchito ottenendo molta disponibilità e consenso sia dai Veneziani che dalla Signoria. Lo Studium Generale Agostiniano di Santo Stefano ospitava molti studenti transalpini soprattutto di provenienza Tedesca. In quell’epoca era guidato dal Priore Bartolomeo da Venezia: più volte Generale degli Agostiniani, uomo-Frate molto acculturato e simpatico alla Serenissima, che lo supportò, considerò e raccomandò fino a farlo diventare nel 1387 Patriarca di Grado: carica di gran prestigio dentro alla logica strategica dello Stato Veneto.

Il Priore Bartolomeoda Venezia fu famoso anche per aver più volte smascherato e sanzionato i Frati Agostinianiindisciplinati, portando reati e illeciti pecuniari e comportamentali tenuti nascosti fin davanti al Doge. Le Cronache raccontano che mise fine a commerci di Messe, Prediche e gestioni di elemosine e rapporti con le Corporazioni interessati ... Sembra che abbia carcerato alcuni Agostiniani dentro al Convento di Santo Stefano.


In un Inventario del 1653 dei beni accessori dell'Altare della Schola, si elenca fra il resto anche: cinque lampade d'argento, alcuni Cuoridorodi cuoio dorato e lavorato, e i damaschi per “vestire a festa” le quattro colonne ... era ben corredato insomma.

In Corte della Pelle o del Curàme, c’era poi l’Ospizio per i vecchi e gli invalidi dell’Arte. Sorse a fine 1400 con la donazione di un edificio contiguo alla Schola dato da Enrico Corrado Caleghèr d'Alemagna ... L’Ospizio venne poi ampliato nel 1482, riedificato nel 1609, e restaurato ancora nel 1659, quando la Schola possedeva rendite annuali da immobili posseduti in Venezia per 146 ducati.

Così infatti recita la corposa lapide posta al centro della facciata della Schola dei Caleghèri Tedeschi: “D.O.M. FV RESTAVRATO IL PRESENTE HOSPITALE DE CALEGHERI TODESCHI SOTTO IL GOVERNO DI MISTRO ZUANAE MESTICH GASTALDO ET SOPRAINTENDENTE DELLA FABRICHA CON L’ASSISTENZA DI MISTRO CHRISTOFFOLLO MENSORI SOPRASTANTE ALLA MEDESIMA CON CONSENTIMENTO DEL CAPITOLO GIENERAL ADI PRIMO OTTOBRE MDCLVIIII”.


Nel 1712 la rendita della Schola dagli immobili era salita a 188 ducati, nel 1740 divennero 219 ducati ... Poteva trattenersi per tre giorni nell’Ospizio dei Lavoranti Caleghèri Tedeschi i Pellegrini diretti in Terrasanta o a Roma, o qualche Lavorante disoccupato in cerca di lavoro, o qualche Mastro Calzolaio Tedesco di passaggio a Venezia, che intendeva stabilirsi in Città ... Interessantissimo: tutti costoro venivano chiamati dai Lavoranti Caleghèri della Scola: “Fratelli” … I ricchi Mercanti e i potenti Banchieri Tedeschi, invece, cercavano posto nelle Locande della Città o nel Fontego dei Tedeschi a Rialto ... Tutti gli ospiti dell’Ospizio venivano segnati nell’apposito:“Libro dei nomi dei Fradelli che capitano in Venezia di passaggio dalla Allemagna Alta” ... Oltre al posto letto, si elargiva anche un sussidio economico di lire 1 e soldi 16 se fosse servito.

L’Ospizio dei Lavoranti Tedeschi Veneziani era conosciuto in tutta Europa come buon punto d’appoggio e riferimento. Venne ricordato anche da Ludovico il Moro, e dal noto Mercante Fiorentino Jacopo d’Albinotto Guidi.

Nel 1550 l'attività dell'Hospeàl dei Lavoranti Calegheri Tedechiattirò l'attenzione del Governo Veneziano… Dieci anni dopo, il Senatoordinò l'elezione di Tre Nobili ai quali affidò il compito di rivedere le Regole che sovrintendevano alla gestione della piccola istituzione dei Tedeschi ... Quattro anni dopo ancora, furono i Proveditori da Comun che andarono a rivedere i termini di un accordo stipulato fra Calegheri Veneziani italiani e Calegheri Tedeschi, che aveva finito con danneggiare la Schola dei Lavoranti Todeschi ... Poco dopo ancora, i Proveditori sora gli Ospedali, i Lochi Pii e il riscatto de li Schiavi ordinarono che i locali dell'Hospeàl Tedesco fossero al più presto sgomberati da chi vi risiedeva senza titolo. Si ricordò che nell’Ospizio dei Calegheri Tedeschi poteva alloggiare solo il Priorea cui competeva riscuotere le entrate della Schola, provvedere ai restauri, e tenere aperto il locale a piano terra nel giorno dell'Annunciazione. Non poteva quindi abitarvi anche il Gastaldo dell'Artecom’era capitato ... Nella stessa occasione, i Proveditori da Comun ordinarono anche di produrre un inventario dei beni della Schola, invitando i Compagni a recuperare “una certa Croxe e altre cose che si trovavano depositate presso i Bombaseri del Fontego … prima che sparissero del tutto”.


Nel 1740 la "fabrica dell’Ospissio era vecchia e cadente", perciò fu necessario risanarla e restaurarla ... Nel 1769, invece, “dopo ripetute ed insistenti suppliche", venne concesso finalmente al Capitolo della Schola la facoltà di riunirsi nei locali dell'Ospedaletto, utilizzando la chiesa di Santo Stefano solo per le Funzioni Religiose... Nel 1781 si stabilì, invece, che l’Ospizio oltre ad accogliere i Compagni poveri e ammalati, avrebbe potuto dare alloggio anche a tutti "li passeggeri Todeschi dell'Alemagna alta" che si trovassero in transito a Venezia, seppure per un periodo non più lungo di tre giorni, e con la corresponsione di una diaria di 12 soldi al giorno.

In un nuovo Inventario dei beni della Schola del 1785, si accennava a un Altare situato a piano terra dell'Hospeàl, dov’era collocata una pala in legno dipinto “con la Santissima Annunciata”, ed altri sei quadri vecchi di minore importanza ... Il tutto nel 1797, alla caduta della Repubblica, venne valutato e venduto per lire 16, e a seguito degli editti napoleonici del 1806:Schola e Hospeàldei Caleghèri Tedeschi vennero soppressi e chiusi per sempre.

A fine gennaio 1815, il Locale dell’Arte al n° 2651 in Calle dei Santi Rocco e Margherita appartenuto all’Arte dei Calegheri Tedeschi, era nella “Lista delle vigne, orti, beni da affittarsi dalla Direzione del Demanio di Venezia” nei giorni d’asta 12 e 16 febbraio seguenti … Visto che nel 1823, i Preti con l’Abate Giorgio Martinelli avviarono proprio lì un’Accademia Morale, si può dedurre che furono loro a comprare l’ambiente della Schola … Poi se ne fece negozio.

L’attività della Schola dei Lavoranti Caleghèri a Venezia va collocata in un movimento più ampio che per secoli ha ospitato i Tedeschi con le loro attività e commerci in Laguna ... Chi trascorreva un periodo minimo di dieci anni esercitando una professione in città, avrebbero potuto essere considerato come "Suddito" e non più come "Forestiere".


Un Campiello dei Calegheri si trovava quindi vicino al Teatro della Fenice in Contrada di San Fantin, poco distante da San Marco, a soli due passi dal Confinio-Contrada di San Paternian, dove già nel 1469 si riunivano i Stampatori Tedeschi che realizzavano: Bibbie, opere di Cicerone, Plinio e Sant’Agostino (nel 1500 Venezia con Magonza, Strasburgo e Augusta erano i centro più importante dell’editoria d’Europa)… E ancora: un Ramo Primo, Secondo, Terzo e Quarto dei Calegheri si trova poco distante a Santo Stefano-San Fantin, un Ponte dei Calegheri si trova alPonte Stortoverso San Cassiano, una Calle del Zavatèr a San Marcuola al centro del Sestièr di Cannaregio.

Poco distanti dai Lavoranti Calegheri Tedeschi trovarono spazio fin dal 1333 in Contrada di San Samuel, dove avevano il loro proprio Ospizio, anche i Lavoranti Pistori Tedeschi associati a loro volta nellaSchola della Concezione della Beata Vergine Maria, con sede nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo a soli due passi da San Marco.

I Lavoranti Pistori Tedeschi erano deiPancògoli o Panicuòcoli, cioè dei Cuocitori e Artigiani del panein tutto simili ai Fornéri Veneziani.  Unica differenza: i Pistori Tedeschi cuocevano il pane “alla tedesca”, senza però poterlo vendere sui Mercati di Rialto e San Marco riservati ai Panettieri Veneziani(20 botteghe ai piedi e attorno al Campanile di San Marco, e altrettante a Rialto).A Venezia si cuoceva il pane “alla Veneta, alla Lombarda e alla Tedesca”, ma anche il "Pan biscotto" per i Marinèri e la Navigazione delle Galee era esclusiva dei Panicògoli Veneziani che lo realizzavano in appositi forni riservati e ben guardati in Riva di San Biagio sul Molo di San Marco, e nell’Isola poco distante di Santa Lena(Sant’Elena).

A metà maggio 1422 il Consiglio dei Dieci provò inutilmente a unificare fra loro tutti i generi di Pistori attivi a Venezia in un unico sodalizio e con un unico Gastaldo del Mestiere. Piovve subito un effluvio di opposizioni e suppliche: oltre alle differenze tecniche della panificazione, c’era soprattutto il grosso inghippo della difficile convivenza fra Pistori Cattolici e Protestanti… Stava già incombendo il tempo della temutissima emergente Riforma con le sue presunte pericolosissime Eresie ... Il grande Riformatore Martin Lutero nacque in Germania nel 1483, e morì nel 1546 ... Il Consiglio dei Diese della Serenissima nella sua acutezza comprese subito le implicazioni dei nuovi indirizzi dati agli Artigiani, per cui ritornò sulle sue scelte, e ridiede ai Pistori la facoltà di associarsi liberamente.

I Pistori Tedeschi più tardi si trasferirono anche loro dalla disertata chiesa dei Santi Filippo e Giacomo alla più centrale e partecipata Santo Stefano degli Agostiniani, accanto ai Lavoranti Caleghèri Tedeschi a soli due passi da San Samuel dove c’era il loro Ospissio: “la Caxa dei Todeschi” in Calle dei Todeschifra Salizada Malipiero e Calle dei Zòtti. Ottennero in chiesa l'assegnazione dell'Altare della Concezione della Madonna: “dove furono autorizzati a celebrare “alla Protestante”(??? … non ne sono sicuro).

Comunque, un'apposita indagine dei Proveditori da Comun del 1785, certificò che i Pistori Tedeschi erano gente tranquilla, che sapeva mantenere con decoro il loro altare nella chiesa di Santo Stefano.

In Città esisteva insomma una vera e propria enclave Alemannadistribuita in molte Contrade Veneziane più o meno limitrofe all’Emporio Realtino con Fontego dei Tedeschi che fungeva da epicentro e punto di riferimento per tutti i Tedeschi importati a Venezia.


Per i Mastri Artigiani specializzati, e per i Mercanti Tedeschi con le loro merci, la domiciliazione più adatta era proprio il Fontego dei Tedeschi parte integrante dell’Emporio di Rialto. Si trattava di una realtà massiccia polivalente attiva già dal 1228, luogo di Dogana e Porto Franco, ma anche di Cultura, e d’esercizio-incontro tra Professioni Religiose alternative ed eterodossedi provenienza Transalpina e Germanica. Nel Fontego: Serenissima e Tedeschi hanno tessuto ampiamente e lungamente insieme per secoli le loro economie e i loro contatti e scambi bancari e imprenditoriali. Dai Mercati di Norimberga e Colonia, ma anche dalla Russia e dall’Austria Imperialegiungevano a Venezia: oro e argento, ferro, rame, zinco, legname, sete, pellicce, libri e oggetti di cuoio e corno abilmente stivati, immagazzinati, manipolati, imballati, trattati e piazzati sul mercato da una piccola folla di Ligadori, Bastazi, Battiloro, Fustagneri, Libreri, Segadori, Tessitori di Lana e Stivadori: tutti rigorosamente di origine Tedesca.

Almeno tre diverseMagistrature della Serenissimavigilavano e controllavano attentamente tutto quanto accadeva “di losco o pulito” all’interno del Fontego: iCinque Savi a la Marcanzia per la disciplina e l’economia, il Collegio a la Milizia da Mar per Dazi e Gravezze pubbliche, e i Tre Visdomini de Fontego per tutto un po’.

All’interno e nei pressi del Fontego lavoravano i Ligadori del Fontego, e sempre al Fontego era connessa l’attività dei Battiloro Allemanni che avevano botteghe in Contrada di San Lio a due passi da Fontego e da Rialto.


I Ligadori del Fontego erano Facchini-Bastazi di Nazionalità Tedescadiretti da un Gastaldo-ProtoMagistro, che ricopriva anche il ruolo di Direttore dei lavori. I Ligadòri venivano impiegati per l'imballaggio delle merci dei Mercanti Tedeschi attivi a Rialto. Gli imballaggi venivano eseguiti secondo un apposito tariffario formulato nel 1424, per conto dei Mercanti dei quali veniva apposto il personale sigillo.

La tariffa era: “da un massimo de lire 5 e soldi 6 per balla da lire 2.800 a 3.000, a un minimo de soldi 2 a barile di polvere di zucchero, o per una cassa di cannella, o a cusir intorno alla canevaxa” ... I Ligadori non potevano esercitare al di fuori del Fontego, ed operavano insieme a un Compagno alla presenza di un Mezèta o Sensale: “Avevano il monopolio sotto bolletta del carico d’imbottar, imbarilar, insaccar anche fuori del Fontego: polvere de zucharo, legname, fighe, lume (allume) e mandorle che fossero di proprietari tedeschi.”

Fin dal giugno 1418 i Ligadori Tedeschi s’erano associati in Fraterna di Devozione, che divenne quasi subito la Schola della Trinità dell’Arte-Mestiere dei Ligadori del Fontego nel 1423, quando i Tedeschi chiesero ospitalità ai temibili Frati Domenicani di San Zanipolo(quelli dell’Inquisizione). Secondo i dettami della Mariegola dei Ligadori: gli iscritti all’Arte dovevano appartenere alla "Nathion Todesca", e non potevano mai essere più di 18 (in seguito furono: 25-38). Con i Padri Domenicani, i Ligadori Tedeschi s’impegnarono a costruire un Altare della Trinità riservato accanto all’Altar Maggiore della chiesa di San Zanipolo(transetto sinistro, prima cappella dopo l'altare maggiore), dove i Frati avrebbero celebrato una Messa Cantata nella Cappella abbellita dalla Schola ... Nello stesso anno il Consiglio dei Dieci autorizzò i Ligadori a costruire anche una loro sede per ospitare la loro Schola.

Più avanti, nel 1472, gli stessi Domenicani dei Santi Giovanni e Paoloconcessero ai Ligadori Tedeschi anche di porre delle Arche per i loro Morti in chiesa, smettendo così di utilizzare per i loro scopi il vicino superaffollato Cimiterino di Sant’Orsola che contornava la chiesa.

Nel 1764 e nel 1773: secondo indagini e statistiche dei Proveditori da Comun, la Schola dei Ligadori del Fontego era formata in tutto da sei componenti: tre "Mistri" e tre Lavoranti, che comunque mantenevano l'altare e curavano la celebrazione delle funzioni religiose in chiesa.


Ultimissima nota … Sul frontale della Schola dei Lavoranti Tedeschi c’è scritto anche: “Questa Fratelidade si è dei Lavorenti Todeschi Calegheri”... Un titolo che credo riassuma alla perfezione ciò che è stato, e ciò che è accaduto un tempo in quel luogo … La “Fretelidàde dei Caleghèri Tedeschi Veneziani” divenne un esempio, perciò venne imitata anche dalle comunità dei Caleghèri Tedeschi residenti a Udine, Treviso, Vicenza, Trento, Verona, Firenze e Roma.

 

I Grigioni a Venezia

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#unacuriositàvenezianapervolta 290

I Grigioni a Venezia 

I Grigioni sono stati parte di un Canton Svizzero, si sa … Che c’entra Venezia con loro ?

C’entrano eccome ! … Pensate che durante il 1600 alcuni Grigionesi accusati di reati comuni o di vagabondaggio, si ritrovavano in catene a remare dentro alle Galee da guerra Veneziane mandate contro i Turchi ... Vi sembra così ovvio ?

Eppure andò proprio così, anzi: in quel tempo la si considerava una cosa normalissima.

Che era successo ?

Sorprende poi scoprire che diversi nomi di famosi Artisti, Architetti e uomini di cultura illustri presenti nello scenario storico e urbano Lagunare-Veneziano del 1500-1600, provenivano proprio da là: dai Grigioni Svizzeri. Non si tratta di nomi banali: l'Architetto-Scultore Pietro Lombardo, ad esempio, proveniva dalla castellanza di Carona di Lugano presso Ciona nel Canton Ticino. Era un Grigione o Grigionese quindi, presente e attivo a Venezia già negli anni 1480-90, quando lavorò per la Schola Granda di San Marco.

Nel 1500 operò a Venezia anche lo scultore Lorenzo Bregno, che era da Osteno sulla sponda Luganese del Lago di Como, nel 1530 operarono in Laguna anche Bernardo Contin da Lugano, e Marc-Antonio Paleari ... Architetti Grigionesi pure loro.

Nel 1600, udite udite: Baldassarre Longhena Si: proprio lui, quello della Basilica della Salute e di tanti altri monumenti insigni Veneziani. Era primogenito dell’analfabeta Melchisedech Longhena e di mamma Giacomina, entrambi nativi di Morezza in Valtellina. C’erano poi a Venezia: Giuseppe Sardi figlio di Antonio muratore e architetto, originario di Morcote nel distretto di Lugano del Cantone Ticino; lo scultore Bernardo Falcone da Bissone sempre dalla stessa zona, e il pittore Pier Francesco Mola detto appunto: “il Ticinese” in quanto era da Coldrerio nel distretto di Mendrisio nel Cantone Ticino.

La cosa non cambiò nel 1700: l’Architetto e Proto Domenico Rossi era pure lui da Morcote nel distretto di Lugano del Cantone Ticino, come lo furono: l’Architetto, Incisore e Scrittore Giorgio Domenico Fossati, e perfino lo strafamoso stuccatore Abbondio Stazio che ha abbellito in modo splendido tantissime dimore Veneziane. Proveniva da Massagno nel Cantone Ticino, nel distretto di Lugano: Grigionepure lui quindi, come Carpoforo Mazzetti Tencalla da Bissone nel Cantone Ticino, e come il grandissimo Architetto Francesco Borromini, e perfino il Bibliotecario Jacopo Morelli protagonista di tante vicende storiche della Biblioteca Marciana di Venezia. Anche lui era figlio di oriundi Ticinesi, come Grigionesi nel 1800 erano il chirurgo militare Tommaso Rima, e il pittore-scenografo Vittore Pelli.

Potrei continuare ancora con la lista dei Grigionesi illustri passati per Venezia, ma andiamo oltre.

La Serenissima Venezia, lo sapete meglio di me, fu sempre lungo i secoli un importantissimo porto di mare, la Capitale, una Città aperta e lungimirante … quasi sempre … Di sicuro: un’entità poliedrica, tollerante, totipotente, disposta ad accogliere ogni alterità per arricchire la sua identità socio-politica ed economica già originalissima e singolare di suo. E’ stata tuttavia altrettanto poco disposta a rinunciare alla sua specificità: questo va sottolineato.

Detto questo: Milanesi, Greci, Genovesi, tessitori Lucchesi, Bergamaschi, Albanesi, Vicentini, Schiavoni Slavi-Dalmati, Allemanni, Fiorentini, Armeni, Turchi, Ebrei, Persiani… e chi più ne ha più ne metta, passarono per Venezia. A tutt’oggi Venezia è tempestata topograficamente dai segni del passaggio di tante identità etniche con cui ha avuto a che fare per secoli ... Fra questi: anche i Grigioni Svizzeri.

 

Un dettaglio … Fra 1698 e 1750, quando i Garzoni delle Arti Veneziane impegnate in Laguna fluttuavano fra 20 e 50, quelli dal Territorio delle Tre Leghe Grigie(Mustair, Zernez, Susauna), dall’Engadina Alta e Bassa(Scuol, Ftan, Davos, Sent, Tarasp), e dalla Val Bregaglia crebbero da 36 a 87.

Anche quelli da Cividal di Belluno crebbero da 9 a 23, mentre quelli dell’Agordino: scesero da 12 a 6, e quelli del Cadore-Ampezzano: da 34 a soli 4.

Ancora dati alla mano: nel 1735-40, sulla totalità di 548 Lavorantie 165 Garzoni occupati nelle Arti e Mestieri dello Stato Veneto, 296 e 30 provenivano “da fuori Venezia”.

Per “fuori” s’intendeva soprattutto: Grigioni e Stati Tedeschi comprensivi anche del Friuli con Pordenone e Sacile, il Cadore con Agordo, Feltre e Belluno, ma anche Brescia e le Valli Bergamasche. “Da fòra” in senso lato, erano anche quelli da Treviso e Conegliano, Padova, Bassano e Vicenza, Verona e Rovigo ... “Fòra” era un po’ dispregiativo, sminuiva:“Ma ti xè Fòra ?”

 

Si trattò quasi sempre di migrazioni abbastanza pacifiche, progressive, direi quasi soft e indolore, come quelle di oggi dei Filippini, dei Bangladesh, dei Marocchini ed Egiziani, dei Cinesi, o dei Romeni o Moldavi, che piano piano negli ultimi decenni si sono infiltrati e insediati in Italia attraverso il commercio, il badantaggio o il servizio domestico e professionale. Quella dei Grigionesi a Venezia non fu un’immissione di persone drammatica come certe di oggi che finiscono col perdere la Vita attraversando il Mediterraneo in cerca di fortuna.

Quella dei Grigioni Elvetici a Venezia, non fu comunque una presenza banale, nè una stagione breve ed effimera, ma una costante ben radicata e distribuita che durò diversi secoli segnando di sicuro la Storia Veneziana. Si trattò di un prolungato, intenso quanto proficuo interscambio culturale, che si esplicitò almeno in tre filoni d’azione.

 

1.  La manovalanza Grigionese a Venezia come fenomeno lavorativo, fatto economico-commerciale, ma anche: modo d’essere.

 

2.  I Grigioni come formidabile serbatoio di risorse umane Mercenarie adatte a guerreggiare e a rafforzare di volta in volta l’Esercito Veneziano.

 

3.  I Grigionesi portarono a Venezia i contenuti della pirotecnica Riforma Protestante. Con le persone lungo la Via dei Grigioni viaggiavano anche nuove idee e convinzioni. Non va dimenticato: “la Riforma non attecchì in Laguna se non nei circoli dei suoi Nobili, ma ci mancò un pelo, uno soltanto, perché la Repubblica Serenissima divenisse la prima realtà Protestante dentro alla Penisola Italica: un vero e proprio antagonista alla tradizionale totalità Cattolico-Papale prevalente … Se fosse accaduto: sarebbe cambiata e si sarebbe destabilizzata del tutto l’intera Storia del Mondo Mediterraneo ed Europeo di allora.”

Ma chi erano questi Grigioni ?

Apparentemente un’entità quasi bucolica, un’amena popolazione presente fra i Monti, un po’ tipo la fiabesca Heidy. I Grigioni provenivano in realtà da una precisa regione Svizzera con Coira: centro principale, sede Vescovile suffraganea di Milano già dal 453. Si trattava del Cantone Svizzero più vasto: un sesto dell’intero territorio nazionale, un’area prevalentemente Alpina-montuosa bellissima, divisa da profonde Valli, ricca d’acque e grandi fiumi: Reno, Inn o Danubio, Po e Adige … Un’importante “zona franca-cuscinetto, corridoio commerciale, Crocevia e Porta d’Europa” giusto al centro del grande virtuale scacchiere politico Europeo, dove per secoli s’incrociarono, si mossero e si scontrarono grandi potenze Europee: Francia, Spagna, Impero, Papato… e perché no ? … anche Venezia, che non dimentichiamolo: è stata forse il più grande e potente Stato Italiano del 1500, l’unico in grado di competere con i Grandi dell’Europa di allora.

Quella dei Grigionesi fu da sempre una Storia travagliata carica d’ambiguità e tensioni, un andirivieni continuo di potenze straniere, una “levata di vessilli” e un pronunciamento ininterrotto di Tribunali, un fa e disfa d’alleanze, embarghi, Pensioni e Capitolati di truppe, un continuo imporre e togliere di pedaggi e dazi sui Passi commerciali e le Vie dirette al Centro-Nord Europa da una parte, e al Mediterraneo dall’altra.

La Repubblica delle Tre Leghe Grigionesi nacque di fatto nel 1471 a Vazerolconfederando insieme: la Lega Caddea, la Lega Grigiae la Lega delle Dieci Giurisdizioni, che pur rimanendo autonome e distinte, stipularono un patto fra loro per liberalizzare accessi delle strade e commerci, e soprattutto difendersi dagli Austriaci, che con ogni mezzo tentavano di ottenere il controllo sui Passi Alpini e la regione: “L’accordo-patto dovrà valere finché dureranno le valli e le montagne … Ogni decisione presa da due Leghe sarà vincolante anche per la terza … Eventuali discordie tra due Leghe troveranno un arbitro nella terza … Non si potrà negare Giustizia né a un Cittadino, né a un Comune, nè a una Lega; le conquiste territoriali apparterranno a tutte le Leghe; le spese di guerra saranno a carico di tutti, compreso il Clero; le decisioni comuni dovranno essere prese in una Dieta unitaria annuale ...”

Da allora fu tutto un succedersi ininterrotto di lotte … Francesi e Veneziani cercarono in ogni modo di precludere transiti e attività nei corridoi commerciali Alpini utilizzati da Asburgo e Spagnoli, che viceversa cercarono di conservarli concedendo denaro, promesse e minacce ai Grigionesi, infiltrandosi nella loro politica, creando ad arte fazioni e faide familiari, e destabilizzando e devastando le comunità di valle delle Tre Leghe. L’avvento delle Nuove Dottrine della RiformaProtestante poi, intensificò ulteriormente le tensioni nei territori Valtellinesi e Grigionesi, e nella Confederazione Elvetica originando scelte di tolleranza, ma anche dando spazio a Predicatori radicali e a Movimenti che coinvolsero di volta, anche drammaticamente, tutta l’area Elvetica e NordItalica.  Il Grigionese tuttavia, non fu mai del tutto Protestante, ma fu sempre una fibrillante regione di confessione mista a maggioranza Riformata.

I Grigioni col Corridoio Valtellinesefurono coinvolti anche nella distruttiva Guerra dei Trent'anni del 1618-48, che li sottopose a saccheggi e occupazioni diverse, alle ristrettezze delle carestie, nonchè al passaggio terribile della Peste del 1629-30.

Alcune Famiglie Grigionesi approfittarono più volte dei numerosi conflitti per accumulare cospicue ricchezze, e si specializzarono nel fornire servizi militari i cui introiti venivano poi reinvestiti oltre che in armi e nuove guarnigioni Mercenarie, anche nell’acquisto di terreni e vigneti delle Valli soggette a gravi crisi demografiche ed economiche. Giovanni Salis, ad esempio, divenne Governatore della Valtellina e in seguito Barone. Si trasferì verso il 1640 da Zizers a Tirano, dove acquistò vigne e fitti livellari dal Capitano Simone Venosta. Le proprietà del Salis unite a quelle di Castione di sua moglie, corrispondevano a un piccolo monopolio del Vino in grado di disporre da solo di ben 1000 ettolitri annui del prezioso prodotto.

Nel luglio 1620 scoppiò In Valtellinauna rivolta sostenuta dalla Spagna contro i Grigionesi Riformati. In quell’occasione: Giacomo Robustelli alla testa di un gruppo di banditi comuni della zona, diede vita al così detto Sacro Macello”:l’eccidio di circa 600 fra uomini, donne, e bambini Protestanti rifugiati a Tirano, Teglio, Sondrio e in Valtellina ... Solo pochi scapparono, e fu così che il Protestantesimo a sud delle Alpi venne quasi azzerato del tutto … Per vendetta nei Grigioni venne assassinato insieme ad altri: Pompejus Von Planta, capo del Partito Spagnolo e Cattolico, e nella Prettigovia si cacciarono gli Austriaci, che tornarono e ritornarono più volte fino al 1631commettendo atrocità di ogni sorta.

Ecco il quasi allucinato resoconto di uno Storico di parte Cattolica su quel truculento evento: “Il Sacro Macello, possiamo dire, non fu che una reazione potente contro i Padroni Protestanti, che opprimevano in ogni modo i Cattolici Valtellinesi […] È a Thusis che si stabilì il grande Tribunale dello Strafgericht, a Thusis venne condotto prigioniero e poi ucciso il povero Rusca, il santo Arciprete di Sondrio. La morte di quest'uomo, non v'ha dubbio, fu una delle tante cause che determinarono la strage dei Protestanti […] Due fazioni singolarmente ponevano a scompiglio la Rezia, una venduta a Spagna ed ai Cattolici, l'altra allа Francia e agli Evangelici. Capi di quella erano Rodolfo Planta; di questa Ercole di Salis; le due primarie famiglie dello Stato […] La Religione Cattolica era presa di mira in modo speciale; si impediva la promulgazione delle Indulgenze, si berteggiavano i Decreti Papali. Persino negli Statuti furono inclusi alcuni capitoli a favore dei Riformati. Libertà di Religione, in quei tempi, voleva dire persecuzione di quella Cattolica. […] Pascal, Governatore Francese, in una sua relazione, chiamava il Governo Grigionese: “esecrabile tiranno che sopra il capo e le fortune dei buoni incrudelisce. Il Bottero nel 1590 scriveva: “In Valtellina sono fuor di modo straziati dai Grigioni che puniscono con vani pretesti i Preti e quelli che si convertono, forzano a celebrare i matrimoni in gradi vietati […] obbligano tutti alla Messa e alla Predica degli Eretici […] Ogni sospetto di ribellione, per quella maschera d'oltraggio e di sangue che è la ragione di stato, si pagava con la vita.”

Un impegno speciale poneva il Governo Grigionese nel diffondere anche in questa Contrada Cattolica il Protestantesimo. A questo scopo aveva stabilito che, dove fossero più di tre famiglie riformate, si dovesse mantenere a spese della comunità un ministro e fabbricare la chiesa. In tal modo era riuscito a mettere il ministro in quasi ogni luogo […] Uno dei più strenui difensori del Cattolicismo era l'Arciprete di Sondrio Nicolò Rusca. Quest'uomo, nato a Bedano, terra del Luganese, aveva studiato a Pavia e a Roma, poi nel Collegio Elvetico di Milano, e di lui San Carlo aveva divinato grandi cose. Quando venne fatto Arciprete di Sondrio correvano momenti tristi: il suo predecessore era stato rapito, e si dice, avvelenato in prigione dal Governatore. La Riforma s'era estesa tutt'intorno. Il Rusca, dottissimo nelle scienze sacre, si mise a predicare e a combattere. Resistè con grande animo e forza ai novatori, dei quali fu detto il martello. Riuscì a impedire s’istituisse in Sondrio un Collegio Calvinista. Naturalmente i Protestanti lo odiavano e cercavano ogni pretesto per perseguitarlo. Il Governatore lo condannò a grave multa, ma il popolo tumultuò e si fu a un pelo di far sangue. Allora il Capitano denunziò l'affare a Coira, ma l'Arciprete, difeso da Anton Gioiero, venne lasciato libero. Non essendo riusciti i suoi nemici a farlo condannare, gli opposero d'aver tramato per ammazzare Scipion Calandrino Predicante di Sondrio. Ma anche da quest'accusa riuscì innocente. Con maggior accanimento si misero all'opera i suoi nemici per perderlo. I predicanti andavano intanto guadagnando sempre terreno presso il governo, e continuamente lo eccitavano a operare efficacemente per strappare anche alla Valtellina la fede Cattolica. A questo scopo, sotto il Predicante di Sondrio Gaspare Alessi, si tenne un conciliabolo, prima a Chiavenna in casa di Ercole Salis, poi a Bergün, paese romancio alle falde pittoresche dell'Albula. Spargendo false voci si riuscì a sollevare il popolo e a fargli prendere le armi contro i fautori di Spagna e di Milano; i castelli dei Planta vennero diroccati, uomini malfattori entrano a forza in Coira e fecero man bassa dei Cattolici; poi tutta quella moltitudine si portò a Thusis. Quivi con grande solennità si proclamano tredici nuovi capitoli dello stato, e si piantò lo Strafgericht, al quale questa volta si aggiunge un Consiglio di Predicanti. Da questo momento incominciò una vera persecuzione legale contro i Cattolici. A perpetrare i loro ribaldi disegni sopprimono ogni libertà e danno principio a un vero regime di terrore. Il primo che ne andò di mezzo fu il settantenne e podagroso Zambra, che, accusato di aver favorito l'erezione del forte di Fluentes, viene squartato; si bandì poi una taglia sul capo di Rodolfo e di Pompeo Planta, sul vescovo di Coira Giovanni Flug, e di altri profughi, e vengono erette forche sulle loro case atterrate.  In quella frenetica persecuzione non poteva essere dimenticato il Rusca. Marcantonio Alba di Casal Monferrato, predicante di Malenco, a capo di 40 satelliti, la notte del 22 giugno dell'anno 1618, lo assalì nella sua Arcipretura e, per la via di Malenco e dell'Engadina lo trascinò a Thusis. Quelli di Sondrio, appena vennero a conoscenza del fatto, ne provarono un immenso dolore. Il povero Rusca, non ostante le valide difese di Gianpietro Morosini di Lugano, sotto un cumulo di accuse, alcune già da tempo dimostrate false, sebbene patisca di ernia, è sottoposto due volte alla tortura e con tanta atrocità, che nel levarlo è trovato morto. E quei feroci suoi nemici, non contenti ancora, fra scherni e insulti, ne fanno trascinare per le vie a coda di cavallo il cadavere e lo seppelliscono sotto le forche. I Cattolici Valtellinesi, all'annuncio dell'orribile morte del santo Arciprete, giurarono in cuor loro vendetta. Erano spinti a questo in modo speciale da quelli che, non potendo sopportare il giogo dei Grigioni, si erano rifugiati in altre contrade, donde spronavano continuamente i fratelli a sollevarsi una buona volta per la causa santa, promettendo di venire in loro aiuto. Capo dei fuorusciti era un certo Robustelli di Groppello, parente dei Planta perseguitati, perseguitato egli stesso: “uomo di alto sangue, di animo gagliardo, e male al servire disposto, agiato dei beni di fortuna e ricco di quell'ambizione che dei sacrifici altrui sa fare vantaggio proprio.” Il desiderio di vendetta, da parte dei Valtellinesi, era andato crescendo per le voci che si erano sparse, “che i riformati avessero in animo di fare un vespro siciliano, di ridurre alla nuova religione tutta la Valtellina”.  Si prestò fede adunque a quelle voci e si preparò la vendetta: tremenda vendetta ! […] I Valtellinesi non tardarono a dar esecuzione al loro feroce disegno. Il Robustelli radunò in casa sua a Groppello alcuni Valtellinesi di spiriti turbolenti, e con eloquenza dipinse loro i mali della Patria e i pericoli della Religione. Ma i pareri erano diversi. Alcuni pochi dicevano di pazientare, ed erano i più prudenti, quelli che aborrivano dal sangue e dai mezzi estremi. Ma i più, sordi a ogni voce di moderazione, persuasi della necessità di liberare la patria e di purgarla dall'eresia, per bocca del Robustelli, dichiararono essere venuto il momento d'agire: “Centomila cattolici, dalle fonti del Liro e dell'Adda, elevano un voto: cento milioni di cattolici in tutta Europa aspettano da noi esempio e ci preparano applausi e soccorsi.” Ad animi già eccitati ed esacerbati non era bisogno di altro; tutti entrarono in questi pensieri. Ma come riuscire nella grandiosa impresa ? Alcuni proponevano di levarsi in armi, intimare ai Grigioni di partirsi. "Ma no, no”, gridava il dottor Vincenzo Venosta: “non è più tempo di mezzi consigli .... che clemenza ? che discorrere di diritto, di pietoso o di crudele, quando si tratta di salvare la Patria e la Religione ? Non sono costoro che uccisero Biagio Piatti, e il santo arciprete Nicolò; che chiesero a morte i migliori di noi, che congiuravano per scannarci tutti ? Gusti il popolo la voluttà del sangue e sia suggello al voto di eterna nimistà con questi esecrati padroni.” […]  Già era stabilito che il 19 luglio mentre i riformati sarebbero raccolti alla predica festiva, si dovessero assalire e trucidare tutti: nel punto stesso sarebbero entrate truppe milanesi nella valle; i Planta dal Tirolo, il Gioiero, già podestà di Morbegno, dalla Mesolcina piomberebbero sopra la Rezia. Ma quest' ordine venne turbato dal Gioiero stesso, il quale il 13 di quel mese valicò il San Bernardino, scese nella valle del Reno e marciò su Coira, credendosi, con un tal colpo, di dare buon principio all'impresa. Ma i Grigioni lo respinsero e dispersero la sua ciurmaglia. Per questo non si perdettero d'animo i congiurati, nè deposero il pensiero della vendetta, che anzi aspettarono il momento opportuno per riprendere il loro disegno. Ma ai Grigioni era trapelata la congiura: avevano perciò raddoppiato la sorveglianza, domandato le chiavi di tutte le fortificazioni e armerie, perquisito alcune case e posto sui campanili delle sentinelle, le quali dovessero subito sonare a stormo non appena avessero sentito qualche rumore sinistro.  I congiurati allora credettero bene di affrettare la strage; questa doveva incominciare a Tirano, la terra maggiormente oppressa dai Grigioni. Già sono raccolti nella casa del Venosta e aspettano con desiderio feroce che calino le tenebre per dar principio alla loro vendetta. La notte scende tetra e paurosa, quasi presaga dell'orribile misfatto: i congiurati escono e si appostano nei vari punti del paese e stanno ad aspettare. Quando in cielo comincia ad albeggiare, si odono quattro archibugiate che si ripercuotono sinistramente nel buio della notte, come un urlo tremendo: è il segnale. Le campane tosto suonano a stormo, e i poveri abitanti, svegliati di soprassalto, si vanno domandando il perchè di quel suono; quando da ogni parte del paese sentono levarsi grida spaventose e vedono i riformati inseguiti e barbaramente trucidati. È un fuggire, un urlare, un ammazzare da ogni parte; le donne s'inginocchiano dinnanzi ai sicari, mostrano i loro bambini e, con alte grida, domandano la vita dei mariti, ma inutilmente. Sono sì orribili i delitti di questa strage che la penna rifugge dal descriverli. Il furore di sangue si propaga di paese in paese, di valle in valle. A Bruscio il Robustelli schioppetta ben 30 persone e mette fuoco a tutto il paese. Tutti vedono in questo un furore di vendetta che certo non è secondo il Vangelo: “Guai, se il popolo comincia a gustare il sangue. È un ubbriaco che più beve, più desidera il vino.” […] Ripurgato Tirano dell'eretica peste, si spediscono a Teglio uomini vestiti di rosso che annunziassero il felice cominciamento dato all'impresa. E anche qui scene raccapriccianti; gli Evangelici vengono sgozzati in chiesa; 19 che si erano riparati nel campanile furono soffocati; più di 70 se ne uccidono d'ogni sesso, d'ogni età. Persino una ragazza di 14 anni, certa Margherita, che, con la viva eloquenza d'una giovinezza innocente, opponeva il capo alle ferite di suo padre. Intanto Giovanni Guicciardi levava a strage i paesi da Ponte in giù alla Val Malenco, e drizzava i sollevati con forte mano sopra Sondrio, sede del Magistrato Supremo della Valle. Anche qui molti sono barbaramente trucidati. Pensi, a chi ne basta l'animo, l'orrore di questa giornata in cui ben 400 persone furono uccise nel modo più feroce. La ciurmaglia stanca ma non satolla andava gridando: "Ecco la vendetta del Santo Arciprete !” […] Come sempre avviene in questi tumulti, molti, col pretesto di difendere la religione, coglievano l'occasione di sfogare odi antichi e vili passioni. Nemmeno le donne vennero risparmiate, e quando non si trovarono più vittime nell'abitato, s’inseguirono i fuggitivi nelle foreste; si entrava nelle caverne, nei recessi più nascosti e lì si uccideva, si trucidava, e beati quelli che morivano al primo colpo; altri erano straziati orrendamente: si arrivava persino a far scoppiare la polvere nella gola ... Questi gli orrori di quella orribile strage, alla quale giustamente venne dato il nome di macello.”

Fu poi il turno della Francia del Cardinale Richelieu, che ordinò a più riprese l'occupazione-liberazione dei territori Grigionesi. La vicenda si concluse nel 1626 col Trattato di Monzon, col quale:Asburgo Spagnoli e Francesi si spartirono i territori Grigionesi ad insaputa degli interessati, mentre paradossalmente le truppe Papali mantenevano l'occupazione delle Valli Grigionesi garantendo controllo, ordine, e soprattutto Ortodossia Religiosa Cattolica ...  I Grigioni delle Tre Leghe ovviamente non la presero bene, e cercarono di destreggiarsi e difendersi dando vita ad episodi di contestazione e protesta che vennero repressi brutalmente. Giorgio Jenatsch Pastore Protestante e Soldato-Condottiero di Coira, ad esempio, venne assassinato in quanto ritenuto una minaccia per gli affari politici ed economici di Spagnoli, Milanesi, Francesi, Austriaci e Papato messi insieme.

Tutto questo per provare a dirvi in sintesi chi erano i Grigionesi … Torniamo però a Venezia.

Che aria tirava in quei tempi in Laguna ? … Che stava succedendo ?

Erano ancora gli anni travagliatissimi dell’epocale lotta col dilagante Turco della Sublime Porta ... A Venezia si percepivano ancora gli echi delle vicende dell’ottuagenario Doge Jacopo Foscari, che nel 1456 s’era accordato con Sforza e Maometto II.  Scoperto dal Consiglio dei Dieci, venne costretto a deporre le insegne Dogali, ad abbandonare il Palazzo entro otto giorni pena la confisca dei beni, e a morire “di crepacuore”nella sua casa in Contrada di San Barnaba finendo sepolto in Santa Maria Graziosa dei Frari.

Toccò poi ad altri Dogi in successione di guidare la Storia Veneziana e reggere il micidiale confronto col Turco: Pasquale Malipiero, Cristoforo Moro, Nicolò Tron, e Nicolò Marcello. Il Duca di Atene venne travolto dalle armate Turche che si presero Argo e Morea. I Veneziani(12 galee) d’intesa col Papa(8 galee) provarono timidamente a reagire e a contrastarli allestendo una flotta ad Ancona, ma sfiga nella sfiga, Pio II morì lasciando tutto in sospeso, e non se ne fece nulla. I Turchi allora s’introdussero ulteriormente in Istria, trattenuti appena dagli Albanesi.Il Sultano assediò Negroponte travolgendo le fragili difese del Capitano Generale Antonio Da Canal, e si prese poi tutta l'Eubea sterminandone la popolazione segando a metà il Bailo Marco Erizzo.

Accadde poi la contorta e controversa vicenda di Ciprocon i suoi complicati maneggi, e la deposizione della Regina Caterina Cornaro vedova del Re Giacomo II di Lusingano… Fu poi la volta (1474) della flotta di Pietro Mocenigo che entrò a Famagosta... Poi ci fu la vicenda di Scutari assediata da 80.000 Turchi, che resistette con Antonio Loredan. Il Doge Mocenigo si portò a Venezia la malaria che lo accoppò …Toccò allora al Doge Andrea Vendramin, e poi ancora al Doge Giovanni, fratello di Pietro Mocenigo a tenere in pugno la situazione.

Maometto II allora, bombardò Scutari che cadde, s’iniziarono trattative di pace inconcludenti, e i Turchi entrarono in Friuli fino al Tagliamento e l'Isonzo. Due anni dopo (1479) i soliti Turchi si presero anche le Cicladi, poi Santa Maura e Cefalonia, incendiarono Otranto, e realizzarono il loro porto militare a Valona… Venezia perse anche Lemno e l'Albania, e si ritrovò costretta a pagare 10.000 ducati per mantenere la libera circolazione dei suoi commerci nell'area dell’Impero Ottomano.

Fuori da una guerra e dentro per un’altra: nel 1481 Venezia cercando di riprendersi il Polesine, s’impelagò con Ferrara guidata da Ercole I d'Este alleato per matrimonio con Ferrante d'Aragona Re di Napoli, con Firenze e Milano. 

Nel frattempo, negli stessi anni 70-80 del 1400, il lungimirante, seppure indeciso, Senato della SerenissimaRepubblica promulgò un decreto in materia di “opere, artifici e brevetti”, estendendo la tutela della Legge alla proprietà intellettuale e alle invenzioni favorendo così il primo sviluppo tecnologico-industriale e la crescita economica dello Stato Veneziano. Si favorì e incoraggiò l’arrivo in città di autori stranieri “ragguardevoli”, cioè: capaci di nuove scelte e scoperte proponendo loro di realizzarle e immetterle nel mercato Lagunare … o perlomeno di copiarle. Storicamente il Senato della Repubblica giocando fra Monopolio di Stato e attività delle Corporazioni, inseguì l’ammodernamento del Mercato e della produzione del Lavoro arrivando a riconoscere e concedere oltre duemila brevetti-patenti in materia di mulini, macchine scavatrici, metodi per la tintura dei tessuti, medicamenti e molto altro ancora.

Stavano cambiando i tempi e i modi del lavoro indubbiamente.

Fu nel 1489, e poi a fine secolo, che Johann von Erlach da Berna prima, e il Conte Jörg von Werdenberg-Sargans poi, rappresentanti entrambi dei Confederati Svizzeri e delle Tre Leghe dei Grigioni, giunsero a Venezia in cerca di alleanze con la Serenissima ... Non se ne fece nulla in quell’occasione, ma Venezia si mostrò fin da subito magnanima e generosa verso gli Elvetici donando pensioni a Politici e Uomini d’affari Svizzeri perché evitassero di prendere accordi commerciali con Francia, Spagna, Austria… e magari anche col Papato, sfavorevoli a Venezia.

Gli avveduti Grigionesi, consapevoli del proprio valore strategico e commerciale, si comportarono secondo i consigli dei Veneziani … anche se nel 1509 non mancarono di mandare i loro Mercenari con la Francia nella Lega di Cambrai proprio contro Venezia, nonostante la Serenissima li avesse cercati con Hieronimo Savorgnàn per allearsi con loro. I Grigionesi insomma facevano i loro interessi, il doppio gioco qualche volta, vendendo e offrendo le loro forze armate al miglior alleato, e giocando per secoli con tutta una lunga catena d’imposizioni, concessioni e dazi utili a finanziare le loro iniziative sociali e le loro cariche locali.

Tre anni più tardi (1512), divenuta confinante con Serenissima a seguito di nuovi eventi bellici e politici, la Confederazione e le Tre Leghe Grigionesinon mancò d’inviare Martino Bovollino, Notaio e Poeta Mesolcinesefino in Laguna, chiedendo a Venezia di riconoscere l'annessione della Valtellinada parte loro ... Due anni dopo ancora, Serenissima, Francia e Papamediarono insieme la pace tra le Tre Leghe e il Castellano di Mussoche costrinse i Grigionesi a cedere le Tre Pievi.

Da metà 1500 la stagione della Riformasi fece strada, e buona parte dei Commercianti di Zurigo attivi a Bergamo aderì alla Nuova Fede suggerita dai Protestanti. L’Inquisizioneli incalzò immediatamente, costringendoli a scappare e a trovar rifugio nei territori delle Tre Leghe Grigionesi. Tra costoro c’erano diversi membri dei Nobili Martinengo da Barco di Brescia, alcuni artigiani della Val Trompia Bresciana, il Teologo Girolamo Zanchi, il Medico Guglielmo Gratirolo da Bergamo, e i fratelli Bellinchetti che si occupavano di estrazioni minerarie.

Nel 1554 il Grigionese Friedrich Von Salis col figlio Johann si recò a Venezia con successo ottenendo dalla Serenissima: tutela religiosa dei Grigioni, esenzioni dai Dazi, trattati favorevoli per i Commercianti di Zurigo, possibilità giudiziaria d’estradizione, l'accesso dei Grigionesi al Fondaco dei Tedeschi di Rialto, e il diritto di girare armati in territorio Veneziano: cosa rarissima.

Solo più tardi, dopo che i Grigionesi beneficiarono del sostegno di Venezia durante la Guerra di Svevia, si giunse nel 1570 a un’intesa vera e propria fra Veneziani e Svizzeri del Libero Stato delle Tre Leghe con concessione reciproca di speciali privilegi. I Grigionesi allora conclusero una Capitolazione Militare con la Serenissima che prevedeva la fornitura di 4.000 uomini armati disponibili per qualsiasi scopo dei Veneziani.

Fu da allora che aumentò il flusso migratorio dei Grigioni verso Venezia e le Lagune ... Almeno 3.000 Engadinesi, Bregagliotti e Grigioni Protestanti dalla Mesolcina e dalla Calanca della Lega Cadé(furono quantificati in 7.000 per eccesso) si trasferirono nel Dominio Veneto e nella Città Capitale Lagunare dove poterono godere del privilegio di praticare il commercio ed esercitare Arti-Professioni pur essendo Riformati-Protestanti. Secondo una statistica ufficiale Veneziana furono forse meno di 1000 i Protestanti Grigionesi scesi a risiedere stabilmente a Venezia (620 attivi come Lavoranti, e diversi altri non applicati a specifica Arte di Mestiere) ... Si arrivò anche ad organizzare dei Servizi Postali bisettimanali con Corrieri che percorrevano la Via dei Grigioni fra Ginevra, Zurigo e Venezia attraversando Valtellina, Valchiavenna, ValCamonica e Bergamasco e arrivando fino a Lione.

Riconoscibilissimi i cognomi dei Grigionesiandati a vivere a Venezia: Bonomo, Tognon, Picoli, Traversi, Stopan, Bonifacio, Gaudenzio, Cristofoli, Martini, Vasalli, Zambon, Barti, Bosio, Gondina, Prevosto, Traversi, Permise, Zorzi, Belli, Dant.

Facciamo però adesso un balzo in avanti nel Tempo per non farla troppo lunga.

Nel 1571 accadde il gran casino politico-economico della superfamosa Battaglia di Lepanto: la “madre di tutte le Battaglie Veneziane”. Insieme fu forse il successo e la batosta, l’episodio più travagliato e dispendioso dell’annosa lotta contro il Turco. L’importante però era che fosse sempre Venezia a fungere da protagonista e a ben figurare ... A Lepanto il Grigionese Josua Salis comandava un Contingente di 600 Rematori Grigionesi Cattolici che s’erano messi al servizio di Venezia.

Attorno al 1600, Francesco Pontesi stabilì a Venezia come "addetto commerciale" delle Tre Leghe Grigionesi, che esportavano con continuità in Laguna: bestiame da macello, formaggi engadinesi, prodotti dell’industria serica, vasellame in pietra ollare di Piuro, importando viceversa nei Grigioni: sale, vino e cereali ... In cambio: la Serenissima poteva beneficiare della forza militare mercenaria di un paio di reggimenti Zurighese e Bernese degli Svizzeri-Grigionesi.

Nel frattempo, come il solito, i Grigionesi continuarono a mantenere buoni rapporti paralleli col Ducato di Milano sottomesso al dominio Spagnolo. La Spagna quindi reagì immediatamente all’alleanza fra Grigioni e Veneziani, e costruì l'imponente Fortezza di Fuentes sul Monteggiolo di Colico, dove all'imbocco della Valtellina l'Adda sfocia nel Lago di Como, cercando così di ostacolare il traffico dei Veneziani verso Chiavenna e le Valli Retiche ... Gli Spagnoli chiamarono il Forte: "Giogo dei Grigionesi sul Pian di Spagna", mentre i Grigioni lo chiamarono "Tomba degli Spagnoli" in quanto il Forte era sorto su paludi malsane invase dalla malaria che fece strage fra Spagnoli e Milanesi. Da allora l’alleanza e interscambio politico-commerciale fra Grigioni e Venezianifunzionò, e durò per secoli. Tanto è vero, che ancora nella prima metà del 1700 le Autorità Veneziane si preoccupavano d’informare puntualmente il Consiglio di Sanità di Zurigo quando scoppiavano epidemie nella Regione Adriatica e Lagunare.


Nell’insieme il fenomeno delle migrazioni dei manovali Grigioni a Venezia fu un evento storico controverso, che registrò sia rimostranze e insofferenze dei Veneziani, che quadretti di perfetta integrazione fra Grigionesi e Contrade Veneziane e Isole Lagunari.

In verità, c’era già stata fin dal Medioevo una flebile migrazione stagionale dei Grigioni delle Tre Legheverso Venezia dove c’erano Mercanti da Basilea e Zurigomenzionati già all’inizio del 1300.  Dalle loro valli i Grigionesi calavano per offrire manodopera nel Nord Italia. Alcuni Grigionesi nel 1350 si stabilirono a Venezia per colmare le perdite demografiche e lavorative-artigianali dovute ai molteplici episodi di Peste, mentre i Veneziani da parte loro frequentavano la Fiera di Zurzach ... Altri Grigionesi da San Gallo fin dal 1362 si dedicarono, invece, al commercio di bestiame, di tele di Lino con la Laguna, e si prestarono ben presto come Mercenari al servizio della Serenissima.

Nel 1400 giunsero quindi in Laguna: Calzolai, Fabbricanti di cinture, Pasticcieri, Salsicciai, Balie, Cestinai, Pittori e perfino raccoglitori e venditori di capelli ... Venezia Capitalein quelle epoche, giungeva ad avere una popolazione di quasi 100.000 Anime, e i Grigioni Svizzeri riuscirono ad ottenere dalla Serenissima una sorta di concessione-riconoscimento simile a quello dei Cittadini Originari, dato a pochi Alleati dei Veneziani.

Fu allora che alcuni inviati di Venezia come Giovanni Amati, Francesco Brunicardi e Niccolò Bernardo si recarono a Lucerna e Zurigoper concludere un vero e proprio patto militare cercando almeno 1.000 uomini da arruolare. Nel 1458 Antonio di Giacomo fu il primo Fornaio Grigionese ricordato a Venezia, ma nel 1484 alcuni Veneziani vennero arrestati per rappresaglia dai Grigioni a Weesen… Venezia di conseguenza abolì subito i privilegi concessi ai Grigionesi presenti in Città riducendo le migrazioni, e aumentando i dazi ai Mercanti da San Gallo ... Poi ritornò la calma e la normalità, tutti gli scambi ripresero come il solito, e Valtellina, Valchiavenna, Tirano e le Valli dell’Adda e della Mera appartenenti alle Tre Leghe Grigionesi e al Vescovo di Coira furono il passaggio naturale obbligato attraverso il quale i Veneziani condussero i loro commerci da e verso l’Europa. Ogni anno molte decine di migliaia di capi di bestiame, e molte altre merci venivano condotte dalle Alpi dei Grigioni verso la Pianura Padana e Venezia, e con loro scendevano altri migranti, e studenti diretti all’Università di Padova. Lì il Grigionese Thomas Von Schauenstein fu Rettore della Facoltà di Diritto (1583-85); Nicolò Guicciardi ed Ercole Guarinoni del Territori delle Tre Leghe furono Rettori della Facoltà delle Arti nel 1539 e 1584, e il Gesuita Barthélemy Souvey di Corbières fu Professore di Matematica dal 1624 al 1629 … Niente male come risultato.



A Venezia però, già nel 1493 la Corporazione dei Scaletèri Venezianimugugnava e si lamentava per i troppi concorrenti giunti dall’Engadina ... Veniamo quindi all’Arte dei ScaletèriVeneziani.

I Grigioni giunti a Venezia si affiliarono subito alla Schola dei Scaleteri di San Fantin nel Sestiere di San Marco. Quella dei Scaletèriera un’“Arte Antica” ricchissima: possedeva rendite da diversi immobili in Città, e la sua sede era tappezzata da più di cento opere d’Arte di autori prestigiosissimi: Tintoretto, Caliari, Vittoria, Palma, Zanchi.  Unita fino al 1663 con l’Arte dei Casaròli (venditori di formaggi, olio e insaccati), quella dei Scaletèri era una di quelle Schole che facevano a gara per primeggiare in Città per sontuosità e prestigio mirando ad entrare nella cerchia ristrettissima delle“Schole Grandi”… Soltanto per poco non vi riuscì.

I Scaletèrierano Pasticceri che producevano:“buzzolàdi, ciambelle, biscotti, dolci, sfogliatine e confortini fatti a scacchiera”. Ancora verso metà 1800, Giuseppe Tassini ricordava: ... certe ciambelle, che usavansi in antico, specialmente nei matrimonii, appellavansi "scalète" perché avevano impressi alcuni segni somiglianti ad una inferriata, oppure ai gradini di una piccola scala”.

I Grigionesi quindi, s’infiltrarono e trovarono spazio progressivamente nell’ambito della Schola minandone soprattutto la qualità dei prodotti. Tanto fu vero, che a un certo punto l’Arte sentì il bisogno di tutelarsi ufficialmente contro i Grigionesi provando ad ovviare e contenere i cali di stile che intaccavano il Mestiere: “… che non se deba vender ròba alcuna el di de Nadal e el Venerdì Santo, ne’ per Pasqua, se non in casa, tenendo el balcòn serà … Che niùn Mastro Scaleter no possa levar più de una bottega de l’Arte nostra … Che non se possa mandar più de un scagno, e ch’el sia bolàto, e che nessun possa mandar per la terra a vènder … Che nessun no possa far l’Arte se non ha forno, e tutti li ferri bisognevoli in casa sua. Se alcuno vende sue massarie de l’Arte, e poi voglia tornar al Mestier: paghino ducati a ben entràr … Che nessun no possa far lavorar de pasta, e massima i Foresti che non hanno bottega … E’ proibito modellar la pasta a forma di done, cavali, gali, oxeli, calisoni ne cesteli, e di portare alle Feste e al Palio de San Lio: piavole, done, e bosolài imbroài … come alla Festa della Sensa: non si può tener  più di uno scagno o cassa … E’ inoltre proibito tràr l’attenzion de clienti con grida a San Marco e a Rialto, e d’entrar dentro a Cjesie (chiese) a vendere dolci durante le cerimonie delle Cresime … Che nessun possa tenir bottega de Scaletèr, vender, nè far venir ròba alcuna pertinente all’Arte del Scaletèr, se non sta quattro anni iscritto, e che non sapia ben lavorar el nostro Mestier … I Scaletèri Grigionesi non si potranno recarsi alle Feste del Lido …”

Ancora più esplicita fu a fine ottobre 1529 una delibera del Capitolo dei Scaletèri: “Al fine xoviàr a le giotonerie, e a tutela delle frodi dell’Arte ponendo freno a Maestri, Lavoranti e Garzoni che fabbricano e vendono dolciumi mettendo cose più tosto da amorbàr, che confortàr quelli che li comprano … Con pena di lire 150 ai trasgressori da dividere in 3 parti: una ai Signori alle Biave, un’altra alla Schola, ed un’altra all’accusatore, si denunci chi porti su li scagni, a Feste, a Perdòni, a Rialto, ne Hosterie e Magaceni, e in locho alcuno di questa terra, chi produce merce non conforme alle regole.”

Non servirono a molto però quelle prese di posizione dell’Arte, perché ancora a metà 1700, il consistente numero dei Grigioni Protestanti iscritti all’Arte degli Scaletèri, riuscì a far deliberare l’abbandono dell’antica sede dell’Arte nei pressi della chiesa di San Fantin, facendo preferire il Fontego della Farina di Rialto per tenere i Capitoli(assemblee)dell’Arte ... Ne nacque ovviamente un acceso diverbio fra Scaletèri Veneziani Cattolici e Scaleteri Grigionesi foresti di Religione Riformata provenienti soprattutto da Bellunese e Trentino.

Intervenne allora il Senato della Serenissima proibendo ulteriori accettazione di Grigioni nell’Arte dei Scaletèri:  “C’ancosia che el sia per andar del tutto in ruina el Mestier nostro di Scaletèri per il moltiplicar fano a la sornàta molti de Todeschi e de altri diversi luogi, i qual stano in casa a settimana et etiam molti de loro per casa, algua fameia vivendo con puocha spesa, i quali se soleva acordar con noi Maestri per nostri vendadori con andar vendendo con el cesto per la terra bosolai e a le feste con li scagni, e no lavorava con li ferri dell’Arte, ma i quali adesso levan botega e quella tien fina li hano acquistado qualche ducato e poi …”

Il Senato intervenne ancora nel 1745 dopo lunghe trattative decretando: “Resta pertanto permesso all’Arte de Scaletèri di provvedere in qualunque luogo dello Stato li formenti per il loro consumo, e così pure di farne ovunque più le piacesse la Macina …” ma si proibì ai Grigioni di occupare posti di dirigenza nell'Arte determinandone le scelte. I Scaletèritornarono quindi nell’antica sede in Contrada di San Fantin.

Si legge ancora nella Mariegola dei Scalèteri Veneziani all’anno 1790:“Laus Deo Beatte Mariae Virginis e San Fantin ... Cassa tenuta e  aministrata da me Giseppe Blèatto atual Gastaldo dell’Arte de Scaletèri de questa Città, sostenuto il carico per la seconda volta nell’anno sopradetto ... Seguirà li spesi e scossi seguiti e fatti nel corso di un anno intiero, come segue … e prima le spese: diritti pagati all’Ufficio del Frumento da  cui dipendono le Arti addette alla lavorazione delle Farine … A sua Serenità Regnante il consueto censo; da Pasqua le solite fugazze alli Nobili Homeni Protettori dell’Arte; simili fugazze alli soliti nomi che l’Arte annualmente gli corrisponde, come da conto appar …”

Nella pagina a fronte nel dettaglio si annotò anche il notevole passivo economico dell’Arte sottoscritto dai Sindaci della Schola e dagli Ufficiali del Fontego di Rialto… Il solo Gastaldo era creditore per lire 476, e a seguire erano segnati tutti i crediti di tutte le botteghe di Città distinguendo fra Scaletèri Veneziani e gli ancora numerosi Scaletèri Foresti Calvinisti delle Tre Leghe Grigie ... Si annotò anche la spesa mensile sostenuta per mantenere acceso tutta la notte il "publico feràl (lampione)collocato sul cantòn de la Schola".

Nel Capitolo Generale dell’Arte dei Scaletèri del 24 settembre 1750: più di ¼ dei partecipanti risultava ancora di Religione Protestante, perciò i Confratelli Cattoliciappoggiati ovviamente dalle Autorità Ecclesiastiche di Città, s’impegnarono nel sopperire e prevalere su quelle “pericolose deviazioni religiose”.

Storia analoga e parallela a quella dei Scaletèri, fu quella della presenza dei Grigioni nell’Arte dei Caleghèri (Calzolai)Veneziani. Inizialmente ci fu l’episodio di Laura Fabri quondam Giovan Antonio della Contrada di San Cassiano di Rialto, che arrivò ad adottare Alvise de Busi Caleghèr da Bergamo con bottega in Calle dei Botteri. Costui scalò in seguito la realtà dell’Arte dei Caleghèri Veneziani divenendone il Gastaldo fino al 1584 ... Solo ai Capi Bottegaresidenti da almeno 4 anni a Venezia venne dato il diritto di voto all’interno della Corporazione. E furono lotte e processi continui fra Caleghèri e Zavattèri (Ciabattini) autoctoni e foresti, con spese legali ingentissime: 11.000 ducati di debito, cioè circa 500.000 euro attuali ... Durante la Festa della Sensa del 1771 si giunse quasi allo scontro fisico con i Zavattèri perché alcuni Caleghèri facinorosi sequestrarono con violenza a un Zavatèr della merce dal banco considerandola contrafatta e realizzata con cuoio usato spacciandola “par scarpe bòne”.


Da Tradizione, ogni primo venerdì del mese si assegnava con sorteggio i “posti in Piazza, al mercato del mercoledì in Campo San Polo, e del sabato in Piazza San Marco e a Rialto”. Erano gli unici giorni in cui si poteva vendere fuori bottega negli “Stazii dell’Arte”, dove si poteva tenere un solo canestro-cesto di “bòne scarpe” ... Molti Grigionesi, invece, s’industriavano a vendere ovunque impunemente per strada intaccando gli interessi e le Regole della Schola dei Caleghèri.

A Venezia si recitava nelle botteghe dei Caleghèri e per le Contrade: “Le scarpe d’un villan no le farà mai bela pèca (impronta)… Xè mègio fruàr le scarpe che i niziòi (lenzuola) … Scarpa comoda: no fa mai mal … Ogni bella scarpa deventa ‘na brutta zavàta … Nessun sa dove che strènze la scarpa, se no chi la porta … Scarpa larga e gòto pien, ciapa le ròbe e la Vita come le vien.”

Benvenuto de Venzone, Calzolaio in Contrada di Santa Maria Nova, e il suo Lavorante Nicolò da Udine arrivarono a discutere e litigare circa la paga. Secondo Nicolò avanzava dal Mastro: 50 soldi, mentre Benvenuto gliene voleva concedere solo 30 … Nicolò lo uccise … Testimoni: altri due Lavoranti di Benvenuto: Pietro e Zoanuto de Cremona, e Domenico da Cremona Lavorante di un altro Calzolaio Veneziano.

Ci furono poi parecchi intrallazzi, intrighi, sfruttamenti e deviazioni fra Veneziani e Foresti dentro all’Arte dei Calegheri di San Tomà … Famosa fra tutte la vicenda dell’inflessibile“Aggionto” Piero Zappa entrato nell’Arte nel 1650, eletto appunto come “Aggiunto”dalla Giustizia Vecchia: “per via de la revision di alcuni maneggi nell’Arte del 1569”. Indagando troppo nei fatti dell’Arte, divenne obiettivo di una vera e propria congiura da parte dei Caleghèri.

Giacomo Hullo Masser dell’Arte nel 1660 strappò dalla Mariegolaalcune pagine che attestavano l’iscrizione all’Arte dello Zappa accusandolo d’essere un abusivo della professione mai iscritto al Mestiere, e di aver strappato le pagine della Mariegola per evitare ogni verifica. I Magistrati Venezianiallora interrogarono tutti i membri della Banca dei Caleghèri, che in accordo col Massèr confermarono tutte le accuse contro Zappa, che venne quindi condannato innocente a 5 anni di remo in Galea con i ferri ai polsi ... Sopravvissuto alla pena e rientrato a Venezia nel 1680, Zappa trovò la forza di trovare altri documenti, e di provare quindi la sua corretta iscrizione all’Arte e la sua innocenza. Giustizia venne fatta nei confronti dei suoi accusatori.

  • Arti ambulanti da strada o affiliazioni vere e proprie alle Schole d’Arte e Mestiere ?

Un po’ uno e un po’ l’altro con disappunto dei Veneziani allergici a tanti privilegi, al fatto dei contrabbandi, delle imitazioni e contraffazioni per aggirare gli alti prezzi Veneziani, e che tanti guadagni prendessero le strade delle Patrie Estere….Caso raro: Martin Sprecher di Coira che, giunto a Bergamo nei primi anni del secolo con 25.000 Gulden, era rientrato in patria 50 anni più tardi con un patrimonio di 500.000 Gulden ... Si trattava tuttavia di casi sporadici, mentre le botteghe dei Grigionesi a Venezia erano di solito molto piccole, di modesta rilevanza economica, e con un ridotto giro di capitali. Gli emigrati nello Stato Veneto furono per la maggior parte poveri popolani e piccoli o piccolissimi artigiani che per secoli provarono a inviare buona parte dei loro guadagni nella Patria d’origine.

I Grigionesi residenti a Venezia, quindi: si affiliarono per secoli alle Schole d’Arte, Mestiere e Devozione Veneziane, si congregarono a Capitolo, officiarono gli Altari di fronte ai quale tenevano le loro Arche Funebri (tombe), parteciparono alle Processioni in giro per le Contrade, frequentarono e celebrarono le Feste Veneziane e le Funzioni del Culto Pubblico, accompagnarono i Funerali, sedettero alle cene e ai pranzi sociali, e s’impegnarono nelle opere di Carità, soccorso e previdenza sociale comune. La Serenissimavigilò attentamente su di loro non permettendo mai che i Grigionesifossero presenti in numero eccessivo dentro all’organizzazioni cittadine e nei quadri direttivi dei Capitoli e Banche delle Schole delle Arti. In quanto Protestanti, poi, non dovevano superare 1/3 del totale degli iscritti, così come solo 1/3 delle botteghe poteva essere in mano a sudditi NonCattolici... A Venezia finiva spesso col prevalere lo stampo Cattolicofortemente imposto dalla Tradizione, dal numerosissimo Clero, Frati e Monache, e dalla presenza stabile del Nunzio Apostolico Papale residente a San Francesco della Vigna.

Le Cronache, le Mariegole, e gli Atti Capitolari delle Schole Veneziane ci mostrano i Grigioni presenti come CapiMastri dell’Arte dei Piombadòri e Finestrèri “da rulli e vetri”attivi in tutta Venezia, presenti anche a Santa Maria Materdomini nel Sestiere di Santa Croce, con sede nella Contrada della Maddalena a Cannaregio. I Grigioni a Venezia lavorarono da:Calzolai, Aquavitai in Contrada di San Stin nel Sestiere di San Polo, Arrotini e Guacoltelli ridotti (associati) in Contrada di San Zàn Degolà, e poi come: Caffettieri, Prestinài in Contrada di San Mattio di Rialto, Pasticceri e Spazzacamini e Vuotalatrine.I Grigioni si occupavano in tutte quelle mansioni e prestazioni secondarie, ruoli modesti direte … ma essenziali nel normale contesto lavorativo e urbano della Città. Antonio Cicogna e Agostino Sagredo scrivevano che quegli immigrati Grigionesi rubavano il lavoro ai Veneziani: “Si esercitano nel cavar le latrine, gente che davasi la muta un anno per l’altro, e che estraggono da circa ottomila ducali all’anno togliendo l’impiego a’ sudditi”.


Gli Scoacamìni Grigionesi “che sgombravano i fumaioli Veneziani”si occupavano anche di svuotare e accudire le fognature. Abitavano in buona parte nei pressi di San Marco, dove c’è ancora oggi una Calle dei Scoacamini ... Erano spesso “gente di strada” provenienti appunto dalle Valli del Lago Maggiore, dalla Val di Non, Valcamonica, Val Brembana, Val d’Ossola, Valtellina e dal Bellunese.

Non godevano di buona reputazione, venivano pagati con “un bicchiere d’acquarello, e un pezzo di pan fresco, non portando altra mercede indietro, se ben col mascarone al naso s’affatica come un can per un’hora di lungo a scovare et nettare quanta immonditia ne’ camini ritrova.”… Si diffidava spesso dei Grigionesi considerandoli imbroglioni e gente che lavorava male: “Quando i Spazzacamini vanno in volta il tempo si conturba, quasi, che il Cielo si sdegni di ricevere il fumo, e la caligine, che da’ camini leva il raschiatore della spelonca fumicosa per sua onta e dispetto.”

Un esempio: il 01 novembre 1701, morì a Pordenone: Zuane Messer Manella Heretico Grigione nella Contrada del Campanile(oggi di San Marco): “In quanto Eretico-Protestante sia sepolto fuori dal Cimiterio di Chiesa per ordine dei Signori del Governo, appresso la casa ultima dei Reverendi Vicarii de Pordenòn”... Manella proveniva dal Libero Stato delle Tre Leghe dei Grigioni, e faceva parte di un gruppo di commercianti di tessuti a cui nel 1609 la Repubblica Veneta “accordò il diritto di praticare un culto domestico nelle propria lingua”.

Andando per un attimo ai numeri: ancora nel 1704, i Grigionesi gestivano 95 pasticcerie su 104 di Venezia … A metà 1700: ben 194 attività e botteghe erano gestite a Venezia da Grigionesi (quasi sempre di Confessione Evangelica, solo 14 erano Cattolici), dando lavoro a più di 500 Grigionesi. Nel 1764, ancora, le botteghe Grigionesi aperte nella sola Venezia erano 245 … 51 erano botteghe di Acquavitai e Distillatori di Grappa; 35 erano botteghe da Scaletèri (Pasticceri); 86 da Caleghèri(Calzolai); 13 da GuaColtellini e Arrotini (nel 1773 i venditori di acquavite Gigionesi erano 75 su 100, e gli Arrotini Gigionesi erano 23 su 39 in totale); 3 da Fenestrèri e Piombadòri; e 6 da Pestrinèri che lavoravano e vendevano: latte, formaggi, burro, panna e ricotta.

Furono napoleone e i Francesi giunti a Venezia all’inizio 1800 a spazzolare via del tutto e definitivamente ogni traccia di quel mondo sociale e lavorativo pretendendo gli inventari delle cose delle Schole, la nota di tutte le riscossioni fatte dal Massèr per la “Cassa Gastaldia o della Milizia da Mar, per la “Cassa della Giustizia Vecchia o Cassa Massaria”, delle caxette date in concessione, delle doti concesse alle figlie dei Calegheri, ad esempio, e soprattutto le liste e i Registri con la provenienza degli iscritti per sottoporli a controllo fiscale … La sede dell’Arte in Campo San Tomà venne quindi chiusa e trasformata in officina di Fabbro … All’epoca i Grigioni se n’erano già andati da Venezia.

Soprattutto dopo la “missione andata male del Rappresentante di Venezia Colombo presso le Leghe dei Grigioni”, la Via dei Grigioni fu per sempre preclusa a Venezia e ai suoi commerci ... In quell’occasione il Veneziano Colombo venne vilipeso, ignorato e canzonato dai Grigioni Svizzeri. Rientrato in Patria, invece, Colombo divenne Cancelliere Grande, perciò fece venire a galla anche la notizia che i Grigionesi Elvetici s’erano serviti della Serenissima per far lievitare offerte, pagamenti, sussidi e pensioni da parte dell’Austria, e che Il partito filoAustriaco Grigionese auspicava in realtà una rottura con Venezia favorendo i Capitolati con i Milanesi ... Crebbe allora il risentimento contro i Grigioni in Laguna, soprattutto nel Popolino e fra i Patrizi della Dominante.

Inutilmente nel febbraio 1766 i Comuni Confederati Elvetici inviarono a Venezia l’Ambasceria di Peter Conradin Von Planta per provare a ricucire lo strappo. Il danno ormai era stato arrecato alla Serenissima ... Pur essendo accolto con cortesia, il Diplomatico Grigionese non venne nemmeno ammesso al cospetto delle Autorità Lagunari ... Anche il Dottor Bonom commerciante Grigionese, inviato a Venezia privatamente dalla potente Famiglia Salis a supporto dell’Azione Diplomatica ufficiale delle Leghe Svizzere, tentò inutilmente di fermare sulla porta del Senato l’autorevolissimo Andrea Tron: “el Paròn de Venèssia” incaricato delle trattative. Le Cronache raccontano che lo Svizzero venne respinto dal prestigioso Patriziocon uno scatto di collera rifiutando di prendere in considerazione le lettere che gli porgeva: “Mi rispose che a causa d’avere il nostro Pubblico minchionato la Repubblica ... non poteva promettere protezione, e di non essere più tempo, et insino alla terza volta disse precisamente non doversi mai minchionare la Repubblica, per questo avete perso la bottega.”

Inutilmente anche il Duca di Praslin“provò a chiedere clemenza per i Grigionesi e le Leghe”all’Ambasciatore Veneziano presente a Parigi ... Perfino il Governo Francese si rivolse alla Serenissima cercando di appoggiare l’azione diplomatica del Planta: niente da fare. Venezia e il Governo di San Marco risposero evasivamente e con cortesia … il destino dei Grigionesi a Venezia era ormai segnato: “non c’era posto a Venezia per doppiogiochisti traditori e irrispettosi verso la Repubblica Serenissima”.

A loro volta, nell'agosto 1766 i Grigioni delle Tre Leghe rifiutarono la proposta di Venezia di migliorare congiuntamente la rete viaria tra i Passi Alpini utilizzata da Svizzeri e Veneziani, e stipularono un nuovo Trattato-Capitolato con i Cattolici Austriaci a favore di Milano e a discapito di Venezia. Adams riferiva:“A Venezia la popolazione è molto maldisposta verso i Grigionesi che ritengono dei parassiti … La ricorrente richiesta delle pensioni arretrate poi, non poteva che inasprire ancor di più gli animi e l’opinione pubblica Veneta.”

La Repubblica Veneziana allora reagì “con un provvedimento d’espurgo dei circa 7.000 Mercanti, Artigiani e commercianti Grigionesi da Venezia e da tutti i suoi Territori". I Grigionesi in realtà non vennero sfrattati dalla Laguna, ma fu loro impedito di lavorare. Nel giro di pochi mesi le loro botteghe vennero liquidate con forti e inevitabili perdite, e s’avviò così un esodo generalizzato dei Grigioni dalla Lagunae dall’intero Stato Veneto. Un uomo di fiducia dei potenti Salis Grigionesi faceva loro rapporto scrivendo da Venezia nel novembre 1766: “Di pazienza han bisogno i poveri Grigionesi, che ogni giorno vedono più da vicino la loro rovina, e al loro crudele destino debbono sottostare, mentre sono stati lasciati e rimangono senza aiuto”.

Il 20 dicembre 1766: a soli dieci giorni dal termine ultimo dell’espulsione da Venezia, i Scaletèri Grigionesipresenti in Città: “distribuivano al Popolo una cesta di biscottini, e poi 18 lire in soldoni dicendo: gridate tutti Viva San Marco … e Bernardo Birron, Scaletèr in Contrada di San Luca aggiungeva: “Per andare in malora, non ci vuol avarizia”.

Il flusso dei Grigionesi si riversò prima nella Lombardia Austriaca e verso Gorizia e Trieste, ma esercitando “Arti e mestieri inutili e superflui, anzi tendenti ad esmungere le nazioni presso le quali dimorano ... si considerano per gente piuttosto nociva e per conseguenza da allontanarsi dallo Stato”. L’emigrazione si disperse quindi al di qua e al di là delle Alpi, e nell’ultimo trentennio del secolo piccoli nuclei Grigionesi si vennero a costituire in quasi tutta l’Europa: Spagna, Russia fino a Pietroburgo, Sicilia, Trieste e Impero AustroUngarico, ma anche Inghilterra, Francia, Olanda e Belgio.

Da quel momento si allentarono i legami fra Venezia gli Svizzeri di Zurigo e Berna, e i Grigioni, e si mise fine agli arruolamenti delle truppe Svizzere ... Di pari passo dal 1797, a causa dei divieti d’importazione in Lombardia e Veneto del Salgemma cresciuto di prezzo in maniera spropositata, prese il via la stagione del contrabbando, fino ad allora limitato solo a piccoli commerci di libri, vino e formaggio. Il commercio proibito con i Grigioni e i Territori Svizzeri divenne mezzo di sussistenza per molti ...  Ancora nel 1810, oltre un centinaio di contadini di vari paesi a valle di Tirano si recavano “in spedizione oltre confine con un bisacchino di sale estero in spalla” attraversando montagne alte più di 3.000 metri, fino in Valtellina e Val Poschiavoper poi defluire nell’Italia Padana e Veneta ... Durante il periodo napoleonico i Dazieri erano autorizzati a sparare contro chi tentava di passare il confine ... In quelle occasioni diversi vennero uccisi, ma ciò nonostante il “commercio proibito” crebbe trasportando anche: Tabacco, Zucchero e Caffè, ma anche generi coloniali, Ferro, Petrolio, polvere da mina, tessuti, Vino e molto altro ancora.

  • Veniamo ora alla seconda considerazione sui Grigionesi: le Capitolazioni Militari fra Grigionesi e Veneziani.

Oltre ai Lavoranti e Artieri, Venezia utilizzò per secoli l’alleanza con i Grigioni come serbatoio dove attingere risorse umane per le sue guerre. Lo fece numerose volte tramite lo strumento delle Capitolazioni, che era un accordo pecuniario col quale si reclutavano squadroni di Mercenari Svizzeri ben addestrati ed equipaggiati … Altro che la notoria neutralità Svizzera !

I Grigionesi avevano fatto dell’Arte della Guerra una risorsa, un modo di vivere e lavorare. Interi paesi Grigionierano dediti per mestiere alle armi organizzati in reclutamenti e leve più o meno coatte. Famiglie agiate e potenti gestivano quella risorsa economica offrendosi di volta in volta al miglior offerente.

Di sicuro si concluse nel 1560 una delle prime Capitolazioni Militari fra Venezia e i Grigioni. Il Colonnello Melchior Lussi, futuro Landamano di Nidvaldo, si offrì a Venezia comandando un Reggimento di 12 Drappelli di Svizzeri… Dopo di lui, fu il Bregagliotto Hercules Salis con i figli Rudolf e Abundius, a stipulare un’altra Capitolazione con la Serenissima mettendo a disposizione un intero Reggimento armato e fornitissimo di tutto.

I Mercenari erano una specie “di usa e getta da guerra” a disposizione di tutti … Convenientissimi anche per i Veneziani.

Durante il 1600 continuarono gli accordi, le intese e le Capitolazioni. Ci fu una Capitolazione col Reggimento Werdtmüller; nel 1652-64 il Reggimento Büeler da Soletocombattè per Venezia nella guerra contro i Turchi a Creta e in Dalmazia; nel 1658 anche il Reggimento Weiss fu a fianco di Venezia ancora in Dalmazia.

Nel 1671 Georg Von Orelligiunse a Venezia come Delegato Particolare di Zurigo e Berna per riscuotere pensioni e arretrati per almeno 104.000 ducati ... Nel 1687 Venezia concluse in fretta e furia un’altra Capitolazione con i Cantoni Svizzeri poco convinti della bontà dell’idea che non andò a finire bene. Del contingente di 2.500 Mercenari da Soletta e San Gallo partiti per la Grecia, il Peloponneso e la Morea condotti dal Colonello Sebastian Peregrin Schmid da Urano, ne tornarono vivi in Svizzera nel 1691 solo 200. Il Nunzio Apostolico residente a Venezia aveva fatto grande opera di propaganda indicando l’impresa come: “Novella Guerra Santa … Atto di Liberazione del Santo Sepolcro e di Gerusalemme”. Il Reggimento salpò da Venezia, e dopo quasi un mese di navigazione giunse in Morea, dove si unì all'esercito Veneziano. In luglio l’armata venne trasferita a Negroponte per conquistarla, però malattie e insuccessi in battaglia decimarono l'esercito, tanto che a fine ottobre l'assedio venne interrotto, e si rimandarono i Mercenari Svizzeri prima a Lepanto, e poi in Patria. Scoppiarono allora tensioni e s’incrinarono le relazioni fra Venezia e gli Svizzeri. Si criticò il cattivo trattamento che Venezia aveva riservato ai Mercenari, emersero anche conflitti interni fra gli Ufficiali Svizzeri, e non ultimo: la Serenissima si rifiutò di pagare “il soldo pattuito”. Per una decina d’anni ci fu una sostanziale distanza fra Venezia e i Grigioni.

Di nuovo nel 1705 però, Venezia spedì Vendramino Bianchi in Svizzera, dove l’anno seguente riuscì a concludere un'alleanza con Zurigo, Berna e con i Grigioni del Libero Stato delle Tre Leghe. Si considerò l’evento un successo, e si giunse a festeggiarlo pubblicando anche un resoconto storico pomposo sulla buona alleanza fra Confederazione Svizzera e Venezia.

In realtà si era ormai agli sgoccioli con l’esperienza storica delle Capitolazioni con la Svizzera.

Nel marzo 1848, comunque, dopo i Francesi e napoleone, quando si proclamò la Repubblica di San Marcoinsorgendo contro gli Austriaci, s’invocò ancora una volta il ricorso alle truppe Svizzere per difendere Venezia. I Cantoni Svizzeri Liberalideclinarono l’invito, mentre il Capitano Turgoviese Johannes Debrunnerreclutò 126 Mercenari recandosi a Venezia “per garantire ordine e disciplina”. Dopo la resa di Venezia l’anno seguente, tornarono in Svizzera solo 61 uomini: meno della metà.

Ancora nel 1862 s’istituì a Venezia col Console Victor Cérésole una Rappresentanza Consolare permanente dei Grigioni, mettendo ancora una volta per scritto le vicende dell'intera storia delle relazioni diplomatiche tra Venezia, le Confederazioni Svizzere e le Tre Leghe Grigionesi ... Cinque anni dopo, sorse a Venezia anche la Comunità Valdese, nei cui Registri si elencarono puntualmente le famiglie: Bondi, Candrian, Thoêni, Jöhl e Riccard… tutte di Grigionesiancora presenti a Venezia.

  • Infine, terza e ultima considerazione: la Riforma Protestante a Venezia.

Insieme alle persone giunsero e passarono a Venezia anche le idee. Cioènella Repubblica Veneziana dai mille volti trovò spazio anche la Riforma Protestante introdotta dai Grigioniforse inconsapevolmente ... ma anche no.

Iniziò così una stagione di grande travaglio e mutamento interiore del Veneto e in Laguna. Le nuove Dottrine Protestanti, si sa, furono rivoluzionarie per l’epoca. Parlare di “Giustificazione, Predestinazione, Salvezza dell’Anima e dell’Esistenza tramite la sola Fede, e non per merito delle opere, dei Sacramenti, dei Suffragi e delle Elemosine mediate dal Clero e dalla Chiesa”, sarebbero argomenti che non sorprenderebbero né impensierirebbero più di tanto noi di oggi lasciandoci parecchio distratti, lontani e indifferenti Non fu affatto così allora a Venezia. Insieme con i Grigioni iniziò a circolare in Laguna un vero e proprio fiume di libri proibitissimi tradotti in molte lingue. Venezia fu a lungo forse il più grande emporio librario d’Europa, un grandissimo pulpito, una cassa di risonanza e amplificazione immane su cui salirono Predicatori entusiasti, Liberi Pensatori, Filosofi e Religiosi vaganti di ogni sorta.

I nomi ? … Semisconosciuti per la maggior parte … Alessandro da Pieve di Sacco, e i Veneziani: Bartolomeo Fonzio Frate Minore Conventuale che si recò poi in Germania a Strasburgo, prima di passare ad insegnare e predicare a Roma, a Fara in Sabina, Modena, di nuovo Venezia, e poi ancora: Ferrara, Padova, Ancona e Osimo. Venne arrestato nel maggio 1558 a Cittadella(dove furono attivi e perseguitati anche il Maestro di Grammatica Pietro Speciale, che abiurò nel 1551 dopo lunga carcerazione; Agostino Tealdo giustiziato “come Anabattista” nel 1555; e Francesco Spiera, che si lasciò clamorosamente morire disperato d’inedia dopo essere stato costretto ad abiurare le proprie convinzioni). Trasferito in prigione a Venezia, Frate Fonzio venne processato dall'Inquisizione Veneziana, rifiutò di abiurare, e in quanto Eretico Relapsovenne condannato a morte e annegato in Laguna il 4 agosto 1562. Dopo di lui toccò anche al Frate Francescano Conventuale Girolamo Galateo del Convento dei Frari di San Polo, che venne incarcerato e processato per eresia da Gian Pietro Carafa (futuro Papa Paolo V) su incarico di Clemente VII. Protetto dal Governo Veneziano, il suo processo si trascinò senza fine, venne rilasciato, per poi essere incarcerato di nuovo. Alla fine morì in carcere nel gennaio 1541.

Gian Pietro Carafa definì quegli uomini: "maledetta nidiata che semina il veleno dell'eresia nella Repubblica Veneziana." Venne per questo a insediarsi in pianta stabile nel territorio della Serenissima insieme a un suo gruppo di fedelissimi superortodossi: i Teatini residenti soprattutto nel Convento di San Nicolò dei Tolentini (poco distante dall’attuale Piazzale Roma dei tram e bus):“Tutti quei movimenti eterodossi sono pericolosissimi: da controllare e cancellare ad ogni costo.”

Eletto poi Papa, lo stesso Carafa conversando a Roma nell’ottobre 1557 con l'Ambasciatore Veneziano Bernardo Navagero, riferendosi ancora alla nota vicenda del Frate Galateo finalmente morto, gli disse: "Frate Galateo morì pur in prigione, se bene ne fu cavato sotto pretesto d’indispositione, una volta. Ma, perché faceva peggio che mai poi che fu relassato, andando nelle botteghe de lebrari, spetiali et calzolari a seminare il suo veneno, la Signoria fu forzata a farli dare delle mani addosso una altra volta, et morì in prigione. Et noi, essendo venuto nella chiesiola di San Nicolò un Capo di Diece, che non vogliamo nominare, lo facessimo cavar di chiesa, con dir che gl’era scomunicato per non haver fatto il debito suo contro quell’heretico."

Curiosa anche la figura dell’Ambasciatore Veneziano Bernardo Navagero. Pur essendo stato membro del Consiglio dei Dieci, Ambasciatore presso l'Imperatore Carlo V, presso il Sultano Solimano il Magnifico, presso l'Imperatore Ferdinando I e il Re di Francia Francesco II, venne comunque sospettato d’eresia, e denunciato senza remore "come Luteràn" insieme al fratello Girolamo e al Patrizio Veneziano Giovan Battista Tagliapietra. Il delatore fu Don Pietro Manelfi, che si guadagnò dall’Inquisizionedi Bolognauno stipendio mensile di 5 ducati d'oro per la sua efficace collaborazione. L’Ambasciatore Navagero venne salvato in extremis da un intervento censorio e protettivo della Serenissima, e la sua situazione processuale venne fortunatamente depennata riuscendo a proteggerlo.

Assurdità, curiosità e incoerenze storiche … Lo stesso Navagero divenne poi Cardinale, Vescovo di Verona e presiedette addirittura al Concilio di Trento come “Legato a latere” insieme al Cardinale Giovanni Morone a sua volta inquisito dal Santo Uffizio che ne aveva sempre per tutti.

“Il Lupo perde il pelo ma non il vizio”… Riforma o non Riforma, Giudizio Divino e Salvezza o Dannazione, Giusto o Sbagliato … Prima di morire, il Navageronon mancò di raccomandare suo nipote Agostino Valier come suo successore nel ricco beneficio del Vescovado di Verona ... e che la Storia pensasse su di lui quel che volesse.

Tutto questo per dirvi un po’ di come Lutero e Calvino, e molti altri autori eterodossi transalpini … gli Eretici in altri termini … trovarono in Laguna grande disponibilità e ascolto, con buona pace di chi sentiva tremare il proprio ricco e sicuro seggiolone insieme alle sue intoccabili Verità e i ricchi tornaconti conseguenti. Sonni tranquilli non dormì di certo l’Inquisizione Veneziana, che in quell’epoca di sicuro fibrillò non poco dandosi un gran da fare, inviperita come sempre. Processò a destra e a manca: Ecclesiastici come Fra Giulio da Milano scappato via, Fra Ambrogio Cavalli messo al rogo a Roma (citandone due a caso), ma anche tanti intellettuali, medici, avvocati, notai, artigiani e uomini e donne qualsiasi.

Venezia alla fine rimase comunque sostanzialmente Cattolica preferendo la quiete diplomatica e l’equilibrio con i Potenti dell’epoca (il Papatosoprattutto col quale era sempre in rapporto di odio-amore) a discapito delle novità, politiche, economiche, sociali o religiose … Ci fu un“cenacolo” a Murano animato da Gasparo Contarini divenuto poi Cardinale, tanti artisti rappresentarono che nei loro dipinti cose che non erano ammesse come lecite dalla Dottrina Ufficiale della Chiesa ...Lo Studio Universitario di Padova ospitò numerosi studenti provenienti da Paesi Protestanti permettendo loro percorsi culturali liberi da tutte le costrizioni Cattoliche che intendevano imporre le Bolle Inquisitorie e le indicazioni restrittive del Papa di Roma.  Uno di loro: Pomponio Algieri da Nola, visse il suosingolare dramma esistenziale. Venne arrestato nel 1555 dall’Inquisizione Veneziana, quindi consegnato dalla Repubblica Serenissima a Papa Paolo IV, che lo fece bruciare nell'agosto 1556 a Roma in Piazza Navona… In Ruga degli Oresi a Rialto alcuni artigiani si trovavano nei retrobottega a leggere e a commentare insieme le Scritture riviste dai Riformati … Palazzo Morosini sul Canal Grande era abituale ritrovo di Nobili intellettuali filoProtestanti.

Sentite questa !

Cronache Veneziane riportano le sorprendenti parole di Donna Franceschina della Contrada di San Pantalònrivolte alle vicine di casa: È mala cosa andare a Messa, perché Cristo non l’ha ordinata ... È nel Testamento Vecchio che quando se levava il vedelo dorato, tutti accorrevano ad adorarlo etse perdevano dietro a quell’idolo. Così noi, quando se leva l’ostia consegrada, corriamo ad adorarla avendo fede in quel vedelo e ce perdemo, per esser un idolo…E se deve pregar Dio, perché lui è il principal…E bisogna adorar Cristo in spirito e verità, non in quel pezo di pasta…E lui è il nostro purgatorio, e quando morimo andemo in paradiso o all’inferno.

Quando mai si sentì una Veneziana discorrere così con una vicina di Contrada ?

 

La presenza dei Grigioni a Venezia di certo modificò qualcosa del solito vivere e della consapevolezza dei Veneziani ... Non solo degli intellettuali e dei facoltosi, ma anche di quelli qualsiasi.

Negli stessi anni, ogni 29 aprile,sul Ponte fra i Conventi di San Francesco di Paola e San Domenico di Castello sede dell’Inquisitore del Santo Uffizio Veneziano,si bruciavano i libri eterodossi“del Demonio” ... Le opere di Lutero si potevano trovare tranquillamente sin dal 1520 in molte botteghe di Librai Veneziani: sia in originale, che in copia manoscritta … Il Fontego dei Tedeschi soprattutto, fu centro d’emanazione di tutte quelle nuove idee, luogo dove si ospitarono insieme ai commerci degli Allemanni, anche le Liturgie e i Pastori che giungevano a Venezia di nascosto dal Centro e Nord Europa.

La Repubblica Serenissima “che tutto vedeva, sentiva e sapeva”, fu sempre tollerante e consenziente, spesso taceva: “Il Fontego di Rialto è una serpe in seno di Venezia … Nella chiesa Realtina di San Bartolomeo frequentatissima da Mercanti e viaggiatori d’oltralpe, si tengono sermoni eretici nascosti dentro alla lingua Teutonica.” diceva, invece, nel 1580 Bolognetti Nunzio Apostolico del Papa a Venezia: dove s’intentarono circa 800 processi,di cui circa 20-25 si conclusero con una sentenza di morte inflitta spesso altrove, fuori e lontano dallo Stato Veneziano.

In verità quindi, la Serenissima fu sempre molto contrastata e indecisa sul da farsi, preferendomantenere saldo al primo posto il suo interesse per il business e le economie dello Stato.Venezia non favorì direttamente né RiformaInquisizione, ma controllò entrambe tarpando artigli, ali e velleità a chiunque intendeva ledere gli interessi della Repubblica.

Magistrature di Stato presenziavano sempre ai Processi del Santo Uffizio, non si sequestravano in Laguna, se non raramente, i beni dei presunti Eretici, si permise solo di rado di spedire a Roma sudditi considerati tali, e ufficialmente si cercò di evitare le condanne capitali … anche se Venezia in realtà: arrestò, condivise, e si prestò molte volte nell’eseguire sentenze Inquisitorie.

La Serenissima non fu affatto immacolata né priva di colpa. Pur evitando la spettacolarità educativa ed esemplare molto gradita all’Inquisizione, non si può tacere che annegò di notte in Laguna diversi presunti Eretici considerandoli eversori dell’ordine politico e sociale costituito, alla stregua di comuni traditori.

Fu così che morirono l’umanista Publio Francesco Spinola da Milano,Baldo Lupetino, Giulio Gherlandi, Antonio Rizzetto, Francesco Della Sega, e Gian Giorgio Patrizi da Cherso… Tutti finiti annegati nottetempo nel Canale dell’Orfano verso Malamocco in fondo allaLaguna, in quanto: “rei d’Eresia”… Che tristezza !

Nel 1525 il tipografo Nicolò di Aristotile Rossi detto Zoppino, pubblicò e ripubblicò sotto pseudomino un’antologia di scritti Luterani attribuendoli falsamente ad Erasmo da Rotterdam… Nel 1530 il tipografo Lucantonio Giunta, col permesso del Senato Veneziano, stampò in successione: la traduzione del Nuovo Testamento del Fiorentino Antonio Brucioli, la traduzione dei Salmi, e la traduzione dell’intera Scrittura provando così a mettere in mano a chiunque il Testo Sacro, compresi i ceti popolari spesso volutamente tenuti esclusi e lontani dalle grandi discussioni e dalle grandi diatribe Ecclesiastico-Dottrinali.

Nel 1543 fu la volta di Bernardino de’ Bindoni di stampare a Venezia il bestseller di successo della Riforma italiana: “il Beneficio di Cristo” scritto da Benedetto Fontanini da Mantova e da Marcantonio Flaminio. In cinque anni ne stampò ben 40.000 copie: fu successone fortunatissimo stampato e ristampato, che andò a ruba, bruciato e ribruciato dall’Inquisizione … ma rispuntava ogni volta.

Qualche anno dopo, venne stampato e ristampato anche “l’Alfabeto Cristiano” di Juan de Valdés: esponente di punta del Movimento Alumbradista Spagnolo. Era un libro tremendo secondo l’Inquisizione e il Papa, una vera e proprio “Opera del Diavolo” che svalutava l’intera macchina devozionale Cattolica: dalla frequentazione inutile delle chiese, l’inefficacia delle tante Messe e delle mille Funzioni quotidiane: “Gli Alumbrados dicevano che tutto quell’ambaradan inutile poteva benissimo essere sostituito da un contatto diretto con Dio tramite la sola adesione della Fede interiore e personale.”... La Riforma nel suo insieme con i suoi testi, generò uno scandalo epocale immane, che fece impensierire a lungo Papi, Cardinali, Teologi, Re e Inquisitori ... e Venezia in tutto questo funse da spettacolare altoparlante di successo.

Solo dal 1549, s’inizio a Venezia a prestare attenzione e ad accogliere le rimostranze dei vari Nunzi Apostolici-Papali: Giovanni Della Casa su tutti. Si provvide allora a stendere in quello stesso anno un grosso Catalogo dei Libri Proibiti che dovevano assolutamente essere sequestrati e bruciati pubblicamente il più presto possibile ... Quanti spettacolari falò a Venezia !

Bernardino Ochino, uno dei principali Riformatori Italiani, sperando che la Riforma potesse impiantarsi stabilmente nello Stato Veneziano, scrisse da Ginevra alla Signoria di Venezia[…] Dio sa quanto desidero veder che Cristo regni nella mia Venezia, e che sia libera da ogni diabolico giogo, e maxime da quello che sotto le spezie di bene la tiene più oppressa, e vi exorto ad essere in verità amici di Cristo e a volere intender il puro Evangelio, e non perseguitar, ma favorir quelli che vi predicano la parola di Dio […] Già Cristo ha incominciato a penetrare in Italia; ma vorrei che v’intrasse glorioso, a la scoperta, e credo che Venezia sarà la porta, e felice a te se la accetterai, e guai a quelli che con Erode per uman timore il perseguitaranno.”

Anche Pier Paolo Vergerio Vescovo Eretico di Capodistria passato alla Riforma, chiese al neoeletto Doge Francesco Donà di farsi promotore della Riforma nella Repubblica Veneziana dove stavano già crescendo diversi gruppi e cellule spontanee non clandestine formate da operai tessili analfabeti, ma anche da Artigiani, Maestri di scuola, Medici, Avvocati, autorevoli Mercanti e Nobili Patrizi dediti già a un efficace sistema di mutuo soccorso e ad opere di propaganda con notevole capacità e prospettiva d’espansione.

Tra i Veneziani di rango di tendenza Riformista e Protestante c’erano Alvise Mocenigo(Ambasciatore a Roma e poi Doge), Nicolò Da Ponte(Ambasciatore a Roma e poi Doge), e Andrea suo fratello, che scelse l’esilio oltralpe a Ginevra meritandosi la “damnatio memoriae” su tutta la famiglia. C’erano poi: Gaspare Contarini capofila degli "Spirituali"; il già ricordato Bernardo Navagero e Marcantonio Da Mula tutti blandamente ma puntualmente inquisiti dal Santo Uffizio Veneziano.

Bisogna aggiungere anche che la Repubblica Serenissima fu spesso poco tollerante nei confronti degli Inquisitori troppo intransigenti. Michele Ghislieri (poi Pio V) fu costretto a fuggire in fretta e furia da Bergamo sfuggendo di un nulla a un attentato (1550)mentre stava procedendo contro un Nobile Veneziano Soranzo ... E’ provato che fu Venezia ad organizzare l’attentato … Nel 1560 fu ancora il Governo Veneziano a chiedere e ottenere da Roma che venisse immediatamente rimosso e richiamato Felice Peretti (futuro Sisto V), che allora era Inquisitore di Venezia fin troppo determinato. 

Per chiudere il discorso, riporto, infine, una piccola nota secondo me curiosissima riguardante i Grigioni a Venezia.

Si tratta della descrizione del Casìno dei Grigioni che esistette a lungo in Campo San Moisè, proprio vicino al rinomato e frequentatissimo Casìno Priuli. Nel Casìno dei Grigioni, più che i Grigioni stessi che ambivano poco a frequentare lussi, divertimenti e lazzi consessi, si ritrovavano solitamente i Veneziani Nobili, e soprattutto gli immancabili e facoltosi Mercanti. Si trattava di una Compagniadi almeno 60 Nobiluomini Veneziani in qualche modo interessati, simpatizzanti e affiliati alla causa socio-economica dei Grigioni e alle loro innovative idee. Il Casino dei Grigioni era meta abituale di diverse NobilDonne Veneziane: Venturina Corner col marito Alessandro Dolfin; Teresa Capnist Querinia cui una Gentildonna Balbi portò via il fedele amico Pasquale Da Riva; Giobatta Contarini con la moglie Benedetta Donà, che morì proprio mentre si trovava a un ballo nel vicino Ridotto di San Moisè… Erano ancora assidue del Casìno dei Grigioni: le Dame Mafetti e Angeloni, i coniugi Marina ed Antonio Angeli, Apollonia Ghisi moglie di Pietro Marco Marin, un Patrizio De Mezzo, Giobatta Benzon, Pietro Bonfaldini e Andrea Marcello, e il vecchio Lancillotto Bon che era sordo … Infine c’erano anche: Paolo Pisani, Luca Da Riva e Benedetto Zusto con altre Dame, Gentiluomini e Cittadini che si recavano là di continuo a cenare e giocare.

Ultime tracce del passaggio dei Grigioni a Venezia.

 


Nota curiosa successiva e conclusiva: all’inizio 1900 si sono rovesciate le situazioni storiche, e sono stati i nostri Italiani a recarsi nei Grigioni Svizzeri sia per lavorare come operai nella costruzione delle Ferrovie Svizzere, di Dighe e Ponti e nelle Miniere, sia per curarsi come tisici nei Sanatori Svizzeri che trattavano la TBC: la Tubercolosi.

Sia Operai che Malati riportano testimonianze di vissuto difficile, storie di alcolismo e Osterie, violenze, soprusi, infortuni sul lavoro e disgrazie, sfruttamento minorile e tratta di minori da parte dei padroni, contrapposizione violenta fra capitalisti e operai considerati quasi alla stregua di criminali, trattamenti abbastanza miseriosi, “ristrettezze, note e rimembranze dolorose”,e poca e costosissima assistenza davanti a sindacati inesistenti e politici di parte, interessati, corrotti e antiCattolici.

Le statistiche storiche del 1880 contarono 119.600 Italiani Emigrati in Svizzera, che “lasciarono la Patria andando a cercare condizioni meno infelici”. Nel 1902 gli Emigrati divennero più di 531.000, distinti fra 245.000 permanenti e 286.000 temporanei.

La Regione che procurò maggiore contingente Emigratorio fu proprio il nostro Veneto (3.011 persone) seguita da diverse Regioni del Sud Italia: Basilicata fra tutte. Su 100 emigrati, 59 erano contadini, 20 manovali e terrazzieri, tagliatori di pietra e muratori, 8 artigiani e 2 industriali o commercianti.

Dei 531.000 Emigranti del 1902, 236,000 si fermarono in Europa, gli altri, invece, attraversarono l’Atlantico per recarsi in quello che si considerava “l’Eldorado dell’Italiano”, cioè Argentina e Brasile prima, e Stati Uniti dopo. Solo pochi si sono spinti verso Asia, Africa e Oceania-Australia.

Accanto al paesaggio incantevole dei territori, delle gole e della Valli Alpine, e alle vicende di una comunità Elvetica-Grigionese ricca d’Arte e Cultura, le testimonianze e i racconti riportano di una vera e propria: industria dei Forestieri ed Emigrati Milanesi, Bergamaschi, Lombardi e Piemontesi in genere nella Svizzera”.

Tristi, anche se interessanti report quasi attuali, su una Regione antica ricca di Storia e Lavoro, che rimanda di continuo anche alla nostra Venezia di un tempo.

 

Giovanni Grimani: La scivolosa scalata al vertice di un potente Patrizio Veneziano, braccato senza sosta dalla Santa Inquisizione.

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#unacuriositàvenezianapervolta 291

Giovanni Grimani

La scivolosa scalata al vertice di un potente Patrizio Veneziano, braccato senza sosta dalla Santa Inquisizione.

Fra mille nomi di Veneziani famosi: Dogi, Mercanti, Condottieri, Nobili, Artisti ed Ecclesiastici, ce n’è uno in particolare che m’incuriosisce una volta di più: il Nobilissimo Giovanni Grimani ... uno dei tanti figli del Nobilissimo Casato Patrizio Veneziano di un tempo.

Non è facile riassumere in poche parole le vicende di un uomo così, ma ci provo.

Se si accede al suo Palazzo, alla sua “Cà” diventata interessante Museo in quella che è stata la Contrada di Santa Maria Formosa, si rimane allibiti più che stupiti, quasi spaesati, di fronte a tanta complessità e bellezza. Lui però rimane confuso dentro alle pieghe e alle infinite ombre delle tante vicende dei Grimani, quasi non lo vedi, non lo riconosci. Se ne intuisce solo l’essenza che gravita nell’aria, quasi come illustre fantasma in mezzo a tanti altri che hanno inventato così tanta Storia.

Sono di quelle Storie che ti lasciano là: a bocca aperta, curioso.


Giovanni Grimani è nato, poi morto, e vissuto a Venezia dal 08 luglio 1506 al 03 ottobre 1593: 87 anni in tutto. Quarto figlio di Girolamo di fu Antonio, e di Elena figlia di Francesco Priuli, aveva tre fratelli: Vittore, Marino diventato Cardinale, e Marcoinsignito del Patriarcato di Aquileia. Le sue sorelle furono almeno tre: Lucia sposata col Nobile Marco Vendramin; Paola sposa di Stefano Querini; e Lucreziamaritata prima con Andrea Contarini, e rimaritata poi con Bartolomeo Cappello. Come intuite: tutti uomini e donne di “Casati grandi e illustri”, cioè appartenenti alla “crème”, al “meglio del meglio” della Nobiltà Veneziana.

Giovanni, riassunto in poche parole, fu soprattutto un uomo colto, oltre che potente, e un singolare collezionista d’Arte Antica. Per farvi un’idea di lui, basta dirvi che nel 1587 donò alla Serenissima Repubblica la sua ricca collezione di più di 200 pezzi e reperti rarissimi, messi insieme ad altri 16 donatigli dallo zio Domenico, personaggio di spicco pure quello ... Di fatto quella collezione è diventata la parte più consistente dell'attuale Museo Archeologico di Venezia sito in Piazza San Marco.

Pensate ! … Giovanni Grimani per mettere insieme quel tesoretto artistico di famiglia spese ben 3.000 ducati d'oro per recuperare i vari pezzi d’Arte: “le anticaglie di famiglia” scialacquate e disperse per debiti dal fratello Marino, vendute soprattutto a Giovanni Maria Ciocchi del Monte, cioè al controverso e chiacchieratissimo Giulio III: Papa guerriero, ritenuto anche sodomita e pedofilo ... Giovanni Grimani non smise mai di incrementare il suo “Camerino delle Antichità” investendo di continuo somme ingenti, e recuperando senza sosta opere dai vari mercati archeologici di Roma col Pantheon, le Terme di Agrippa e l’Iseo Campense, poi da Villa Adriana, e nel Veneto ad Aquileia, ma anche in Dalmazia, a Costantinopoli, Creta, e nell’Attica e Peloponneso Greci… Insomma: una raccolta e un patrimonio considerevole, che approntò a Palazzo Grimani nella famosa monumentale “Tribuna”.

Torniamo al personaggio …  Sulla scia delle tradizionali aspettative irrinunciabili di famiglia, Giovannidivenne per ben due volte Patriarca di Aquileia: dal 1545 al 1550 e poi dal 1585 fino al 1593.

Direte: Patriarca Aquileiese ? … Era molto … O forse poco ? ... Solo Patriarca? … Tutto qua ?

Per i Grimani essere Patriarcapoteva considerarsi il minimo, perché era nella loro indole di puntare in alto, anzi: in altissimo dentro al panorama politico-economico-religioso della realtà Veneziana, ma anche Italiana. I Grimani, oltre ad essere fieri e intraprendenti Mercanti e uomini di Lettere e Cultura, dovevano essere minimo prestigiosissimi Cardinali, Patriarchi, Abati e Vescovi, e perché no: magari Papa di Roma ... Mentre a Venezia, dovevano assurgere minimo alla carica di Procuratori, Senatori e Dogi… Si: proprio così, il massimo possibile: il Doge … Erano quelli i livelli su cui si muoveva la Nobilissima Famiglia Grimani: scenari inimmaginabili per i comuni bassi mortali ... Per i Grimani, invece, era pura normalità, l’ovvio, il minimo normalmente perseguibile.

Erano una Famiglia, insomma, in cui si viveva quasi con ansia il dover primeggiare ad ogni costo: il dover star al top del top, dove più su non si poteva. Era questa l’indole Grimani: quasi il loro marchio di fabbrica.

Dentro quindi a quella specie di giochino senza fine di raggiungere abitualmente le cariche di maggior livello e importanza, Giovanni divenne ben presto Vescovo di Ceneda (Vittorio Veneto) dal 1540 al 1545, dopo esserne stato Amministratore Apostolico dal 1520 al 1531. Era subentrato in quella carica allo zio Domenico, che ovviamente era riuscito a salire di ruolo diventando Cardinale.

Curioso il modo con cui i fratelli e i parenti Grimani si scambiavano le cariche prestigiose: si cedevano l’un l’altro i titoli, ma si tenevano quasi sempre le rendite e i benefici finchè vivevano. A Giovanni, infatti, all’inizio giunse solo la titolarità del Patriarcatodi Aquileia insieme a una buona pensione annua di 1200 ducati, che poteva prelevare a piacimento dalla Camera di Udine. Solo dal 1546: alla morte dello stesso zio Domenico, Giovanni riuscì ad avere in pienezza il Titolo con le Rendite del Patriarcato Aquileiese, al quale si premurò di aggiungere come giusta integrazione anche la ricchissima Commenda dell'Abbazia di Santa Maria di Sesto al Reghena: altro pingue titolo con terre, villaggi, dipendenze, Pievanie, Monasteri e tante risorse, tributi e denari annessi ... Nel 1582, fedele alle regole d’abitudine di famiglia, Giovanni diede la Commenda in gestione al nipote Antonio, figlio di suo fratello Vittore, continuando ovviamente ad esercitarne direttamente il governo, e soprattutto a goderne i benefici e le rendite fino alla morte.

I Grimani non si smentivano mai, erano cocciuti, assidui, caparbi, puntigliosi e testardi ... oltre che ostici.

Secondo i documenti e le Cronache, Giovanni Grimani non fu granchè come Patriarca di Aquileia ... Si: provò a destreggiarsi e a darsi da fare, di lui si ricorda l’indizione di due Sinodi Diocesani: quello del 1565, e quello del 1584 ... robetta, poco cosa per i Grimani, che avevano in mente di dedicarsi a tutt’altro.

I Cronisti Storici, infatti, furono abbastanza impietosi nel dipingere l’immagine e l’operato del Grimani ad Aquileia: “Grimani non brillò di certo per zelo pastorale: delegò pressoché tutto ai suoi Vicari ... E se è vero che intimò al Clero del Patriarcato di dotarsi del Breviario Romano … la confusione liturgica persisteva ad Aquileia, come riscontrò nel 1585 il Visitatore Apostolico Cesare de Nores, che trovò i Mansionari che recitavano l'Ufficio secondo l'uso Aquileiese, mentre i Canonici lo recitavano secondo l’uso Romano. Per di più i "breviari aquileiesi" a stampa si andavano rarefacendo. Non per questo il Grimani s’era preoccupato di farne stampare di nuovi. Più che tanto sul versante propriamente religioso il Grimani non si impegna. Quel che suscita il suo interesse sono le competenze giurisdizionali ... E se, nel 1554, fu valida è la sua mediazione tra Parlamento e Contadinanza Friulana in merito ai contratti di compravendita cum pacto de retrovertendo … tuttavia Grimani aveva "fisso il pensiero ad acquistar assoluto dominio nelle terre della sua giurisdizione a tal fine mobilitando amici e parenti, finendo anche con lo scontrarsi con la stessa Repubblica, ancorché si finga "buon cittadino" tutto proteso al "servizio della Patria".

Di certo una brutta referenza storica sull’operato del Grimani.

Il grandissimo cruccio e il grande interesse di Giovanni Grimani, però … e siamo “al dunque” di tutta la nostra storia, fu la voglia estrema di diventare Cardinale di Santa Romana Chiesa, come si auspicava per lui non solo in Famiglia, ma anche in tutta Venezia.

Fu un fallimento però: un buco in acqua, nel senso che nonostante si possa dire che Giovanni Grimani ce l’abbia messa tutta, gli risultò impossibile di superar gli ostacoli che s’interposero fra lui e quella benedetta e tanto agognata e contrastata nomina.

Che cos’è accaduto ?

Semplice: per buona parte della sua vita, il Grimani si trovò rallentato e impedito nei suoi disegni e propositi da un sospetto-accusad’Eresiaaffibbiatogli in maniera ticchignosa dall’Inquisizione. Dovremo pensare a lui come a un uomo mai domo, febbricitante, sempre impegnato a scalare il potere, ma costretto anche a difendersi dallo stesso potere, e obbligato a contrastare quell’insistente accusa. Dall’altra parte, cioè di fronte a lui: c’era sempre l’Inquisizione eternamente impegnata ad azzannargli instancabilmente e in ogni modo caviglie e costole.  Giovanni Grimani fu accusato pesantemente d’essere fautore e sostenitore delle nuove pericolosissime teorie della Riforma Luterana Protestante: fastidiosissimo fumo negli occhi per la Chiesa, che s’imbufaliva al riguardo diventando vendicativa e tremenda.

Il tempismo nel zavorrare Grimani con quella pesantissima accusa fu perfetto … Fu del 28 gennaio 1546, subito dopo la nomina a Patriarca, la prima denuncia contro di lui presentata al Cardinale Alessandro Farnese dal Grechetto.

Il Grechetto:curiosissimo personaggio, quasi una sorta di fastidiosissima macchietta d’uomo. Si trattava del Cretese Dionisio Zanettini: un Frate Zoccolante permaloso, rabbioso e arruffone, affamatissimo di “ben comparire” … Volta e gira, e gira e volta, trafficando qua e là, era riuscito a diventare Vescovo di Milopotamo e Chirone allargandosi poi a comprendere anche la Diocesi di Chironissa. I due Vescovadi furono ben presto sciolti trasformandoli in relative pensioni destinate allo stesso Grechetto… Di lui si diceva ancora di quando due Frati Domenicani, imbestialiti contro di lui: Padre Benedetto da Fojanoe Frate Dionisio di Napoli di Romania, s’erano introdotti in una chiesa di Udine dove Grechetto stava predicando. Avevano interrotto il suo sermone, e avevano ingaggiato con lui un gran contradditorio con grave scandalo di tutti i fedeli presenti … Ancora il Grechetto, era noto per essersi infiltrato dentro all’assemblea del Concilio di Trentomettendo in atto grandi scenate di contestazione … Lo buttarono fuori … poi, era morto nel 1566, ma intanto di danni ne aveva fatti tanti.

Insomma, secondo il Grechetto, avvalorato dalla testimonianza dell'Arcivescovo di Corfù, Giovanni Grimani conversando a Venezia aveva detto che il Concilio si doveva considerare superiore all’autorità del Papa ... Eresia !

Figuratevi la reazione di Cardinali e Papa ! … Di sicuro sentendo quelle affermazioni si ribaltarono giù dai loro seggioloni dorati, presi da batticuore e da incontenibile voglia di rivalsa ... Quelle affermazioni del Grimani andavano a minare direttamente le Basi Giuridiche e le Certezze Dottrinali della Chiesa: bisognava fermarlo, o almeno ostacolarlo ... Non importava se era uno dei pochi Patriarchi al Mondo, la Verità Ecclesiale veniva prima di tutto e ad ogni costo.

Seconda puntata: 26 aprile 1547 … Nuova denuncia ancora al Cardinale Farnese di Roma, e sempre e ancora da parte del solito intrigante quanto pettegolo Grechetto. Stavolta però il delatore ci andò giù pesante con una fiumana di dettagli accusatori. Secondo lui: Grimani era “Eretico in toto”, cioè era un CriptoLuterano di convinzione, “cultore di questa mala et pessima profession" ... Ma non solo, Grimani era anche: “ospitante Luterani in Casa propria, e loro favorevole de fuora" ... Aveva appoggiato gli Omileti Agostiniani Giulio Della Rovere e Agostino da Treviso giunti a predicare Venezia, nonché il pericolosissimo Bernardino Ochino in persona (presente effettivamente a Venezia nel 1542): “Favoriva Abati e Frati di mala qualità che potevano contare su di lui … Istigava a dir contro la Verità Cattolicaaltri pericolosissimi Eretici sospetti come il Vescovo di Chioggia Giacomo Nacchianti, Pietro Carnesecchi e Pier Paolo Vergerio Vescovo di Capodistria: eterodosso e fuoriuscito dal Cattolicesimo, di cui era amicissimo ... Il suo stesso segretario: il Medico e Scrittore Gian Battista Susio da Mirandola: il quale ha una macchia rossa in volto, era di sicuro un uomo di mala natura … un altro heretico."… La Cà-Palazzo del Grimani a Venezia era un luogo di sottointesi e ambiguità … Giovanni Grimani, inoltre, era un uomo isterico, un furioso et pàzo pericoloso; la benevolentia che ostenta verso la Casa Farnese è falsa: in cuor suo Grimani è inimicissimo verso di essa".

Per la Cronaca molte delle notizie corrispondevano al vero: sul serio nel 1541 Fra Giulio Della Rovere era passato da Trieste a Venezia, dove aveva predicato il Quaresimale in primavera tenendo ben 22 sermoni nella chiesa di San Cassiano a due passi da Rialto. Il Frate era stato denunciato e pizzicato dall’Inquisizione Venezianaguidata dal Nunzio Apostolico Giorgio Andreasi, ed era finito condannato a un anno di prigione, e a quattro anni di bando da Trieste e Venezia con la proibizione perpetua di predicare e confessare ancora.

Era vero anche del Frate Agostino da Treviso scappato via da Sienae rifugiato a Venezia ne 1537, per il quale Papa Paolo IIIin persona aveva chiesto al Doge l’immediata carcerazione.

Erano vere tante storie insomma, ma non era vero, né affatto provato alcun coinvolgimento diretto del Grimani con tutti quei sommovimenti ritenuti sospetti e dannosi.

Mamma mia ! … Tremendo quel Grechetto… Ma che gli aveva fatto il Grimaniper odiarlo così tanto ? … Non si sa.

Settembre 1546: terza puntata, Grechetto ancora alla carica e a incalzare il Grimani. Stavolta scrisse a Trento al Cardinale Camerlengo Guido Ascanio Sforza:“con certi fautori della Setta Luterana è il Patriarca Aquileiese, fratello del Reverendissimo Marino Grimani; ancora che il Cardinale sia Cattolico, suo fratello predetto Patriarca è assai perverso, del quale ho scritto più fiate a sua Santità, che favoriva anche il Vescovo di Capodistria Vergerio … Non fa altro che favorire Luterani …”

Notizie e denunce giunsero in alto, anzi: proprio al vertice dell’Ecclesia Pontificia, il Cardinale Gian Domenico De Cupis per ordine del Papa Giulio III in persona, scrisse il 25 luglio 1550 a Grimani consigliandogli di recarsi a Roma per rendere conto e dimostrare la sua innocenza … Lamacchina Inquisitoria s’era messa in moto interessandosi di lui.

Grimaninon si sottrasse, ma furbescamente mandò avanti dall’Inquisizione di Romail suo Segretario-Medico, che riuscì a farsi dichiarare “pulito e innocente” dal Tribunale del Santo Uffizio… cosa rara, non molto facile da ottenere: “Tutto è andato benissimo", scrisse a fine agosto al Grimani presente a Venezia … Il Grechetto Zanettini era stato considerato solo un calunniatore maligno, un uomo rancoroso e inattendibile.

Bene così … Grimaniallora, percependo acque più quiete, si recò di persona a Roma per sottoporsi alla "Purgatione"voluta dell’Inquisizione, così da rimuovere ogni ombra su di lui: “sortendone deterso dalla caligine addensatasi su di lui a forza di dicerie”.

Dalla vicenda Grimaniimparò che doveva stare molto attento a quel che faceva e diceva, e soprattutto alle persone che frequentava … Anche perché, appoggiato ufficialmente dal Governo della Repubblica Serenissima, s’era autocandidato “all’Onore et Gratia del Cardinalato”: il suo brillante obiettivo di carriera. Durante un’udienza del PienCollegio a Palazzo Ducale a Venezia, Grimani era stato appoggiato e candidato davanti al Nunzio Apostolico Ludovico Beccadelli da tutta l'intera classe dirigente Nobiliare Veneziana, che arrivò ad affermare: “Grimani è grandemente desiderato per l'onore di questo Stato", come unico candidato alla Porpora Cardinalizia, essendo: "Prelato da bene et virtuoso"… La nomina Cardinalizia del Grimani avrebbe rinsaldato ulteriormente i rapporti fra Roma e Venezia: era un fatto politico insomma ... e magari poteva essere anche un formidabile trampolino per far diventare Papa il Grimani in seguito … Un altro Papa Veneziano !

In Laguna già ci si umettava le labbra, e ci si sfregava le mani di piacere al solo nominare la convenienza di quel pensiero.

L’Ambasciatore-Oratore Veneto Domenico Morosini, allora, si presentò in udienza a Romada Papa Giulio III. Era il 12 febbraio 1555, e il Diplomatico Veneto caldeggiò davanti al Papa: “l'ardente desiderio di Sua Serenità il Doge Francesco Venier, chel Patriarcha d'Aquileia sia promosso al Cardinalato".  Il Papa, invece, sorprese tutti: niente Cardinalato per il Grimani ... Pur non eccependo nulla sulla "qualità della persona, e non giudicandolo per mal homo il Patriarcha, e c’egli habbia voluto esser heretico"… Il Papa aggiunse poi, che in passato il Grimani: "è proceduto incautamente non sapendo tener drento quelle opinioni che gli venivano in fantasia".

Brutta storia e brutta botta per Venezia, e soprattutto per il Grimani: la "Purgatione Canonica" effettuata a Roma davanti all’Inquisizionenon gli era stata sufficiente, non l’aveva affatto assolto dalle accuse del Grechetto. Grimani rimaneva quindi “un uomo dubbio” che non meritava assolutamente ulteriore considerazione … Tantomeno meritava una promozione a gradi superiori. Era già tanto se gli veniva lasciato il Patriarcato d’Aquileia.

Per Grimani inviperito la questione divenne allora una sfida irrinunciabile, anzi: una vera e propria ossessione ...  Per nulla al mondo avrebbe rinunciato all’idea del Cardinalato, che considerava “un affare di famiglia”, un traguardo personale, e “un bene” per l’intera Repubblica Serenissima ... Fece quindi di tutto perché Venezia continuasse a sostenere la sua candidatura davanti al Papa di Roma ... Anzi, non contento, il 21 febbraio 1561 si recò a Roma insieme all'Ambasciatore Marcantonio Da Mula per perorare di persona la sua causa davanti al Papa.

Pio IVnon si scompose ... Rispose sornione ribadendo la sua "volontà di consolar la Serenissima sin dove fosse stato possibile” ... Precisò poi, che il Papa “non poteva far impeto all'Inquisitione", e che c’erano lettere e documenti su nuovi fatti e pronunciamenti “gravi” del Grimani inviati da Cividale alla fine del 1560. Quelle novità pregnanti meritavano da parte del Grimani “almeno una abiuratione".

Altro che promozione alla Porpora Cardinalizia ! … Grimani in un certo senso era rimasto incastrato, ma non si arrese. Pensò argutamente che non bastando le parole, sarebbero stati necessari soprattutto i fatti … Fatti vistosi, ben visibili, tangibili e apprezzabili ... Tornato a Venezia, Grimani si diede un gran da fare a San Francesco della Vigna: proprio di fronte, “in faccia” al Palazzo del Nunzio Apostolico residente a Venezia, perché vedesse, capisse e non ci fosse più alcun dubbio su di lui e le sue convinzioni Dottrinali.

Finanziò e fece costruire “da buon, timorato e fedele Cattolico” la facciata della chiesa di San Francesco della Vigna commissionandola a Palladio: il meglio degli Artisti in voga in quell’epoca … Fatalità e non di certo caso: San Francesco della Vigna era la sede dei Frati Francescani dell’Inquisizione Veneziana … Poi, come se non bastasse, nella Cappella di Famiglia interna alla chiesa, il Grimani commissionò a  Federico Zuccari fratello di Taddeo l’esecuzione di una bella e coloratissima pala d’Altare che raffigurava i Re Magi.

Chiarissimo il significato: i Re Magi, cioè la rappresentazione evangelica di ogni alterità dottrinale, e di ogni potere del Mondo si chinavano umili di fronte a chi era Tutto: il centro della Storia e dell’intera Umanità … Anche se il significato si riferiva ovviamente al Christo Bambino, era evidente che dietro al Cristo (o piuttosto davanti) c’era laChiesa: depositaria, quasi la tutrice che gestiva in esclusiva la Signoria e le Verità Salvifiche del Cristo. I Re Magi quindi, e chiunque come loro, s’inchinavano supplici di fronte al Potere Universale e Salvifico rappresentato dalla Chiesa “che con le chiavi di Pietro apriva e chiudeva ogni Destino del Mondo”.

Più chiaro di così ? … Insomma: se Grimani intendeva lanciare un messaggio sulla sua integrità dottrinale, e sulla sua dedizione verso Papa e Chiesa: beh … erano evidenti i suoi gesti.

Fu sufficiente ?

Per niente … Anzi: la situazione del Grimani peggiorò.

Pio IVfece leggere all’Ambasciatore Veneziano alcuni stralci di una lettera del 17 aprile 1549 scritta dallo stesso Grimani ... Stavolta si trattava di una vera e propria prova, non di una semplice denuncia maliziosa e diffamatoria come quelle del Grechetto… Il Papa non poteva permettersi di "far Cardinale, una persona che possa esser Papa" uno che la pensava in quel modo davvero da Eretico.

Seguendo la relazione circa i fatti, al Papa risultava che nel 1549, il Predicatore Quaresimalista Domenicano Leonardo Locatelli era stato protetto, accolto e confermato dal Grimani, nonostante che nella "Collegiata di Udine" avesse parlato e distinto malamente in maniera ereticale “circa la Predestinazione alla Salvezza da parte di Dio"suscitando "gran scandolo et romore nel Populo".

Il Frate Locatelli era stato immediatamente denunciato da Giovan Battista Liliano Canonico di Cividale davanti a Giacomo Maracco Vicario Patriarcale.  Era stato quindi immediatamente rimosso dal suo ruolo di Predicatore informando anche lo stesso Patriarca Grimani ... Costui però, con una lettera del 17 aprile, non solo non condannò l’atteggiamento e le parole del Frate Locatelli, ma addirittura "riprese"il Canonico, volendo quindi che: "si predichino proprio quelle false Dottrine Eretiche".

E non era tutto … Con la stessa lettera Grimani argomentava che le tesi del Predicatore erano giuste, e che la sua "conclusione", anche se tutti s’erano scandalizzati: "era vera e Cattolica"... Affermazioni inammissibili! … Non ci si può “giustificare”(salvare)con la “sola Fide”, come affermava il Frate a Cividale, ma secondo la Dottrina della Chiesa: erano indispensabili anche i meriti, e i Sacramenti, cioè: “le Opere”.

Grimani era finito in preda all’Eresia pura … Era un Eretico pure lui: in completo “fuorigioco” rispetto alla Chiesa ... Altro che Cardinale di Santa Romana Chiesa ! … Non era neanche da “Buoni Veneziani”comportarsi come aveva fatto il Grimani.

"Sono solo ombre vaghe” provò a minimizzare e a destreggiarsi l’Ambasciatore Veneziano Da Mula davanti al Papa.

Papa e Cardinali sorrisero senza aggiungere altro di fronte a quella palese evidenza … Grimaniera incastrato del tutto … All’Ambasciatore Veneziano “Trafitto nel còre" non rimase che inviare a Venezia copia della lettera inquisita: “Grimani male sentiat de fide" si disse.

Si disse anche che poteva essere tutta una macchinazione contro il Grimani: “Sono tutte inventioni di qualcuno che gli porta odio", ma convincere Papa, Cardinali e Inquisizione era il problema.

Grimani allora corse subito a farsi ricevere dal Papa, accompagnato dallo stesso Ambasciatore Da Mula. Piangendo davanti a lui, si disse vittima dell'astio e dei complotti dei Cardinali Ghislieri e Rodolfo Pio di Carpi “che senza motivo gli sono avversi”.

Non era un segreto che tanti alti Prelati cercassero di sfavorirsi l’un l’altro in ogni maniera, per riuscire a raccattare privilegi e cariche prestigiose a discapito di altri … C’era in palio il Cardinalato, mica cosa da poco, ma non solo: anche la possibilità di diventare futuro Papa… E quella era una cosa grande … Un Papa Veneziano poi ?

Il Papafece il suo mestiere: ascoltò e provò a calmare e consolare il Grimani... ma non lo sottrasse da un nuovo esame da parte della Congregazione della Santa Inquisizione sempre vigile e attenta, quasi in costante agguato … incombente come un ragno nero.

Conclusione: il 26 febbraio seguente, il Papa annunciò la nomina di 18 nuovi Cardinalifra i quali c’erano anche due Veneziani: Bernardo Navagero e lo stesso Ambasciatore Da Mula, ma non c’era il Grimani.

Nuova batosta quindi per lui, che al posto di ricevere l’agognata Nomina Cardinalizia, finì coinvolto, invece, in una nuova pesantissima "Causa Inquisitoriale" destinata a protrarsi per molto tempo. Nell’agosto seguente il Maestro di Palazzo, infatti, inviò al Grimanitre pagine d’accusa "con cose tratte dalla sua lettera"… Grimani rispose immediatamente al colpo. Cinque ore dopo, presentò al Santo Uffiziodell’Inquisizione: otto pagine in sua difesa in cui spiegava, minimizzava, rettificava e precisava.

All'Inquisizione ovviamente non bastarono: Grimani doveva sottoporsi a un esame approfondito per vagliare l’entità e la qualità delle sue convinzioni Dottrinali ... Si doveva quindi andare a Processo.

Grimani subodorò pericolo per se, perciò lasciò Roma in fretta e furia tornandosene al sicuro a Venezia. Da lì, chiese, idea astuta, che il suo caso fosse valutato all’interno della storica assise del Concilio che si stava celebrando a Trento.

Papa e Inquisizione, invece, indispettiti dalla partenza non autorizzata del Grimani da Roma, pretendevano che la "causa cominciata a Roma, lì dovesse essere portata a termine”… non era opportuno andare a "sturbar la quiete Conciliare mettendola sottosopra e in confusione" con le personali disavventure del Grimani, che doveva pensare “di migliorar la condition de la causa sua"… La rete dell’Inquisizione intendeva stringersi attorno al Grimani.

Da Roma, infatti, si spedì a Ippolito Capilupi Nunzio Pontificio residente a Veneziauna citazione diretta al Grimani, che lo invitava a presentarsi immediatamente a Roma davanti al Sant’Uffizio per giustificarsi "personaliter".

Seh ! … giustificarsi di persona ? … Sia Grimani che la Serenissimasapevano bene che significava recarsi a Roma, e soprattutto sapevano a che cosa sarebbe andato incontro il Grimani se si fosse portato nella Città Eterna dei Papi.

La Serenissima allora si oppose ufficialmente all'"oppressione" verso Grimani: "Prelato innocentissimo", perciò caldeggiò che lo stesso si presentasse piuttosto davanti al Concilio di Trentoper difendersi. Ne valeva anche della dignità della stessa Repubblica Serenissima.

La “Questione Grimani” assunse quindi proporzioni diplomatiche fra Stato Pontificio e Repubblica Veneziana.

La “pratica Grimani” venne alla fine esaminata a Trento, in casa del Cardinal Giovanni Morone, da una Commissione appositamente creata dai Padri Conciliari il 19 luglio 1563: “Non imputabile di eresia vera e propria … al massimo Grimani è incappato in alcune inesattezze” fu il verdetto finale, e la pubblica sentenza finale emessa il 17 settembre.

Significava l’assoluzione completa per il Grimani.

Tutto risolto ? … Sembrò di si … Pensate che nell’occasione il Grimani euforico si fece addirittura ritrarre da Tintoretto vestito da Cardinale: il sogno era ripreso, si stava avverando … Grimani pretese anche che diventasse esecutiva la nomina a Cardinale in pectore”, cioè segreta, che il Papa gli aveva fatto il 26 aprile di due anni prima per dargli un contentino ... Anche la Serenissima con sostenute richieste pretese che quella nomina diventasse palese ed esecutiva: Grimanise la meritava.

Diversamente la pensava il Papa: "il Patriarca non è stato votato Cardinale"rispose laconico ed evasivo: “lo diverrà forse alla prima occasione".

Il 12 marzo 1565, invece, tra i 23 Nuovi Cardinali proclamati, tra i quali c’erano altri due Veneziani: Zaccaria Dolfin e Giovanni Francesco Commendone, il Grimani non c’era ancora una volta ... Addirittura Roma non gli inviò neanche “il Pallio (simbolo dell’Autorità e della Comunanza col Papa) di Metropolita-Patriarca” che gli spettava. Si addusse senza mezzi termini che il fatto era dovuto in quanto il Grimaninon aveva neanche pagato alla Cancelleria Papale le tasse e le bolle della Nomina Patriarcale, né la spedizione del “Pallio”… Che poi ?  … C’era da aggiungere che lo stesso Grimani neanche si recava ad Aquileia, standosene sempre a Venezia in Laguna, né s’interessava della gestione del Patriarcatoche delegava del tutto ai suoi Vicari-Coadiutori: Daniele Barbaro e Alvise Giustinian ai quali non dava alcuna autorità e neanche il becco di un quattrino.

Calunnie su calunnie: vere o non vere, infondate o no … Era palese la situazione: Roma e Papa intendevano escludere e colpire Grimani.

Il Venezianosi arrese secondo voi ?

Ma neanche per sogno.

Aspettò che morisse Pio IV, poi saputo che era … finalmente … morto, Grimanipartì subito per Roma determinato a partecipare addirittura al Conclave Elettivo del nuovo Papa in virtù della sua nomina in pectore”da Cardinale ... Non sarebbe stato facile ammettere al Conclave un presunto Cardinale eletto segretamente dal Papa … Figurarsi poi eleggerlo come Papa ! … Quel Veneziano Grimani era davvero un povero sognatore illuso.

Grimani non era affatto stupido, non giunse mai a Roma. Si fermò fuori dalla città, e mentre era “strada facendo”, venne eletto Papa Pio V, cioè il Cardinale Alessandrino: il dichiarato nemico storico del Grimani… Pioggia su bagnato ... Grimani aveva fatto bene a non presentarsi a Roma.

Infatti, che fece secondo voi il nuovo Papa ?

Tramite il Cardinale “nipote” Michele Bonelli, ingiunse subito a Giovanni Antonio Facchinetti Nunzio Apostolico a Venezia, d’informare il Grimaniche se voleva sbloccare il suo "negozio a Roma", doveva recarsi immediatamente nella Capitale “per sottoporsi ad approfondito esame” ... Non veniva considerata valida l'assoluzione formulata dal Concilio di Trento.

Grimani non era uno sprovveduto, e la Serenissima lo era ancora meno … Si risolsero ad aspettare la morte anche di Pio V, che giunse bramatissima il 5 maggio 1572.

Grimani e Venezia allora tornarono subito alla carica mobilitando ogni diplomazia della Serenissima per il "negozio di Monsignor Patriarca d'Aquileia"… In più occasioni gli Ambasciatori Veneziani andarono a presentarsi davanti al nuovo Papa perorando la solita causa del Grimani ... un martello instancabile quel Grimani !

Gregorio XIII, invece, stupì e agghiacciò tutti: "non volemo far costui Cardinale, et non volemo dirvi parole, non havendo animo di farlo" ... Il Papa promise di "far Cardinali altri de' vostri", ma il discorso Grimani doveva considerarsi chiuso una volta per tutte.

Addio sogni di Gloria del Grimani ... Anche Venezia si arrese finalmente accettando la situazione: era dal 1546 che si andava avanti con quella proposta di avanzamento a Cardinale del Grimani: quasi trent’anni … Basta ! … C’era dell’altro da fare e di cui interessarsi a Venezia, e c’erano anche altri ambiziosi e meritevoli personaggi che s’erano fatti notare sul palcoscenico Lagunare meritando spazio e considerazione ... Basta con le manie di grandezza di quella Famiglia, e di quel Vecchio Nobile già straricco e affermato, ma mai sazio ... Che si accontentasse del tanto che aveva già …Venezia non poteva coincidere col fabbisogno e i progetti inossidabili e arrivisti dei Grimani.

A Giovanni Grimani non rimase allora che acquietarsi, e di consolarsi con le sue preziose collezioni del sontuoso Palazzo di Santa Maria Formosa, dove il 22 luglio 1574 non mancò di accogliere splendidamente, quasi trionfalmente: Enrico III di Valois ... Un contentino ?

Forse … Infine Giovanni Grimani morì a Venezia "da vegèza"(di vecchiaia), ed era il 03 ottobre 1593 ... S’era conclusa un’altra “storia Veneziana” curiosa in più.

 

La Scrìvia di Rialto

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#unacuriositàvenezianapervolta 291

La Scrìvia di Rialto

Avete letto giusto, ho scritto proprio: Scrìvia di Rialto… O se vogliamo dirlo meglio, a Venezia la si parlava della: Scrivarìa de Rialto.

Probabilmente penserete subito a un posto, a un luogo specifico, immaginerete un palazzo pieno di grandi banchi da scrittura, qualcosa tipo: Bottega da Libri, o tipo uno Scriptorium Medioevale delle Abbazie Monastiche.

No … La Scrivia di Rialto non corrispondeva a questo.

Non è stata neanche una specifica organizzazione, né una Fraglia, o una delle tante Schole d’Arte e Mestiere di Venezia spesso attive o accasate nei pressi o dentro a qualche Monastero, o nelle vivinanze del poliedrico Emporio Realtino.

In realtà: la Scrìvia non è esistita … Ma c’è stata corrispondendo a un gran movimento, a un lavorio continuo quotidiano molto partecipato e diffuso, un modo d’essere e agire di tanti Veneziani di ieri … Uno dei tanti modi.

La Scrìvia o Scrivarìa in un certo senso ha coinciso con tutta Venezia e le sue Lagune, anche se in realtà la si poteva vedere concretizzata e incarnata soprattutto in due posti ben precisi: attorno ai luoghi del Ponte, dei Portici e del grande Mercato di Rialto, e sui Moli e la Piazza di San Marco con le sue sedi monumentali e le sue prossimità. La Scrivia era quindi: “un mondo Veneziano”, una maniera d’agire e operare dei Veneziani, che da quei due posti si espandeva, allargava e traboccava condivisa da tutta Venezia e oltre.

Intendo dire, che i Veneziani hanno interpretato e dato vita a una Veneziaposta accanto a quella solita “Serenissima” e ufficiale, tutta pomposa e gloriosa, ricca e potente, furba, mercantile e guerrafondaia. E’ esistita anche una Venezia saggia e illuminata, una Venezia mielosa, civettuola, libertina e ludica che si esprimeva in poesia e nella Cortigianeria. E ancora c’è stata la Venezia dei Teatri, dei Ridotti, e quella delle Bettole, delle Locande, del diffuso Carnevale, dell’Arte e della Musica, e del “sentire comune”, spicciolo e popolare, che si percepiva sparso ovunque fra calli, corti e campielli … Venezia insomma è stata molto di più di quel che si immagina, e di quanto si racconta … a volte s’inventa per soddisfare la curiosità pagante dei turisti.

Beh: accanto e oltre tutto questo, c’è stata anche una “Venezia di Carta”, una Venezia dei Veneziani che scrivevano di continuo.

Come sapete, Venezia ne sapeva e ne faceva sempre “una più de Bertòldo”: s’inventava, superava ed esplicitava di continuo mai stanca di stupire anche se stessa, ma rimanendo allo stesso tempo fedele ai suoi irrinunciabili canoni e principi politici, economici e sentimentali.

Per lunghi secoli è accaduta una specie di Venezia “fatta di carta e carte”: un mare di carte, documenti, Regesti, Libri, Registri, Archivi e Atti che non basterebbero giorni per parlarne a sufficienza. Una Venezia complementare di cui si dice e conosce ancora poco, e di cui non si scrive e racconta ancora abbastanza.

Faccio un esempio per esplicitare meglio.

Durante gli anni convulsi della grande moria della Peste del 1620-30: quella del Tempio della Madonna della Salute per intenderci, quando la Città Lagunare: “gèra finìa un fià in asèo”,l’epidemia mortifera aveva sfondato e lasciato aperto in giro più di qualche porta. C’erano porte e Porte … Porte spalancate sul niente della miseria anonima di alcuni, e Porte aperte sulla realtà preziosissima di altri illustrissimi … Qualcuno era stato derubato perfino dai propri domestici, qualche Biblioteca o Scrigno erano stati saccheggiati nottetempo o anche in pieno giorno, ed erano scomparse anche molte “Carte”, fra le quali qualche “Carta di Debito”, per cui non si poteva più ricostruire spettanze, proprietà, rimborsi e pretese … Era sorta, insomma, una bella confusione, ma poi Venezia e Veneziani avevano voltato pagina mettendo ancora una volta una pietra sopra al passato, e si era continuato a vivere, e a produrre e scrivere un nuovo fiume,  una marea di “nuove carte” raccontando a tutti di tanti nuovi equilibri, nuovi affari e titolarità, nuove coesistenze, e di tanto altro ancora ... Se ci pensate: sono cose che capitano anche a noi di oggi.

Diversi Veneziani rientrarono allora dalle campagne, dai Monti e dalle Isole lontane dei Domini della Serenissima dov’erano scappati per sfuggire alla moria e ai danni del contagio. In quella stagione di ricomposizione, si preferì tacere su certi fatti scabrosi accaduti durante l’epidemia, documentati da tante Carteovviamente. Dov’erano finite ? … Che era accaduto, ad esempio, ai Frati Cappuccini di Mestre trovati morti sul bordo di un fosso col loro “carretto della carità” rovesciato e vuoto ? Erano morti di peste o erano stati uccisi per derubarli o per vendetta ? ... Si sapeva in realtà com’erano andate le cose, ma “le Carte” erano scomparse, o meglio: si preferì piuttosto tenerle nascoste e ignorarle aggiustando un po’ tutto, e ricominciando da capo … Quel che era successo era successo, inutile star lì a rivangare, cercare e rimestare Carte ... Meglio guardare avanti e farne di nuove.

Eccole qua quindi: le Carte che c’erano o non c’erano ... Un po’ le protagoniste, i testimoni di tante storie, cose e interrogativi.

E di quei maledetti Pizzegamorti assoldati dallo Statoallora durante la Morìa della Peste ? … Quelli avevano stuprato e violentato tanta parte della Città girando come Angeli della Morte, avevano saccheggiato e gettato perfino donne violentate e derubate ancora vive nelle “fosse da lasagne” degli appestati al Lido e nei Lazzaretti ? … C’erano nomi e cognomi, liste scritte ben precise con responsabilità, denunce di fatti, dati, compensi e tutto il resto ... Tutte Carte messe a tacere, o stracciate, o messe in un invisibile dimenticatoio privo di risposte … Molti rimasero impuniti scomparendo nel nulla di quella pagina tristissima della Storia Veneziana ... Tutto accadde a discapito spesso della Giustizia, si preferì dedicarsi a recuperare e riscrivere le Carte dei legami, dei diritti del sangue, o soprattutto delle spettanze dei patrimoni, ridando a chi era rimasto, e che prima forse non contava granchè, o aggiungendo nomi nuovi sui banchi del potere e delle banche, o riciclando e ricollocando capitali messi un po’ in conserva perchè rosicchiati e soffocati dagli eventi.

Piano piano “a suon di Carte”, il “miracolo” Veneziano s’era di nuovo messo in moto. Venezia s’era medicata e leccata ogni ferita, e l’aveva fatto tramite una montagna di Carte ... Carte che contavano, prodotte soprattutto nella Scrivia di Rialto e San Marco.

Non tutto però scomparve e venne occultato alla perfezione sui gradini del Ponte di Rialto, tante carte sparse rimasero, e piano piano ricomparvero, quasi tornarono a galla, mettendo in luce tante Storie ... Insomma: tutta quella Carta segnata, scritta, copiata e riscritta ovunque, anche a Rialto come a San Marco: “cantava e contava”, riproponeva se stessa.

Per capirne un po’ di più, provate a immaginare per un attimo quei due posti complementari di Rialto e San Marco: la Scriviadove si scrivevano e inventavano di continuo tantissime Carte. Erano un po’ il cuore pulsante di Venezia: a Rialto con le sue “Scalèe”c’era costantemente la promiscuità del Mercato-Bazar-Emporio, c’erano le Magistrature, i Mercanti, i Banchi di Giro: cioè le Banche, gli Avvocati e gli Assicuratoridella Securtà Immaginate ancora: tutto intorno c’era il mare colorato delle spezie, dei cotoni, dei legni pregiati, degli ori e dei preziosi esotici che profumavano e riempivano l’aria anche delle limitrofe Contrade di San Bortolo, San Giovanni Crisostomo, Santa Marina e San Lio da una parte, e di San Mattio, San Giovanni Elemosinario, San Silvestro, Sant’Aponàl, San Cassan e San Polodall’altra … Beh: tutta quella Venezia laboriosissima dovete immaginarla sempre coinvolta e compresa di continuo in un’immane “girandola produttiva di carte”.

A integrarsi con Rialto tramite le Mercerie, quasi vena vitale, c’erano poi i Moli di San Marco da dove tutto partiva e arrivava dopo aver comprato e venduto “il Mondo” intero. Lì c’era la grande Piazza del Doge e della Signoria con la gran folla dei Segretari, dei Nobili, dei Diplomatici, e dei “Grandi Forèsti” ospitati a Venezia. A “suon di Carte” si esprimeva tutta la Gloria, la ricchezza, la potenza della brillante Politica della Serenissima sempre assetata di conquistare, ed emanare nuove Leggi e propositi … Lì dentro: nella Scrivia Marciana, si raccoglievano Cartezeppe d’intrighi, segreti, Leggi, Codici, compromessi, esaltazioni e condanne.

La Scrivia era l’insieme di tutto quell’incessante lavorio che riassumeva Venezia: un oceano di carte, che in un certo senso ne “fotografava”l’immagine.

Carte, carte, carte … Carte ovunque nel Pubblico e nel Privato … Pareva che la Serenissima funzionasse “a suon di Carte”. Il Dogequando veniva eletto aveva la sua Carta: la Promissio Ducale che riassumeva il suo programma politico e i suoi obiettivi; ogni Schola o Associazione d’Arte e Mestiere o Congregazione Devotaaveva la sua ultrapreziosa “Carta”: la Mariegola, la “màre di tutte le Regole”; ogni Dazio, Mito, Capitolo e avvenimento veniva scandito, declinato, raccontato e trascritto su carte: le “parti”… Venezia “girava e funziona a carte”, così come molti altri domini e potenze del panorama del Mondo di allora ... ma a Venezia di Cartece n’erano forse di più.

Quel che è interessante e curioso, è che quella marea di carte non ristagnava solo in quei due posti prestigiosi, ma quasi fluttuava, si muoveva a fiumi, galleggiava e passava di mano in mano, lievitava, cambiava proprietario, autore, interprete: cresceva e diminuiva come le ore della marea “che sei ore la crèsse e sei ore la càla”… Le Carte della Scrivia Veneziana parevano quasi un corpo vivente, sgusciante, respirante, mai fermo e completato, sempre in movimento e crescita nelle mani dei Veneziani e dentro a Palazzi, chiese, Conventi e Sacrestie, ma anche dentro a ogni Locanda, Caffè, Bottega, Barberia e Luogo Pubblico e Privato di Venezia ... La Cartaera ubiquitaria: quasi “l’animo nascosto” su cui proliferava la Città Lagunare.

“Carta canta !” diciamo ancora oggi indicando un valore irrinunciabile contenuto e confermato, quasi imprigionato dentro alle Carte.

Al riassunto sulla Carta corrispondevano le norme e gli impegni da rispettare: le Carte erano l’ingranaggio che faceva funzionare e girare tutta l’economia Venezia. Anche i semplici Barcaroli, i Bastàzi (Facchini), i Sensèri e i TiraCarrettistringevano in mano le loro “Bollètte di Carta”: che in un certo senso erano “ferri del Mestiere”.

Immaginate ancora quella Venezia di ieri: senza sponsor e pubblicità, senza scritte luminose sui muri delle botteghe, dei fondaci e delle case … Provate a pensarla anche senza quotidiani, riviste, giornali, televisione, social e internet: “Un posto impossibile e invivibile !” direte: “Un mondo atroce, tronco, ottuso, contratto e chiuso in se stesso … Una civiltà asfittica e introversa, incapace di dirsi ... Quasi afasica e morta.”

Macchè ! … Era il contrario … Anche se un tempo tantissime persone che producevano e s’ingegnavano non sapevano affatto leggere, nè scrivere, né far di conto, erano tuttavia capaci di “far girare e far scrivere ad altri le Carte”... Altro che computer ! … Riempire le Carte era spesso dote, retaggio e appannaggio di pochi: Mercanti, Ecclesiastici, Notai, Avvocati, Eruditi e Segretari di Palazzo. Erano quei pochi “sapienti” che studiavano e ricercavano le forme giuste dentro al chiuso comodo dei Monasteri, dei Fondaci e dei Palazzi, ma erano tutti i Veneziani che le “facevano girare e le interpretavano di continuo” dando loro un senso speciale.

Venezia era allora il fenomeno della Scrivia senza sosta che accadeva di continuo sulle Scalèe di Rialto dove un po’ tutti s’industriavano a smozzicare e manovrare Carte in qualche modo … La Scrivia era un grande altoparlante, un grande eco, un gran megafono invisibile che coinvolgeva tanti: tutti i Veneziani forse, rendendoli partecipi di segreti, conoscenze, affari, regole, trovate e furbate che alla fine, messi insieme, generavano la prosperosa e vincente Venezia.

La Scriviadi Rialto era realtà insolita, quasi impalpabile, dai contorni sfumati … Ma c’era, ed era immagine di una Venezia eterogenea, spiccia, pratica ed efficiente, intrigante a volte, quando, ad esempio, faceva passare bigliettini amorosi di mano in mano portandoli fin nei Casini, o dentro a qualche Nave, o nei Monasteri, o fin dentro a un’infima Prigione, o nei luoghi del Potere. Rialto e San Marco non erano solo luoghi di compra-vendita, Mercato e incontri, ma anche di abbondanti scritture che muovevano Pensieri, Opinioni, Assicurazioni, Spedizioni, Dottrine, Costumi e Mode, Conoscenze Letterarie e Scientifiche ... Tutta quella montagna di Carta si trasformava di continuo in lavoro, valore aggiunto e guadagno … cioè: Vita.

Una testimonianza: “Ghe gèra un tempo a Venessia dei gran Scrivani de Palazo a San Marco con a spùssa soto al naso e la pònga sotto al barbùsso, mentre a Rialto ghe gèra quei col Libro Mastro dei Conti sotto al bràsso … Ghe gèra ànca su le Scalee de Rialto tanti Scrittorèi co e man nere d’inchiostro che imbrattava carte cercando de fàr fortuna, o trovando el pan par la famègia che li spettava a casa …”

Quasi sciamando come industriose Api dall’operosa Scrivia di Rialto e San Marco, c’erano sparsi ovunque per Venezia: Scrivani e Copisti di ogni sorta, collocati in “Botteghe da Scrìtta o Scrittura”, in mezzanini dei Mercanti, in posti degli Avvocati, nei luoghi della Segurtà e dei Banchi, e fin dentro le chiese ... Ce n’erano altrettanti strettamente connessi con le numerose Stamparìe e Librarie presenti ovunque nelle Contrade della Città Lagunare … Non dimentichiamolo: Venezia Capitale, è stata a lungo una delle principali protagoniste Europee in fatto di Stampa, Scritture, Libri, Carta ed Editoria.

Si dice che la stampa a caratteri mobili sia stata introdotta a Venezia nel 1469 dai fratelli Tedeschi Giovanni e Vindelino da Spira:pionieri dell’Arte della Carta a Venezia … Già prima del 1500, dalle 154 Officine Librarie Veneziane uscirono circa 3.000 edizioni di libri stampati in più di 2 milioni di copie ... In giro per Venezia si contavano 44 “Botteghe da Cartai”, altre 35 “da Stamperia” e 42 “da Libraria”, cioè un insieme di più di 493 ditte che producevano e stampavano una media di 3 libri la settimana ... Nella seconda metà del 1500, le due ditte Tedesche rimaste a Venezia vennero progressivamente sostituite e integrate da numerose maestranze provenienti da Salerno, Napoli, Trento, Pesaro, Firenze e Siena, Padova, Brescia, Bergamo, Pavia, Lago Maggiore, Asti, Vercelli e Trino Vercellese.

A Venezia c’era un piccolo esercito di 113 fra Tipografi ed Editori che pubblicarono 4.416 Edizioni con una media di 90 opere l’anno: un altro mare di carta, che di sicuro si traduceva in valore non solo culturale. Ogni Libro in se, a differenza di oggi, era un piccolo investimento, un prodotto di pregio che corrispondeva a un piccolo capitale: “Mercanzia d’utile e d’onore sulla via Europea dei Libri”. Un libro “in-folio” costava circa 6-8 lire, cioè il corrispettivo della paga di una settimana di lavoro di un Mastro Carpentiere che guadagnava 30-50 soldi al giorno … Un operaio manovale edile ne prendeva, invece, solo 20-37.

Nel 1596 secondo il Nobile Veneziano Leonardo Donà, la Stampa offriva lavoro in città a più di 600 uomini convolgendo con l’indotto fino a 1.300 Lavoranti ... C’erano attivi in Laguna almeno 640 torchi da Stampa(erano 542 in totale quelli presenti in tutto il resto della Penisola), che utilizzavano carta che affluiva in abbondanza in Laguna dalle numerose cartiere soprattutto della Valle del Toscolano nel Bresciano ... Alla fine del ciclo produttivo, s’immettevano Libri sul Mercato Internazionale per un valore di circa 20-24 milioni di ducati l’anno ! … Un gran giro d’affari.

Pensate: Venezia riforniva capillarmente via terra e via acqua: Padova, Ferrara, Bologna e Pavia, poi attraversava l’Appennino giungendo a vendere e servire Libri fino a Firenze, Roma e nel Regno di Napoli… Tra 1526 e 1550, ben tre libri italiani su quattro (il 75% dell’intera produzione) uscivano da Venezia ... Aldo Manuzio editò 950 edizioni di Classici e Umanisti: circa dieci l’anno.

Gli Editor Veneziani di maggior spicco e rilievo in realtà provenivano “da fuori”: su tutti primeggiavano i Giolito da Trino in Piemonteche producevano letteratura di ogni tipo soprattutto in volgare: Dialoghi, Teatro, Trattati, Storia e Poesia, ma anche Prediche e Libri di Devozione. I Giolitoavevano botteghe di libri anche a Padova, Ferrara, Bologna, Napoli, Francoforte, Lanzano, Foligno, Recanati, e Macerata … C’erano poi i Marcolini da Forlì che producevano “opere di grido”: i betseller di allora dei contemporanei come l’Aretino e Doni; c’erano ancora: i Tramezzino da Roma che producevano Carte Geografiche, Romanzi Cavallereschi, Opere di Classici in volgare, Testi Giuridici e Opere di Religione, cioè: Bibbie ed Enchiridium; c’erano i Gardano, che producevano quasi esclusivamente Musica e Partiture … e ancora c’erano: i Rusconi da Milano, i Giunta o Giunti da Firenze specializzati in testi di Medicina e Liturgia come: Breviari da Prete, Messali, Bibbie e Testi Canonici; c’erano: Nicolò Bevilacqua dal Trentino, i Ziletti da Brescia, i Ciotti da Siena, i Bindoni dal Lago Maggiore, i Griffio, e i Valgrisi che erano Francesi ... Giravano poi per Venezia opuscoli e carte di ogni sorta e mano, di ogni prezzo e buoni per ogni tasca ... Ecco di nuovo: la Scrivia all’opera !

La tiratura media di un’opera consisteva in circa mille copie, e c’erano 30-50 Editori che pubblicavano a volte un solo titolo l’anno impelagandosi in titoli curatissimi di grande spesa tipografica e di distribuzione. Si usavano carta, inchiostri e rilegature di pregio abbordabili solo da pochi, ma c’era anche chi nella Scrivia di Rialto per quattro soldi ne faceva e vendeva una copia “pirata”, magari anche un solo capitolo, e perfino una pagina soltanto di un’intera opera, scrivendola su “carta bassa”, proprio “da stracci”, da vendere in nero sottobanco. I Libri venivano noleggiati e prestati, ridotti e integrati in antologie, volgarizzati, tradotti e storpiati, tanto che a volte diventavano irriconoscibili e non se ne capiva più niente.

Si racconta che nel Convento dei Frati Paolòtti di Castello (di San Francesco di Paola, in fondo all’attuale Via Garibaldi) c’era un certo Frate Verigolo, che era Esorcista Provetto,e “ambiguoesperto in Stampa”. Costui aveva una vera e propria squadra di Novizi e giovinetti copiatori, che copiavano e scrivevano a tutto spiano, a volte e spesso senza neanche capire il significato di ciò che trascrivevano. Venivano pagati con uno dei libri che producevano, che a loro volta potevano vendere per conto proprio. Più che spesso, perché non potessero rubare l’opera, copiavano singole pagine o spezzoni di capitoli, che poi il Frate ricuciva insieme in modo corretto prima di cederle a caro prezzo a Nobili, Dame, Letterati o Prelati e Conventi.

Il Libraio Maietti a un certo punto assoldò l’intera squadra dei Novizicome copiatori di uno dei suoi Libri Proibiti, che aveva fretta di vendere e distribuire sul mercato di Venezia e altrove in tante copie. Si trattava della “Clavicula Salomonis” che faceva copiare a capitoli separati. Dopo un congruo numero di parti copiate, il Libraio offriva al Novizio una copia intera del ricercato Libro Proibito, che poteva tenere per se, o provare a vendere a sua volta a chi meglio desiderava.

Esistevano inoltre delle vere e proprie figure intermedie detti Commissionari e Commissariche si occupavano della realizzazione, o ricomposizione di opere smembrate, di rilegatura, prezzi, distribuzione e compensi, e s’ingegnavano perfino nel formulare e trasformare gli introiti in successivi investimenti sempre dentro al promettente e prolifico Mondo della Carta e dei Libri.

Anche i Frati Francescani Minori della Vigna: “… non scherzavano affatto risultando essere oltre che Santi anche gran marpioni, boni da schei e tanto altro.”… Pure i Canonici di San Salvador: “… brillavano di luce propria meno di quel che sembrava, perché risultava chiaro che dentro a Venezia, a detta del Nunzio Apostolico Papale, presso di loro c’erano dei veri e propri Covi di Magia, Occultismo e Superstizione gestiti da Canonici a scopo di lucro e vile guadagno ...”

C’era chi “viveva di Carta” industriandosi a vendere e comprare, rubare, riciclare e contrabbandare Carta di ogni tipo … Se per caso moriva uno che possedeva diverse Carte e Libri: calavano in tanti come avvoltoi sulla preda per provare in qualche modo ad assicurarseli. Ed ecco di nuovo comparire la Scrivia e le Scalee di Rialto. Lì, spesso buttati e allineati per terra o sotto ai Portici, si potevano trovare Cartedi qualsiasi provenienza più o meno lecita, di ogni sorta e per ogni tasca. Si trovavano spezzoni di carta singola e slegata, lettere di chissàchi, pacchi di carta di ogni qualità … perfino di carta bagnata recuperata, e Libri in altre lingue antiche e moderne, rilegati e di pregio raccattati o prelevati chissà dove.

Ogni tanto i Fanti della Serenissima passavano a “fare un po’ di pulizia, recuperando il maltolto, o rimettendo ordine su tutto quel mondo di Carta da buttare, propinare o reinventare” … In un giorno qualsiasi fu pizzicato un “cartaròlo”intento a rivendere Carta, Missive, Pergamene e Libri … Fatalità, stava provando a rivendere ciò che aveva rubato allo stesso a cui li aveva impunemente sottratti poche ore prima: “Ho diversi figli da sfamare a casa.” fu l’unica giustificazione che seppe fornire all’atto della cattura ... Il Nobile derubato chiuse un occhio, contento d’aver recuperato le sue cose, e il Cartaròlo tornò dal giorno dopo alla sua solita occupazione ... Contenti tutti intorno alla Carta.

Come il solito, la Serenissimaben organizzata sorvegliava tutto e tutti, quindi anche quel “Flusso immane, e quel Mondo di Carta”. La Serenissima era “esperta in ogni tipo di carta”, e si serviva delle sue cartiere sparse lungo il Brenta e nell’entroterra della Terraferma Venetanon disdegnando di ordinare e di procurarsi carta preziosa e di lusso in tutta Europa e perfino da oltre il bacino del Mediterraneo … anche dai Turchi, che riforniva a sua volta … La Serenissima controllava attentamente: contenuti, pensieri, prodotti e soldi.

Nel 1537 il Consiglio dei Dieci decretò pene severe per quelli che usavano carta troppo meschina e porosa: “… gli Stampadòri i quali solevano esser i megliori ... hora per far manco spesa nelle carte ... le comprano sì triste, che quasi tutti i libri … non retengono l’inchiostro …”

Il Consiglio dei Dieci vigilava attentamente anche sui contenuti dei Libri sfornando appositi Decreti. Concedeva Licenze e Fedi di Stampa, Imprimatur e Privilegi tramite l’approvazione dei due Revisori di Stato che erano di solito: Accademici, Consiglieri, Notai, Ecclesiastici e Nobilidi fiducia della Repubblica che leggevano e valutavano i testi prima della loro pubblicazione. Dal 1562 per ottenere la Licenza di Pubblicazione e Stampa a Venezia si dovevano presentare e depositare presso i Revisoridue copie del testo, e ricevere tre distinte “Fedi-Permessi”: quello dell’Inquisizione circa il rispetto dei contenuti Dottrinali di Fede e Morale, quello di un Professore dell’Università di Padova o della Scuola di Rialto“circa l’onestà del contenuto politico”, e quello di un Segretario Ducale che controllava accuratamente che i contenuti non fossero polemici o equivoci, o andassero a intaccare questioni politiche estere, o a offendere amici della Serenissima ... Le opere inadeguate non venivano autorizzate, ma sequestrate e distrutte, e l’Autore-Editore- Contrafattore veniva multato fino a 100 ducati. Le opere abusive confiscate pagavano sanzione un tanto a copia fino a 200 ducati, e col ricavato si finanziavano i Pubblici Ospedali e l’Arsenale ... Ogni anno in aprile poi, l’Inquisizione Veneziana gestita dai Domenicani, faceva un bel falò di tutti i Libri Proibiti:tomi micidiali e perniciosissimi” sequestrati in giro per Venezia, bruciandoli in cima al ponte che sorgeva sul Rio fra San Domenico di Castello e San Francesco di Paola ... Li bruciavano spettacolarmente non solo “per Amore di Verità”, e perché intendevano in quel modo contrastare l’Eresia, ma semplicemente perché l’Inquisizione sequestrava talmente tanti Libri che non sapeva più dove depositarli e metterli.

Gli Avogadori da Comun controllavano che non vi fossero più di cinque copie con più di cinque fogli per ognuno di carta condannata: pena 1.000 ducati “per l’Arsenale” ... La Serenissima a volte pareva un segugio: quasi ossessionata dal controllare ... L’Inquisizione poi: un malato mentale intento a inseguire senza sosta i suoi deliri.

Per fortuna che poi, “tanto veniva in gran parte disatteso”, non tutto era controllabile, e spesso ci si accontentava solo di salvare la forma e l’apparenza. La stragrande maggioranza dei testi veniva pubblicata liberamente lo stesso, veniva smercita in gran parte in maniera incontrollata, e i Libri “pericolosissimi scritti daiRiformatori Protestanti” arrivavano in Laguna nascosti fra le balle di lana, dentro ai vestiti, e fra le altre merci. Venivano poi distribuiti e venduti nelle Botteghe, nei Depositi di Libri, e nelle Fiere Veneziane o trasportati nelle Fiere di altre città … La Cartaviaggiava di continuo a partire dalla mai esausta Scrivia Veneziana sempre insonne.

Sentite che combinavano i Libreri di Rialtoe Veneziani !

I principali Librai avevano casa-bottega in Campo San Salvador, nella Contrada di San Bartolomeo e a Rialto. Altri Librai con laboratori e botteghe c’erano nelle Mercerie dell’Orologio nei pressi di San Marco, e in Contrada di San Zulian, dove sorgeva la chiacchieratissima bottega “All’insegna della Testa d’Erasmo”. C’erano altre botteghe Librarie nelle Contrade di Cannareggio: ai Santi Apostoli, nei pressi della Schola Grande della Misericordia, e a San Canzian; nel Sestiere di Castello: a San Pietro Contrada del Vescovo, ai Santi Giovanni e Paolo, e a Santa Maria Formosa; nel Sestiere di San Marco si potevano trovare Libri e Librarie nelle Contrade di San Fantin e Sant’Angelo, e in Frezzeria a San Moisé… Un Gondoliere poteva offrire un Libro Insolito traendolo da un sacco posto sul fondo della Gondola, un Frate o un Monaco anonimo poteva trarre da sotto il manto o dalla Cocolla: un Libro di pregio rimasto senza padrone, e in cerca di un buon offerente interessato.

I Librai e gli Uomini della Carta e della Scrivia Veneziana amavano rimanere liberi e incontrollati.

La Corporazione e Schola dei Mastri Stampadori-Libreri fu una delle ultime a sorgere a Venezia (dopo il 1549) riunendo un’ottantina di Libreri, e trovando sede presso la chiesa-Convento dei Domenicani Predicatori dell’Inquisizione di San Zanipolo(Santi Giovanni e Paolo): I Domenicani concessero un locale in muratura nel primo Chiostro, sotto il Noviziato, adiacente a quello degli Specchieri, dove essi potranno anche aprire porte e finestre, ma senza alterare l'ordine architettonico del Chiostro ... Il canone d’affitto annuo pattuito è suddiviso in 30 ducati per la stanza, e in 6 ducati per la celebrazione delle 24 Messe annuali.”

Ai Santi Giovanni e Paolo i Libreri gestivano un gran magazzino da cui si servivano molti Librai di Città. La Scholafinanziava un apposito Medico per i Libreri, e aveva provveduto a stendere nella sua Mariegola tutta una serie di provvedimenti per regolizzare l’attività della Stampa in Città e nella Dominante.  Come spesso accadeva nelle Schole delle Arti, anche i Libreri facevano fatica a sottoporsi alle Regole dell’Arte: erano litigiosi e contrapposti fra loro, e talvolta reagivano con “parole ingiuriose e arroganti fra loro e contro il Priore e Banca della Schola”: “Buffoni ! … Andate a governar delle pègore” esplosero una volta a dire perchè multati e sospesi … Controvoglia interrompevano il Lavoro per festeggiare il Patrono dell’Arte, e malvolentieri, solo dopo ripetute sollecitazioni, pagavano le dovute “una lira e quattro soldi della Tassa di Luminaria”(per cere e lampade) e quella per il sostentamento della Flotta Veneziana dovute alla Schola.

Durante il 1500 anche nel Monastero delle Convertite della Giudecca esisteva una stamperia le cui Lavoranti erano per lo più le Monache ex prostitute “che esercitavano l’Arte Tipografica e della Carta sotto il Titolo e Patrocinio di Santa Maria Maddalena”.

Certi Librai Veneziani reinvestivano i guadagni in altre attività, o compravano case a Venezia, nelle Isole e in Terraferna. Lucantonio Giunta Stampatore investì in aringhe, armature, ferro, olio, pepe, piombo, tappeti, vetri di Murano e zucchero … Alcune figlie di noti Librai Veneziani avevano una “dote matrimoniale”costituita in buona parte da Libri, oppure alcune eredità consistevano anche in una quantità di Libri.

I litigiosi Librèri Veneziani si facevano acerrima concorrenza trascinandosi più che spesso reciprocamente in Tribunale. Facevano comunque comunella fra loro rapportandosi negli affari, si sostenevano finanziariamente, e si prestavano come testimoni ai Matrimoni fra colleghi e dei loro figli. Si racconta ancora che i Librèri erano spesso indisciplinati.Nei giorni festivi del 1583: vendevano illegalmente fuori dall’Arte con banchetti di libri messi fuori a scandolo sotto il Portego de Rialto, per la Marzaria, et così sotto il Portego de San Marco dove si potevano vendere solo Libri di Santi et libri de Epistole, et Evangelii, et Lezende de’ Santi, Offitii, Bibie et simil opere… Alcuni Matricolati tengono le porte delle botteghe aperte, ma tirate appresso et invitano le persone se li bisognano libri et li conducono in bottega, vendendosi in sprezzo di Dio et delle leggi.”… Venne allora confiscato tutto quel materiale considerandolo di contrabbando, poi si passò a concedere deroghe e licenza a qualche “povero matricolato dell’Arte” estrandone quattro a sorte ad ogni festività: due per Rialto e due per San Marco. … Potevano vendere solo Libri “di genere spirituale” segnati su un apposito elenco. Poi, siccome molti commerciavono Libri fuori dal controllo della Schola dei Librèri e Stampadòri, si prese in considerazione la possibilità di poter vendere e stampare liberamente a Venezia versando una tassa previa “di lire tre et soldi doi per ogni diece fogli” a quelli della Schola ... Poi piovvero sequesti di merci, ammonizioni e multe perché nessuno ascoltava più nessuno: “Le Carte della Scrivia Veneziana volteggiavano da una parte all’altra di Venezia passando di mano in mano, e di soldo in soldo … Nel microcosmo ambiguo della Scrivaria delle Scalèe de Rialto accadeva un intenso quanto continuo frufrugnàr, mesiàr, copiàr, intrigàr de fogli e carte e imbrombolàr de parole e idee ... Nella Scrivia di Rialto spuntava fuori di tutto.”

Nel 1580 circa, Pietro Paolo Collina“sollecitator de Palàsso”, che aveva consultato a lungo diverse Carte nella Scrivia di Rialto, cercò diverse volte con la moglie Ippolita un tesoro che inizialmente sembrava nascosto dentro a un magazzino alla Giudecca di Venezia. Finì poi con l’andare a cercarlo fino a Salò sulla sponda del Lago di Garda servendosi dei consigli scaturiti fuori da un’altra serie diCarte e Libri rinvenuti ancora nella Scrivia di Rialto...La moglie, che si sentiva particolarmente dotata e capace“di sentire” la presenza del tesoro, indusse tutti a recarsi fino a Salò per scavare insieme a un Prete e a un Fante dei Cataveri della Serenissima. Lì sul posto incapparono nelle ire della popolazione locale che li voleva ammazzare e linciare considerandoli pericolosi “Herboròtti” ... In effetti, quei Veneziani dovevano essere insoliti da vedere: il Prete andava in giro suonando un campanellino dentro a profonde buche che scavava … e per fortuna che c’era il Fante della Serenissima con loro, che alla fine riuscì anche a salvarli dall’ira dei campagnoli del lago: “Tutto fu colpa delle scritte e delle carte che girano per la Scrivia di Venezia”testimoniò interrogato in seguito.

Sei anni dopo, un certo Zuanne Allemanno venne denunciato da Giorgio Tedesco all’Inquisizione Veneziana: “Costui sostine che leggendo par casa certe carte e libretti rinvenuti a Venezia s’impara a fare non so che segni su i goti vuodi, et ha una piera ch’el segna i goti con quella, che non so dire che piera sia … Sostiene che se solo lo avesse desiderato, un Lavorante avrebbe potuto mandare in mal’hora il padrone in meno di un mese.”

Dirò di più … I Librai e gli “Uomini delle Carte” si fermavano solo a suon di denunce e minacce ... A Venezia si finì perfino col morire per colpa delle Carte e dei Libri.

Editori e Stampatori, così come Scrivani e Copiatori più o meno autorizzati, erano un genere di persone considerate ambigue, doubleface e sospette, poco collaboranti, disposte un po’ a tutto, e a dar voce a tutto e tutti: buoni e cattivi, pur di vendere e guadagnare. Il Nunzio Domenico Altoviti argomentava nel 1663 in Gran Collegiodi fronte al Doge Domenico Contarini: “I Libri contengono incantesimi, sogni, malefici … Sono sempre più potenti: stanno diventando Porta del Demonio ... Un libro è come uno stiletto, un’arma proibita, una pistola … Un Grimonio e una Clavicola (Il libro di Magia più cercato ed apprezzato dai Veneziani, che faceva più preoccupare il Santo Uffizio dell’Inquisizione)sono un Arsenale.”

Sulle Carte sparse che si potevano trovare e comprare sulle Scaleee negli ambienti della Scrivia di Rialto si poteva andare a leggere: “Il Mago delle Ore e dei Giorni sa calibrare la simpatia degli Elementi del Cosmo … Ad ogni ora del giorno corrisponde un Angelo e un Demone Malvagio da tenere in giusto equilibrio fra loro … Potere, Grazia e Forza sono racchiusi nelle Piante, nelle Parole, e nelle Virtù delle Pietre … Per scongiurare Demone e Uomini occorre recitare un’orazione al Pianeta di Riferimento, e soffumigare con la Pianta giusta che ogni Pianeta richiede.”

Chi aveva Autorità in Città doveva vigilare e controllare: “tenere basse e isolate quelle opere” ... I Libri andavano temuti, tenuti sott’occhio, bisognava impedirne la circolazione: “Un venditore di Rialto è più potente di un coltivatore di Semplici nel suo orto.”

Cose e situazioni quasi risibili, mi direte … Per noi di oggi forse, ma in quel tempo e in quegli anni non lo erano affatto a Venezia.

Nel 1658: il Proto Carlo fu scovato intento ad assemblare le indicazioni di 25 “Clavicolae” diverse per potenziare l’effetto di certe indicazioni magiche: “Nobili Veneziani praticano la magia “de casàda” assecondati da domestici, giardinieri, barcaroli e massère che non possono se non condividere le manie e le attitudini dei loro padroni e padrone, paronsini e paronsine … Il Bechèr di Rialto (macellaio)è come l’Avvocato del Demonio: fa discorsi strampalati sul Bene che contende al Male … quasi Satana Diavolo Maledetto possa in qualche modo portare a Dio ... Le carte della Scrivia di Rialto guarniscono di pericolose creme una torta di cui s’ignorano gli ingredienti ... Possiamo finire tutti avvelenati e desautorati.”commentò ancora il Nunzio Apostolico preoccupato davanti a DogeeSignoria, a tutto il popolo delle Magistraturee dell’Ecclesia, nonché al variopinto popolo dei Mercanti Avventurieri, dei Nobili e delle Arti ... Tutta gente acuta, che possedeva grandi occhi e soprattutto ben spalancati e attenti orecchi: “Ghe xe sempre qualche Frattacciòn in giro par Venesia che arditamente sa trasformàr el Miel in Fièl …” si diceva negli ambienti di Palazzo ma anche nelle chiese, e fra Campi e Campielli di Venezia.

Nel novembre 1663, ancora il tremendo, e a detta di molti “ottuso”Nunzio Giacomo Altoviti si ripresentò di nuovo in Collegio e dal Doge Domenico Contarini dov’era già stato senza esito nel precedente settembre. Sventolando un Libro appartenuto a un Abate che lo aveva trascritto e dato in copia al fratello, iniziò a dire: “Uso per fine buono questo libretto di cui il Padre Abate si è servito in modo malevolo comunicandolo al fratello ... In qual fine malo ha prodotto un effetto ben peggiore di chi prestando uno stiletto per commettere un homicidio, non uccide che il corpo, poiché col prestito di questo libro ne segue l’uccisione dell’Anima.”

Secondo il Nunzio, i Libri e le Carte Proibite s’annidavano e nascondevano ovunque: “… nel comune sentire erano considerati oltre che come luoghi di Sapere, Dottrina e Scienza, anche oggetti magici, potenti, nonché pericolosissimi ... Dai Libri e dalla Carte possono uscire: Forze Oscure, Spiriti imprigionati, e aprirsi Misteri … da Libri ponno sortire eserciti armati”.

Colpevole d’aver manovrato un Libro pericoloso capace di alterare con i suoi contenuti anche la volontà dei Giudici, era l’Abate Camaldolese Fra Giovanni Battista Conti dell’Abbazia delle Carceri Padovanepoco distante da Este, processato l’anno seguente dal Santo Uffizio di Venezia, e condannato a tre anni di carcere. L’Abate salvò la faccia presentando istanza accolta per abiura privata e non pubblica-solenne come avrebbe voluto l’Inquisizione.

La citatissima “Clavicola” era: “la Clavicula di Re Salomone”: leggendario Mago dei Maghi e ReBiblico d’inestimabile Scienza e Conoscenza infinita. A detta di tutti aveva ricevuto direttamente da Dio la concessione di trattare e dominare i pensieri degli Uomini e degli abitanti dell’Altro Mondo di cui conosceva tutte le Filosofie e i poteri degli Spiriti, e le proprietà di Piante e Radici che venivano anche bruciate dentro a particolari quanto misteriosi antichissimi riti ... La Clavicolaera quindi un Libro pesante, ricercatissimo, usato e temuto da tanti.

Alison Person Strega Inglese confessò che si poteva perfino morire guardando dentro a certe Carte e Libri… Il Libraio Modenese Nicolò Edler raccomandò all’amico di leggere la Clavicula Salomonis senza proferirne le parole contenute, perché:“… senza pensarvi acciò non avesse per sorte gli Spiriti a comparire.”

Nel gran marasma del calderone operoso e industrioso della Scrivia di Rialto: una Clavicola corrispondeva a un buon patrimonio. Nella Scrivia c’erano sempre Artieri, comuni Cittadini e popolani Veneziani che s’intendevano a meraviglia fra loro, sempre disposti a cercare utilità inventandone di tutti i colori pur di avere una di quelle “preziose ed efficaci carte”. C’erano poi Preti, Frati, Monaci e Mùneghe, e Nobili che cavalcando Sacro e Profano sognavano di diventare: Navigatori, Mercatanti, Archeologi, Esploratori oltre che Economisti provetti, acuti Letterati, lungimiranti Astronomi, profondi Filosofi, abili Musicisti e Saggisti. Per perseguire tutto questo compravano e nascondevano notte e giorno parecchi Libri Proibiti nelle loro ricche Biblioteche sottraendoli agli inventari pubblici: “Sono loro a manovrare e mandare alla deriva il Destino di Venezia.”

Venezia pullulava di numerose Biblioteche grandi e piccole, pubbliche e private, servite e rifornite di continuo da un nugolo di Stampatori, Librai ed Editori. Il Senatore Antonio Calergi possedeva una biblioteca di 800 volumi per buona parte di autori filoRiformati e Protestanti. A Venezia c’era quindi una specie di folla duttile, sveglia e iperattiva “innamorata delle carte”, che tramestava giorno e notte usandole come fonte di potere, ricchezza, Sapienza e Nuova Legge.

A differenza di noi di oggi che ci annoiamo a leggere due righe pur avendo a disposizione foreste di libri, e ci riduciamo più che spesso a cinguettare solo due parole su Twitter e Social, per i Veneziani di un tempo possedere o perlomeno mettere le mani sopra a un Libro o delle Carte era una cosa desideratissima e molto seria ... Un Libro poteva valere tantissimo: quasi quanto una casa o un piccolo palazzo … Se era manoscritto e miniato poi … Spesso solo i Nobili ricchi, e gli Enti Ecclesiastici dotati di notevoli risorse potevano permettersi lussi del genere, e quindi l’accesso alla Cultura e a sogni più o meno leciti. A Venezia oltre agli Scribacchini di Statostabilmente inseriti quasi come mobilio nelle Cancellerie dei grandi Palazzi del Potere, dell’Economia e della Politica dove, “un po’ da 007”, stilavano, criptavano e decodificavano decreti, gride, proclami e notizie a volte in gran segreto, c’era anche uno Scrivanoimbarcato su ogni Nave o Galea pronta a salpare per ogni meta del mondo d’allora. Scrivani seguivano ogni esercito che si metteva in movimento, e le guerre in quei tempi di certo non mancavano … Di Scrivanierano piene le Librarie dei Monasteri di Monaci e Monache che producevano copie e miniature superbe ambite, visitate e invidiate da tutta Europa … A Venezia c’era un mondo intero di Notai, Avvocati, Magistrati, Ambasciatori, Prelati e Letterati di ogni sorta:  Scrivanilavoravano nei Banchi da Scritta dei Banchieri e degli Assicuratori della Securtà e dei Notai non solo di Rialto e San Marco, ma anche nel Ghettodi Cannaregio e un po’ ovunque … Scrivevano “alla grande”i Nobili Patrizi e Mercanti nei loro fondaci e mezzanini di palazzo per gestire i loro commerci internazionali marittimi e terrestri … Scrivevano Letterati, Privati, Accademie, Università neonate trattando di Poesia, Viaggi, Diari e Musica … e carte, lettere, messaggi e posta di ogni genere correvano giorno e notte per terra e per mare lungo tutta l’Italia, portate a volte a costo della vita avanti e indietro da Corrieri e persone fidatissime che spesso non sapevano neanche leggere e scrivere ... In giro per Venezia c’era anche chi “scribacchiava pressappoco in giro” sapendo solo mettere insieme qualche conto e misura al Mercato, in Pescheria o nelle Osterie, o leggere soltanto quel poco che serviva per campare … E poi si sa: non c’è nulla che sia più appetibile per la mente di ciò che è sconosciuto, precluso e proibito ai più.

La Scrittura, lo Scrìvare e la Scrivaria… la Scrivia in genere di Venezia, era considerata un ambiente e uno strumento micidiale, una capacità, che poteva procurare tanto bene quanto tanto male all’intera Venezia Serenissima ... Non fu un caso quindi se tanti libri finirono con l’essere messi “all’Indice”, cioè proibiti: “perché fomentavano non solo perniciose Eresie, ma andavano anche a minare le fondamenta del Potere Civico-Religioso Costituito da Dio e dallo Stato ... oppure procuravano ovunque situazioni incerte, quanto insolite, ingovernabili e pericolose.”

In questo contesto, la dilatata e onnipresente Scrivia Veneziana venne considerata: fucina e sentina ideale capace di produrre Carte e Libri di ogni sorta e per ogni genere di persone:“Adolescenti et etiandio Nobeli, Mercadanti, Artesani, Abbachisti, Aggrimensori, Geometrici, Architettori, Arithmetici, Raggionati, Scrittori et Iudici de cittade, terre, ville, castelli et altri luoghi ...”

Nel febbraio 1543 il Consiglio dei Dieci ordinò agli Esecutori contro la Bestemmia di punire i Tipografi disobbedienti “che in spregio alle precedenti disposizioni, stampavano e vendevano senza licenza libri offensivi della Morale, di Dio e della Fede Cattolica”.

Cinque anni dopo, si affidò ai Fanti e agli Esecutori del Sant’Uffizio il controllo sulla Stampa Veneziana, ma anche sugli importatori di libri, e ripresero quindi le multe, le censure, le confische, le minacce e i sistematici falò pubblici dei libri, che comprendevano anche il Talmud e altri testi Ebraici ... Venezia istituì anche l’apposita Magistratura deiTre Savi sopra l’Eresia, che coadiuvava l’Inquisizione nelle ricerche, nelle disamine sui libri, e delle persone che si trovavano insieme a loro.

Dal 1562 il Consiglio dei Dieci stabilì l’obbligo di ottenere la “Licenza di Stampa” per ogni libro messo in circolazione in Laguna e in tutto il Dominio Veneto … Inutilmente i Librai presi di mira presentarono col Priore della loro Arte suppliche e proteste al Consiglio dei Dieci invocando l’applicazione della storica tolleranza Veneziana che non c’era più. Temevano inoltre che “l’Arte e le loro famiglie fossero destinate a total ruina”Non accadde niente, e l’anno seguente lo stesso Consiglio dei Dieci fece stilare dal Nunzio Apostolico Giovanni Della Casa insieme ai Tre Savi sopra l’Eresia un Catalogo o Indice dei Libri Proibiti: “Summario de tutti i libri heretici et de altri suspetti et de altri etiam nelli quali se contengono cose contra li boni costumi”, da non commerciare, e da distruggere a Venezia e in tutto il Dominio della Serenissima … possibilmente insieme anche agli autori delle opere ?

Il Catalogo considerato “opera di riferimento indispensabile per ogni stampa e commercio di Libri” venne stampato e perfino messo in vendita:“Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come heretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia et in tutto l’illustrissimo dominio Vinitiano, sì da mare come da terra, composto dal reverendo padre, maestro Marino Vinitiano [...] Inquisitore dell’heretica pravità [...]; d’ordine e comissione del Reverendissimo Monsignor Giovanni Della Casa.

Ovviamente finirono nella lista tutte le opere di Lutero, Bucero, Melantone, Zwingli, Ecolampadio, Ochino, Vermigli, il De Trinitatis erroribus” di Servet, il Beneficio di Cristo” di Benedetto Fontanini, l’Alphabeto Christiano” del Valdes, e il Pasquino in estasi”del Curione.I vari Librai Veneziani:Giunti, Valgrisi, Tramezzino, Arrivabene, Scoto, Zilettie gli altri, furono costretti a consegnare tutti i libri sospetti. Se non lo facevano spontaneamente, venivano costretti a minuziose ispezioni col sequestro di buona parte del contenuto delle loro botteghe.

I Librai Veneziani però erano furbi e non sprovveduti: se l’Inquisizione Veneziana condannava certi titoli, loro li cambiavano pubblicandoli con un titolo diverso, anteponevano falsi frontespizi e sommari innocenti agli scritti dei Protestanti, stampavano e ristampavano in nuova edizione senza autore, senza data e senza luogo di pubblicazione aggirando così “le Licenze” negate dall’Inquisizione, che non sapeva più come cavarsela. Gli Inquisitori Veneziani dicevano di loro: “I Librai Veneziani sono furbi, astuti e scaltri … e fra loro ci sono i Frati dell’Isola di San Giorgio in Alga … Sanno inventarsele tutte pur di far passare i loro “Libri Proibiti” per le Dogane… Frugando fra i cassoni si trovano “Libri disonesti” celati dentro alle coperture di Messali da Messa e Vite de Santi …  Più che difendere l’eterodossia e le novità degli animi riformistici soprattutto del Nord Europa, sono venditori e commercianti. Più che amare la Cultura, l’evoluzione della Scienza, le profondità del pensiero umano e la Conoscenza e Sapienza, intendono piuttosto guadagnarsi in qualche modo la pagnotta ossia l’evangelico “pane quotidiano”.”

Il Consiglio dei Dieci pressato dall’Inquisizione la autorizzò nel 1569, a compiere visite a sorpresa nei magazzini dei Librai e nelle Botteghe dei Libri. Il Sant’Uffizioscelse dai Conventi Veneziani circa 50 Frati e Monaci esperti di Greco, Ebraico, Storia, Diritto, Filosofia e Teologia, e nell’estate dell’anno seguente li sguinzagliò a coppie a sorpresa nelle botteghe per ispezionarle e sequestrare tutto ciò che era considerato proibito. In autunno si ordinò il rogo dei Libri in Piazza San Marco, e si sottoposero per più di un anno ad interrogatorio e processo 28 Librai “fuorilegge”.

Finì sotto stretta osservazione soprattutto la Libraria-Officina “all’Insegna dell’Erasmo”:“covo di uomini e d’idee riformate eretiche pericolosissime”, dove si pubblicava e vendevano insieme a edizioni di Classici Greci e Latini, anche i dieci libri di Erasmo da Rotterdam, e numerose traduzioni di opere proibite Tedesche, Spagnole e Francesi di autori molto sospetti. Il Libraio Vincenzo Valgrisi era il proprietario della Libraria “All’insegna dell’Erasmo”, e titolare anche di altre botteghe e magazzini di libri a Francoforte, Lione, Lanciano, Foligno, Recanati, Macerata, Bologna e Padova. Venne più e più volte convocato davanti all’Inquisizione Veneziana, fino a intentargli contro un vero e proprio processo che durò più di dieci anni. A niente valsero  le testimonianze in sua difesa formulate dal Piovano di San Zulian, dallo Scrivano e dai Compagni della Scuola del Santissimo di cui Vincenzo era addirittura “Gastaldo”(la carica principale e di maggior prestigio della Schola): “Messer Vicenzio Valgrisio, Libraro habitante nella Parocchia nostra con tutta la sua fameglia, ha sempre vivesto et al presente vivie christianamente, confessandosi et comunicandosi … essercitato in diverse opere pie per la Parochia, per beneficio di poveri et nel governo della Fraternita del Sacratissimo Corpo de Christo, havendo fatto molti ornamenti nel tempo del suo Guardianato nella Capella del Sanctissimo Sacramento, per altre luadabil opere … ”

Durante la perquisizione del suo magazzino-Libraria a San Zanipolo gli vennero sequestrati 1.277 volumi proibiti fra cui 400 copie dei Simolachri, historie et figure della Morte” ossia: “La Medicina dell’anima di Urbanus Rhegius”accompagnate dalle copie della serie della Danza Macabra” di Holbein, un prodotto editoriale: “Libro piccolo et di poco pretio et de gran domanda”, 300 altri esemplari occultati sotto la falsa copertina delle Epistole di Cicerone, la traduzione dei Colloquia Erasmiani, e opere dell’Aretino, Macchiavelli, l’Alphabeto Christiano del Valdés, il Decameron, i Dialoghi dell’Ochino, un Commento ai Vangeli dell’Osiander, operedel Protestante Francis Hotman, del Matematico Tedesco Giovanni Schonero, e alcuni Commentaridella Bibbia, Doctrinali e raccolte di Orazioni molto sospetti, e numerosi tomi Francesi e Tedeschi compresi nell’Indice. Fra i tanti “libri pericolosi” c’erano anche titoli di Geografia che descrivevano Asia, Africa ed Europa in maniera sospetta, e libri d’Astronomiacon tabelle, Effemeridi e Lunazioni che potevano lasciare perplessi se non confondere i lettori … Tutto venne ben presto aggiunto all’Indice dei Libri Proibiti.

Vincenzo Valgrisi era “un nome e una garanzia” a Venezia in campo Librario:intorno a lui ruotava non solo tutto un mondo commerciale di successo, ma anche tutto un insieme di spunti culturali e di idee innovative e moderne. Alcuni suoi Libri venivano venduti in tutta Europa, perfino in Oriente, e fra gli Ebrei.

Insieme a Paolo Manuziofu considerato reo d’aver stampato e prodotto ben 353 edizioni di libri di Medicina, Spezieria e Farmacopea; Letteratura; Trattatistica; Filosofia; Storia; Religione; Diritto; Botanica, Geografia e Astronomia di natura sospetta, molti dei quali erano compresi nella lista dei Libri Proibiti. Venne costretto a modificare il suo abituale marchio di stampa che recitava: Ex Officina Erasmiana apud Vincentius Valgrisius prope Horologi Divi Marcisostituendolo con Ex Officina Valgrisiana, e perfino a rimuovere e cambiare la sua “eretica insegna” tramutandola con una più consona “Insegna del Tau” con l’immagine del serpente.

Sempre e ancora secondo l’Inquisizione Veneziana, attorno a quella stessa Libraria gravitavano personaggi ambigui e pericolosi come lo pseudo Letterato Pietro Lauro, che: “… quantunque fose fuor di misura ignorante, ardì di volgarizzare Columella e simili autori Latini”. Lauro, coadiuvato dall’avventuriero Alfonso Ulloa, già imprigionato come spia dalla Serenissima, gestiva una scuola privata per istruire i giovani figli dei Nobili Veneziani, e quelli abbienti della Colonia Mercantile Tedescaresidente a Venezia.

Alcuni Librai, presi per la gola, e vedendo ridursi i loro affari, iniziarono infine a cedere assecondando i dettami dell’Inquisizione: Zaccaria Zenaroseguito da Vincenzo Valgrisi e da Giordano Ziletti, da Bosello, Valvassori e Varisco presentarono al Sant’Uffizio l’inventario di tre casse di libri proibiti, e Valgrisi scrisse ai suoi agenti di far altrettanto: “… me son subtratto da la prattica de altri librai, quali per questa obedientia non mi parlano e da li suddetti librari ne son stato pur assai biasimato.”

Il Sant’Uffizio li condannò lo stesso a: Preghiere, Elemosine, Rosari, Comunioni e Confessioni ... Poi capitolarono anche i Librai: Giunta, Giolito, Tramezzino e Sessa, compresi i Priori dell’Artedei Libreri Veneziani. Tutti presentarono gli inventari all’Inquisizione, e furono consegnate anche 21 casse di Libri Proibiti provenienti soprattutto dall’Europa del Nord.

Insorse allora a Venezia l’ala dei “giovani Patrizi” guidata dal futuro Doge Nicolò da Ponte, propugnatrice instancabile dell’autonomia della Serenissima dalle mire della Chiesa e del Papa di Roma. Il Catalogo dei Libri Proibiti venne bocciato, ritirato dal commercio, e distrutto ... Il Libraio Valgrisi riuscì a cavarsela: gli rimase l’etichetta “col sospetto d’essere un Protestante, e una pena pecuniaria di 50 scudi ridotta a 20 dopo un’ufficiale “Purgazione canonica” ... Fu anche obbligato per un anno a: “… ogni venere visitar lo Spedal de li Incurabili et metter una elemosina in la cassa de la fabricha che parerà a lui.”… Riuscì comunque a riprendere la sua abituale attività di Libraio, entrando anche a far parte della “Grande Compagnia di stampar Libri di Leggi” detta anche: “Compagnia dell’Aquila”.

Dieci anni dopo comunque, Papa Paolo IV fece redigere dallaCongregazione del Sant’Uffizio sull’esempio di Venezia, il primo “Indice Romano dei Libri Proibiti” valido per tutta la Cristianità. La lista di autori e opere messe al bando era quattro volte più numerosa comprendendo ben 290 autori: si trattava soprattutto di Teologi, ma anche Medici, Giuristi e Letterati Protestanti dell’Europa del Centro-Nord.

A Venezia, meno fortuna ebbe Giorgio Valgrisi figlio di Vincenzo, accusato d’Eresia nell’agosto 1587 dal Prete Alvise Ferro “amico di famiglia”… Figuratevi se fosse stato suo nemico ? … Non si risparmiava, né si guardava in faccia a nessuno … Venne accusato d’essere un trafficare di libri proibiti fra Francia e Allemagna, d’essere ormai “Homo perduto”, e di farsi beffe d’Indulgenze, Devozioni, Processioni e Miracoli, di censurare la Messa dando ragione ai Protestanti dell’Europa del Nord sugli “errori del Sacrificio dell’Altare”; d’essere amico e confidente di Girolamo Donzellini e di Claudio Textor: entrambi giustiziati per Eresia, abituali frequentatori della “Libreria del Serpente” dove parlavano “molto licenziosamente”, e discutevano di Libri Proibiti. Valgrisi Junior aveva definito “ignoranti” i Giudici che avevano mandato a morte il Textor, ed era stato visto mangiare insieme a un sacrilego Ugonotto, che aveva accompagnato impunemente a visitare la Basilica di San Marco.

L’Inquisizione interrogò i vicini di casa, che lo consideravano una brava persona. Raccontarono che qualche volta l’avevano visto recarsi persino in chiesa accedendo ai Sacramenti. Il Piovano di San Zulian, invece, affermando di conoscerlo da venticinque anni, testimoniò che Valgrisi Junior nonsolo non era affatto un buon praticante, ma conviveva anche in maniera irregolare con una donna, teneva discorsi ambigui e provocatorî, e frequentava persone dubbie andando a soggiornare in Germania e all’estero, dov’era anche iscritto all’Università di Basilea … Giorgio, inoltre, insieme a suo fratello Feliceavevano pubblicato una ventina di titoli tra il 1573 e il 1581, servendosi anche dei torchi dei Nicolini da Sabio, del Deuchino e dei Bindoni, e occupandosi della libreria “Al segno del Serpente” che era di certo parte attiva di una rete di commercio di Libri Ereticaliconnessi con i Protestanti.

Giorgioinfine venne arrestato assieme a Pietro Longo: altro trafficante di Libri Proibiti tra Germania e Venezia, e gestore della Libreria Protestante di Pietro Perna a Strasburgo, e forse di un’altra a Bologna.

Tragica, anche se scarsamente ricordata la fine Pietro Longo: venne annegato all’alba nel Canale dell’Orfanoverso le Bocche di Porto di Venezia… e si era nel 1588. Giorgio, invece, si salvò probabilmente su intervento del Governo della Serenissima che mise freno all’Inquisizione costringendola ad abbandonare le indagini e gli interrogatori del Valgrisi. Che l’Inquisizione si accontentasse della recente esecuzione capitale del Longo che aveva generato notevole scalpore a Venezia.

Tornando alla Scrivia di Rialto, c’è da aggiungere che lì esisteva un vero e proprio contrabbando e mercato redditizio di opere di ogni sorta e Letteratura: una vera e propria rete di rifornimento Librario e Cartaceo che riforniva Nobili Patrizi, Precettori, Ecclesiastici, Avvocati e Giuristi, Magistrature di Stato, Mercanti Veneziani e forestieri, ma anche Artigianidi ogni sorta, ambulanti e popolino curioso, anche se a volte appena capace di leggere e scrivere, ma desideroso in qualche modo di trarre qualche guadagno dal quel mare di Carte e Libri.

Venezia non diede mai ordine diretto di distruggere i libri presenti nelle Librerie, né proibì l’entrata in città di Libri Proibiti ed Eterodossi provenienti dall’estero, e ancor meno mise un Ufficiale dell’Inquisizione alla Doganacome avrebbe voluto il Santo Uffizio ... Temi comuni e ricorrenti preferiti dai Riformisti di Lutero e trattati in un copioso corredo di vignette e illustrazioni dalla Categoria dei Librai e degli Editori, erano quelli della Caduta e della Redenzione, cioè: la Creazione, il Peccato Originale, la Cacciata dal Paradiso, Mosé che riceve le tavole della Legge, il Cristo Risorto ... Cranach realizzò immagini antipapali incoronando col Triregno Papale il capo dell’apocalittica “meretrice di Babilonia ebbra del sangue dei Santi e dei Martiri di Giesù, seduta sopra una bestia rossa piena di nomi di bestemmia”… Si cercò di commercializzare anche qualche opera contenente “intagli”, cioè inserzioni di stampe e incisioni proibite, che però rimase invenduta e nascosta in fondi di magazzino Veneziani almeno per 50 anni. Si fece spazio anche agli antichi Miti e Allegorie Pagane con i quali i Nobili decorarono le loro Ville e i Giardini di Campagna.

Insomma: la Carta e i Libri divennero una sfida permanente all’Autorità Civile-Religiosa, e alla Verità costituita di allora.

Quando all’inizio del 1557 giunse a Venezia il futuro Papa Sisto V, che allora era solo il tremendo Inquisitore del Sant’Uffizio di Venezia Fra Felice Peretti da Montalto Francescano Conventuale, si mise in mostra come Riformatore assiduo e zelante, decretando e tuonando contro Libri ed Eresia. Già nel febbraio dell’anno seguente ordinò che chiunque importasse libri fosse tenuto a depositarne un inventario dettagliato presso il Tribunale dell’Inquisizione prima dello sdoganamento, e che nessuno potesse vendere titoli senza il permesso e le correzioni dell’Inquisizione … I Confessori erano tenuti da quel momento a rifiutare l’assoluzione ai possessori di Libri Proibiti. Per noi una cosa del genere è oggi quasi del tutto insignificante. Per quelli di allora, Veneziani compresi, l’estraneazione e la preclusione dai Sacramenti era un vero e proprio dramma umano, un’esclusione dalla Strada della Salvezza, in grado di destabilizzare del tutto l’equilibrio e la serenità esistenziale delle persone ... In giugno l’Inquisitoreproibì anche lo smercio dei Colloquia di Erasmo e del Mercurio e Caronte del Valdés ... In agosto vietò la stampa e la diffusione della Bibbia in qualsiasi lingua volgare … Un travolgente treno in corsa … Quando Felice Peretti divenne Papa giunse ad elencare e condannare ben 550 autori con tutte le loro opere, tra cui Erasmo e Savonarola. Proibì ogni libro che in qualche modo contenesse accenni Anticuriali, antiPapa o contro la Chiesa, offensivi della Morale, lascivi od osceni, come quelli dell’Aretino, Machiavelli e Rabelais, Boccaccio. Assieme anche a tutti i Libri Anonimi, o che contenevano cose di Magia e Negromanzia, ordinò anche l’espurgazione di circa 60 Editori dalla produzione proibita, soprattutto Tedeschi o Svizzeri, ma anche del Veneziano Francesco Brucioli, e di ogni testo che fosse privo dell’immancabile Imprimatur Diocesano e Inquisitoriale. Cominciò inoltre a confiscare tutti i libri delle Librerie Veneziane presenti nello Stato Pontificio, e impedì a tutti i Librai della Serenissima di partecipare alle Fiere Librarie che si tenevano nei suoi territori.

Nel 1615 il Medico Ottavio De Rossi leggeva alla finestra di casa, e molti Veneziani si rivolgevano a lui perché “indovinava le cose che hanno da venire … e sapeva far varie malie”. Finì inquisito dal Santo Offitio dell’Inquisizione Veneziana, dal quale si difese affermando che non conosceva il significato delle parole che pronuncaiva, e che: “Mi non so che farghe se le putte vedono”.

Raccontò di Caterina Falghera che avendo un figlio malato inguaribile si era recata a casa sua in cerca d’aiuto. Il Medico aveva sussurrato alcune parole all’orecchio di una sua domestica Maddalena Grecaconnivente: “Ochus Mochus Fichas” mettendole una candela benedetta accesa nelle mani, e ungendole con polvere nera e olio comune. La donna aveva detto allora di vedere sul palmo della mano “alcune figure fra cui lo Spirito di un Re e quello dello stesso bimbo malato che poteva essere guarito”.

Nel 1620, invece, Franceschina Priamotestimoniò che Girolamo Cavazza aveva imparato da un libro che conteneva incanti a prendere teste di Morto, e a farle “nascere i capelli, e la carne facendoli parlare … Incantava i cani che non abbaiavano, stagnàva el sangue, faceva innamorar le persone, faceva venir e andar donne dove lui voleva facendo loro mostar le vergogne…” come aveva saputo dimostrare a Giovanni Bigarotto... Nove anni dopo, Antonio Manueli e la moglie avevano mostrato la serie dei loro libri diNegromanzia dai poteri divinatori e terapeutici agli amici, e a Francesco Bonamin che era andato dritto a denunciarli all’Inquisizione Veneziana.

Nel successivo 1630 in Tempo di Peste, Lucio Sacrinzidenunciò la Bechèra Maddalena Leoncini:“che teneva in un armèr della cucina o in tasca di un figliòl Ventura un libro per le proprie strigarie e incantesimi ottenendo dagli altri tutto quello che voleva… Il Libraio Coletti Pietro da Tuscolano del Garda, invece, teneva bottega “All’Insegna del San Piero” al Ponte di Rialto. Lasciò nel testamento una descrizione della Peste: “Flagello di Dio”, un lascito alle Figlie del Coro soprattutto a Lauretta: “… per l’affetione a lei pigliata per il suo cantar, che tra tutte quelle più mi piaceva”, e ducati 10 alla Schola di Santa Giustina per l’olio della lampada all’altare della Patrona e Protettrice dei Librai di Venezia... Due anni dopo, Prè Giovanni Turato Piovan della Contrada di Santa Sofia in Cannaregio, fece bruciare pubblicamente tutti i libri di Magia appartenenti al Convertito Giovanni Battista Ventura. Ventura “maledì l’Anima e il corpo del Turato” che gli aveva bruciato tutti quei libri preziosi, “perché adesso in tempo di contagio li haverebbe adoperati con guadagnare”… Sua moglie, che aveva un amante, lo denunciò ugualmente alla Santa Inquisizione accusandolo che le impediva di recarsi in chiesa a Messa. Essendo un convertito l’avrebbe pagata cara. In realtà venne fuori che Bonaventuraproibiva alla moglie di recarsi in chiesa perchè lì avrebbe incontrato l’amante che le offriva osceni regali di zucchero. Alla fine Bonaventura se la cavò con l’imposizione dell’Abiura Semplice da parte dell’Inquisizione, e con l’obbligo di confessarsi e comunicarsi.

Quante “Storie di Carte e Libri” !

Nello stesso anno l’Inquisitore Veneziano Girolamo da Quinzano affermò: “… certe fattucchierie contenute nei libri che erano in se minchionerie e bagatelle potevano alla fine diventare per davvero cose grandissime et pericolose”. Perciò era sospetto anche solo aprire e sfogliare certi Libri ... e per questo i Libri venivano bruciati: perché solo il fuoco riusciva a cancellare quella “presenza recondita che quasi abitava la Carta”.

Nel 1650 Fra Girolamo Amadei già processato per sei volte dall’Inquisizione di Ferrara tentò di evocare il Diavolo nell’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia calamitando diverse donne al suo seguito con l’intento di sedurle. Tramite complesse procedure contenute in un Libro manoscritto in pergamena bianca di proprietà di suo fratello Carlo, aveva provato ad evocare il Demone senza riuscirvi. Il Libro si chiamava: “Picatrix Philosophi” ... Carlo allora aveva procurato un secondo buon testo di “Negromanzia pratica contenente molti e molti segreti … come quello di far impazzire le donne per amore, far vincere al gioco … e v’erano croci, mani, segni, caratteri, et insegna il modo d’adoprar detti secreti nella tal positura di pianeti, et altro …”

Francesco Dai Quadriverso il 1670 diceva che le numerose Prostitute o “Donne di Mondo” di Venezia, come Caterina Furlana detta Catòna, ad esempio, usavano i Libri Proibiti e d’Arte Magica come ferri del mestiere ... Già un secolo prima Bortolo Villaaveva denunciatola prostituta e fattucchieraPaolina Bianchini della Contrada di San Giovanni Novo “che teneva a casa una cassa intera di Libri e Carte bruciati in parte indotta dal figlio che era Prete. Da uno di quei carteggiBortolo avea imparato a pigliàr quattro candele e metterle in quattro cantoni di una camera facendo un cercolo come era quello in detto libro mettendovi in esso uno specchio, e dicendovi poi molti scongiuri come in esso libro appàr.”

Anche la “Frataria Veneziana” non era così perfetta come inteva far credere. Nel novembre 1683 i Frati Inquisitori finirono per allestire un’indagine e un processo anche contro se stessi: “per l’introduzione nel Convento di un certo tipo di donne, e per via delle solite Carte e dei Libri Proibiti che si procacciavano alla Scrivia di Rialto.”

 

Nel 1687 Caterina Schiavonetto andò a deporre davanti alla solita Santa Inquisizione di Venezia: “che ilBarcarolo Giacomo Paroel avea de libri proibiti co quali potea far cose assai, e quel che voleva, mentre loStampatore Girolamo Finriusciva a far parlare gli animali, cani o gatti che fossero, riuscendo inoltre a farsi arrivare direttamente in tasca il denaro di cui aveva bisogno, et in due ore faceva trenta miglia in virtù di quel libro pieno di teste e segni, e molte altre cose prodigiose diceva che faceva...”

Prete Erasmo Futino denunciò, invece, che da un libro simile il Salumiere Ruggero Saggiòn aveva ottenuto la capacità dell’invisibilità, e sapeva riconoscere quando i compari e le comari facevano del male insieme.

All’inizio 1700, quando Frate Bartolomeo Vitturi dopo aver fallito diversi esperimenti, brandì il libro della risolutoria “Clavicula Salominis”dicendo: “O che questa volta divento un gran Stregòn o un gran Cogiòn”, si processò a Venezia Lelio Capra: un Prete girovago che vagava fra San Pietro in Gù e Vicenza. Gli venne sequestrato un libro manoscritto “segnato di molti circoli, segni, e figure diverse, non senza il mescolamento di parole sagre, che lui utilizzava per l’escavazione de tesori ...”

Se nel 1596 l’Indice dei Libri Proibitia Venezia contava almeno 2.100 titoli, nel 1711 i titoli elencati erano diventati almeno 11.000 !

Nel 1725 lo Stato Veneto contavano 85 cartiere tutte di dimensione modesta con pochissime “tine” in perenne crisi per mancanza di stracci ... La Serenissima allora cercò di aiutare la Categoria della Carta con esenzione decennale sui Dazi sull’esportazione della carta all’estero “per Terra e via mare”. Solitamente si arrivava a pagare ben 6 Dazi diversi per spedire carta dal Polesine alla Riviera di Salò:“si versava: 35 a Salò, 1 nel Bellunese, 24 nel Trevigiano, 15 nel Vicentino, 3 nel Padovano e 7 nel Pordenonese.”

E’ della fine aprile 1733 la Scrittura di Compagnia della durata di 10 anni redatta presso i Provveditori sopra ai Banchi su una bottega da Libraio redatta fra Iseppo Bettinelli quondam Francescoemancipato dai fratelli e GB.Marosin quondam Domenico. Il capitale di 5.000 ducati era legato alla bottega “All’insegna del Secolo delle Lettere” situata in Merceria a Venezia.

Nella primavera seguente, la Schola e Università dei Libreri e Stampatori Veneziani, nella figura del suo Priore Francesco Storti:“ottenne benignamente” dalDoge“d’essere esentati dall’aprire bottega in Piazza San Marco per la Festa della Sensa”.  In precedenza i Libreri avevano presentato una supplica alla Serenissima tramite diversi Avvocati perché a causa dei pericoli di acqua e fuoco a cui era soggetta la loro mercanzia, come per la molta spesa per trasportarla, non avevano certezza di procurarsi un ritorno di reddito.

1738: a riconoscimento dell’introduzione nello Stato della carta dorate e inargentata o miniata con l’aiuto di tecnici esteri di Augusta, lo stato concesse privilegi e privativa ventennale aiRemondini di Bassano:“per carte damascate e vellutate ed esenzione daziaria ed altro”. Nel 1767 i Remondini che possedevano 4 cartiere con 40 torchi attivi, producevano: immagini religiose, carte dorate, carte da gioco, carte miniate dando lavoro a 2.400 persone, e le loro“carte”andavano fino in Spagna, America, Piemonte, Francia, Germania, Danimarca, Svizzera ed Ungheria.

Nel 1767 a protezione della Carta Nazionale, la Serenissima mise al bando la Carta Estera che doveva venire bruciata se rinvenuta in circolazione ... Crebbe il numero delle cartiere fino a 123 mentre scese il lavoro e la domanda del prodotto scadendone la qualità ... Da Costantinopoli la Cancelleria Turca contestava la qualità delle forniture veneziane: “… è carta cruda, giallastra, difettosa nelle misure, nella massa è mancante di 1/3 del peso.”

 

Nel 1773, qualche anno dopo la storiaccia del Padovano Daniel Lanzache fece vittime durante ilCarnevaleviolentando diverse donnesotto la scala di Cà Morosini, a San Mattio di Rialto e nel Campiello del Solprima di fuggire scomparendo gettandosi in un canale inseguito da un energico Gondoliere;  l’Arte dei Carta-Librai Veneziani contava 828 iscritti: 150 cartai in totale, di cui 25 erano Garzoni, 33 Lavoranti e 92 MastriCartai attivi in 35 botteghe; i Torcolanti e Compositori erano 310 distribuiti in 51 Librarie ... Giacomo Manzoni Capomastro Carter “aprì con suo capitale e nel rispetto delle Regole e degli Ordini dell’Arte” nuova bottega in Calle de’ Bombaseri in Contrà de San Bartolomio de Rialto “All’Insegna della Santa Tèrsa o Teresa”… In quegli stessi anni i Librèri raccontavano che non era facile avere l’opportuno quorum nelle loro riunioni: perché erano sempre meno frequentate … Alcuni Libreri iscritti all’Arte tenevano aperta bottega e lavoravano impunemente anche il giorno della Festa della Patrona dell’Arte: il 7 ottobre, che era ricorrenza anche dell’antica sontuosa Vittoria di Lepanto… A Venezia non c’era più rispetto per niente e nessuno … L’anno seguente, i Proveditori da Comun dettando nuove regole circa le Cariche della Schola,confermarono la norma che proibiva alle botteghe dei Stampadori e dei Libreri di rimanere aperte anche nei giorni festivi trasponendo ogni Festa Patronale esclusivamente di domenica: “perché c’era da lavorare durante la settimana.”

Giacomo Casanova stesso possedeva una biblioteca di Libri Proibiti e di Magia. Scriveva nella “Storia della mia vita”(pubblicata postuma dopo la morte del 1798): “… tutti quelli che mi sapevano in possesso di tali libri mi reputavano un Mago capace di opere mirabolanti, e ciò non mi dispiaceva affatto.”

Nel 1795 lo Stato Veneto produceva: 455.880 risme di carta per un valore di 911.760 ducati. Ne esportava 127.227 risme per un valore di 254.454 ducati. 49.797 uscivano per “la Stadella di Verona”, ed altre per 64.000 ducati uscivano dalla Marittima di Venezia imbarcate verso il Levante.

Quanta Carta scorreva a Venezia e nella sua Scrivia, e quante storie di Carte e Libri !

Due anni dopo infine, giunse la mesta conclusione di tutto quel mondo di Carta, Storia di storie e Libri: Miniadori, Disegnadori, Cartoleri, Indoradori, Targheri, Maschereri, Dipintori e Doradori vennero frettolosamente unificati insieme prima che la professione venisse soppressa del tutto, cioè liberalizzata e lasciata la libera iniziativa del commercio e della concorrenza. Francesi napoleonici e Imperiali Austriaci a più riprese sgretolarono e distrussero tutti quei modi, e quel “mare di Carta tutto Veneziano”… All’inizio del secolo sequente l’attività Libraria e della Carta andò prima in stallo, e poi declinò velocemente riducendosi a solo 36 stamperie con 68 torchi attivi. Negli anni seguenti l’attività quasi scomparve del tutto … Non c’erano più Carte sulle Scalee di Rialto, né la ScriviaVeneziana esisteva più.

Tanti Libri e Carte comuni e di pregio prelevati a Rialto, o saccheggiati nelle sontuose e ricche biblioteche di Conventi e Patrizi finirono utilizzati per incartare pesce, carne, lugàneghe, verdure e frattaglie nei Mercati di Contrada o di Rialto e San Marco ... Un vecchio Codice tutto colorato e dipinto prelavato quasi per niente in una casa dei Monaci, tornò buono per rintuzzare la falla di una barca in attesa di trovare un po’ di stoppa.

La temibilissima Inquisizione ? … Spazzata via quasi del tutto pure lei, perché i tempi erano cambiati, e il tanto diabolico sentire contenuto e nascosto nei Libri era passato di moda, s’era come esaurito e spento ... O meglio: nessuno considerava più le Carte e i Libri con quella partecipazione e animosità con cui erano stati trattati per fin troppo tempo.

Quanta Carta in ogni caso … e quante Storie di Carta.

 

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