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“Piccola nota su San Adriàn dei Mercadanti da Vin”

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La Schola di San Adrian dei Mercadanti da Vin era uno delle oltre duecentosessanta Schole Piccole presenti in certi secoli a Venezia. Il giro mercantile, il commercio del Vino a Venezia è sempre stato molto fiorente con grosse esportazioni e importazioni all’estero che coinvolgevano i mercati di mezza Europa. Il vino a Venezia faceva impresa attivissima presente soprattutto nel grande Emporio di Rialto in Riva del Vin. Si vendeva all’ingrosso e al dettaglio, e veniva spesso miscelato in vari tipi di mescite e osterie con droghe e aromi. Esistevano infatti: bastioni o magazeni, caneve ossia cantine; malvasie per i vini pregiati provenienti da Cipro, dalla Grecia e dall’Oriente.

Pensate che la gestione dell’appalto del Dazio del Vino in concessione dalla Serenissima per un solo anno ammontava a 70.000 ducati. La ricchissima famiglia nobile dei Pisani acquistava di solito solo una parte dell’appalto per non rischiare l’intero capitale che sarebbe ammontato ad un terzo del loro intero patrimonio. Grandi rischi, grandi tasse e grandi guadagni … tipico dell’economia vivissima veneziana.


Inizialmente la Schola dei Mercanti da Vin si trovava nei pressi del Ponte di Rialto, in alcuni ambienti a pianoterra di Ca’ Barbarigo in Calle del Gambaro dove sono rimaste infisse nei muri ai lati del portone e sul pilone d'angolo del palazzo quelle immagini in pietra dei loro Santi Patroni Protettori che furono appunto: la Santa Croce, San Giorgio, San Adriano, San Girolamo, San Giobbe e forse anche Sant’Andrea e San Nicolo’. Le due immagini, non sono quindi come afferma qualcuno stemmi di famiglie nobili abitanti sul posto.  


Nel novembre 1565 il Consiglio dei Dieci autorizzò i Mercadanti da Vin ad associarsi in Schola. Questi curavano e mantenevano e si radunavano per le loro devozioni religiose inizialmente presso l’altare di Ognissanti nella chiesa di San Bartolomeo appena giù del Ponte di Rialto.  

La Schola era davvero facoltosa, perché già nel 13 agosto 1593 a seguito delle nuove disposizioni del Concilio di Trento i Mercanti da Vin finanziano i lavori per trasferire l’organo della vecchia chiesa di San Silvestro dietro l’altar maggiore per spostare questo al centro del presbiterio. Tutto questo aveva un senso preparatorio, perché nel 1609 circa, le Confraternite distinte dei vari mestieri del Vino Veneziano si consociarono insieme e si trasferirono per le devozioni nella chiesa di San Silvestro, sempre nel Sestiere di San Polo, dove costruirono a ridosso delle mura della chiesa una loro grossa e sontuosa sede a due piani ancora esistente e visibile.


Nel 1567 la Schola stipulò un accordo col Capitolo dei Pretidella chiesa di San Silvestro dal quale ottenne l'assegnazione dell'altare della "Madoneta" e di quattro arche per la tumulazione dei confratelli.

Vent’anni dopo, nella Schola de Mercatandi de Vin insegnava a 20 alunni Bartolomeo Partenio laico di 45 anni, che si qualificava rasonato, e già da 8 anni Blasius Pellicaneus, laico di Treviso di 32 anni, che insegnava: “Leger, scriver, abbaco e tenir conto et librii doppii..”

Teneva scuola aperta “ …el dì de lavoro et la festa spiegando …Salterio, el Donado, el Fior de Virtu’, la Vita de Marco Aurelio Imperator … faceva lexer sul Legendario de Santi, Epistoli, Evangelii vulgari, la vita de diversi santi ... ad alcuni lezeva l’Ariosto…”


Nel 1773 gli iscritti associati alla Schola-Associazione di Mestiere erano ufficialmente 18 sebbene gli addetti al mestiere fossero più di 400, mentre vent’anni dopo esistevano: 42 iscritti.


Ancora nel 1777 i Provveditori sopra la Giustizia Vecchia concedevano secondo le antiche consuetudini il permesso di vendita del vino nei giorni festivi e nelle domeniche alle due "rive" di Rialto e San Marco; era proibito però venderlo nelle solennità di Natale, Pasqua, Pentecoste, Corpus Domini, Ascensione, Annunciazione e le Feste della Madonna della Salute e del Redentore.




“PIZZOCCHERE … A VENEZIA!”

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“UNA CURIOSITA’ VENEZIANA PER VOLTA” – n° 54.


“PIZZOCCHERE … A VENEZIA!”


E dopo i luoghi della Venezia di un tempo … scrivo delle persone, che sono quelle che danno un senso ai posti.

Casualmente giorni fa ho ascoltato i discorsi di alcuni turisti che bighellonavano in giro per Venezia.


“Corte delle Pizzocchere ? … Saranno state forse delle merlettaie, delle artigiane dei pizzi …” dicevano ignari e poco curiosi di saperne di più.


Macchè ! Sbagliato del tutto ! Niente merlettaie dei pizzi.


Bisogna considerare che personaggi nobili, mercanti, Dogi, condottieri, artisti e Santi hanno lasciato a Venezia vistose tracce e vicende, inducendo ancora oggi tutta una schiera di ricercatori a produrre cascate di studi, scritti e informazioni … Altri personaggi, invece, sono rimasti quasi anonimi, perché sono stati vite ignote e nascoste, quasi anonime, ma per questo non insignificanti.

Le Pizzocchere appunto, appartenevano a queste categoria di persone poco significative. Sono state persone che hanno vissuto un’esperienza ibrida, popolare e di Contrada, a cavallo fra religioso e laico qualsiasi. Un piccolo esercito industrioso sparso per la città, che però ne è stato come l’anima, la parte “buona e generosa”, mi verrebbe quasi da dire: “la parte migliore”, seppure rivestite di una semplicità e identità qualsiasi.


“Zitelle ? ” direte.


No. Ben di più. Una vera e propria presenza sussidiaria, talvolta eccentrica, che ha integrato per secoli l’economia e le vicende della città Serenissima. Le Pizzocchere o Pinzochere, che dir si voglia, non sono state un fenomeno esclusivamente veneziano, ma diffuso in gran parte dell’Italia e dell’Europa sotto denominazioni e diciture simili o analoghe. Esistevano anche a Firenze, per esempio, e si possono assimilare facilmente alle Beghine nordiche che però erano più irreggimentate, facoltose, e regolate e chiuse dentro alle loro cittadelle. Qui a Venezia, invece, si trattava di solito di donne non più giovanissime, seppure non ancora bacucche, affiliate ai vari Terz’Ordini religiosi dei Francescani, Domenicani, Agostiniani, Carmelitani, Serviti, Orsoline o filoni spirituali similari presenti in città e nelle isole della laguna in abbondanza.


Il concetto, l’identità di “Pinzochera”non era di certo sinonimo di “bacchettona”e “bigotta”, anzi. Si trattava quasi sempre di donne con una certa tempra interiore, che avevano anche vissuto parecchio. Talvolta erano nobili decadute, figlie misconosciute, “malmaritate”, mogli di carcerati, ex prostitute, mogli sostituite accantonate e sostituite da amanti giovani e avvenenti, vedove dalla famiglia numerosa o provate da avversità personali e familiari. Erano donne decise a voltar pagina della loro vita decidendo di dedicare se stesse alla cura dell’Animo e soprattutto alla carità disinteressata verso gli altri più bisognosi. Vanno pensate soprattutto come volontarie dell’assistenza che cercavano e aiutavano le varie realtà di miseria presenti a quell’epoca in massa anche a Venezia. Nella pratica concreta finivano con l’occuparsi di malati, orfani, vedove, moribondi, vecchi, carcerati e realtà similari.

Non erano sempre “fior di farina”, nè sessuofobe spente, ma sapevano vivere spesso da spartane e austere penitenti solitarie.  Niente zitelle, quindi, anche se assumevano e conservavano spesso quello stile aspro, essenziale, quasi acido nel proporsi e rapportarsi con gli altri tipico di quella categoria di donne. In realtà si trattava di donne in autodifesa, attente a non rimanere irretite e impelagate in nuove relazioni difficili da cui erano già uscite, o per le quali provavano una certa legittima ripulsa.


Le Pizzocchere erano laiche, non monache e religiose, ma talvolta assumevano voti, ed erano caratterizzate se non da un vero e proprio abito distintivo ma sicuramente da un “modus vivendi” povero e diciamo virtuoso, con solo un tetto sulla testa, la minestra quotidiana, e pochi effetti personali. Si pensa, infatti, che il nome di Pinzocchera derivi dal tessuto grezzo non tinto, ossia: “bigio” o "bizzo" o grigio, ottenuto tessendo insieme lana bianca e nera. Quindi dal tessuto "pinzo" o “binzo”derivò il nome popolare di: "Pinzocchera"o "Binzocchera".


Qualcun’altro spiega la dizione “Pinzochera” facendola derivare da “bizza”, ossia “Bizzocchera”, ad indicare un genere di donne bizzosa, bisbetica, permalosa, pettegola e irascibile insieme, come appunto usano essere certe zitelle.


A Venezia le Pizzocchere erano numerose, un piccolo esercito, e vivevano spesso aggregate in “caxette”messe a disposizione da Nobil Homini e Nobil Donne filantrope e munifiche. Questi, concedevano gratis, ossia “Amore Dei”, alcune loro proprietà e risorse col fine di accumulare meriti presso il Cielo, e salvaguardarsi così l’Anima per l’eternità. Qualche secolo fa ci credevano moltissimo a queste cose, non solo a Venezia, e chi più possedeva e offriva più poteva garantirsi “un posto al sole” nell’Aldilà.

Altre volte le Pizzocchere vivevano ospitate direttamente in casa di nobili facoltosi, oppure affiliate e aggregate ad Ospizi e Ospedaletti nei quali prestavano in continuità il loro servizio caritatevole. Di frequente le Pizzocchere soggiacevano alla guida autorevole di un Priore o una Priora, e avevano spesso come guida spirituale un qualche Prete o Frate, o facevano riferimento e partecipavano alla vita di qualche vicino convento o monastero.

Le Pizzocchere, seppure non tutte, erano donne molto devote, disposte a correre nella chiesa più vicina ad ogni campanella che chiamava, partecipavano e cantavano alle celebrazioni dei matrimonio, alle processioni, e ai funerali di chiunque viveva nella loro Contrada. Pulivano, addobbavano gli altari e le chiese, e fungevano da veri e propri 007 nell’aggiornare Frati, Monache, Piovani, ma anche i Magistrati della Serenissima sulle situazioni più difficili e piccanti che accadevano in ogni angolo della città.

Un piccolo esercito discreto e silenzioso, fedelissimo alla Serenissima, sempre pronto a “ficcanasare” e “saper tutto di tutti” in cambio di un po’ di considerazione, sussidio e protezione. Per questo motivo le Pizzocchere erano di frequente soggette a dicerie calunniose di ogni tipo, e più di qualche volta godevano di fama ambigua e di una certa nomea talvolta viscida e ingannevole. Erano pur sempre “occhio e orecchio, e longa manus” dei poteri costituiti come il Potere Dogale e la Chiesa dei quali venivano considerate alleate e in combutta… e qualche volta era anche vero.


Col passare dei secoli, le Pizzocchere di Venezia si sono confuse e incrociate con l’antica tradizione delle “Cameriste”, ossia di vedove ospitate in Ospizi e Ospizietti, mogli di reduci al servizio della Serenissima, mezze dame di compagnia di graziose e generose donne nobili, matrone benefiche e virtuose. Venezia pullulava di istituzioni e realtà simili, ce n’erano davvero tante, sparse quasi per ogni Contrada e Sestiere cittadino.


La lista per censire la realtà delle Pizzocchere veneziane sarebbe lunghissima. Di Pizzoccheresi parla nel Sestiere di Castello, nelle Contrade di Sant’Anna, San Domenico, San Pietro e San Giuseppe in Calle Secco Marina e Calle delle Furlane.


Nel 1564 le Pizzocchere Terziarie di San Domenico di Castello spesero e contribuirono per 2 ducati e soldi 16 alla festa di Santa Caterina da Siena nella Scuola Grande di San Marco, e offrirono 3 ducati per acconciare la chiesa, e 4 ducati e soldi 8 per il pasto comune dei congregati.

Cassandra Fedele fu “Priora del Hospeal de le Donzele appresso San Domenego". Visse fino a 102 anni morendo nell’agosto 1558, e fu donna formidabile, lesse nello studio di Padova dove trattò di cose di medicina, disputò in teologia, cantò versi in latino, e compose opere di un certo spessore letterario. I documenti raccontano che: 

“ … diventata d’età decrepita andò a fare testamento in chiesa di San Bartolammeo di Castello eleggendo suoi esecutori testamentari l'Avvocato Benedetto Lio suo nipote, e fra' Zuane Foresto dell'Ordine dei Predicatori Domenicani. Volle inoltre essere sepolta in chiesa di San Domenico (che oggi non esiste più) di cui beneficò il convento. Lasciò i suoi libri ai figli dello stesso nipote Benedetto Lio con la moglie Antonia, al quale lasciò anche una porzione di casa in Calle della Testa a SS.Giovanni e Paolo…” Cassandra Fedele era una Pizzocchera vissuta di fronte alla chiesa di San Francesco di Paola nel Sestiere di Castello.


Sempre a Castello, nel Campo de la Confraternita a San Francesco della Vigna fra 1459 e 1471, per opera di Maria Benedetta sorella del principe Amedeo di Carignano e della Nobil Donna Angela da Canal si raccolsero in un Ospizio delle Pizzocchere”trentadue donne Pinzocchere Terziarie Francescanededite al sostentamento ed educazione di fanciulle orfane e povere accudite fino alla maggiore età.

Nel 1575-1580 le Pizzocchere di San Francesco della Vignapossedevano anche una casa in Contrada di Sant’Aponal presso Rialto affittata al libraio e stampatore Gasparo Bindoni.


Nel 1612, invece, Ruggeri Ruggero quondam Bortolomio mercante drappier con suo fratello Alessandro con bottega in Drapperia all’insegna dei Tre San Marchi testò a favore delle Pizzocchere di San Francesco della Vigna che possedevano anche dei livelli su dei terreni a Maerne di proprietà di Franceschina degli Accesi o Accenti Pizzocchera di San Francesco della Vigna, che lasciò a sua volta per testamento “un quadro dell’Annunciata” al Monastero di San Giovanni in Laterano in Venezia, ed un “Padre Eterno” al Ministrado o Sala del Terzordine Francescano delle Pizzocchere della Vigna.

Cinquant’anni dopo, le Pizzocchere di San Francesco della Vigna possedevano 91 ducati di rendita annua proveniente da beni immobili posseduti in Venezia per i quali pagavano soldi 8 e denari 3 di tasse. Suor Maria Pelicioli dello stesso Collegio delle Pizoccare pagava, invece, soldi 3 denari 5 per rendite personali.


Solo secoli dopo, nel 1727, le Pinzòccare assunsero il titolo di Comunità religiosa vera e propria riconosciuta dalla Serenissima, che nel settembre 1746 ordinava: “…sia corrisposto un burchio di acqua gratis all’anno alle Terziarie di San Francesco della Vigna…”
Nel maggio 1811 il Demanio della solita bufera napoleonica incamerò proprietà e denari della piccola Istituzione e impose alle undici Pizzocchere di chiudere tutto e ritirarsi con altre Pizzocchere in uno stabile di fronte a San Francesco della Vigna in Contrada Santa Giustina. I luoghi delle Pizzocchere furono destinati a Tribunale Militare e in seguito vennero venduti a privati che ne ricavarono abitazioni fino al 1838 quando i Frati Francescani riacquistarono l'immobile costruendo due cavalcavia (uno oggi residuo e l’altro demolito) che lo univa con l’ex Palazzo della Nunziatura, con la Schola de Devozion de San Pasquale Baylon e con la chiesa. Incredibilmente, nel 1866 si citavano le Pizzocchere ancora presenti e attive nella zona di San Francesco della Vigna.


Nel 1433 Allegranza Bianco per testamento lasciò la proprietà di casa e orto alle Muneghette di Castello in Contrada di San Martin.

Fin dal 1616 si segnalavano presenti delle Pizzocchere o Terziarie Domenicane riunite in un’unica casa ai Santi Apostoli, in seguito associate a quelle che abitavano al Conservatorio delle Pizzoccherete o Muneghette o Venerabili Madri o Terziarie Domenicane di Santa Maria del Rosario in Contrada di San Martino di Castello. Pare che vennero accettate come le Muneghete o quasi Monachelle o Terziarie solo donne ancora vergini di modesta condizione economica per dedicarsi all’esercizio delle “Opere di Misericordia” ed insegnare la Dottrina Cristiana alle fanciulle..

Nel 1661 le Pizzocchere di San Martin percepivano una rendita annua di 154 ducati da immobili posseduti in Venezia, mentre nel 1680 i Preti del Capitolo di San Martin non vollero più celebrare le Messe nell’Oratorio delle Pizzocchere perché: “…ardirono esponere casselle pubbliche, tenir aperto l’oratorio tutto il giorno, farvi dir messa da sacerdoti fuori del capitolo con amministrazione dei sacramenti, benedizione delle ceneri, esporre il cristo per l’adorazione il venerdi’ santo ed latre fontioni, che s’aspettavano solo ai parrochi…”.

I Governatori delle Scuole di San Cristoforo e Sant’Orsola le fecero riprendere, e stipularono una convenzione con le Pizzocchere per spostare l’altare della chiesa, così da risultare fuori dalle chiassose camere sovrastanti delle Pizzocchere.

Il 18 marzo 1750, quando ancora le Pizzocchere di San Martin possedevano una rendita annua di 153 ducati da immobili siti in Venezia, il Senato decretò che: “Il Collegio delle Terziarie Pizzocchere, beni e rendite tutte … rimanessero sotto la protezione pubblica, annesse ed aggregate alla chiesa ducale di San Marco”, ossia le Venerabili Madri venivano tolte dallo jus dei Preti di San Martin per passare sotto il diretto controllo del Doge.


Ovviamente nel 1805 con Napoleone tutto venne chiuso e le Pizzocchere disperse e rimandate a casa dei propri familiari e congiunti. Nel 1884 nell’edificio occupato un tempo dalle Pizzocchere si radunarono tutte le donne anziane, vedove, e povere sparse per gli Ospizietti e gli Hospedaletti della città: Ospizio Querini di San Pietro di Castello, Ospizio Pesaro a San Giacomo da l'Orio, l'Anticher o Ospissio del Moriòn a Santa Ternita; il Della Frescada a San Vio. Ancora oggi quegli ambienti sono stati trasformati in moderno Ospizio capace di ospitare quaranta donne anziane sole.


Passando in altri Sestieri e Contrade di Venezia, nell'estimo del 1661 si ricordano certe donne che abitavano nella parrocchia dell'Anzolo Raffael nell’“Ospedaletto della Maddalena sive Pinzochere … Portano il nome di Pinzochere … e si dedicano ad esercizi spirituali negli Ospizii fondati dalla pietà cittadina pur vivendo nel secolo ...”

Nei pressi di Santa Marta nel Sestiere di Dorsoduro c’erano Pizzocchere Orsoline, esistevano Pizzocchere a San Maurizio vicino a San Marco, Pizzocchere in Contrada di San Cassiano e ai Frari nel Sestiere di San Polo dove il 29 gennaio 1739 un decreto della Serenissima ordinava: “…sia corrisposto un burchio di acqua all’anno gratis alle Terziarie di San Francesco ai Frari…”


Nel Sestiere di San Marco esisteva anche l’Ospizio di San Gallo in Corte delle Orsoline o Pizzocchere Orsoline.

L’Istituzione era l'erede dell'Ospissio Orseolo collocato in Piazza San Marco, il cosìdetto Ospeal da Comun o Hospizio o Spedàl de San Marco collocato presso il campanile. Quando nel 1581 l’Ospizio Ducale fu demolito per costruire le Procuratie Nove sul lato meridionale della piazza, l’Istituzione fu spostata nel Campo Russolo o Orseolo o di San Gallo sempre in Contrada San Ziminian dove esistevano altre proprietà di famiglia Orseolo, divenendo l’Ospizio delle Pizzocchere Orsoline. L’area dell’Ospizio era occupata da 5 caxette in una Corte con pozzo, e da una sesta caxetta riservata al Priore con due finestrelle in corrispondenza dell’altare dell’Oratorio di San Gallo.

Sopravvissuto agli editti napoleonici e agli interventi di riordino urbano degli Austriaci, nel 1867 l'Ospissio venne smembrato e venduto a più riprese per formare il nuovo Hotel Cavalletto. Le Pizzocchere Orsoline furono trasferite in Contrada di  Sant’Angelo in Corte dell’Albero presso la Fondamenta Narisi, le 5 caxette demolite, lasciando solo una facciatina esterna, due iscrizioni, e il toponimo di Bacino, Rio e Fondamenta Orseolo.

Fin dal lontanissimo1383 si segnalano presenti le Pizzocchere Agostiniane di Santo Stefano in Calle del Pestrin e Corte delle Pizzocchere in un casa di proprietà della Nobile Famiglia Da Lezze il cui stemma campeggia ancora all’ingresso della Corte e sul Pozzo. Erano chiamate anche Mantellate o Terziarie Agostiniane, e s’incaricavano della vestizione del simulacro della Madonna, e si prestavano anche per la vestizione dei morti che ne richiedevano per testamento il loro intervento. In chiesa gestivano e curavano un altare dedicato a Santa Monica madre di Sant’Agostino, e utilizzavano un arca tombale con l’effige di una donna vestita da Terziaria affittata dai Padri Agostiniani di Santo Stefano posta nel chiostro lungo il muro della chiesa che porta del convento. Ancora nel 1686 le Pizzocchere di Santo Stefano erano 14, e presentarono una supplica per poter comprare lo stabile dove abitavano.


In Corte delle Pizzoccare in Calle del Ridotto a San Moisè esisteva l’Ospissio delle Pizzocchere Terziarie istituito dalla volontà testamentaria del Nobile Francesco Giustinian che abitava alla fine della Calle del Ridotto. La rendita del legato a favore delle otto Pizzoccare era amministrata dai Procuratori de San Marco de Supra che dispensavano alcune caxette nel “Sottoportico e Corte delle Pizzochere” a donne povere.


Nel Sestiere di Cannaregio, invece, esisteva un Conventino di Pizzocchere Servite in Fondamenta di San Girolamo.

Nel 1525 lo stabile era stato loro donato da Matteo figlio di Nicolò Lucchese alle Pizzocchere che si occupavano dell'educazione di ragazze povere. La Storia ricorda che in quel luogo visse la Pizzocchera diventata Monaca Maria Benedetta Rossi fondatrice in seguito (si dice) di ben due Monasteri Veneziani: quello di Santa Maria delle Grazie a Burano, e di Santa Maria del Pianto di Venezia.


In Contrada di Santa Maria Nuova a San Canzian, sempre nel Sestiere di Cannaregio, dove oggi si tiene ogni tanto un mercatino, esiste ancora la “Corte delle Pizzochere”dove altre povere venivano ricoverate in sedici “alberghetti”gestiti dai Procuratori de San Marco de Citra applicando la Commissaria testamentaria di Antonio dal Deserto che volle istituire per sedici Terziarie Pizzoccare delle caxette con piccola cucina e stanza da letto.


Curiosissime sono, invece, le vicende della Contrada di San Marcuola, dove vivevano di preghiera, penitenza ed elemosine le Eremite-Romite di San Marcuola seguendo la regola di Sant’Agostino. Nel loro genere erano una delle realtà più antiche presenti in città. Inizialmente si trattava di tre Pizzocchere che abitavano un solaio situato proprio sopra al tetto della chiesa di San Marcuola. Vi accedevano dal portico antistante attraverso una scaletta appoggiata al muro della facciata. Possedevano un piccolo Oratorio dotato di paramenti e ornato da dipinti di Girolamo Pilotti, Matteo Ponzone e da un “Sant’Agostino e San Gerolamo” di Palma il Giovane, opere tutte finite nella sacrestia delle Romite di San Trovaso nel Sestiere di Dorsoduro. Sopra l’Oratorio di trovava il dormitorio costituito da piccole e modeste stanzucce il cui ampliamento venne sempre contrastato e proibito dai Preti del Capitolo di San Marcuola.

Nel 1486 Papa Innocenzo VIII concesse alle religiose di avere un loro sacerdote che le guidasse, e di poter guardare dentro alla chiesa e partecipare alle liturgie che vi venivano celebrate attraverso due finestrelle prospicenti dall’alto all’interno.

1561 il Patriarca accordò il permesso di alzare il tetto del Romitorio e pochi anni dopo il Nunzio Pontificio concesse loro finalmente la facoltà di svincolarsi dalla giurisdizione del Piovano-Parroco di San Marcuola.

Nel 1669 Clemente IX confermò l’autonomia delle religiose, ma nello stesso anno una grossa infiltrazione sul tetto costrinse all’intervento il famoso architetto Baldassare Longhena inviato dai Provveditori Sopra ai Monasteri.


Baldassare Longhena scriveva ai Provveditori: “…trasferir mi debi sopra locho dalle Reverende Madri Romite, quale confina con la chiesa di San Marcuola et veder la giesola di dette reverende madre, che son in solaro sopra il sottoportico di detta chiesa et veder ogni parte, se son sicure ovvero se minaziase ruvina…ho veduto l’altar in detta chiesola di esse reverende madri è fabbricato sopra la travatura molto debole et in diverse parti offesa verso il muro della scala, asende in detta giesola. Visto la piana over lapide  che sopra quella si celebra le santissime messe, qual è calatta dalla debolezza di detta travatura, onde farebe bisogno di riparar tale pericolo, inspesir detta travatura et poner un fillo con modioni di piera viva sotto per sustentar ancho la travatura vechia,a ciio’ l’altar non fazi maggior mossa, et chosi’ si riparerà il pericolo prossimo…”


Fu così, che nel 1679, quando le Pie donne Pizzocchere erano diventate sei, che si chiuse definitivamente il Portico cadente antistante la chiesa di San Marcuola, e le Pizzocchere Romite furono costrette a trasferirsi in Contrada di San Trovaso. Lì, nella bella e spaziosa nuova sede, le Pizzocchere divennero 28 e nel 1740possedevano una rendita annuale di 40 ducati da beni immobili sparsi in Venezia.


L'edificio su due piani con corte interna che accolse l’Ospizio delle Pizzocchere Servite a Santa Maria dei Servi vicino a Santa Fosca in Strada Nova, venne donato nel 1525 da Matteo figlio di Nicolò Lucchese ad alcune Pie donne che vi si rinchiusero sotto la Regola del Terzordine dei Servi di Maria dedicandosi all'educazione di povere fanciulle. La comunità arrivò a contare fino a ventotto Pizzocare. Fra queste visse Maria Benedetta Rossi che fondò il monastero delle Grazie a Burano e la chiesa con monastero di Santa Maria del Pianto alle Fondamente Nove. Riuscì a convincere il Senato della Repubblica di Venezia a sborsare i fondi necessari per la costruzione convincendolo che in quel modo la Beata Vergine Maria avrebbe soccorso la Serenissima impegnata nella guerra di Candia contro i Turchi.

Ancora nel 1887 il piccolo complesso fu restaurato e modificato, e si riutilizzò assieme al “Morion di Castello”come secondo Asilo Notturno per poveri. In seguito si chiuse tutto e si lasciò l’edificio in completo abbandono.


Infine, dall’altra parte di Venezia, a San Giacomo della Giudecca in Fondamenta del Redentore, c’erano le “Terziarie Servite di Santa Maria Vergine” associate a quelle di San Girolamo di Cannaregio.

Ecco qua ! … un po’ raccontate le Pizzocchere di Venezia.


Tutto quest’apparato è sopravvissuto a Venezia per secoli, ed è stato spazzato via dal solito Napoleone che in fretta e furia ha disperso le persone, in tal caso le Pizzocchere, ha indemaniato tutto, incamerato le risorse finanziarie, venduto gli edifici e saccheggiato ogni cosa e oggetto di valore lasciando scheletri in rovina e abbandono. Circa alla fine del 1800 la maggior parte di questa fitta rete di Istituzioni è stata “riciclata negli spazi” e trasformata quasi sempre in abitazioni private cancellando quel poco che rimasto ancora attivo.

Oggi rimane qualche toponimo, qualche documento e memoria, e poco più … Credo che le Pizzocchere a Venezia e altrove non esistano più. La maggior parte delle loro caxette sono state vendute e riattate, o incorporate dagli Enti assistenziali cittadini. Le poche caxette rimaste sono occupate da uomini e donne qualsiasi, spesso soli e autosufficienti ma privi di quell’attitudine caritatevole e di quello spessore interiore che possedevano le Pizzocchere di un tempo.


Sono certo d’aver conosciuto durante le mie precedenti esperienze esistenziali una delle ultime autentiche Pizzocchere di Venezia.


Era una donna piccina, minuta e graziosa al confine col fragile, ormai anziana negli anni ma non certamente nell’animo. Una donna di poche parole, riservata ma davvero tosta, che aveva interpretato e vissuto con assiduità e profonda coerenza per lunghe stagioni della sua vita i principi cristiani e anche gli indirizzi politici e sociali del partito politico Democristiano di qualche decennio fa. Una donna salda, depositaria certa di tutta una serie di valori anche semplici che oggi in gran parte sono stati smarriti. Una discendente autentica delle antiche Pizzocchere, insomma. Abitava in una delle dieci camerette del Ramo Cappello una Calletta laterale del famoso Campo Santa Margherita. Si trattava di una delle ultime serie di caxette ancora attive destinate dall’I.R.E. a donne sole di una certa “qualità e serietà”.


Quando l’ho conosciuta aveva ormai già “vissuto e dato generosamente” a causa di quelle qualità interiori che si portava dentro. Aveva servito, curato, assistito per lunghi anni, e in quei giorni in cui l’ho incontrata s’era ormai quasi arrestata per dedicarsi a vivere una tranquilla vecchia. Per capirci era una donna da preghiere più volte al giorno e Messa quotidiana, ma non era per niente bigotta, anzi, era liberalissima su certe tematiche e molto più aperta di tante giovani donne di oggi.


A volte mi stupiva per quanto era lungimirante, critica e spietata nelle sue analisi socioreligiose.

Altre volte mi faceva tenerezza, soprattutto quando mi raccontava delle sue lunghe degenze in ospedale dove trovava allo stesso tempo l’opportunità da degente di servire e accudire chi non aveva nessuno accanto. Una donna da sposare ! Solo che lei non aveva mai sposato nessuno, era rimasta libera: guai a dirle Zitella, s’arrabbiava di brutto.


“Quelle sono donne acide, avvizzite, prive di nerbo e sentimenti … Io sono un’altra cosa …”


Ed era vero, non potevo dirglielo neanche per scherzo, anche se mi piaceva vederla avvampare e incazzarsi in una maniera che solo lei sapeva interpretare.


La salutavo sottovoce a posta quando la incontravo: “Buongiorno zitella !”


E lei avvampava d’ira ogni volta pur sapendo che non la volevo assolutamente offendere.


“E’ più forte di me …” si giustificava, “Solo il pensiero mi fa accendere e infastidire.”


Ma poi ci ridevamo sopra ogni volta, e dopo un attimo era tutto passato.


“Tento te … giovanotto…” mi diceva, “Che una volta o l’altra ti sistemo per le feste nella maniera che manco te l’aspetti …”

E credo sarebbe stata davvero capace di farmi qualche sorpresa, se le vicende della nostra vita non ci avessero portati entrambi altrove ... Ricordo le sue linde camicette a fioretti, il suo profumo di pulito, il suo scialle invernale, le sue scarpine da bambola, il suoi capelli imbiancati raccolti sulla nuca, gli occhi cisposi e socchiusi sopra un eterno sorriso imbarazzato ma sincero. Era talmente riservata, rispettosa e gentile, che quando rideva si metteva una mano davanti alla bocca per non disturbare soffocando i singulti del ridere.

Una bella figura, una persona squisita in estinzione. Mi ritengo fortunato d’averla incontrata e conosciuta.


“Ha mai avuto un moroso ?” le chiesi indiscreto un giorno in totale confidenza.
“Sì. L’ho amato per sempre…anche se non l’ho baciato neanche una volta se non sulla fronte quando è morto.” E dicendo questo estrasse dalla scollatura una catenina con un ciondolo che aprì. All’interno c’era la foto in bianco e nero di un bel giovanotto sorridente dall’occhio vispo.
“L’ho assistito fino all’ultimo istante. Era tisico, ha vissuto per anni in un sanatorio. Ma mai abbiamo scordato quanto abbiamo provato alla sagra di paese quando ci trovavamo tutte le sere per ballare e guardarci negli occhi…”


A ripensarci sembra una fiaba raccontata … Invece era realtà in carne ed ossa che ho incontrato e abitava a Venezia. Diverse volte la trovavo incantata davanti a un dipinto o a disporre un mazzo di fiori in un vaso in un modo che solo lei sapeva predisporre. In quei momenti canticchiava qualcosa, e ogni tanto sorrideva e socchiudeva gli occhi.


Chissà a che cosa pensava ?


“SAN ANGELO DI CONCORDIA … ALLA GIUDECCA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 54.


“SAN ANGELO DI CONCORDIA … ALLA GIUDECCA.”


Qualche giorno fa ci siamo lambiccati in diversi, quasi per scherzo, nel provare a riconoscere da alcune vecchie foto altrettante chiese veneziane dimenticate o scomparse. Ne sono uscite delle belle … e dopo diversi tentativi abbiamo riconosciuto in alcuni di quei vecchi “biancoenero” le poche tracce della chiesetta di San Angelo di Concordia alla Giudecca in Venezia.

C’è subito da dire che esiste un po’ di confusione nei documenti e nei testi, perché in molti confondono la chiesuola della Giudecca con l’isoletta di San Angelo delle Polveri o di Caotorta che sta dietro e in fondo verso il Lido e Malamocco. In questi giorni si parla molto di quest’ultimo nome, perché è anche quello del canale omonimo che si vorrebbe allargare e scavare per far passare in laguna le Grandi Navi dirette alla Marittima di Santa Marta evitando il bacino di San Marco e appunto il Canale della Giudecca.


Oggi l’intera grande isola veneziana è di fatto gestita dall’isola di San Giorgio Maggiore (dove sopravvivono pochi Monaci Benedettini, solo pallido riflesso dell’antica prestigiosa Abbazia di un tempo), fino a Sacca Fisola di fronte alle banchine del Porto di Venezia dai soli Frati Cappuccini del Redentore che prestano il loro servizio religioso a tutti i Giudecchini e gli abitanti di Sacca Fisola.

Le ultime parrocchie di San Eufemia e San Gerardo Sagredo sono resistite come hanno potuto fino a qualche anno fa. Ora la carenza cronica di Preti e la diminuzione vistosa della frequenza religiosa hanno indotto la Diocesi di Venezia ad accorpare e riorganizzare le poche forze rimaste tentando una gestione d’insieme più consona con i tempi che viviamo ... e col ridottissimo numero dei fedeli e delle risorse vantate dalla Chiesa (?).


Un tempo non fu così.

Fino all’arrivo del solito micidiale Napoleone & C, la Giudecca al pari di tutte le altre Contrade veneziane era ricchissima di chiese, monasteri, oratori e istituti religiosi ed assistenziali di varia natura. E’ interessante elencarli e provare a riconoscerli nelle scarse tracce rimaste di alcuni o in quelle più vistose rimaste di altri.

Partendo appunto da San Giorgio Maggiore, subito dopo il taglio del canale che porta in laguna aperta, dove oggi sorge la Caserma della Guardia di Finanza, esistevano la Chiesa e il Monastero di San Giovanni Battista. Poco distante sorgevano Chiesa e Convento di San Giacomo di Galizia o Santa Maria Novella gestita dai Frati Serviti, e poco più avanti il complesso delle Zitelletutt’ora rimasto in piedi. Poco prima della grande chiesa devozionale e votiva per la peste del Redentore sempre condotta dai Frati Cappuccini, sorge ancor oggi seppure dimenticata e quasi non vista, la Chiesa e Monastero delle Monache Benedettine della Santa Croce, oggi Casa di Lavoro Circondariale Femminile (se non sbaglio). Dietro al Redentore, verso la laguna sul retro dell’isola c’era San Angelo di Concordia, mentre più avanti, subito dietro alla Parrocchiale di San Eufemia o San Femia, sorgevano altri due monasteri: quello delle Monache Benedettine di San Cosma e Damiano, e quello sempre di Monache Benedettine di San Biagio e Cataldoche sorgeva dove oggi c’è il rinato Hotel ex Mulino Stucky.

Fra l’uno e l’altro, in seconda fila, sul canale interno della Giudecca, sorge ancora oggi l’altro complesso di Santa Maria Maddalena delle Convertite da molto tempo diventato Penitenziario Femminile. E infine, dopo il lungo ponte moderno, sull’estrema punta della Giudecca fra i palazzi della relativamente neonata Sacca Fisola, sorge la chiesa moderna di San Gerardo Sagredo.


E’ questo, quindi, il quadretto della presenza religiosa nei secoli nell’isola della Giudecca. Sarebbe strepitoso soffermarsi su ciascuno di questi siti, perché ciascuno possiede mille storie e curiosità da raccontarci, purtroppo spesso quasi dimenticate, o perlomeno lasciate all’attenzione dei così detti “studiosi e addetti ai lavori”.


Ritornando e soffermandoci, invece, e solo per un attimo, semplicemente e senza pretese, su San Angelo di Concordia, bisogna dire che si è rivelato essere nel suo piccolo un microcosmo non privo di sorprese curiose … almeno per me.


Era situato all’estremo limite della Giudecca di allora, dove forse si trovava uno stazio o tragetto di barche e di gondole.

Sembra che San Angelo sia stata così denominata dalle tre sorelle della famiglia Zuccato, che furono le prime a vestire la così detta “concordia” dell’abito di San Benedetto nel monastero fondato da Angelo Zuccato loro padre ... o più facilmente si chiamava forse così per la figura d'un angelo scolpita sulla facciata del Convento e ritrovata in precedenza sul posto.


Dopo alterne vicende un po’ vaghe che ricordano periodi di probabile benessere economico con annessioni di proprietà e di lasciti, il Convento di San Angelo fu rifabbricato nel 1600 e la chiesa consacrata da Raffele Iviziato Vescovo di Zante e Cefalonia col titolo di “Gesù Cristo nostro Salvatore” pur mantenendo il vecchio nome di San Angelo di Concordia.


Quel che è certo, è che nel maggio 1635 i Carmelitani Scalzi dell’Ospizio di San Canciano di Cannaregio passarono in questo chiostro e fondarono il nuovo Hospitale di Santa Teresa di Venezia adattando il convento a piccole celle con officine, oratorio e orto-giardino. Il Conventino però non doveva navigare molto nella prosperità economia e nell’agiatezza, perchè nel luglio 1643 il Priore fu costretto a chiedere aiuto alla Signoria Serenissima di Venezia per indurre la Congregazione Mantovana dei Carmelitani di appartenenza a versare i contributi necessari a mantenere in vita il monastero veneziano. L’immediata esortazione Ducale non deve aver sortito però grande successo, perché cinque anni dopo i Carmelitani si trasferiscono a San Gregorio lasciando solo qualche religioso a San Angelo della Giudecca.


Qualche anno dopo, in un lunedì di febbraio1666, il conventino tornò ad apparire nella cronaca dei fatti di Venezia perché alcuni Frati di San Angelo della Giudecca si ferirono a coltellate fra loro lasciandone uno moribondo.

Nel 1697 i Frati di San Angelo erano 8, e all’inizio del 1700 Marco Ferrando, “scorzer” di mestiere, eresse a sue spese un nuovo altar maggiore. Costui ebbe un figlio di nome Zuane, anch'egli “scorzer” che secondo gli Anagrafi Sanitaria morì il 5 aprile 1767 alle ore 18 a 67 anni: “… spasmodico e chachetico con febbre … assistito dal Medico Zuccharelli di Sant’Eufemia”.


Secondo una mappa del 1763 il piccolo complesso di San Angelo di Concordia, costruito in pietra e in parte in tavole di legno, si estendeva per cica 30 passi di fronte alla laguna sul retro della Giudecca su cui aveva un suo pontile privato per le barche. Dalla parte di terra era quasi circondato dalle proprietà di Antonio Venerando. Possedeva un ampio orto con frutteto, e 4-5 stanze per lato e un ampi dormitori per parte sorgevano intorno a un chiostrino lastricato di masegni col pozzo in mezzo. Alla chiesetta che possedeva un suo bell’organo, si accedeva lungo una Fondamenta con lo stesso nome e attraversando un suo campiello antistante. La chiesetta doveva essere essenziale ma non tanto brutta, aveva tre altari con dipinti di Odoardo Fialetti e il soffitto con due dipinti del Petrelli: “Paradiso” e “Madonna che da l’abito a San Simone Stoch”.


Nella chiesetta di San Angelo di Concordia erano presenti ed attive ben tre Scuole Piccole di Devozione. La Compagnia di San Alberto fondata nell’agosto 1739 contava 50 Confratelli nel 1760, e pagava i Frati perché venisse celebrata 1 Messa cantate e da 5 a 12 “Messe basse o lette” per i propri associati. La Compagnia faceva pagare ogni anno agli iscritti della Schola: 3 lire + 10 soldi raccogliendo in totale il piccolo capitale di 21 ducati e 21 grossi da spendere per le funzioni dell’Associazione. Infatti contribuivano ai Frati di San Angelo di Concordia: 15 ducati e 12 grossi annui e nella sacrestia della chiesetta giunsero a conservare 478 once d’argento in oggetti sacri fino alla soppressione della Compagnia che avvenne nel 1754.


La seconda Schola ospitata dai Frati di Sant’Angelo di Concordia in Fondamenta della Palada era quella della Beata Vergine Rosario, un’Associazione di devozione dei pescatori della Giudecca, che fino al 1758 celebravano ogni anno una festa pomposa con una solenne processione in giro per l’isola. I Giudecchini entusiasti cantavano e sparavano per far festa colpi di moschetto in aria … ma in quell’anno venne ucciso un bambino con un colpo accidentale.


La terza e ultima Schola di devozione presente in Sant’Angelo di Concordia fin dal luglio 1607 era quella della Beata Vergine del Carmelo, che dopo la chiusura della chiesetta si trasferì presso la chiesa di Sant’Eufemia nel 1784. La Schola accoglieva al massimo 200 iscritti-confratelli che pagavano annualmente 20 soldi. Commissionava una Messa mensile al Frati ogni prima domenica del mese, oltre alla grande festa annuale del Carmelo del 16 luglio, e pagava 80 lire a uno o più persone perché andassero in pellegrinaggio ad Assisi o a Loreto per far celebrare Messe in suffragio e per le Anime dei Confratelli.

Gli associati della Schola erano molto affezionati alla loro chiesetta, per la quale sotto il Guardiano D.Francesco Baldio Procuratore e Compagni, fecero fondere due nuove campanelle  … Ed erano anche molto gelosi delle loro “cose di chiesa”, e non volevano che si prestassero ad altri: “ … né la croxe, né i candelieri d’argento e la paxe della Schola ...”


Solo nel 1762 il Capomastro Pietro Fabbris e il Tagiapjera Martino Cossetti eseguirono per lire 9.905 di piccoli un restauro radicale della chiesetta di Sant’Angelo di Concordia. Fatalità poco prima che il Convento venisse soppresso e indemaniato nel settembre 1768.


Venne anche depredate, dispersa e svenduta la Libreria dei Frati di Sant’Angelo, ossia la Biblioteca della Congregazione Riformata dei Carmelitani di Mantova residenti nel Convento di Sant’Angelo di Concordia alla Giudecca. Contava poco più di 350 opere di valore divise tra latine e volgari con una discreta scelta di scrittori classici e di edizioni Basileesi e Parigine dei Padri della Chiesa. Conservava inoltre una copia dell’Istitutio Catholica del Gropper, diversi volumi di letteratura ascetica tradizionale del tempo, un settore di libri di oratoria sacra, diversi volumi della Scolastica Spagnola, e ... UDITE UDITE !


La bibliotechina dei Frati di San Angelo conservava anche testi di eretici e poco ortodossi: un testo gioachimitico: “l’Expositio in Apocalypsim” dell’Abate florense, i “Libri de Secreti” e la “Magia Naturalis” del Della Porta con reminiscenze del Platonismo rinascimentale, e i “Problemata in Scripturam Sacram” di Francesco Zorzi.  A noi forse questi titoli suggeriscono ben poco … ma vi posso garantire che l’Inquisizione di Roma del tempo avrebbe fatto un bel falò in piazza e trascinato in galera qualcuno … ma ci si trovava a Venezia ...e a certe cose non badava quasi nessuno.


E siamo già alla fine della breve storia della Chiesa e del Conventino della Giudecca che vennero chiusi e venduti all’asta nel 1806.

Ancora nel 1840 la chiesetta e i luoghi erano proprietà di Alvise Cogo che la riaprì al culto come Oratorio non sacramentale benedetto dal Patriarca Jacopo Monego col titolo di Santa Maria del Carmelo. Proprio accanto, sui luoghi dell’ex Convento, il Cogo attivò un capannone per la fabbricazione di cordami.

In seguito la chiesetta passò di proprietà in proprietà con diverse chiusure e riaperture al culto, finchè nel 1867 la ditta Battisti istallò nell’ex convento un’officina di vetri e conterie.

Nel 1900 l’ex Convento di san Angelo di Concordia era deposito e cantiere dei pompieri di Venezia, mentre otto anni dopo la chiesetta venne comperata dalla Parrocchia di Sant’Eufemia della Giudecca per merito e finanziamento di Giovanni Stuky. Di nuovo venne chiusa e riaperta, e poi nuovamente richiusa finchè nel 1933 l’ultimo proprietario l’Ingegner Giancarlo Stucky la donò in perpetuo al Piovan di Sant’Eufemia don Antonio Poloni che cinque anni dopo, in seguito a un radicale restauro, la riaprì per l’ennesima volta al culto.

Fu l’ultima, perché nel febbraio 1943 la chiesetta venne ceduta allo stabilimento Junghans del Ministero della Guerra che doveva allargarsi per costruire armi, bombe e spolette. Venne subito abbattuta, e i tre altari di marmo, le iscrizioni e le suppellettili liturgiche rimaste furono depositate nella chiesa di Sant’Eufemia.


Infine, nel 1980 risultavano ormai da tempo scomparsi i due angeli dorati provenienti da San Angelo di Concordia posti accanto all’altar maggiore di San Eufemia, e ancora visibili collocati al loro posto nelle nostre vecchie foto. Ma questa è la storia di tante chiese veneziane, che pezzo dopo pezzo, chiusura dopo riapertura perdono sempre più i loro tesori, le cose preziose …  e con le nebbie del tempo e della dimenticanza anche i ricordi della Storia.


Mi piace terminare questa post citando uno scritto famoso di Sansovino.

“Ora tutti i narrato luoghi sacri, come di chiese come di ogni altro sacrario edificato in questa città, è impossibil cosa a narrare, quali ricchezze habbiano et in quanta copia per amministrar gli offici che s’appartengono a sua Divina Maestà. Oltra che tutte le chiese, per picciola che sia, hanno il campanile, l’organo, et la piazza o per fianco o dinnanzi. Et ogni piazza ha il suo pozzo pubblico…Sono parimenti in tutte le chiese, sacerdoti secondo al convenienza del luogo, i quali assiduamente attendono al carico loro. Et tutte le cere che si consumano dal clero per qual si voglia occasione, sono bianchissime come neve, et le gialle non sono in conto alcuno. Appresso questo ogni chiesa ha qualche provento, chi più, chi meno, et i piovani d’esse sono creati da cittadini et popolani che posseggono stabili nelle contrade, per via di suffragii et approbati et confermati dal Patriarca. In somma la qualità delle ricchezze et del governo loro è di così fatta maniera che ogni chiesa di Venezia può dirsi con ogni ragione un picciolo vescovado …”


Conventino e chiesetta di Sant’Angelo di Concordia alla Giudecca erano un po’ così …



“LAZZARETTO NUOVO … DOMENICA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” n°55.


“LAZZARETTO NUOVO … DOMENICA.”


Sarà un po’ per il fatto che Ebola sta bussando in giro per il mondo … o forse di più perché Venezia nella sua storia ha sempre avuto a che fare con pestilenze e dintorni … Ebbene, son tornato volentieri a rivisitare l’isola del Lazzaretto Nuovo adagiata nel cuore della laguna Veneziana.


Redentore, Salute, Santa Maria del Pianto, San Rocco, San Sebastiano, San Cosmo e Damiano, Santa Maria in Boccalama, San Lazzaro degli Armeni, Poveglia, e tutti gli altri … Venezia ha inventato i Lazzaretti. E’ stata sua l’idea dell’isolamento, della contumacia, degli spurghi delle merci, della quarantena delle navi, dei marinai e dei foresti …

Venezia nei secoli passati è stata una vera esperta in materia tanto da essere presa d’esempio ed imitata dagli altri governi Europei e Mediterranei. Esiste un’intera letteratura al riguardo, e sono curiosissimi i documenti che testimoniano i provvedimenti e le procedure via via adottate dalla Serenissima con i suoi Procuratori, Medici, operatori e Magistrati della Sanità.

Venezia in tempo di pestilenza metteva e chiudeva i “rastrelli” ai suoi confini, e pattugliava le bocche di porto e le sue lagune per impedire l’entrata e la diffusione dei contagi.  Cercava di individuare e isolare il morbo, di prevenirne la diffusione, di liberarne le “malearie” spurgandole, tonificandole, purificandole, dilavandole, bonificandole così come meglio poteva e le riusciva facendo proprio il patrimonio culturale più efficace conosciuto in giro pe il mondo. Tuttavia la gente moriva a grappoli, e raramente si riusciva a mitigare la devastazione di morte che ogni volta la “mortilenza”seminava e distribuiva fin in ogni angolo remoto della laguna di Venezia.


All’apice supremo dell’infuriare del morbo, cronache storiche raccontano della laguna inondata dal fumo delle pire in cui si bruciavano cose e persone come nebbia diffusa e fitta … Raccontano di persone sepolte in terra a strati come “lasagne”, mentre i “Pizzegamorti” facevano da padroni sul territorio devastando, saccheggiando, violentando e derubando, e buttando gente ancora mezza viva nelle fosse …

Altri tempi … Però è curioso rivederne ancor oggi le tracce, ripercorrerne la memoria e calpestarne il suolo lasciandovi l’impronta. Sono tornato perciò dopo tanti anni all’antica “Vigna murata” dei pingui e austeri (non sempre) monaci Benedettini lagunari. Troppi anni sono trascorsi, mi è quasi sembrato di non esserci mai stato …


Ancora nel 1437 i Monaci Benedettini di San Giorgio Maggiore nella figura di don Honorado e don Zuane Priore ed Economo affittarono per anni 3 a 28 ducati la vigna con la chiesetta di San Bartolomeo, la casa-monastero, l’orto e il pozzo a Prete Nicolo’ della Contrada di Santa Marina di Venezia.


Il 24 settembre 1506, invece, con Decreto del Senato della Serenissima si dichiarò inopportuno concedere paga doppia in tempo di peste ai Priori e agli altri salariati dei Lazzaretti “… per el qual i desiderano che la peste perseveri aut al manco sempre ne resti sospetto …” Si concede, invece, un unico conveniente salario annuale. Per il Priore del Lazzaretto Nuovo il salario era di 80 ducati e l’uso della Vigna, 14 ducati per ogni dipendente, e 8 soldi giornalieri per il vitto dei contumacianti ospitati nell’isola.


Il Lazzaretto Nuovo è uno di quei posti sfuggenti, talmente ricchi di contenuti che non riesci a comprenderli e apprezzarli quanto basta. Un insieme quindi sfuggente, ridondante di architettura, storia, archeologia, naturalistica floro-faunistica lagunare, tradizione, vicende insediative, poesia che lascia esterrefatti e un po’ con la voglia di saperne di più. Venezia col suo isolario è sempre la stessa, non si finisce mai di scoprirla, ammirarla, gustarla e di rimanere a cullarsi dentro alle sue bellezze e le sue recondite vicende.  Una vecchia isola è come una donna illustre e pomposa … ma un po’ sfiorita, meno procace e ammaliante di un tempo, ma pur sempre con un certo suo fascino accattivante.


Un motoscafo è sfrecciato quasi come un proiettile lanciato e sparato dal suo potente motore fuoribordo. Un uomo maturo corpulento e pettoruto lo guidava credendosi un novello esperto nocchiero … L’acqua violenta dell’onda ha aggrampato e morso le rive sfatte e rovinose, il pesante vaporetto ha “ballato” a destra e sinistra, la barca a vela candida di fronte beccheggiava e sussultava in mezzo alla laguna … Sembrava galleggiare sul niente, quasi scivolare planando sul pelo d’acqua che da immoto diventava improvvisamente turbolento e burrascoso, squassato e indomabile ... Pochi giri di lancette secondi dopo, tutto è ridiventato immoto e quieto come prima … Il motoscafo furibondo era già lontano e correva incontro a Venezia accucciata e distesa sullo sfondo dell’orizzonte.

Davanti ai miei occhi si distendevano le barene, fosse, canali, isole, acque poco profonde, bassi fondali fangosi che facevano da spartiacque fra quel mondo irto di campanile e quei luoghi riservati e quasi appartenenti ad un altro cosmo arcano ... Un paio di colpi di fucile da caccia hanno spaccato subito l’incanto e il silenzio incombente dei luoghi spalancati vestiti da fiaba.

Una gatta è corsa a nascondersi sotto a una carriola con gli orecchi issati all’insù. Si è piegata goffamente facendosi piccola nell’erba, ed è rimasta immobile in attesa degli eventi. Un cane legato col guinzaglio al cancello, invece, si è messo ad uggiolare inquieto e nervoso, tirando il legaccio e guardandosi intorno. La padrona è accorsa in fretta, l’ha coccolato, rassicurato, e l’ha rasserenato accarezzandolo.


Per fortuna da un po’ di anni si sta invertendo la tendenza di buona parte degli autoctoni lagunari. Speriamo sia passata del tutto la stagione in cui le isole abbandonate venivano sistematicamente violate, saccheggiate, profanate, derubate fin delle pietre. Si bruciavano gli infissi, si strappavano gli arredi e le opere d’arte, perfino i pavimenti … Si sventravano le pareti, si sfondava vetri, si scaricava incontrollati ogni sorta d’immondizia e pattume, si bruciava, s’insozzava liberamente, si nascondevano droga e armi, si vandalizzava per il solo gusto di sfasciare e rovinare qualcosa.


Colpa imperdonabile in gran parte anche di chi per primo avrebbe dovuto preservare, conservare, vigilare … Sarebbe lunga la lista: Stato, Militari, Regione, Comune, Curia Patriarcale, Beni Culturali … Ognuno ha di certo la sua buona parte di responsabilità per lo stato pietoso in cui si è lasciato ridurre l’Isolario veneziano.


Quand’ero bambino ricordo che i ragazzini del mio paesucolo lagunare andavano a giocare con i resti umani dell’Ossario di Sant’Ariano incustodito … C’era il Viceparroco preoccupatissimo che accorreva su una piccola barchetta a raccogliere i teschi che galleggiavano in giro per i canali della laguna divertendo i ragazzini e spaventando e inorridendo le vecchierelle del paese …  Ricordo anche che qualche anno dopo uno sponsor americano ricco e famosissimo s’era offerto di provvedere a un grande restauro di una famosissima chiesa di Venezia.


“Non sarà mai che la sacralità di questo luogo venga deturpata da una scritta con i simboli di una marca commerciale ! … La Chiesa non ha bisogno di nessuno !”
tuonò il Rettore del luogo, e per quel esagitato orgoglio e autosufficienza vuota non se ne fece nulla … anzi, si continuò fino all’ultimo giorno prima di chiudere a raccogliere il povero obolo degli ultimi devoti veneziani impotenti.


Poi più nulla, tutto chiuso e silenzioso, abbandonato … Che disdetta !


Ancor oggi tanti luoghi illustri si preferisce vederli chiusi e cadenti, perché menti ottuse pensano maggiormente al tornaconto e al guadagno più che alla conservazione di tanti beni preziosi che ci hanno lasciato i Veneziani dei secoli.  Se potessero gridare certi morti e certi devoti che hanno voluto, costruito, abbellito, vissuto e popolato certi monumenti … li sentiremmo urlare di disprezzo e di vergogna verso di noi fino ai piedi delle Alpi ... e forse anche ben oltre.


Comunque quel che è fatto è fatto … indietro non si torna. L’importante è fermare questo sfregio, e soprattutto continuare a smascherarlo e non permettere che si ripeta.

Per fortuna quindi è iniziata ormai da tempo l’epoca felice di uomini e donne volontari meno avidi di successo, privilegi, potere ed interessi. Persone dedite a salvaguardare, recuperare, quasi coccolare e difendere quel poco che è rimasto in Laguna, provando a farlo parlare e respirare di nuovo.

Non voglio osannare eroi improbabili in queste semplici righe, ma di certo apprezzare l’attivazione provvida di qualcuno, e forse imitarne l’opera passionale, prolungarne l’intenzione, condividerne lo spirito e calpestare nel mio piccolissimo le stesse orme lasciate in questa impresa faticosa.

Ma al di là delle manfrine dialogiche, rieccomi al Nazzaretum o Lazzaretum …  Improvvisamente, eccolo lì ! Perfettamente mimetizzato sullo sfondo delle Vignole e di San Erasmo. Guidati dall’encomiabile dedizione del Dott. Fazzini che ci guidava ho messo i piedi sul soffice vialone verde dei gelsi dell’isola assieme ad altri che hanno rivisto il Tesone dopo 30 anni. … Si sente che la nostra guida avrà ripetuto certe cose un’infinità di volte … ma si percepisce anche che è per davvero appassionato di quello che va facendo e dicendo. Per fortuna ci sono persone come lui … Un tempo l’isola era tutta pavimentata e aperta, senza vegetazione per poter meglio spurgare e arieggiare ogni cosa. Serviva disperdere la “mala-aria”, vaporando, fumigando, provando a mitigare i miasmi di quella contaminazione ignota ma concentrata e presente tanto da “accoppare ogni cosa sulla faccia terracquea”.


Maestoso ciò che rimane del Tesòn Grande … Quelle scritte rosse impresse sui muri traboccano di storie vissute, spiritosaggini, memorie e ricordi, amori, intrighi e complicazioni … Tutte quelle cose di cui può essere impastata la vita comune e quotidiana di ogni epoca. Soprattutto di quell’epoca di pestilenza e calamità diffusa.

Rimane ben poco dell’antico “castello” dell’isola dai 100 camini alla veneziana … Bisogna fantasticare parecchio per immaginare come poteva essere il Lazzaretto veneziano … Aiutano un po’ le stampe antiche e i video, l’abile spiegazione della guida … 

"Qui c’era la chiesetta di San Bartolomeo … i forni del pan biscotto … la casa del Priore col pozzo … le cucine … le ultime casette rimaste …"


Al di là delle mura che circondano il Lazzaretto a tratti apparivano i panorami mozzafiato della laguna … Abbiamo percorso l’isola intera lungo il fangoso e suggestivo vialetto di ronda oggi sentiero naturalistico fra canneti e arbusti … La barena e la laguna si sono rivelate ancora una volta per quel sono mostrandoci di nuovo le intimità più recondite e spettacolari della distesa acquea veneziana … Al nostro passare seguendo l’esile traccia aperta e precaria era tutto un ronzare, frullare, sbattere d’ali … S’intravedevano negli angoli remoti gazzette candide che sbeccolavano eleganti nel fango, gabbiani rauchi che volteggiavano alti, altri uccelli capitombolanti in aria che s’inseguivano trillando, frullando, fischiando canzoni misteriose e sorprendenti insieme … Mi piacerebbe conoscerle di più ... Lontano lo spettacolo delle isole di sempre in prospettive insolite, sfasate … Burano, San Giacomo in paludo, San Francesco del Deserto, Mazzorbo, Madonna del Monte … come tante sorelle da chiamare a tiro di voce fra nugoli immensi d’insetti … e l’esuberanza della Natura che trapelava sotto al sole svogliato e languido dell’autunno lagunare.


Esiste un documento del Sansovino del 1576 che mi è ogni volta caro rileggere perché mi procura una certa mestizia e tenerezza insieme, descrive gli appestati al Lazzaretto Nuovo allo stesso tempo come abitanti del “Paese di cuccagna” … ma anche come persone giunte al capolinea della “Porta dell’Inferno della vita da attraversare …”


“Nel corso della pestilenza si trovavano ... in osservazione circa diecimila persone e nelle acque circostanti più di tremila imbarcazioni, fra grandi e piccole, che assumevano qua l'aspetto d'una armata che assediasse una città di mare … a questi si aggiungevano: serventi, ministri e la truppa. Da 8000 a 9000 persone ogni giorno venivano alimentate dalla Repubblica durante questa calamità ... Magazzini immensi di medicine e di viveri, sacerdoti, medici, chirurgi, farmacisti, levatrici, tutto era qui pronto …cento camere et con una vigna serrata … E con ordine ogni cosa veniva distribuita ...I presenti per lo più poveri venivano sfamati a spese dello Stato. Ogni giorno all’impressionante città galleggiante si aggiungevano 50 barche. I nuovi arrivati venivano accolti gioiosamente con applausi e a loro veniva detto “…che stessero di buono animo, perché non vi si lavorava, et erano nel paese di Cuccagna…”

Allo spuntare dell’alba arrivavano i “visitatori” che scorrendo l’isola, il lido e la flotta, s’informavano minutamente sullo stato di ciascuno per far trasferire al Lazzaretto Vecchio gli appestati ... Non molto dopo arrivavano altre barche con ogni sorta di commestibili da essere dispensati in ragione di 14 soldi per bocca ... A queste barche seguivano quelle dell’acqua tolta dal Sile e sorto il sole tutto si metteva in quiete perché in mezzo al Lido si celebrava la Messa davanti a questa flotta ancorata al Lido.

Al tramonto le turbe divise in due cori cantavano le Litanie e i Salmi, mentre di notte ogni cosa rimaneva in alto silenzio e non era permesso il minimo rumore ... Un immensa quantità di ginepro raccolto in pire si faceva ardere notte e giorno sul lido spargendo l’odoroso fumo a grande distanza sulla laguna e sul mare ... A certe ore del giorno veniva permesso a parenti ed amici di recarsi dai congiunti, discorrere con loro da lontano e regalare vivande e rinfreschi ... Ogni giorno giungevano 50 o 60 barche e lunghi applausi accoglievano i partenti…”


Sempre le cronache antiche ricordano che chiunque era sospettato di peste veniva condotto qui, e se non aveva mezzi sufficienti si alimentava per 22 giorni a pubbliche spese. Se si dimostrava infetto veniva trasportato al Lazzaretto Vecchio, altrimenti trascorsi i giorni poteva tornare a casa.

Nell’isola si costruirono grandi case di legno e si ancorarono all’isola vari vascelli dismessi o galere sfornite d’armamento sui quali si costruirono altre case. Nel corso degli anni l’isola della Vigna Murata non fu più sufficiente allo scopo, e perciò si allestirono nella vicina isola di Sant’Erasmo nuove abitazioni e si ancorarono altre vecchie galere vicino al Lazzaretto Nuovo in cima ad uno dei quali sventolava una bandiera che indicava il limite invalicabile oltre il quale non bisognava avvicinarsi. A scoraggiare eventuali trasgressori era stata eretta una forca, monito per coloro che avessero osato disobbedire agli ordini dei Provveditori sopra la Sanità ...”


Mi piacerebbe rimanere e sostare per qualche giorno in un’isola come il Lazzaretto … almeno nell’idea mi piacerebbe.  Ma subito un visitatore mi smonta la poesia in quattro e quattrotto: “Ho visto d’estate i ragazzini quattordicenni dei campi scuola sotto il sole cocente rimanere a strappare erbacce, fittoni ancorati nel terreno e radici … Oppure li ho visti prestarsi a sbadilare faticosamente per aprire un sentiero calpestabile fra i rovi …. Che cosa volete che s’impari a restaurare in una settimana e a quell’età ?  … Tanto la Natura con i suoi elementi si riprenderà velocemente tutta l’isola, infesterà e ricoprirà presto quegli scavi scoperti con tanta fatica … E’ lei la vera padrona della laguna … Più che archeologia vera e propria qui si fa un po’ di restauro e ricerca perché mancano come sempre i fondi e i finanziamenti … Il destino della Laguna di Venezia è stato ormai segnato da tempo …”


Grande ottimista della domenica … Ho incrociato le dita … spero si sbagli del tutto … Ma sono tanti a pensarla così … forse troppi.


Ancora nel 1789 Sebastian M.Rizzi Priore del Lazzaretto Nuovo scriveva ai Sopraprovveditori e Provveditori alla Sanità dello “…stato rovinoso e sconsolante del Lazzaretto…il muro di cinta sostenuto da puntelli…buona parte degli edifici in rovina o pericolanti…canali di accesso inservibili, i pozzi inquinati…urgente è l’intervento.”

Nel 1793, invece, con l'istituzione del Lazzaretto di Poveglia il Lazzaretto Nuovo perdette di fatto la sua funzione. Con l'avvento dei Francesi il Ministero della Guerra destinò l'isola a funzioni militari: il Tezòn Grando murato divenne polveriera, si demolirono le contumacie “al Prà’”, “all’ortolazzo”, “ai barcaroli”, “alla campagna” e la vecchia chiesetta di San Bartolomeo.


Rallento il passo, mi volto un attimo e mi fermo … Vedo passare nella penombra della sera che avanza le ombre lunghe degli appestati … No … Sono dei custodi … Odo il tintinnare di chiavi del Priore che apre e chiude la grande tesa … Lungo uno dei muri di cinta marinai inoperosi in contumacia scrutano immobili la loro nave ormeggiata prigioniera del morbo e dell’isola … Guardano lontano fumando la pipa e sorseggiano lentamente un boccale di vino aspro.

Poco più in là, dentro alla notte, tre figure senza volto parlottano sommessamente nel buio ma in maniera animata. Sono il Priore del Lazzaretto, un Bastazo-facchino e il mercante di una grossa nave alla fonda accanto all’isola. Discutono, contrattano, considerano … Alle loro spalle intravedo la nave ancora carica di merci, lievemente piegata sul fianco. E’ appoggiata sul fondo del piccolo canale poco profondo prospicente l’isola … c’è bassa marea in laguna, come sempre verso l’alba ... I tre si scambiano un fascio di carte e un paio di sacchetti di monete contandole una per una sotto il chiarore flebile della Luna. I soldi luccicano, baluginano saltando sulle dita esperte, sembrano nuovi di Zecca … A un certo punto una moneta oscilla in aria, tintinna, scappa fra le mani che provano ad afferrarla, rimbalza sopra alla manica di un braccio proteso e finalmente cade e scompare dentro e sotto l’acqua scura.

Verrà ritrovata ossidata e mangiata dalla salsedine secoli dopo ... Ora se ne sta in bella mostra insieme ad altre nelle vetrinette sotto al Tesòn Grande.  Raccontano storie passate, come le anfore poco più in là che un tempo portavano vino, olio, profumi, grano e chissà quali altri cose dagli angoli più disparati del Mediterraneo, dell’Africa e del Levante ... come le ossa allineata, gli attrezzi rugginosi, le stampe antiche, le terracotte usurate …

Annuso l’aria, e avverto il profumo che non c’è del pane appena cotto dai forni dell’isola. Si sente la fragranza del panbiscotto appena sfornato … Si mescola con l’odore aspro della salsedine, e con quello degli umori che esala la laguna, il verde selvatico e la barena trapunta di fiori lacustri, salicornie, canne ed erbe selvatiche ...

Un giovanotto in salute seduto su di una panca nel buio ancor prima dell’alba fuori della chiesetta di San Bartolomeo … Piange in silenzio sommessamente … è l’unico rimasto della sua famiglia tradotta al Lazzaretto Vecchio e non più tornata … per sempre.

Poco discoste, solo al chiarore di una flebile lucerna in terracotta, alcune donne formose dalle gonne larghe e lunghe rimestolano l’acqua tratta faticosamente dal pozzo, e smanacciano indaffarate mucchi di panni sporchi soffocandoli nell’acqua dentro a grossi mastelli di legno.

Voltandomi ancora dalla parte dell’ingresso vedo un pescatore che ha appena accostato la sua barchetta carica di pesce guizzante alla riva. Sempre come ombra nel buio lo vedo scambiare con uno dei guardiani muti dell’isola che gli porge una moneta argentata e un grosso cesto di frutta colorata e verdura odorosa ... In fondo al viale dei gelsi, distinguo appena nella penombra il trenino austriaco caricato all’inverosimile di munizioni, pronto per andare a rifornire la Batteria della Torre Massimiliana sulla spiaggia che controlla la bocca del Porto di Venezia.


“Che provasse qualcuno ad entrare da quella parte !”



Sta arrivando il vaporetto di ritorno … Riapro gli occhi e fuoriesco dal sogno … La visita al Lazzaretto Nuovo è terminata … Venezia “solita” ma sempre nuova, mi sta aspettando per le “solite cose” di sempre … Tornerò ancora al Lazzaretto Nuovo … di certo.


“VECCHIE CONTRADE VENEZIANE DIMENTICATE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.”– n° 56.


“VECCHIE CONTRADE VENEZIANE DIMENTICATE.”


La TV sopra al frigorifero è accesa … calzettoni di lana, camicia bianca da notte, e capelli inguardabili sparati in aria da Medusa. Il tendalino del ristorante è disteso sopra i tavolini sparecchiati … La porta del retrobar sulla riva di fronte al di là del canale è illuminata, stanno già preparando tramezzini e panini per la giornata, mentre di fronte la serranda è ancora abbassata del tutto e le luci in sala sono soffuse. Lungo le Fondamenta e le Calli deserte, su molti bordi di scuri chiusi s’accendono contorni di luce … Per molti Veneziani inizia un’altra giornata … Nella hall disertata di uno dei tanti alberghi veneziani una TV elegantemente incorniciata e vestita da quadro barocco trasmette una serie di foto civettuole su Venezia … non c’è nessuno che la osservi. Nel suo cantuccio il portiere “pisola” nella penombra disteso dietro al bancone … Un’altra notte è quasi trascorsa.


Qualcuno sta frugando nel buio dentro a una barca ormeggiata “da notte” alla riva. Un’anziana signora di un umido e scrostato pianoterra con le finestre spalancate sta curva sulla tazza della colazione armata di grossi biscotti … con la mano sinistra accarezza un grosso gatto paffuto e baffuto bianco e nero che s’ingozza con la testa dentro alla sua ciotola.


Una guardia carceraria passeggia felpata e lentissima sui muri di cinta della Prigione addormentata di Santa Maria Maggiore. Da dentro al recinto illuminato non proviene un suono, una voce, un ronzio … Tutti gli ospiti dormono dietro alle finestrelle dalle sbarre a quadretti.  Santa Maria Maggiore era un monastero vivissimo e bellissimo dei tempi che furono. Lì dentro ne sono accadute tante … le monache ne hanno fatte di tanti colori. Anche quelli che adesso vi sono dentro ne hanno fatte tante di tutti i colori … La storia in qualche modo continua e si prolunga imitandosi, ripetendosi ...


Attraverso il Rio Terrà dei Pensieri … Già il nome mi piace tantissimo … Le chiome degli alberi producono un gioco di chiaroscuri e di ombre curiose … Non vedo più le donnine che un tempo si raccoglievano sotto alle fronde con le loro seggioline impagliate. Ciabatte e galosce, vestaglie consunte, larghe e fiorite, “da casa” …Rimanevano ore intere sedute a chiacchierare e spettegolare, mentre lavoravano a “impirare perle” o sferruzzavano a lana con i gomitoli che ballavano dentro alla busta di plastica posta per terra. Se ne stavano là, pacifiche e beate, senza sentire il bisogno di muoversi e andare in giro chissà dove. Lì avevano tutto il loro microcosmo, che bisogno c’era di muoversi ?


Mia suocera, ch’era donna genuina della Contrada dell’Anzolo, mi raccontava che ai tempi in cui era bambina il solo recarsi dall’altra parte di Venezia era una gita abbastanza rara. Un viaggio considerato spesso inutile, un limite da superare se proprio fosse stato necessario … Intorno al pozzo o alla fontanella della sua Corte o del Campiello c’era già tutto quello che serviva per vivere … Compreso il lavoro, che oggi tanto cerchiamo e bramiamo altrove e ovunque. I pescatori della Contrada tiravano in secco le loro “battelle” a pochissima distanza da casa sulla “Spiaggia di Santa Marta”… spesso dopo una notte infruttuosa di pesca in laguna o alle bocche di porto. Più che per guadagnare soldi la pesca serviva per mangiare e per vivere … e si arrostiva sulle braci e friggeva il pesce in compagnia davanti alla porta di casa, o in riva al canale vicino. Lo si vendeva anche a chi passava di là … mangiandolo a “scottadeo” sulla soglia di casa … seduti precariamente, in compagnia di qualcuno e di un “gotto” di vino più o meno di qualità.


Bastava alzare gli occhi, e compiere solo due passi, e si poteva accedere a tutti i servizi indispensabili per vivere. Tutta gente, esercenti e bottegai con cui si aveva confidenza, e che ti conoscevano fin dalla nascita. Il fruttivendolo con le ceste e il tendalino tirato sopra alle verdure e la frutta provenienti direttamente in barca dagli orti di Sant’Erasmo, la rivendita del Panettiere col garzone fischiettante che portava i dolci impilati in equilibrio sulla testa, e la gerla di pane profumato appena cotto e sfornato dal vicino Fornèr appena giù del ponte limitrofo. La porta seguente era quella del “Biavaròl” il pizzicagnolo, salumiere … Proprio di fronte c’era il “becchèr” il macellaio, che riceveva carne di “casada” direttamente dagli zii, cugini, parenti contadini e piccoli allevatori di animali da cortile residenti in Terraferma. Nella calletta accanto, solo a due passi, c’erano aperte dall’alba al tramonto le cupe botteguccie del “Fravo” fabbro, del “Caleghèr” calzolaio che faceva magie riciclando all’infinito le stesse scarpe e ciabatte, del“Marangòn” falegname tuttofare capace di costruirti un letto, un armadio, una sedia e qualsiasi altra cosa ti passasse per la testa. Era uno dei mestieri che si trasmettevano di padre in figlio, e in fondo alla bottega stava anche il nonno con la matita rosso-blu sull’orecchio e la pipa o la perenne sigaretta accesa sulla bocca. Proprio in fondo alla calletta che si faceva sempre più stretta e buia, c’era anche lo “Squero”il piccolo cantiere delle barche di Contrada, che sapeva miracolosamente riattare barche e barchette e per arrotondare s’ingegnava anche a produrre remi e forcole di bassa fattura per quelli che s’accontentavano di possedere qualcosa di funzionale seppure non perfettissimo. 

Superato solo un ponte, o più semplicemente aggirata una Fondamenta c’era la chiesa della Contrada dove si entrava e usciva per tutta la vita: in braccio alla madre appena nati … e a gambe distese il giorno del funerale. Ma suonavano sempre per tutti le stesse campane, accomunando tutti nello stesso destino all’ombra di Dio, della Madonna e dei Santi … e del vecchio Piovano grasso e burbero, che ne sapeva però una più del Diavolo e conosceva i segreti di tutti.

Proprio di fronte alla chiesa c’era anche la Spezieria dove si potevano trovare i rimedi per tutti i mali, e anche per tutte le spossatezze e le malinconie che possono assaltare l’esistenza. La figlia prosperosa del vecchio farmacista Ricardo faceva l’ostetrica, la levatrice, e aveva visto e fatto nascere sul letto di casa quasi l’intera Contrada. Quasi tutti erano “passati” per le sue abili mani.  Tutte le donne della Contrada consideravano “la Pia” come una sorella maggiore, e non avevano pudore e riserve a recarsi da lei in caso di bisogno a farsi controllare “di sotto” o le “tette” dietro alla tendina rossa e consunta del retrobottega della Spezieria. 

Viceversa, dalla parte opposta della Fondamenta ci si recava al Banco del Lotto, un’altra specie di piccola chiesa e santuario di Contrada dove si andava a invocare la dea Fortuna a suon di “palanche” per provare a cambiare e alleviare in qualche maniera quel destino misero e comune in cui si viveva da sempre. Sognare non costa nulla, o meglio viene a costare parecchio se ti lasci prendere dal gioco …  e qualcuno si giocava già a quei tempi anche la camicia … “Segna sul giazzo” dicevano a Berto del Lotto con la barba sempre sfatta e gli occhiali sulla punta del naso … E quello segnava i debiti su un suo quadernaccio unto e scuro. Tutti sapevano però che dovevano saldare i debiti entro fine mese, o al massimo per i più fidati entro quello successivo … perché altrimenti … C’era sempre una minacciosa paura per quello che sarebbe potuto succedere o era realmente accaduto a quelli che non pagavano quanto dovuto. Ogni tanto si vinceva, molto spesso si perdeva giocando un paio di numeri … un ambo, un terno su Venezia o su tutte le ruote … Non di più, visto che le tasche erano vuote … Ci si divertiva con “altro”… C’era anche la Marietta, brutta come la fame, che in cambio di “qualcosa dentro al letto” era disposta a lavare e stirare per qualche giovane che non era capace d’arrangiarsi o non ne aveva voglia … E c’erano quelli che ci stavano … Non c’erano televisioni, radio, giornali … Solo pochi sapevano leggere e scrivere…


C’era anche “el Relogèr”orologiaio, con l’eterno monocolo sull’occhio, il suo cucu’ e gli orologi appesi ovunque in bottega che scandivano le ore più strampalate a tutte le ore … Vendeva anche “ori” a bon prezzo, più vantaggioso degli Oresi esosi e ricchi di Rialto. Ma quelli erano anche garanzia di qualità e bellezza … in Contrada invece, era oro un po’ così … di seconda mano. Più avanti e in fondo, vicino alla calletta stretta che portava allo squero, c’era anche l’antro buio di Edoardo che vendeva legna e carbone, scope e scopette, saponi e i primi detersivi in polvere e a peso. In Contrada si lavava a mano fuori della porta di casa e dentro ai grandi mastelli di legno posti accanto alla fontana. Si stendevano i panni ad asciugare sulle corde tese da una parte all’altra della corte, issandole in aria con delle “forcade” di legno per tenerle alte sopra le teste di tutti. Ogni tanto il profumo di pulito e sapone si confondeva e sovrapponeva a quello del fritto, del pane, delle verdure e della pece, del salso e umido della laguna ...


La Corte apparteneva a tutti, era il palcoscenico della vita quotidiana comune, dove s’inscenavano le notizie e i pettegolezzi sulle vicende di tutti coloro che vivevano nei dintorni e anche oltre. In una corte si era tutti come una specie di grande famiglia allargata. Il passatempo più gradito delle mamme, ma anche delle nonne e di quasi tutte le donne era quello di rimanere lì a raccontarsela … magari lavorando a maglia, impirando perle di vetro per far collane, giocando a tombola, cantando qualche vecchia canzone e ripetendo all’infinito gli strambotti e i proverbi di sempre.


“Campieo campielletto …xe nato un porselletto …” e tutti si spupazzavano l’ultimo nato, legato stretto in fasce come un salame per farlo crescere robusto e dritto. Sulla corda tirata in corte s’assiepavano i “ciripà” per assorbire la pipì, lavati e messi ad asciugare ... “El xe piccolo … ma magna e beve, piscia e caga … come un drago …” confabulavano le donne sghignazzando …

In Corte ci s’incontrava, ci si innamorava a suon di sorrisi e di sguardi insospettabili … Gli uomini tornando dal lavoro icnontravano le donne sedute sulle loro seggiole impagliate col cuscino dei merletti in grembo.

Fiori e piante e rampicanti foderavano la corte … ed erano di tutti, come di tutti erano i reumatismi per la muffa, la salsedine, e l’umido che penetrava ovunque fin dentro alle coperte. Ogni tanto l’acqua alta nottetempo entrava fin sotto ai letti … ed era normale spazzarne fuori le lordure il mattino dopo continuando a vivere come il solito. Non c’era il gabinetto, la doccia, la vasca da bagno … ma un comodissimo “bocàl” tenuto in un angolo, con la “gamèla da notte” di raccolta da vuotare nel canale più prossimo il mattino dopo fra le prime incombenze del giorno.


Quando moriva qualcuno moriva un pezzettino di se stessi ... Quasi tutti nella Contrada finivano con l’essere Padrini o Madrini di qualche “fjosso o fjossa”, o Comare e Compare a qualche matrimonio. Accadeva una tacita protezione e solidarietà reciproca durevole e solida, quasi scontata, il campiello affratellava e univa fino a indurre alla condivisione. In corte si giocava anche a “mussa vegna” saltando uno sulla groppa dell’altro formando la lunga catena umana … oppure si faceva la carriola camminando sulle mani … o si giocava con le “balle de fragna”, a “sdoè”e con le “marocche” di vetro. Le bimbe giocavano a far da mamma con le “piavole”fatte in casa di pezza, con due bottoni per gli occhi, e un bel sorriso disegnato sul volto fatto di stoffa consunta.

Gli uomini invece frequentavano assiduamente l’osteria per giocare con le carte bisunte e perdersi dentro ai bicchieri delle “ombre” di vino. Carte da gioco e pochi soldi che passavano di tasca in tasca, a volte fino a tornare in quella di partenza dopo un lunghissimo giro. “In vino veritas”, e “Un gotto tira l’altro”… All’osteria veniva fuori di tutto, anche quello che a mente fredda non si avrebbe voluto dire.


“I politici sono tutti uguali … Cambia solo il colore e il fazzoletto … Sono tutti magnoni della vita e del sudore della povera gente …”


Per le grandi occasioni, invece, giù del ponte e dopo la calle c’era la Locanda nel Campo più grande … dove si andava a celebrare il pranzo di matrimonio o le ricorrenze della “Cassa Peòta”“Te fasso un bon presso”diceva sempre l’oste rubicondo e sorridente con lo stesso grembiulone bianco ocra sporco di cucina indosso…. E istintivamente si sfregava le mani che lavava raramente.


I liberi gatti erano i veri padroni del posto … più dei cani troppo obbedienti e sottomessi al padrone. Nelle gabbiette cantavano gli oseletti … In mezzo alla corte troneggiava il Capitello, perchè ricorrere all’Altissimo e ai Santi era rimedio bon per ogni male … Il Pronto Soccorso non esisteva … Si rimaneva a casa sotto sequestro, in quarantena…


Circa una volta al mese passava il “Guetta” che stendeva per terra i suoi coltelli e gli ombrelli … arrotava le lame di casa, aggiustava manici, faceva le cuciture difficili, e saldava le piccole falle domestiche … In casa d’inverno si gelava con tutto un campionario di “buganse” e geloni. Si dormiva in due, tre, quattro per letto … “da pìe”… Si stava stretti a letto a scaldarsi come l’asino e il bue nel presepio … Se le donne avevano i loro mal di pancia si potevano posizionare la borsa dell’acqua calda per la notte … La mia nonna me la passava nel letto per condividere un po’ di tepore … In un angolo delle camere basse e buie stava il “cantonàl” con le foto dei morti e dei giovani figli baldanzosi in divisa non più tornati dalla guerra o dal viaggio per nave.

Al mattino di buon’ora, con lo scialletto sulle spalle e indosso i guanti con le dita tagliate, si mettevano materassi, lenzuola, coperte a prender aria sulle finestre … soprattutto quelli della nonna malata che aveva sempre la “spissa, la grattariola e i brusòri” dappertutto. E poi si usciva in giro per far la magra spesa …

Il biavaròl incartava lo zucchero nella carta da zucchero blu, e vendeva l’olio travasandolo con l’impiria nella bottiglia apposita che si portava da casa. Non serviva lavare la tazza dopo la colazione, bastava porla sopra la “nappa” del camino, sopra al “foghèr” per chi ce l’aveva, per non sciupare lo zucchero ancora utile rimasto sul fondo.

Caleghèr, Curamèr, Pestrìnèr, Tagjapiera, Pistor, Fornèr, Bottèr, Scaletèr, Manganaro, Sartòr … e c’erano tanti altri mestieri intorno ... Le donne s’industriavano in casa a far da sarta acconciando, allungando, rattoppando, girando colletti e polsini delle camicie che passavano di padre in figlio, di fratello in fratello … Alle ragazze a volte si faceva la camicetta con la tela dei paracadute … I più fortunati avevano una casa su due piani, o vivevano all’asciutto ai piani di sopra, salendo per irte e buie scalette dai gradini consunti dal tempo e mangiati dall’umido e dal tempo.


“A-B-H la maestra fa la cacca ! … E’ così che t’insegnano a scuola ?”


Ma quale cultura, scuola, università fuori corso fino a quarant’anni a carico dei genitori, obbligo scolastico ? Qualche fortunato frequentava la seconda, i fortunatissimi fino alla quinta … Molti sapevano fare il disegno della firma senza conoscere il significato delle lettere che percorrevano sul foglio …


“Non è importante saper leggere … Basta saper far tornare il conto con i soldi … Troverai sempre qualcuno che potrà spiegarti il resto …”


Quante mille altre cose ci sarebbero da dire e aggiungere su queste vecchie contrade ormai scomparse. Oggi è deserto il campiello della vecchia contrada … Non sembra neanche più lui, è come uno scheletro di quel che è stato e accaduto lì dentro. Non c’è un vaso di piante negli angoli o fuori delle porte, non c’è un solo panno steso ad asciugare, non una sola porta è rimasta socchiusa o lasciata aperta e incustodita.


“Tanto chi vuoi che venga a rubare quello che non c’è ? … Tutto è di tutti, e le porte son sempre aperte, anche di notte ... Che cosa può accadere di brutto ? Che rapiscano la vecchia nonna malata dal letto di casa ?”
Ci si poteva quasi sempre fidare … salvo qualche rara eccezione che non mancava: “Perché la gente è viva … e a chi vive capita di sbagliare. Chi sbaglia: paga … e si perdona, e non se ne parla più …”


Le vecchie botteghe non ci sono più, c’è solo una lunga fila di saracinesche rugginose e abbassate, file di balconi di legno sbarrati che un tempo erano vetrine e mostre dei vari mestieri … Nella calletta non si sente più martellare né il “Fravo” sull’incudine e sui ferri, né in fondo gli “Squerajoli”sul fasciame delle barche ... Non si sente piallare il “Marangòn”, né picchiare freneticamente il ciabattino nel suo sottoscala odoroso. Non s’annusa l’odore della pece, del legno, del pesce, ma solo quello della spazzatura abbandonata e del piscio negli angoli e nel sottoportico. Osservando dagli ultimi gradini viscidi di alghe verdi che sprofondano sull’orlo del canale, non si vedono più le barche rovesciate sugli scali del cantiere, né quelle di mille tipi cariche di reti e aggeggi da pesca ormeggiate sulle paline infisse nel fango. C’è solo un elegante cabinato coperto da un telone cerato blu … mentre penzola in aria un cartello minaccioso: “Area videosorvegliata. Proprietà privata: Divieto d’accesso a chiunque. Attenti al cane che morde.”



Sotto al capitello buio e annerito dalle intemperie, coperto da una grata rugginosa e piena di ragnatele, sta una lampadina spezzata e divelta. Niente fiori, solo un vasetto vuoto di modesta fattura legato con un filo di ferro perché il vento non se lo porti via. Sopra al vasetto colmato dall’acqua piovana danza e volteggia una nuvoletta vorticosa di moscerini … inconsapevole come molti di noi del tanto che lì c’è stato e accaduto …


“QUALCHE ALTRA NOTA E CURIOSITA’ SU SANTA CROCE DELLA GIUDECCA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 57.


“QUALCHE ALTRA NOTA E CURIOSITA’ SU SANTA CROCE DELLA GIUDECCA.”


Come ben si sa, la maggior parte dei monasteri di Venezia era in qualche maniera gestita a distanza e protetta dalle più ricche e prestigiose famiglie nobili della città lagunare. Il motivo era semplice: ci mettevano dentro le proprie figlie non andate in mogli ad altre grandi famiglie della Serenissima. Primo fra tutti, il Monastero di San Zaccaria oltre ad ospitare spesso qualche figlia del Doge, manteneva fra le sue mura le monache dei clan nobiliari: Foscarini, Querini, Gradenigo e Morosini. Nel chiostro di Ognissanti nel Sestiere di Dorsoduro (l’ex Ospedale Giustinian), invece, aveva pieno controllo e protettorato economico il clan patrizio dei Barbarigo, così come alla Giudecca, nella fattispecie del Monastero Benedettino di Santa Croce la prevalenza nobile era quella delle figlie dei nobili Da Molin.


Il complesso di Santa Croce della Giudecca è vecchissimo: le sue prime notizie risalgono addirittura a prima dell’anno mille ... e cento anni dopo era riconosciuto ormai come stabile Monastero di Benedettine e chiamato:Monasterium de Scopolo o dello Scoglio” perché sembra occupasse un’isoletta minore incastonata dentro alla Giudecca.

Fra 1303 e 1309, il Monastero congiuntamente alla chiesa apparivano sulla lista di coloro che dovevano pagare la tassa di “Diritto di Catedrattico” al vescovo di Castello Ramberto Polo, cosa che le monache facevano puntualmente ogni anno a maggio: nel giorno della Festa dell’ “L’invenzione della Santa Croce”.

Circa trent’anni dopo, il Senato della Serenissima concesse in usufrutto alla Badessa Giacomina Paoni del Monastero di Santa Croce una palude antistante con l’obbligo di bonificarla in 3 anni di 50 passi inglobando così l’isoletta con tutto il resto della Giudecca. In cambio le Monache dovevano omaggiare annualmente il Doge con un paio di guanti di camoscio … cosa che puntualmente le Monache esaudirono per secoli.

“…Concessione fatta dall’Officiali et Giudici al Magistrato del Piovego, Ser Marco Da Mula, Ser Marco Boxio et Ser Pietro Marcello al NH ser Canotto Loredan della contrà di Sant’Aponal o San Silvestro de passa 50 per lunghezza et altri passa 50 per larghezza di velma, posta tra il monasterio de Sancta Croxe alla Zuecca et il monasterio de San Zorzi Maggior, in esecution di dover palificar et atterrar detta velma nel termine d’anni tre et obbligatione di contribuire ogn’anno al Ser.mo Doxe un paro de guanti de camozza…”
In Atti di Pre’ Nicolo’ della chiesa de Sant’Agostin Nodaro Pubblico - 1330 luglio 20.

Ma già nell’agosto 1395 “... capitò sconquasso a Santa Croce della Giudecca ...” come spesso sempre accadeva nei monasteri lagunari. Fu giudicato Antonio Vianaro entrato più volte nel monastero della Santa Croce avendo rapporti sessuali con Suor Ursia Tressa.
Per pareggiare le sorti, nel giugno 1426 a soli 17 anni, entrò Monaca alla Santa Croce Eufemia Giustiniani (futura Beata Eufemia)nipote del futuro San Lorenzo Giustiniani, che per l’occasione scrisse e le dedicò il suo famoso: “De Vita Monastica”. Qualche anno dopo, morta la vecchia Badessa Paola, il Giustiniani pensò bene per riordinare i costumi della vita delle monche, di eleggere la nipote nuova Badessa nonostante le contrarietà delle consorelle che s’appellarono subito e inutilmente direttamente al Papa di turno.
La scelta oculata del Giustiniani portò bene, perché le monache diventate esemplari furono inviate in giro per i monasteri a riformarli, iniziando da San Secondo in isola e da Sant’Angelo di Contorta, ma spingendosi in seguito fino a Cipro per fondare anche lì un nuovo monastero.

Dieci anni dopo, siccome l’economia del monastero un po’ languiva, le monache ottennero da Papa Eugenio IV di usufruire delle rendite del Monastero Benedettino di San Giorgio di Fossone appena fuori Chioggia, e in seguito quelle di Sant’Angelo di Contorta, del Convento caduto in rovina di San Domenico in Fuscolano, e della chiesa parrocchiale di Nono vicino a Padova ... e già che c’erano … i Papi aggiunsero con speciali bolle apposite l’usufrutto dei beni di San Cipriano di Sarzàn, di Santa Felicita di Romano e di San Giorgio di Castelfranco.

Come altri hanno già spiegato molto bene, durante lo stesso secolo crebbe non poco l’importanza del monastero che s’arricchì di preziosissime Reliquie e Corpi di Santi pervenutigli direttamente da Costantinopoli e dall’Oriente ... Anche alla Giudecca accadde un immenso "giro" di celebrazioni, indulgenze, devozioni ... e bei guadagni che durarono per secoli.

Nel 1464 anno di peste a Venezia le monache del Santa Croce della Giudecca si prodigarono parecchio per confortare e accompagnare a morte serena gli appestati ... E fu in quella circostanza che si verificò il famoso miracolo raccontato dalla leggenda.

Ovviamente fu Suor Eufemia Giustiniani la coprotagonista, e accadde che mentre la monaca stava seppellendo la quinta consorella deceduta per il morbo pestifero la raggiunse Suor Scolastica la portinaia, riferendole che s’era presentato alla porta e alle grate del parlatorio della clausura del monastero un certo Cavaliere per domandare una tazza d’acqua. Era San Sebastiano in persona vestito in velluto nero, Santo Protettore contro la peste, che venne a posta per lodare l’opera santa della Badessa e delle sue Monache. Già che c’era, il Santo assicurò che non sarebbe più morta di peste nessuna monaca, e come suo gesto di omaggio toccò il pozzo del Monastero infondendo alle acque una virtu’ miracolosa perenne.

Niente di che direte … Uno dei tanti miracoli dell'epoca… Mica tanto, perché la Storia racconta che a distanza di più di un secolo, nel 1576, la gente di Venezia e Veneta accorreva ancora a quel pozzo di San Sebastiano per bere l’acqua miracolosa che li poteva salvare dalla peste. Esisteva perfino uno stampato apposito che invitava a bere “l'acqua antipeste” recitando una particolare orazione a San Sebastiano delle Monache della Santa Croce.
Era l’anno della peste del Redentore… e a fine estate si sparse la voce che mentre tutti morivano alla Giudecca nel monastero non era morta neanche una monaca. Accadde tutto un inutile accorrere fin da Treviso, dalle campagne del Padovano, e perfino da Verona ... ma chi doveva morire morì. 
Le Monache del Santa Croce erano talmente assediate dall’afflusso della gente, che furono costrette a far scorrere l’acqua del pozzo attraverso una lunga grondaia facendola uscire fuori dal recinto del monastero … “potendo così vivere in santa pace …”

Nel marzo dell’anno dopo il Doge Alvise Mocenigo e il Patriarca Giovanni Trevisan andarono in processione proprio fino alla chiesa della Santa Croce della Giudecca per partecipare alla Messa Solenne del Voto e benedire e porre la prima pietra del futuro Tempio del Redentore.


Durante lo stesso 1500, le cento (!) Monache del Monastero della Santa Croce della Giudecca litigarono non poco con quelle di San Zaccaria per la proprietà e gestione di certi possedimenti di terra a Monselice, e contemporaneamente decisero di rifabbricare chiesa e monastero. Tutto fu fatto in soli sette anni, tanto che il Patriarca di Venezia Antonio Contarini andò a benedire e consacrare tutto nel 1508 consacrando per l’occasione altre venti nuove monache che offrirono ciascuna un ducato e due candelotti di pregio. Come dicevamo prima, alle spalle delle Monache c’erano i ricchi capitali dei nobili Veneziani, e in questo caso fu il Nobil Homo Francesco figlio di Pietro Pizzamano arricchitosi non poco con la gestione del Dazio del Vino a Venezia, che contribuì all’opera di rinnovo di tutto fornendo 5.000 ducati d’oro.

Per far sentire e mai mancare il suo potente appoggio, la Serenissima beneficò “le proprie figlie” a più riprese, e anche nel 1515 fornendo un quantitativo di 10 stara di frumento obbligando un banchiere Ebreo che aveva diffamato un medico Ebreo a procurarlo a proprie spese. Con la stessa puntualità, la Serenissima autorizzò l’intervento dei Fanti della sua Quarantia al Criminal che espulse dal monastero Zuan Andea Pizzamano nipote del nobile benefattore che procurò i restauri di chiesa e convento, perché voleva spadroneggiare troppo nelle cose delle Monache.

Due o tre anni dopo, le Monache del Santa Croce concessero in gestione il Convento di Sant’Angelo in Caotorta ai Carmelitani di Mantova che avevano messo residenza a Venezia, e ogni anno ottennevano in cambio come gesto simbolico il giorno della Solennità dell’Invenzione e dell’Esaltazione della Croce una candela di cera bianca del peso di due libbre.

Raccontano le cronache veneziane, che nel 1521: “… in questa terra è assai malattie, maxime in monasteri; a Santa Croce della Giudecca dove tutte le monache son ammalate … et fu per li caldi stati di quest’inverno…”

Le monache come tutti a Venezia potevano diventare fragili a causa del clima umido e speciale della laguna ... ma per fortuna avevano quel pozzo.

Nel dicembre di tre anni dopo, Sjer Zorzi Pisani Dotor e Cavalier, Savio del Maggior Consiglio venne sepolto vestito d’oro nel Monastero della Santa Croce dove aveva fatto preparare le sue arche o tombe. Lasciò una veste d’oro al Monastero della Santa Croce e un’altra a quello di Sant’Angelo di Concordia ... Il Monastero pagava ogni anno 8 ducati annui a un suo provetto organista, e pagava altri 115 ducati per offrire 15 pasti ai Sacerdoti Mansionari che celebravano per le Feste principali e la Settimana Santa … Non a caso quindi, il monastero venne tassato dallo Stato Serenissimo con 30 ducati e il suo Cappellano privato di altri 10 ducati … Ma era tutto un “Do ut des” fra Monache e Governo perché qualche anno dopo il Consiglio dei Quaranta regalò alle monache “ … una galea sottil da demolire per conzar la Fondamenta del Monastero che ruinava …”

Perfino la famosissima e antica Compagnia della Calza e degli Accesi ricamava lì alla Giudecca la sua calza nel maggio 1562, e faceva celebrare una Messa Solenne e Cantata presso le monache della Santa Croce che nel frattempo erano cresciute di numero diventando 150.

A fine secolo, nel 1595, Bozza Francesco figlio di Giacomo mercante veneto abitante in Contrada di San Gregorio giusto oltre il Canale della Giudecca, fu pugnalato a morte da Zorzi De Masi scrivano di nave per una questione di alcuni sacchi di carrube caricate a Cipro e vendute in Istria.  Dopo la sua morte, la moglie usufruttuaria di cospicue rendite e magazzini in Venezia regalò alle Monache della Santa Croce una preziosissima Reliquia di Santa Marina ... ma allo stesso tempo, il Patriarca Priuli che visitò il monastero condannò la passione smodata di alcune monache che stavano sempre a specchiare la propria immagine su certi specchi e vetri di lusso mancando di presenziare alle prediche. Ordinò perciò che fosse aperto nel Coro delle Monache una finestrella attraverso la quale il predicatore potesse contare le monache presenti.
Ma le Monache, figlie soprattutto dei Nobili Dal Molin, erano furbe … perciò si muovevano nel Coro dentro all’oscurità per cui dalla finestrella non si capiva niente.

La cosa non piacque al Patriarca, ma ancor meno piacque alla Serenissima:
“…non piace il governo temporale del monastero che è nelle mani di alcune scrivane, che sono in effetto già molti anni cioè le Molline, le quali senza consenso del Capitolo hanno affittato alcune case a suoi parenti per buon mercato ne si sa quello che pagano…”

All’inizio del 1600, Zuane di Mascheroni mercante analfabeta di vini, lasciò per testamento alle 130 Monache del Santa Croce della Giudecca, forse sue clienti, e alle Ospiti delle Convertite vicino a Sant’Eufemia, ben 12 barili di vino ciascuna precisando che la donazione era: “… per l’anima sua, et in remission de suoi peccati, dichiarando che a questi monasterii ghe sia datto buon vin…”

Il 18 agosto 1605 Viena Bianchi nominò proprie esecutrici testamentarie le monache di Santa Croce e Santa Giustina con i Procuratori di ciascun convento. Scriveva:“…Voglio esser sepulta dentro del monastero delle ditte Reverende Monache della Croce di Venezia vestita del suo habito et accompagnata dalle Monache Converse … alle quali Monache voglio siano datto ducati 5 per l’habito soperlirmi…”

Alla fine della sua Visita il Patriarca Vendramin nel 1611 commentò: “… le giovani monache del Santa Croce sono troppo gagliarde di cervello et poco obbedienti alla Badessa…”, mentre qualche anno dopola Badessa Suor Lucrezia Morosini supplicò di rimuovere  il Confessore delle Monache perché era: “… vecchio malsano e pelagroso, et malamente può soddisfare al debito suo…”Richiedeva che al suo posto fosse nominato un certo Prete Zorzi Polacco energico riformatore, e che fosse permesso a un Frate Francescano di visitare e offrire guida spirituale a una certa Suor Dionora che rifiutava di ricevere i Sacramenti cercando di suicidarsi.

Nel 1660 la rendita annuale dei beni immobili del monastero della Santa Croce della Giudecca, dove vivevano 110 Monache, assommava a 2.573 ducati sui quali pagava una tassa alla Serenissima di 9 lire, 19 soldi e 2 denari.

Nel 1700 le Monache erano ancora 130, e la rendita annuale dai beni immobili posseduti in Venezia era di 1.542 ducati sui quali pagava soldi 3 e denari 6 di tassa.
Il Monastero della Croce della Giudecca restaurato con la chiesa spendendo la somma di 425 ducati, era autorizzato dalla Serenissima a vendere medicinali e riceveva dal Governo gratuitamente la fornitura di un “burcio”d’acqua da bere … E il pozzo ? Che fine aveva fatto ? 
Le Monache fornirono la loro chiesa di un organo nuovo a 60 registri … e il Principe Elettore di poi Re di Polonia in visita a Venezia prese lezioni di caccia in valle da Gian Battista Minozzi sacrestano delle Monache di Santa Croce della Giudecca.

Ancora nell’aprile del 1782 il murer Michieletti Antonio rilasciò una scrittura di ricevuta per una demolizione fatta dentro al Monastero della Santa Croce alla Giudecca per una spesa di lire 482, mentre il murer Mazzon Giuseppe ne rilasciò un’altra per il pagamento di una demolizione costata lire 1.074.

All’inizio del 1800 Papa Pio VII visitò diverse volte il Monastero ricevendo in dono dalle Monache un Messale coperto d’argento, un libro che raccontava la vita di Sant’Eufemia, una stola ricamata in oro, e un “Rocchetto” finissimo da indossare cucito con asola d’oro e guarnito a merletto ... 

"Durante la Quaresima al Santa Croce della Giudecca si predicava quotidianamente il Quaresimale come in altre 37 chiese  di venezia … e il 3 maggio di ogni anno, Festa della Santa Croce si celebravano riti molto solenni con esposizione di tutte le preziosissime reliquie..."

“Poi fu la fine di tutto … e ogni cosa andò storta e a remengo …”scrisse in una sua lettera Suor Paola una delle ultime Monache residenti nel Santa Croce.

Nel luglio 1806 il Monastero della Croce della Giudecca venne soppresso e le 35 Monache Benedettine rimaste furono concentrate assieme a quelle di San Zaccaria. Lo Speziale Giampaolo Baldissera rivendicò presso il Magistrato un credito dalle Monache, ma “… Vista la condizione economica miserevole delle Monache, … s’invita lo Speziere creditore a soprassedere o a rivolgersi direttamente al Direttore del Pubblico Demanio che ha preso tutto e ogni risorsa in carico ...”

Infatti, il Perito Demaniale Pietro Edwards aveva elencato e requisito dal Monastero e Chiesa della Croce alla Giudecca a nome del Governo: 226 quadri, 51 sculture di cui 16 lignee e 8 teste di cherubini. Le numerose e preziose Reliquie vennero portate provvisoriamente a Palazzo Pisani Moretta, e si misero all’asta in diversi lotti 20 parapetti d’altare ceduti per lire 364 a Nicola Brazzoduro; un baldacchino ricamato in oro ceduto ad un Frate Fontanotto per lire 54, vari arredi venduti per lire 312 a un certo Prete Antonio Pappini fra cui si elencavano:“Careghe di noghera, un organo, Christi in avorio e molto altro …”

Infine, come sapete bene, chiesa e monastero divennero sede carceraria e dell’Archivio di Stato ... e in piccola parte magazzino per le carriole della spazzatura dell’AMAV.

“Sic transit gloria mundi !” concluse in fondo alla sua lettera sconsolata e malinconica la stessa Suor Paola rimasta senza il suo Monastero della Croce … Poco dopo fu anche cacciata da Monaca e costretta a dismettere l’abito, "... e relegata "liberamente" e di nuovo a lavorare i campi ed allevare galline presso i suoi parenti di campagna..."

"SOTTO AI PORTICI E ALLE VOLTE DI RIALTO ..."

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 59.


“SOTTO AI PORTICI E ALLE VOLTE DI RIALTO …”


Nel 1459 si ricordava che sotto ai portici di San Giacometto di Rialto, sul nuovo muro costruito per separare la Pescaria dalla Piazza per lo sbarco dei Nobili, c’era un Mappamondo dipinto con le mappe marittime del Mediterraneo e anche oltre dove s’inventavano e programmavano gli itinerari delle spedizioni e dei viaggi commerciali, e si pattuivano i “Contratti di Sicurtà”.  Era una specie di grande Portolano inscenato all’aperto, a disposizione e sotto gli occhi di tutti. Lì mettevano insieme i capitali e le somme da spendere, contattavano Notai, Banchieri e Assicuratori, si consorziavano le alleanze commerciali delle “Maone di Viaggio”,e si progettavano i carichi delle Galee delle Mude di Stato fornite e protette dalla Serenissima scovandone e investendone il Capitano da Mar che le guidava. Proprio là sotto si decidevano e calcolavano gli investimenti e i ritorni economici, si decidevano le rotte e le regole del viaggio, si calcolavano rischi, spese e guadagni, si sceglievano e differenziavano uomini e merci per quelle imprese redditizie ma altamente rischiose.


In un certo senso confluiva a Venezia tutto quanto si scambiava, vendeva e contrattava nelle Fiere e nei Mercati dell’Europa e del Nord dall’autunno e fino alla Quaresima e Pasqua. Tutti il meglio dei prodotti confluiva via terra o mare a Venezia soprattutto in Primavera per la grande Fiera della Sensa, e da qui prendeva la via del mare e dell’Oriente e dell’Africa. Viceversa, in Autunno e prima di Natale da Venezia partiva e s’espandeva il prezioso commercio contrario che si riversava sull’intero mondo Europeo e Transalpino. E così via … in un’andata e ritorno redditizia e senza fine … Ciò che all’origine nelle terre lontane costava 10 spesso giungeva e poteva quasi centuplicare di valore sulla piazza di Venezia: erano affari ! E che affari …


Nel 1460, ossia l’anno dopo, al Mercato di Rialto 2 libbre di cacio dolce costavano lire 8, e 1 forma di cacio tenero e fresco costava 10 lire, mentre 1 libbra di cacio spugnoso, fresco, tenerino e bianco valeva 4 lire ... Una formella di cacio Cretese costava, invece, 10 lire, e una pezza di formaggio Morlacco veniva soldi 2 e piccoli 8 la libbra.  Te li poteva vendere Benassuto detto “il rosso” della Contrada di San Barnaba, oppure li potevi comprare da Marino entrambi appartenenti all’Arte dei Pestrineri.


Per riuscire ad entrare a far parte di quell’Arte selettiva e chiusa, avevano dovuto attendere i 4 anni dell’apprendistato, e altri 12-16 da lavorante prima di poter superare davanti al Gastaldo dell’Arte e ai Bancali dei Pestrinai la prova di:  “Cucinare una caldiera di capodilatte, e far un capodilatte cotto, tagliando nella caldiera una coperta che venga a coprir un piatto imperial …”

Vendevano “la latte”,il siero o “scolo”, formaggio magro da colla, onti e burri sottili freschi manipolati da loro come la panna, il capo di latte cotto e la puina.


Il Pestrinaio era un’Arte prestigiosa, tanto che veniva raffigurata fra i Mestieri importanti di Venezia scolpiti sugli Arconi esterni della Basilica di San Marco. Il nome derivava dal “pestrìn” che era un piccolo mulino in cui di solito una mucca girava la macina. I Mastri Pestrineri o Venditori di latte di Venezia erano circa una cinquantina con una decina di garzoni, e commerciavano e lavoravano in circa 28 botteghe, radunandosi in Congrega a numero chiuso nella chiesetta di San Mattio di Rialto davanti all’Altare di San Giuseppe preso in affitto dal Piovano, dove celebravano ogni anno una festa patronale il giorno 19 gennaio.


Dal 1769 la Schola deliberò di unirsi assieme a quella de devozion del Cristo e dei Morti, anch'essa ospitata nella chiesa di San Mattio. In una nota contenuta nella loro Mariegola rivestita "… con broche e passetti d'argento …"si raccontache fra Pasqua e giugno a Sant'Antonio, ci fossero più di 1.000 le mucche pascolanti nei campi posti a ridosso della gronda lagunare di Venezia, nel tratto fra il canal de l'Oselin e le località di Campalto e Texera.

I prodotti dei Prestinai venivano venduti a Venezia tutti i giorni compresi quelli festivi da dodici lavoranti estratti a sorte, ed esisteva anche una vendita porta a porta fatta da donne che possedevano una mucca, per la quale pagavano una tassa alla Corporazione.


Sono questi due scenari isolati dell’Emporio di Rialto. Ma andiamo per ordine … c’era molto di più.


Già nel 976 il cronista Giovanni Diacono accennava che i corpi di Candiano IV e di suo figlio furono gettati senza sepoltura tra i resti delle carni macellate in un luogo paludoso “oltre canale” dove c’era una Beccaria o “macelli forum”.


Nel 1051, leggendo gli atti per la divisione fra gli eredi di Giovanni e Pietro Gradenigo, si descrive l’area fra il Canale di Rivoalto e il Rio di San Giovanni accanto alle proprietà degli Orio. Lì ci sono: approdi, depositi o solarii, botteghe o staciones con terreni pertinenti, accessi diretti sui canali, possibilità di scolo delle acque, calli larghe 3 piedi e stazi di beccaria ... Qualche anno dopo, Tiso e Pietro figli di Stefano Orio donarono alla Serenissima un “ordine di botteghe” con terreni di loro proprietà contigui a quelli dei Gradenigo, posti dove già sorgeva il Mercato coperto e scoperto di Rialto. Circa nello stesso periodo, Stefano Coronario consegnò a Enrico Dandolo Patriarca di Grado “… per la salvezza della sua anima e dei suoi eredi ...”, un pezzo di terra di 70 metri x 45 sito in “capite Rivoalti” per costruire una nuova chiesa di San Mattio ... poco distante da dove nel 1071 cadde per la prima volta il campanile di San Zuan de Rialto.

Già nel maggio 1164 un gruppo di 12 proprietari sottoscrisse un prestito volontario a favore della Repubblica consistente nel cederle i redditi del “Provento Rivolatini Fori o Mercatum Rivoalti”per le necessità del“Commune Veneciarum” impegnato nel sedare una rivolta a Zara e a combattere contro gli Ungari ... mentre due anni dopo la Nobile Sidiana Sanudo pensò bene d’investire una parte dei suoi soldi per costruire una casa-canonica al povero Piovan di San Mattio che era ancora senza tetto.


Era nato l’Emporio di Rivoalto o Rialto, luogo di osterie e taverne, contrattazioni e prezzi, Giustizia cause e processi, merci e misure, Dazi e prestiti pubblici. Quando le Nobili Famiglie: Gradenigo, Sanudo e Zorzi si trasferiranno ad abitare altrove, il luogo diverrà sede degli Ufficiali sopra Rialto e dell’Ufficio Pesi e Misure, della Giustizia Nuova e dell’Ufficio dei Cinque alla Pace per deliberare su torti e ragioni relative a ferite d’arma, e in seguito dei Provveditori al Sale della Serenissima e del Doge, che vigilavano e decidevano sui Dazi del Vino, la Ternaria dell’Olio e le Beccarie.


Dopo la metà del 1200 s’interrò una zona paludosa presso San Mattio di Rialto, e i “Visdomini” controllavano che il Dazio del carbone e del legname fosse pagato alla Tavola dei Lombardi sulle Rive di Rialto, e il Maggior Consiglio varò norme relative a Dazi sui panni e fustagni che entravano nella Drapperia di Venezia dal Nord, Tarvisio e Portoguaro.

Si perde nell’incertezza delle cronache antiche la data della costruzione del primo ponte in legno che cavalcò le due sponde del Canale Grande veneziano dilatando a dismisura l’area cittadina della primitiva area di Rialto dedicata al mercato. Andrea Dandolo disse e scrisse che accadde per merito del Doge Renier Zeno nel lontano 1264. Altri cronisti veneziani, come Antonio Vitturi, Giorgio Dolfin e Marin Sanudo lo fanno addirittura risalire al 1173 o 1190.

Sta di fatto, che circa intorno a quegli anni il Maggior Consiglio vietò a chiunque di sostare e vendere liberamente in barca, sulle rive e a terra nella zona compresa fra il Ponte, la Loggia dei Mercanti e Camerlenghi e la casa di Paolo Gradenigo che sorgeva sulla Riva del Vino. Era nato l’Emporio Mediterraneo Realtino di cui la Serenissima in persona rivendicava e gestiva diritti, guadagni, movimenti ed esclusiva.

Fu quel mondo variopinto e carico di vita che con i suoi Fondaci, magazzini, volte, botteghe, copriva un’ampia zona di Venezia che andava dalle Contrade di San Giovanni Crisostomo fino alle Mercerie di San Salvador verso San Marco spandendosi dentro fino a San Lio da una parte e San Bartolomio ai piedi del Ponte di Rialto.


Dall’altra parte del Canal Grande il grande Emporio Realtino occupava di certo le Contrade di San Giovanni Elemosinario, quella oggi non più esistente di San Mattio con la prossima San Giacometto, e certamente le limitrofe Contrade di San Cassiano e San Silvestro. Un microcosmo, insomma, in cui all’ordine del giorno c’era tutto l’anno la compravendita di mille spezie, perle, oro, sete preziose, stoffe e lana, avori, incenso, nardo, zucchero, ebano e legni preziosi, fustagni, cotone, vino, olio e qualsiasi altro bene prezioso e di prestigio. Intorno a questo ruotava un grande circo di Notai, Mercanti, Banchieri, Sensali, faccendieri, marinai, nobili, facchini, pesatori, artigiani … e accanto a questo grande movimento di respiro internazionale i cui protagonisti venivano ospitati e accolti in una miriadi di Osterie e Locande, esisteva anche il non indifferente commercio spicciolo e quotidiano di quanto era necessario per sostentare la città: quindi la Pescheria, l’Erbaria e tutto il Mercato della frutta, pollame, verdure e tutti i prodotti caseari e da cortile nonché quello della Macelleria o Beccaria che comprendeva anche i prodotti della Caccia e soprattutto le copiose manifatture dei numerosi Arti e Mestieri della città.


Una kasbah immensa, spettacolare e inenarrabile, di cui oggi rimane solo l’idea e scarsissime, quasi infime tracce.

Furono istituiti degli appositi Ufficiali Sopra Rialto con l’ordine di controllare l’intera zona e tenere il ponte sgombro e normalmente chiuso al passaggio delle navi. Chi richiedeva l’apertura temporanea del “Ponte dei Ponti” era tenuto a versare agli Ufficiali una somma di denaro che veniva poi utilizzato per le riparazioni.


Inizialmente era permesso il commercio al minuto sopra al Ponte solo ai forestieri, agli ambulanti, e ad una speciale categoria di poveri riconosciuti da apposito permesso rilasciato dagli stessi Ufficiali. Ma visto il successo dell’iniziativa, si aprì la vendita e la sosta anche al commercio di tutti i Veneziani ... C’era talmente “movimento” a Rialto, che nel 1288 un Nobile Da Canal si fece dispensare da una prestigiosa carica di Ufficiale Pubblico per poter attendere ai numerosi affari che aveva in corso alla vigilia della partenza della nuova Muda delle Galee.


Nel marzo 1224, Gerardo da Parma del Confinio o Contrada di San Zuan di Rialto, presentò fidejussione per Jacopo de Caxapicata de Verona per l’acquisto di 2 miliara di olio, e per Aleardo de Ugone Molese de Verona per ½ miliara d’olio e 10 miliara de fichi diretti a Verona. Nello stesso giorno, Martino Auriolo dello stesso Confinio, presentò un’altra fidejussione per Ragaciano da Mantova e il socio Gilio per l’acquisto di 20 miliara di fichi diretti a Mantova; e per Belacato da Brixia o Brescia per acquistare 8 miliara di formaggio.


A Rialto, per comodità e utilità comune, Prete Johannes Rolando di San Giovanni di Rialto era Pubblico Notaio, come in seguito lo fu Paolus sempre Prete di “Sancti Johannis de Rivolato”, ossia la stessa chiesa ... Lo furono anche Antonio e Bartolomeo Preti in San Bartolomeo, appena giù dei gradini dall’altra parte del Ponte di Rialto … che era stato fatto in legno … in sostituzione di uno più antico fatto di barche.


Nel 1239, invece, Filippo Bacari da Malamocco pagò 4 ½ lire Veronesi l’anno, 2 paia di anitre selvatiche a Natale e qualche regalia di pesce nelle grandi feste a certi Ottone e Giovanni di fu Gradalòn Gradenigo di San Giovanni di Rialto, per gestire 1/8 di una certa “Pescaria detta Cancto Grosso” dove si pescava ed uccellava.

L’anno seguente, Marco Gradenigo del Confinio di San Giovanni Evangelista fece testamento a Rialto costituendo esecutore testamentario e usufruttuaria del suo patrimonio sua moglie Tommasina. Del tanto che possedeva, lasciò a suo figlio Giovanni lire 300 di denaro Veneto per sanare un debito che aveva lasciato scoperto; alla figlia Marchesina lasciò la rendita di una bottega a San Zuan di Rialto affittata agli Orefici Benedetto e Simone per lire 12 sempre di buon denaro Veneto; al figlio Giacomo ch’era Prete lasciò invece: acque e peschiere nella zona di “Laguna Alta e Canneto Grosso” presso Malamocco e Poveglia. Infine, lasciò agli altri figli: Giovanni, Marino, Enrico, Paolo e Michele, tutti i beni che possedeva nella zona di Rialto ed altrove.


Nel 1310 i congiurati Marco e Pietro Querini e Tiepolo attaccarono la “Domus Comunis qui est in capite Pontis Rivoalti” dove abitava il medico Pietro, distrussero e bruciarono l’Ufficio dei Cinque alla Pace strappando tutte “le scritture” lì conservate, e devastarono il Fondaco della Farina rubando tutto il denaro che vi si trovava “… non in piccola quantità …”

I Querini possedevano molte attività a Rialto, ed erano “Juspatroni” di gran parte della zona del Mercato dove avevano la loro “Ca’ Granda o Mazor” in Contrada San Matteo. Dopo la congiura, lo Stato requisì tutto tramite i Magistrati al Sale, e trasformò il Palazzo dei Querini in Stalòn e Beccaria Nuova demolendo le vicine botteghe del sale. Alcune cronache dicono che, non rinvenendo gli strumenti divisionali delle proprietà del palazzo dei Querini, il Governo compensò Giovanni Querini, che era innocente non avendo partecipato alla congiura, pagandogli il terzo del palazzo che gli apparteneva. Gli 80 banchetti delle botteghe della Beccheria di Rialto, delimitata da selciato, coperta e chiusa da portoni in larice, erano allineate e divise a gruppi per taglio, esposizione e vendita della carne.


A Rialto risiedeva “l’Uffizio dei Provveditori Sopra le Beccarie e Pubblici Macelli” gestito da tre nobili. I Beccai tenevano Confraternita di Devozione sotto il patrono San Mattio nella chiesa omonima della quale per “breve” del Papa Eugenio IV, avevano il diritto di eleggere il Piovano. Nell'ultima domenica di Carnevale nella Corte di Palazzo Ducale i Beccai si mascheravano “… all'Europea, all'Asiatica, all'Africana, ed all'Americana …”, e si segnalavano particolarmente attivi specialmente nelle “Cacce dei tori molai”. Nello stesso giorno gli stessi Beccai godevano del privilegio per la fedeltà dimostrata alla Repubblica, di montare con venti persone la guardia del Palazzo Ducale dall'ora di terza fino al termine dei pubblici spettacoli.


Anche i Beccai erano rappresentati sugli Arconi della Basilica di San Marco fra le Arti e Mestieri indispensabili alla Serenissima. A testimonianza di questo, già dal 1306 il Maggior Consiglio stabilì che i Beccai di Venezia non dovessero avere né Gastaldo né Decano proprio, ma fossero direttamente sottoposti al controllo dei Giustizieri Vecchi ... I Magistrati Veneziani in un certo senso compravano la carne per la città dai Beccai prestando loro denaro pubblico. I Beccai avrebbero pagato una multa e restituito i soldi se non tenevano ben rifornite le 60 banche di Rialto affittate all’incanto una volta all’anno.


I Beccai avevano anche l’obbligo di mantenere la chiesa di San Mattio contribuendo per 26 ducati annui, ed esponevano ad ogni festa in Campo delle Beccarie il loro gonfalone della Scuola dei Macellai con l’Apostolo San Matteo dipinto da Pietro Negri. Di solito, nei secoli, la Corporazione veneziana contava un’ottantina d’iscritti e appartenenti, di cui 60 erano Mastri attivi e abili al lavoro, e altri 20 circa erano inabili e solo dediti alle vendite, alle scritture e a insegnare l’Arte.


Nell’agosto 1314, Giovannino Beccaio di Venezia denunciò alla Serenissima d’aver subito un furto di bestiame chiedendo congruo risarcimento, mentre in realtà aveva venduto al Comune di Treviso i 200 capi di bestiame che teneva a Ca’ di Mezzo presso Marghera. La Serenissima ovviamente lo “smascherò e ricompensò” a modo suo … Vent’anni dopo circa, i Provveditori alle Beccarie multarono un Beccaio di Rialto facendogli pagare l’ammenda a rate, per aver condotto da Mestre molti animali, tra cui agnelli, senza pagare il Dazio agli Ufficiali di Venezia. Di solito il Cancelliere di Mestre doveva rilasciare un permesso per i Beccai inviandone copia all’Ufficio delle Beccarie di Venezia ... Perfino lo Scrivano di San Giuliano, che controllava i prati da pascolo da San Zulian fino a Tombello, affittati ai Beccai di Mestre e Venezia, poteva perdere il lavoro se lasciava passare gli animali di contrabbando.


L’intero mercato delle pelli di Venezia era controllato dai Beccheri che fornivano materia prima ai Conciatori di Pelli dei laboratori della Giudecca. Ai Becheri appartenevano anche i “Partitanti dei manzi” ossia dei mercanti di bestiame che s’impegnavano con la Serenissima a fare arrivare ogni mese a Venezia a prezzo calmierato un determinato numero di bovini da Turchia, Ungheria e Stiria.

Siccome il commercio delle pelli degli animali costituiva il 10% del valore dell’animale, nel 1460 per ordine del Senato s’istituì in Contrada di San Silvestro il “Fondaco del Cuoio da suola”, dove Partitanti dei manzi, Scorzeri e Beccheri avevano l’obbligo di riporre tutte le pelli da acconciare e da vendere soprattutto ai Calegheri e Zavateri di Venezia.

In seguito, la Serenissima sempre bisognosa di soldi, appaltò a privati per 4.000-6.000 ducati annui sia la riscossione dei Dazi sulle Carni, che quello della Vendita del cuoio da suola raccolto nel “Fondaco del Curame”.


A Venezia si pagavano due tipi di Dazi diversi sulla carne macellata: quello d’entrata sul mercato, e quello del consumo con la vendita al minuto. Inoltre si pagava un Dazio a parte sulla Concia delle Pelli. I Beccai per ammazzare, scorticare e sventrare percepivano 12 soldi per ogni bove di peso non superiore a 100 libre, 16 soldi per quelli da 100 a 200 libre, e 20 soldi per quelli che le superavano. Trattare un maiale costava 6 soldi, 2 soldi per un castrato, 1 soldo per manipolare un agnello.


Sotto il controllo di 15 Fanti della Magistratura pagati 45 lire ciascuno, la carne che usciva dalle Pubbliche Beccarie veniva bollata e pesata con la stadera di Rialto o di San Marco ... Di notte nell’Emporio di Rialto e quindi nelle Beccarie Pubbliche tutto era spento e chiuso, e le chiavi erano tenute da un Massaro che guadagnava 1 ducato al mese, e sorvegliava che non si vendesse carne di notte.


Accanto allo “Stallone delle Beccarie” sorgeva,fino al cadere della Repubblica, anche la “Panateria”dell’Arte dei Pistori con 25 botteghe di pane o “Paniceas tabernas”stabilite lì con apposita delibera fin dal 1341 per poter essere viste meglio.


Quindici anni dopo circa, il Doge Giovanni Soranzo avviò i commerci e la Mercatura di Venezia sulle piazze musulmane del Levante col consenso diretto del Papa ... mentre a Rialto coi ricavi della Camera del Dazio sul vino si scavavano canali e s’allestivano “palate” e approdi sulla Riva sinistra del Vino contigua alla Riva del Ferro e si costruiva Rialto Novo allargando il Mercato ... La Quarantia impose agli Ufficiali di Rialto di tenere sgombri gli accessi all’Emporio dell’Inxula Realtina impedendo ad ambulanti, viandanti e forestieri di sostare per vendite di galline, capponi e uova … Si poteva vendere: formaggio, carni di porco e olio solo nelle botteghe autorizzate e negli stazi pubblici ... Parallela al Ponte sorse la Ruga dei Varoteri con relative botteghe, e due nuove strade con la Casaria e la Corderia ... Ai piedi del Ponte sulla Riva del Vin e del Ferro stazionavano i burci col vino, olio, ferro, piombo, stagno, metalli, farine, pepe, panni lana, sete e sale in partenza per la Terraferma o in arrivo dal Levante e Ponente.


Il Mercante Fiorentino Duccio di Banchello presente e attivo a Venezia fra 1330 e 1375, ricordava che a Rialto erano attivi 8-10 Banchieri con i quali si poteva trattare e sui quali si poteva certamente contare.


Il Doge Antonio Venier fece nobilitare la “Merceria di Rialto” facendo tagliare alberi e rimuovendo gli antiestetici “reveteni o pozzuoli” che sostenevano le case pericolanti ... Fece anche lastricare con grandissima spesa sia la Piazza di San Marco che l’Emporio di Rialto … Il clero dell’antica parrocchiale di San Giacometto, inglobata nel Mercato e rimasta senza abitanti, percepiva un reddito di 36 ducati annui fornito dalla Signoria, mentre il Vescovo di Castello cedette in cambio ai Provveditori al Sale proprietà, stazi e volte nei pressi della chiesa per eventuali nuovi allargamenti del Mercato ad uso pubblico ... Attraverso la “Merceria di Rialto” facevano il loro “Ingresso Pubblico” con grande sfarzo: Patriarchi, Procuratori e Cancellieri Grandi regalando a tutti pan di zucchero. Per l’occasione i Mercanti sfoggiavano ricchezza e mettevano in mostra i loro oggetti preziosi, gli artigiani addobbavano le botteghe ed esponevano i loro lavori e manufatti, gli artisti i propri quadri, sculture e intagli ... mentre nel 1389 Piero di fu Zane Benedetto, padrone di uno dei Banchi di Scrittura più attivi a Rialto, fece rogare dal notaio Pietro de Compostellis l’Atto di Emancipazione dalla Patria Potestà di suo figlio Zannino dandogli “in mera libertà” 200 lire di grossi ossia 2.000 ducati d’oro con cui iniziare a commerciare. Due giorni dopo, padre e figlio presso lo stesso Notaio formarono una compagnia commerciale con altri due giovani coetanei ed amici: Marco figlio di Andrea Condulmer della Contrada di Santa Maria Maddalena anche lui neoemancipato, e Jacobello quondam Lorenzo Zane della Contrada di Santa Maria Materdomini. Ciascuno dei tre giovani fornì una somma di 2.000 ducati in “pecunia numerata” o in merci approvate con lo scopo di investire il capitale in Venezia o altrove, per terra e per mare, per il periodo di almeno un anno o finchè uno non disdicesse la sua adesione, dividendo tutto in parti uguali: sia danni che lucro e guadagno. Un tale zio Benedetto avrebbe supervisionato “il corretto agire” della Nuova Compagnia.


A metà circa del 1300 il Maggior Consiglio condonò all’Oste Corozato da Modena della Contrada di San Mattio la pena di 3 lire inflittagli dai Giustizieri Nuovi perché gli avevano trovato nel locale una quantità di pane non autorizzata ... Lo stesso Consiglio, ridusse a 40 soldi di piccoli la multa di 10 lire di piccoli inflitta all’Oste Rosso Bon sempre di San Mattio di Rialto per aver tenuto 28 letti invece di 30: e concesse a Giovani Sacharola di condurre una Taverna nella stessa Contrada con sala da ballo e 8 letti ... Papa Eugenio IV, invece, concesse Juspatronato sulla chiesa di San Mattio con facoltà di eleggerne il Piovano all’Arte dei Macellai di Venezia, che da sempre già provvedevano al sostentamento del Piovano di San Mattio e alla manutenzione degli edifici religiosi versando annualmente almeno 26 ducati.


Nel 1379, al tempo del Doge Andrea Contarini e della guerra contro i Genovesi, i Calegheri, Spezieri, Becheri, Orefici e Notai di San Zuanne di Rialto contribuirono alle spese della Serenissima Repubblica con prestiti volontari per la cifra di lire 141.853 ... In Contrada abitavano 21 Nobili, fra cui Sjer Antonio Corner che contribuì per 15.000 lire, Sjer Marin Lion che contribuì per 40.000 lire, e Sier Marco Zacaria che contribuì per 12.500 lire.


Viceversa, la piccolissima Contrada di San Mattio, dove abitavano 2 Nobil Homeni e 1 Nobil Donna, fra cui Sier Maffio Minio che contribuì con 15.000 lire, offrì nel suo insieme alla Serenissima: lire 23.900 ... Anche il Piovan della stessa Contrada, a causa delle rendite che possedeva su alcune case, fu costretto ed “entusiasta” di offrire 1.000 lire ... Fin dal 1383, la chiesetta di San Mattio appena rifabbricata ospitava i Devoti della Scuola di San Gottardo. Dal 1436, invece, ospitò anche quelli della Scuola di San Michele dell’Arte dei Becheri, a cui seguì la Scuola di San Giovanni Battista dell’Arte dei Caneveri di Rialto e di San Marco.


Le case di San Zuan contribuirono alle spese di Stato della Serenissima con 3.500 lire, e sempre in Contrada di San Zuan risiedevano 7 contribuenti abbienti fra cui Nicolo’ Scandolèr che offrì lire 600, e Stefano de Bezi che diede lire 1.000.


Verso la fine del secolo cadde di nuovo il campanile di San Giovanni Elemosinario il cui Piovano era Prete Omobon Notaio Veneziano, che diventò in seguito Arciprete del Capitolo di San Pietro di Castello … Gli Ufficiali Sopra Rialto chiesero l’allontanamento dei Bastazi dalle aree prossine alla chiesa per evitare l’eccessivo disordine … Fra 1397 e 1399, grazie ad un lascito testamentario di Tommaso Talenti s’istituì per i Patrizi e Nobili di Venezia, ovviamente nella Ruga Vecchia degli Oresi presso la chiesa di San Zuan di Rialto, il Gimnasium Rivoaltinum che pur considerando “… la Logica, l’Uomo e la Filosofia Aristotelica e Naturale”, non disdegnava di far Politica, Teologia, Matematica e soprattutto teoria e pratica mercantile influendo su tutta la città. Era un luogo di pubblica lettura con Maestri d’abaco, Mistica dei Numeri, e Pratica delle Arti ... che il Piovano Paolo della Pergola Lettore d’Aristotele e Peripatetico cercò di trasformare in Università senza riuscirci. Nel Gimnasium di Rialto s’insegnava “… mattina e dopopranzo … stipendiati dal Governo …”, quando Francesco e Domenico Bragadin figlio di Marco, Antonio Corner e Luca Pacioli aggiunsero Geometria ed Astronomia a quanto già si apprendeva.


Nel 1448 al Piovano di San Zuan Paolo Dalla Pergola fu proposto l’incarico prestigioso di Vescovo di Capodistria, ma lo rifiutò per continuare a svolgere il suo incarico d’insegnamento a Rialto fino alla morte nel 1488.


Pressappoco negli stessi anni, nel 1396, Simone e Gabriele Condulmer (confondatori futuri del Monastero di San Giorgio in Alga e poi Papa il secondo nel 1431) si unirono in Compagnia investendo un capitale di 20.000 ducati d’oro lasciati dal padre Angelo nel Banco di Rialto di Pietro Benedetto. Una corrispondenza commerciale di sette lettere con la filiale pisana di Francesco di Marco Datini riferisce di una partita di 15 balle di 223 panni pregiati provenienti dalle Fiandre del valore di quasi 5.000 ducati. Dovevano essere piazzati e venduti a Maiorca, ma a causa dei pirati la cocca Bemba li scaricò a Livorno incerti se commerciarli a Pisa per 18-20 fiorini ciascuno, o se spedirli a Venezia presso il Fondaco dei Condulmer dove il valore era di 20-22 ducati. Alla fine i Condulmer decisero per Pisa. Ancora nel 1423 Simone col figlio Angelo continuavano a commerciare ad Ancona con l’appoggio di Gabriele Condulmer divenuto Cardinale e Legato Papale delle Marche. Acquistarono 23 botti d’olio d’oliva con destinazione Romania, e il Cardinale, spazientito per i tempi lunghi della consegna, fece anche arrestare il Capitano della nave.


E questi sono solo due fra gli infiniti esempi di ciò che accadeva a Rialto ...


In quel tempo, si costruì presso San Giacometto di Rialto l’Orologio Pubblico per regolare il tempo del Mercato e dei Mercanti sul luogo dove c’era anche la Pietra del Bando”per le comunicazioni di Giustizia, Pubblica utilità e Politica che si davano “Infra duas scalas” presso le volte dei Toscani sopra la Drapperia ... Viceversa la campana di San Giovanni Elemosinario di Rialto scandiva l’ora dell’inizio delle attività degli artigiani e del mercato, e la chiusura ed apertura di botteghe, volte, uffici, chiavi e cancelli col coprifuoco serale e notturno in cui ogni fuoco, lume e candela dovevano essere spenti per paura della devastazione degli incendi.


Nello stesso tozzo campanile quadrato e gotico si pose anche un famoso e spettacolare orologio a congegno fabbricato da Gasparo Ubaldini Maestro d’Orologi da Siena “…che sonava le ore, et veniva fora uno gallo, el qual canta tre volte per ora …”  


Il controllo delle merci in arrivo, del peso ed imballaggio non poteva più essere gestito da privati o direttamente nel Fondaco dei Tedeschi, ma si doveva effettuare solo sotto le volte dei Visdomini delle Tre Tavole di Rialto dove andava tutto il vino, olio, grassa, legno e ferro in Entrata, eccetto quanto portato dalle Galee delle Fiandre e da quelle esenti dai Dazi ... A Rialto si aggiunse la “Messetteria” per le operazioni di compravendita effettuate direttamente in Dogana, e si autorizzò l’apertura della Banca di Ser Andrea Barbarigo Brocca al posto di quella di Bernardo Ciera appena fallita.


In quel secolo a Venezia, ogni anno si esportava per 10 milioni di ducati d’oro, e s’importava per altrettanti con un guadagno di 4 milioni e incremento del capitale del 20%. In certe occasioni, si giunse a guadagni del 35-50% sul capitale investito commerciando in chiodi di garofano, noce moscata, gomma lacca e cotone grezzo. Si muovevano sull’Adriatico chiamato Golfo, e sull’intero Mediterraneo 3.000 bastimenti con 17.000 uomini, e altre 300 navi più grosse con 8.000 uomini. Soprattutto navigavano 45 Galee di Stato con 11.000 marinai. Venezia e le Lagune limitrofe erano abitate da 190.000 abitanti di cui più di 1.000 erano Patrizi e Nobili con rendite di 200-500.000 lire annui. La città Serenissima annoverava 3.000 fra costruttori di navi e Squeraioli e 3.000 Calafati, e la sua Zecca coniava ogni anno 1 milione di ducati d’oro, 200.000 monete d’argento, 80.000 di rame. Fioriva il contrabbando da parte di uomini armati su barche che passavano e sfondavano le Palificate o Palade Confinarie della Repubblica ferendo e uccidendo i Gabellieri e i Fanti della Serenissima.


Nel 1413 il Doge Tommaso Mocenigo fu costretto a tenere aperto ai navigli mercantili solo la bocca di porto di San Nicolò del Lido per permettere un’adatta vigilanza ai suoi Gabellieri del Dazio ... Un decreto della Serenissima prevedeva il taglio delle mani per il capo del contrabbando e cavato un occhio e taglio della mano per tutti gli altri complici, conniventi e sottoposti. Inoltre i contrabbandieri venivano banditi per almeno 10 anni da Venezia, e se recidivi sottoposti a un anno di prigione con rinnovo del bando e 500 lire di multa.


Secondo il solito diarista Marin Sanudo, fra 1496 e 1533 le banche veneziane ad attività limitata locale sorsero come funghi dopo la pioggia. La loro attività condizionate dal valore internazionale fluttuante del mercato dell’oro e argento acquistato soprattutto da importatori tedeschi, comprendevano ambiziose avventure commerciali, prestiti ai Mercanti e allo Stato che era sempre affamato per le sue interminabili attività guerresche. Nel 1499 Venezia manteneva attivi ben due eserciti contemporaneamente: uno in Lombardia e la flotta contro i Turchi. Chi contribuiva con i propri capitali alle spese della Serenissima riceveva in cambio Obbligazioni di Stato con l’appetibile interesse del 4-5%. Il problema era che Venezia emetteva più Obbligazioni di quante poteva realmente permettersi di pagare l’interesse promesso, quindi quelle azioni decrescevano progressivamente finché Venezia decideva unilateralmente d’incamerare il capitale originario ... e fine del discorso.


A Venezia, a disposizione di tutto quanto accadeva sotto ai portici e le volte di Rialto, erano attive almeno 10 grosseBanche di pegno e commerciali dette “Banche di Scritta”con circa 4.000 depositanti che tenevano aperti conti in banche diverse, e muovevano qualcosa come 1.000.000 di ducati. 


Una delle principali Banche era quella del Nobilissimo Andrea Garzoni fondata nel 1430 e fallita nel febbraio 1498 con un debito fra 96.000 e 250.000 ducati. Riaperta e fallita nuovamente nel marzo1500 con 518 creditori. Al momento del fallimento il Banco possedeva un attivo fra 128.000 e 155.000 ducati in prestiti, gioielli, argenti, titoli di Stato e proprietà immobiliari. I Garzoni, che facevano anche prestiti su pegno al Duca di Mantova, fallirono subendo pesanti perdite per l’acquisto d’argento a un prezzo superiore al tasso di conio per aumentare le loro riserve.


Un’altra grossa Banca era quella dei Nobili Lippomano fondata nel 1488 in società tra Tommaso Lippomano e Andrea Cappello. Fallì nel 1498 diretta da Girolamo Lippomano con un debito di 120.000 ducati forse dopo averne già saldato un altro di circa 300.000 ducati. Al momento del fallimento aveva 1.248 depositanti fra cui 700 Nobili di Venezia, ma più di 600 conti avevano meno di 20 ducati in deposito ... e avanzava prestiti da orafi e argentieri, e soprattutto interessi dallo Stato e dall’Ufficio del Sale.


La Banca Pisani, invece, fu fondata nel 1475 e liquidata senza fallire chiudendo nel 1500 con ancora più di 95.000 ducati in deposito. Riaperta nel 1504, chiuse di nuovo nel 1528 dopo la morte del direttore Alvise Pisani. I Pisani furono i maggiori acquirenti dell’argento dei mercanti Fugger tedeschi, e avevano 40.000 ducati investiti su Galee mercantili in Viaggio nel Ponente in Fiandra e Barberia con lane e stoffe. Nel 1519 la Serenissima aveva con la Banca Pisani un debito di 150.000 ducati, perciò il Mercante Alvise Pisani, che in un certo modo governava l’economia dello Stato, divenne uno dei Capi del Consiglio dei Dieci.


La Banca di Agostini Matteo aveva un giro di depositi nettamente inferiore alle altre 3 grosse banche cittadine, e fallì nel 1508 con un passivo di 110.000 ducati a causa si disse della loro disonestà, esosità e incapacità. Sier Agostini prestò denaro a un Capitano dell’esercito esigendo in pegno l’anello nuziale della moglie … Sempre Agostini stesso aveva un debito con la sua banca per 65.000 ducati … e i mercanti d’argento Tedeschi andarono a protestare col Doge perché gli Agostini volevano comperare solo alle loro condizioni ... La Zecca Veneziana quindi non ricevette più argento … e ancora Sier Agostini mise in salvo a Mantova un mese prima di fallire moglie, figli e beni tutti.


Sulla Piazza di Rialto esisteva anche la Banca di Gerolamo Priuli che deteneva numerosissime cariche di Stato. Fu Ufficiale della Marina di Venezia, Comandante delle Galee di Mercato per Beirut, e importava lana dall’Inghilterra. Fu costretta a liquidare e chiudere nel 1513 soprattutto a causa dei prestiti in perdita fatti allo Stato.


Oltre alla banca secondaria di unbanchiere ebreo Anselmo,e a numerosi cambiavalute sparsi per Rialto e la città, c’erano anche i Banchi dei Cappello e Vendramin, la Banca di Bernardo Matteo grande mercante ad Alessandria d’Egitto, che fece perfino prestiti al Papa su pegno di gioielli; la Banca di Antonio Priuli anche lui Mercante ad Alessandria e alleato stretto del Banco Pisani; la Banca dei mercanti Andrea e Piero Molin costretta a liquidare con una grande calca a Rialto nel 1526 quando in luglio la moneta di banca possedeva una differenza del 15% sul valore reale ... Durante la grande crisi economica del 1526 che fece chiudere a quasi tutti i Banchieri, fallì anche la piccola Banca di Andrea Arimondo che mori’ “da melinconia del banco” con un passivo di 27.000 ducati e un attivo per soli 6.000 ducati.


Intanto, i soliti Ufficiali Sopra Rialto ricordavano che il Ponte in legno di Rialto era marcio e da ricostruire ... e infatti, trent’anni dopo tra febbraio ed agosto fu demolito e rifatto ad unico arco, ponendo in opera 12.000 pali, e spendendo 2.323 ducati.


Si chiuse la Dogana in Riva di San Biagio, e si aprì la nuova Tavola dei Lombardi o Dogana de Terra di Rialto sulla Riva del Ferro detta poi del Vin, e la Dogana da Mar alla Punta del Sal per le merci provenienti via mare dove si pagava il Dazio dell’Entrata e dell’Uscita ossia dell’Insida. Esisteva inoltre una Tavola della Ternaria che si occupava principalmente del commercio dei grassi e degli olii e saltuariamente di legname ed altro percependo i relativi Dazi e Gabelle per lo Stato Serenissimo.


Venezia non scherzava per niente sull’applicazione di Dazi, Tasse e Balzelli su tutto quando arrivava e partiva o veniva comprato e venduto in Laguna.

Applicava una tassa del 2,5% detta“Quarantesimo” pagata dai commercianti stranieri per merci importate o esportate via terra e dalla parte settentrionale del Golfo dell’Adriatico.Un’altra tassa importante del 20% chiamata il “Quinto” veniva pagata per le merci lucrative che giungevano via mare dal Levante, mentre l’“Octuagesimo” del 1,25% era riservato ai soli veneziani su qualsiasi merce che vendevano o compravano.

La gabella più importante era la“Messetaria” detta così perché ogni affare veniva contratto alla presenza del“Messeta” o “Sanser” o “Sensale” ossia un intermediario Ufficiale di Stato che fungeva spesso anche da interprete col diritto di riscuotere il 0,25% del valore dell’affare trattato sia dal compratore che dal venditore. Di tale imposizione solo il 30% andava al Sensale mentre il resto entrava nelle casse statali.


In una notte del dicembre 1511 la Dogana da Terra sulla Riva del Vin bruciò. Il Diarista Marin Sanudo puntualissimo raccontò tutto nei suoi “Diari”.


“… voglio scriver come in questa notte a hore 8 se impiò fuogo, non si sa il modo, perché lì non vi sta niuno, in la Doana di Terra, et brusòe quella et alcune volte in la Calle dil Hostaria olim di Storion, appresso il Dazio del Vin in Rialto, et fo gran fuogo, et vi era asà brigata, e mercadanti che attendeano a svodar li loro magazeni, siché tutta sta notte Rialto fo piena di zente, e merchantie si portavano a refuso fuori di magazeni, et fo gran danno … Pur questa mattina fo stuà. Si dixe à principià il fuogo in un magazen dove li Provedadori di Comun tenevano la munitione per il fuogo, siché per la terra si andava gridando: “Zentilomeni leveve suso!  … Andé a svodar li vostri magazeni!  … Si brusa al Fontego di la Farina!...”


Nicolo’ Trevisan raccontò, invece, che esistevano già due ordini di botteghe sui bordi e da una parte e dall’altra del Ponte di Rialto. Si trattava di botteghe che smerciavano prodotti di lusso: Mandoleri, Merzeri, Muschieri, Stringheri e Varoteri, Merzeri. La Serenissima era furba e accorta: metteva all’incanto per 9.000 ducati e 400 di deposito la gestione delle singole botteghe, che rendevano ciascuna fra 8 e 40 ducati circa l’anno. Le 8 botteghe più importanti messe insieme guadagnavano più o meno 235 ducati ossia il costo di un intero restauro del Ponte.

Infatti, ogni tanto si provvedeva a ritoccare e rifare alcune parti del Ponte spendendo 200-400 ducati, e si prosciugava mezzo canale per non interrompere il traffico controllando e rinforzando la palificazione sotto al ponte.


Nel 1421, il Doge Tommaso Mocenigo in assemblea con i Nobili in Maggior Consiglio, riferì sullo “… stato della salute della Serenissima”, tutto pomposo, gratificato ed entusiasta … “impongato”si direbbe alla Veneziana.


“… Ogni settimana vengono solo da Milano ducati 17.000 – 18.000 … Viceversa, introduciamo merci nel Ducato di Milano per 1.610.000 ducati d’oro l’anno … Di là vengono 90.000 pezze di panni l’anno che valgono ducati 900.000; e per l’entrata, magazzinaggio ed uscita a ducati 1 per pezza, abbiamo ducati 200.000, che montano con le merci a 28.800.000 ducati … Ancora vengono canovacci per ducati 100.000 l’anno, ed altre assai cose i Lombardi traggono da noi ogni anno; per modo che fatta stima di tutto, verrebbero ad esser 2.800.000 ducati … Assai si vantaggia pure coi sali la cui tratta è cagione di far navigare tante navi in Soria, tante galere in Romania, tante in Catalogna, tante in Fiandra, in Cipro, in Sicilia e in altre parti del mondo; per modo che Venezia riceve tra provigioni e noli, 2 ½ - 3 %; Sensali, tintori, noli di navi e galere, pesatori, imballatori, barche, marinai, galeotti e messeterie procacciano altri 600.000 ducati ai nostri di Venezia senz’alcuna spesa e ne vivono migliaia di persone grassamente … Verona compra ogni anno 200 pezze di broccato d’oro, d’argento e di seta; Vicenza 120, Padova 200, Treviso 120, il Friuli 50, Feltre e Cividal di Belluno 12; carichi 400 di pepe; fardi 120 di cannella; zenzeri di tutte sorta molte migliaia e altre spezie assai; migliaia 100 di zuccari, 200 pani di cera … Per la pace la nostra città manda 10 milioni di capitale ogni anno pel mondo con navi e galere per modo che guadagnano tra mettere e trarre: 4 milioni.

Abbiamo navigli 3000, d’anfore da 10 tonnellate fino a 200, con marinai 19.000, navi 300, che portano uomini 8.000; fra galere grosse e sottili ogni anno 45, con marinai 11.000, abbiamo 16.000 marangoni… La stima delle case somma a 7 milioni di ducati, gli affitti delle case a 500.000, 1000 gentiluomini hanno di rendita annua da ducati 70.000 fino a 4.000. Voi avete 8 Capitani da governar 60 galere e più, e così le navi … Avete tra balestrieri, gentiluomini che sarebbero sufficienti padroni di galere e navi, e saprebole guidare, avete 100 uomini usi a governar armate, pratici per togliere un’impresa; e compagni assai per 100 galere, periti e savj, galeotti assai per 100 galere … La nostra Zecca batte ogni anno ducati d’oro 1 milione e d’argento 200.000 tra grossetti e mezzanini e soldi 800.000 all’anno.

I Fiorentini mandano ogni anno panni 16.000 finissimi, fini e mezzani in questa terra; e noi li mandiamo nell’Apulia pel reame di Sicilia, per la barberia; Soria, Cipro, Rodi, Egitto, Romania, Candia per la Morea, Istria … Ed ogni settimana i Fiorentini conducono qui 7000 ducati, cioè 364.000 all’anno per comprar lane francesi, catalane, cremisi e grana, sete, oro, argento, filati, cere, zuccheri e gjoie con beneficio della nostra terra: così tutte le nazioni fanno …”


Fu una relazione sullo stato economico della Venezia di allora a dir poco: spettacolare. E ce n’era ben motivo perché nel 1400 molte città italiane vendevano e compravano attraverso, da e per Venezia.


Tortona, Novara ed Alessandria spedivano a Venezia 6000 pezze di panno l’anno per un valore di 90.000 zecchini acquistando Tortona e Novara merci per 56.000, e Alessandria per 150,000 zecchini. Pavia inviava 3000 panni per 45.000 zecchini e acquistava per 104.000 zecchini. Milano mandava 4000 panni per 120.000 zecchini e ne spendeva annualmente 90.000 per acquistare merci, mentre Monza forniva 6000 panni per 90.000 zecchini e comprava per 56.000 zecchini. Brescia 5000 panni per 30.000 zecchini, Bergamo 10.000 pezze di panni per 140.000 zecchini, Cremona fustagni per 30.000 zecchini e spendeva 140.000 zecchini per acquistare merci. Parma 4000 pezze di panni per 60.000 zecchini, Como dava 100.000 zecchini per acquisto merci, e Piacenza ne dava 102.000 annui per lo stesso motivo.

Tutte queste città compravano da Venezia: cotone per 200.000 zecchini annui, filati per 30.000, lana catalana per 3000, lana francese per 120.000, panni d’oro e di seta per 250.000, pepe per 300.000, cannella per 64.000, zenzero per 80.000, indaco e grana per 50.000, saponi per 250.000, schiavi per 30.000 e sale per 1.000.000 sempre di zecchini.


La zona di San Mattio e di San Zuan Elemosinario, giù dal ponte di Rialto era Contrada ricca di locande e osterie molto frequentate e malfamate ... delle cui memorie a volte rimane solamente il nome.


Fino dal 1355 le Osterie in Venezia erano 24 con 960 letti sempre pronti … La “Locanda Ospizio allo Sturiòn”apparteneva al Comune di Venezia, ed è ricordata dal Sanudo in Riva del Vin a Rialto dove abitavano alcuni Procuratori di San Marco, con alterne vicende di chiusura e riapertura fin dal 1343. La sua insegna è anche visibile nei quadri di Vittore Carpaccio come il “Miracolo della Reliquia della Croce”. La Cronaca Dolfìn ricorda “lo Sturiòn” ospitò i 7 Ambasciatori del Friuli con un seguito di 50 persone.


Nel luglio 1398 si condannò il suo Oste Gugliemo con altri per aver venduto vino di minor qualità del prescritto, così come nel 1414 si condannò Antonia moglie dell’Oste Pasqualino Bonmatheo per aver sposato senza il permesso dei tutorii “Signori di Notte”, la figlia Chiara avuta dal primo marito Meneghino Tubetà ammazzato in pubblico servizio. 

Nel 1516, invece, un Decreto del Collegio imponeva ai Provveditori al Sale di spendere 50 ducati …per far le volte del Sturion per poterle afittar aut meter tre uffici a ciò non vadano de mal ...”, e cinque anni dopo il Comune tentò di vendere l’osteria all'incanto, ma non riuscendovi, si decise di: “…fabricar la Doana di Terra dove era l'Hostaria del Sturion per metter gli Uffizii Messetteria, Insida, et Intrade ...”


Fra 1339 e 1409 era segnalata attiva in zona di Rialto l’“Osteria all’Agnus Dei”con almeno altre 9 locande: Osteria al Pavone”frequentata da intellettuali, e ricordata nella commedia rinascimentale “La Venexiana” e dall’Aretino nei suoi “Ragionamenti”. L’“Osteria allo Specchio” ospitò, invece, con tutto un suo seguito di compagni tedeschi il Pellegrino Stephan Von Gumperberg che raccontò di un elefante addomesticato che si aggirava per la locanda e “… colloquiava con l’Oste come se avesse avuto intelligenza umana…”. Della serie delle 9 osterie antiche, facevano parte anche l’ “Osteria al Popone”,l’“Osteria del Cammello”, l’“ Osteria del Pizzo”,l’ Osteria alla Cicogna”, l’“Osteria del Vaso”, l’“Osteria dell’Orso”… e altre ancora.


Negli stessi anni, il Maggior Consiglio graziò Antonio Pisani, Oste dell’ “Osteria del Gallo” multato per aver contravvenuto, e ridusse a 8 lire la pena di 20 lire di piccoli inferta ad Anastasia ostessa dell’ “Osteria alla Zucca” in Rialto, rea di aver ospitato stabilmente due prostitute; a 100 soldi ridusse la pena di 30 lire imposta dai Giustizieri Nuovi a Bilantelmo Oste dell’ “Osteria della Serpa”, per aver alloggiato anche lui 3 meretrici; graziò Gerardo Faurino Oste dell’ “Osteria alla Stoppa” multato in 25 lire di piccoli per aver contravvenuto alle norme di chiusura; e  concesse a Gunido ancora Oste “…a pluri o all’ingrosso” e conduttore della stessa “Osteria alla Stoppa” di ridurre ad uso di Taverna la sua Osteria.


Anche l’“Osteria al Gambero” era attiva dal 1399 al 1725 nell’omonimo Campiello. Un Oste Venturino dell’ “Hospitio Gambari in Rivoalto” venne ucciso con molte ferite da un certo Armano cappellaio, e da un Angelino e Leonardo tutti tedeschi. Furono condannati in contumacia a perpetuo bando, e ad avere tagliata la mano destra nel luogo del delitto, e con essa appesa al collo essere condotti fino in mezzo alle due colonne di San Marco dove essere decapitati … qualora avessero osato rimettere un solo piede a Venezia. La stessa sorte fu promessa anche a Francesco Pincarella, Giovanni Gallina e Giacomo ab Azalibus, mezzani d'amore, per aver ferito “ … cum uno gladio panesco …” e derubatoFioravante, Girolamo da Brescia e altri compagni che stavano giocando a carte “ … in hospitio Gambari in Rivoalto”.


L’ “Osteria del Bò o del Bue”,retta già da Rolandino fin dal 1372, era con l’ “Osteria del Melon”, il “Saracin”e “l’Anzolo” detta“il Lupanare di Rialto”, e l’“Osteria della Stella”proprietà dei Nobili Foscari e Soranzo, ecome“Le Spade” e “Il Gambero” erano osterie di Rialto davanti alle quali sostavano prostitute tutto il giorno a caccia di clienti.

Una Legge del 1460, infatti, invitava tutte le meretrici della zona a concentrarsi nelle “8 case d’ospitalità”di Priamo Malipiero in Contrada di San Matteo di Rialto poste: “… in quadam rugam post Hospitium Bovis”


Il Maggior Consiglio ridusse della metà la multa di 25 lire di piccoli inflitta dai Giustizieri Nuovi all’Oste Guglielmo dell’ “Osteria Al Sarasin” per aver trasgredito agli ordini di chiusura. La locanda osteria era vecchissima, perché retta già fin dal 1361 prima dall’Oste Giovanni Boneto e poi dall’Oste Gambarla.


L’“Osteria all’insegna della Torre”, invece, apparteneva ai Nobili Bartolomeo Vendramin e Caterina Foscolo e solitamente ospitava Turchi e Levantini fino a quando furono concentrati nel Fondaco dei Turchi nel 1621.


Ancora, la rinomata “Osteria de la Scimmia”, risultava attiva a Rialto dal 1398 al 1725,e si trovava a San Zuan Elemosinario di Rialto presso la“Pescheria Grande”sulla riva del Canal Grande. Sorgeva in uno stabile donato alle Monache di San Lorenzo di Castello da Giovanni Venier con un atto notarile presso il Prete e Notajo Pietro Bonvicini. Le Monache lo destinarono ad affitto come Osteria, e fuun’altra delle “Osterie a pluri”pubbliche veneziane.

Nel gennaio 1513 l’osteria appena rifatta andò in fumo nel terribile incendio che coinvolse mezzo Emporio di Rialto ... e lì dentro morì di peste l’Oste Piero di Zuanne di Bernardini a 23 anni.

Ancora nel 1713, Simon Mascaroni “… hosto alla Scimia sul Rio delle Beccherie … pagava pigione alle Monache di San Lorenzo ...”


Nel maggio 1354 il Maggior Consiglio concesse a Giovanni Oste della “Campana”di tenere solo 12 letto al posto dei 40 previsti ... mentre sei anni dopo, lo stesso Consiglio graziò della pena di 10 lire di piccoli il precedente Oste Martino “dell’Ospizio dei Varoti” condannato per aver trasgredito le norme relative alla vendita del vino, mentre la locanda era gestita da Donato da Treviso, e in seguito da Leone Cavola.

Nel gennaio 1361 ancora il Maggior Consiglio concesse a Giovanni della Pigagnola di gestire a Rialto una “Caneva”denominata “Alla Colonna” momentaneamente vacante, e nel 1415 autorizzò “l’Osteria della Croce”ad ospitare per non più di 24 ore: Veronesi, Vicentini e Padovani a cui erano state revocate le case di permanenza in città.


Gli anni fra il 1431 e il 1451 furono i più prosperi del commercio Veneziano col Levante e precedettero un’epoca di ristagno commerciale e crisi economica in cui iniziarono anche a fallire tutte le famose Banche di Venezia. Il solito Diarista Marin Sanudo, infatti, ricordava:


“Le grandi lotte politiche nascondono una lotta fra magazzini pieni e vuoti, tra necessità di vendere e comprare...”


I Nobili Mercanti Patrizi e investitori iniziarono a gestire il loro patrimonio rimanendo fermi nel Fondaco di casa a Venezia, e consideravano disonorevole vendere e comprare al minuto, e di grande prestigio e utilità commerciare all’ingrosso, così come consideravano vile e spregevole commerciare in legna, carbone e cenere. L’enorme capitale accumulato veniva “fatto girare” ossia reinvestito nuovamente, oppure serviva a finanziare opere d’arte, palazzi, ville, oggetti preziosi o pingui depositi nella Zecca o prestiti allo Stato che procuravano grosse rendite e interessi senza spostarsi da Venezia ... e gironzolando solo un poco sotto alle volte e i portici di Rialto.


Nel 1471 venne eletto Doge il Mercante Nicolò Tron che si era arricchito praticando la “Mercandia”per 15 anni a Rodi dove aveva investito ¼ del suo grande patrimonio in palazzi e immobili.

Anche cinque anni dopo si elesse Doge un Mercante inizialmente sopranominato per spregio e invidia: “el casaruòl”. Era Andrea Vendramin che in gioventù aveva commerciato ampiamente “in fraterna” con fratello Luca e molti altri nobili assumendo anche il carico di due intere Galee commerciali in rotta da e per Alessandria d’Egitto.


Il chirurgo di Bologna Leonardo Fioravanti assiduo frequentatore di Venezia descriveva così i suoi mercanti dell’epoca.


“… il Mercante di Venezia deve conoscere il tipo e la qualità delle merci … La cannella non vuole essere troppo grossa, né manco troppo sottile, et di soave odore, et essere di sapor dolce al gusto, et un poco piccante alla lingua … I tappeti vogliono essere belli al disegno, et haver vaghi colori, et bassi di pelo. I panni di lana debbono essere pastosi, et haver bei colori, et lustri ... Le rasse vogliono essere alte, et ben tessute, che non habbino falli dentro, ma che stiene ben distese … Si devono conoscere le merci tipiche di ogni paese:

A Cipro si caricano formenti, sale bianchissimo, cotoni et carrube ...

In Candia si carica malvasie, vini, formaggi, corami ed aceto ...

A Zante si carica formenti, vini, naranze, limoni, olive, olio, lana et pelle, et uve passe in quantità, zibibi et altre cose … Dell’Istria si cavano bonissimi vini, agnelli, capretti et tutte sorti di frutti …

Del Friuli, bonissimi vini, et in gran quantità, farine, legumi, et frutti d’ogni sorte …

Di Brescia si cava ferramenti lavorati d’ogni sorte, et archibugi, et ogni altra sorte di arme miracolose ...

Di Polonia si cava gran copia di gibellini, martori, foine, dossi et vari: tutte pelli di grandissima importanza ...

Di Fiandra si cavano gran copia di tapezerie, panni fini, carisee, fustagni, figure di tela et pesci salati ...

Dell’Allemagna si cava ottoni lavorati, stagni, coltelli, aghi da pomo, sonagli et una infinità di diverse merci come tele, frisetti di seta fina, flauti e simil cose …

Di Franza si cava lane finissime, tele, tovaglie, tovaglioli et un mar di libri di tutte le scienze ...

Di Spagna si cava tonina o salume di tonno, arenghe, vini, seta, lane e pellami assai ...”


Nel 1495 prese fuoco la casa-fondaco del Nobile e Mercante Antonio Diedo piena di ricchezze, mobili preziosi, e giacenze di olio, spezie, lane e merci varie ... Nello stesso anno il Nobile Mercante Pietro Bragadìn (che in seguito diventò ViceDoge), che commerciava da tempo pepe da Alessandria si trovò implicato in una vertenza col fisco perché aveva importato sotto falso nome per conto del padre Andrea anch’egli mercante. Commerciava fra Levante e Ponente in preziosi di cui era esperto conoscitore, e continuò i suoi affari anche quando divenne Bàilo a Costantinopoli concludendo operazioni sul Mar Nero in cui guadagnava fino al 100%. Suo figlio Zuan Francesco Bragadin nel 1519 era presente ad Alessandria in attesa di carovane dall’interno dell’Africa e dal Mare Arabico, e trattava di spezie ed altri generi importanti inviando Galee cariche a Venezia.

Due anni dopo ancora, il Nobile Mercante Marco Bollani naufragò nelle acque vicine all’isola di Cherso con due Galee cariche di merci orientali, e morì annegato e trascinato a fondo da una cintura che indossava contenente 1500 ducati (più di un kg di oro puro).


Ben presto, sempre nell’Emporio di Rialto, la Serenissima fece costruire i Palazzi adatti ad ospitare le sue principali Magistrature commerciali ed economiche di Comune, nonché i propri Tribunali. Erano tutte sedi e Uffici di prestigio, con pareti e soffitti riccamente decorati e abbelliti da pitture di artisti che facevano a gara per far ospitare le loro opere. Quei luoghi riguardevoli e giornalmente iperfrequentati da persone “di conto e riguardo” traboccavano ed erano un tripudio di Madonne, Crocifissi, Pietà, episodi Biblici ed Evangelici, Santi, Paesaggi, rappresentazioni delle Virtù e del Buon Governo, e ritratti di Personaggi che coprivano cariche insigni.


La lista contenente i nomi d’artisti insigni e famosi ed altri meno illustri sarebbe lunghissima: Domenico Tintoretto, Rocco Marconi, Bernardino Prudenti, Bernardo Licini, Paolo Veronese, Giovambattista Lorenzetti, l’Aliense, Giovanni Bonconsigli, Marco Tiziano, Giacomo Bello, Donatello, Pietro Mera, Marco Basaiti, Bonifacio. Bartolomeo Vivarini, Stefano Carneto, Vitrulio. Pietro Malombra, Paolo De Freschi, Odoardo Fialetti, Baldissera d’Anna, Matteo Ingoli, Alvise Dal Friso … per non elencarli proprio tutti.

Tutti quei posti erano occupati e frequentati da Senatori, Giudici, Camerlenghi, Notai, Banchieri, Cassieri, Segretari, Avvocati e dai “… Sjori illustrissimi della finanza di Venezia e dell’Europa tutta …”


A Rialto risiedevano almeno una decina delle principali Magistrature Civiche: i Dieci Savi alle Decime; i Provveditori sopra la Revisione dei Conti istituiti dal Doge Leonardo Loredan per la contabilità degli Ambasciatori, Capitani Generali da Mar e i Provveditori d’Armata; i Provveditori sopra gli Uffici istituiti dal Doge Giovanni Mocenigo come Revisori sui conti di Cipro; i Sindaci di Rialto con autorità su Notai, Scrivani e Commendatori; gli Ufficiali ai Dieci per le contese relative al noleggio di navi e le ragioni dei padroni di Galea; gli Ufficiali e i Provveditori alle Cazzude che prendevano decisioni l’amministrazione dei beni e dei debiti verso lo Stato; i Sopra Consoli per la vendita all’incanto dei pegni dei Banchieri e degli Ebrei a Rialto; gli Ufficiali alla Tocca dell’argento per bollare il metallo lavorato; l’Ufficio sopra le merci del Levante; e i Giudici del Piovegoresponsabili per strade, edifici e questioni confinarie pubbliche e private, oltre che ai diritti e doveri per lo scavo dei canali.


E non finisce qui, perché al piano superiore dei Palazzi che sorgevano accanto al Ponte di Rialto, sopra alle volte del mercato, erano ospitate “di sopra … in solaro”, come si diceva allora: il Magistrato della camera dell’Imprestiti, il Magistrato del Monte Novissimo e quello del Monte di Sussidio.

Sempre a Rialto risiedevano leTre Tavole dei Dazi: quella dell’ “Entrata o Intrada o dei Visdomini”, quella dell’ “Uscita o Insida” prima detta dei Lombardi, la “Ternaria”per l’olio, legnami e ferro ... e laDogana da Terra con relativi uffici del Dazio del Vino, Provveditori sopra i Dazie iProvveditori al Sale con un Proto e relativa cassa. Riscuotevano i soldi del monopolio del sale; erano responsabili dell’affitto delle botteghe, volte, stazi, magazzini e rive; deputati all’amministrazione delle fabbriche pubbliche con relativa manutenzione; e incaricati di polizia, sorveglianza e ordine pubblico.


C’erano inoltre i luoghi della “Messeteria”e“Stimaria” per la valutazione e la tassazione sugli scambi, e il  “Farinarium emporium” ossia il, Fondaco della Farina e dei Pesatori del Frumento istituito per la prima volta nel 1178 sotto il Doge Orio Mastropiero accanto alle case Contarini. Consisteva in 30 “fontegharie pubbliche coi loro magazzini” dai larghi guadagni, condotte da privati a cui erano state affittate per un determinato numero d’anni al miglior offerente in cambio del versamento anticipato del canone. Su biade e granaglie scaricate sotto un porticato che dava sul Canal Grande, e sul Fontego e Fontegharie vigilavano al piano superiore gli Ufficiali al Frumentoche seguivano l’andamento internazionale e interno del mercato della farina. Alla fine del 1500 le botteghe o mude di vendita erano 73 con altrettanti anditi di deposito, e una serie di volte sotto il muro maestro sostenuto da colonne a capitello.

Saccheggiato dai congiurati di Baiamonte Tiepolo nel 1310, il Fontego della Farina, ora Ufficio del Catasto, venne ricostruito più volte a seguito d’incendi come quello del gennaio 1513 descritto ancora una volta nei Diari del Sanudo.

“… s'apprese il fuoco anche a questo Fondacoet poi entroe in caxa di s. Zuan Sanuto lì appresso, qual si bruxoe. Et prima era bruxata quella di Sjer Hieronimo Tiepolo cao di X, che era contigua al Fontego predetto … “

L'Arte dei Fonticai o Fontegheri teneva Scuola di Devozione prima in chiesa di San Silvestro e poi a Sant’Aponàl intorno ad un altare dedicato alla “Natività di Maria Vergine”.


Poco distante sorgeva accanto alla “Piazza di Rialto” laCalle del Parangòn dove si producevano e soprattutto vendevano panni di lana e drappi di seta perfetti, fini e di qualità tale da essere presi come riferimento e “paragone” per gli affari. Nel luogo “…del parangòn de la seda …” Domenico Loredan possedeva due volte nel 1582, e negli “Annali”del Malipiero si legge che il 5 marzo 1492, “… è zonto qua do Ambassadori del re di Polonia con 60 boche per andar a Roma e Napoli, et ha alozà in Corte del Parangon a spese della Signoria …”.


Dall’altro lato del Ponte di Rialto stava una loggia aperta per le contrattazioni e gli affari dei nobili e mercanti, e d’estate per i Consoli sulla Mercanzia e i Saviche redimevano controversie e litigi. C’era inoltre l’edificio delle Rason Vecchie che sopraintendeva sulle spese degli Ambasciatori e stranieri ospiti a Venezia e sull’arredo delle case del Comune. Controllavano anche l’affitto del Dazio sul pesce o Dazio del palo presente nella Pescaria di Rialto. Accanto a loro stavano i Camerlenghi da Comun responsabili delle casse dello Stato, dei “Banchi di Scrittura” e controllori dei creditori della Repubblica. Gli Ufficiali Extraordinari verificavano i libretti delle merci in arrivo via mare a Venezia, mentre i Giudici all’Esaminatore creati dal Doge Reniero Zen sorvegliavano i pegni, le vendite al pubblico incanto, e la regolarità dei testamenti.


Infine in una terza loggia stavano gli Ufficiali alle Razon Nove che revisionavano i conti degli Ambasciatori di Venezia inviati all’estero, ed erano responsabili della gestione della chiesa di San Giacometto di Rialto che era diventata di Juspatronato Dogale.


Nel 1469, sul resoconto delle Entrate e delle Spese della Repubblica, c’era scritto che il gettito dell’Emporio di Rialto, considerato: “sacrario della città”, arrivava a quasi 500.000 ducati sui 650.000 totali, ossia il 90% del reddito dello Stato. Si tenga conto che nello stesso anno l’imposta sulle case dell’intera città rilevata e raccolta dai Dieci Savi alle Decime ammontava a 54.000 ducati … Durante la peste del 1478 le botteghe e le volte di Rialto rimasero incustodite, e un controllo acqueo con barche della Serenissima circumnavigava di continuo i luoghi.

I Provveditori al Sale minacciano pene corporali e grosse multe per chi: “… ruinava banchi, stazi di frutta e d’erbe, o alimentari lungo le rive della Pescaria Vecchia le cui rive devon essere lasciate sempre libere ...”

Presso la chiesa di San Giovanni Elemosiniero avevano sede la Scuola di Santa Croce dell’Arte dei Mercanti da Tela o Telaroli, la Scuola di Santa Caterina d'Alessandria dell’Arte dei Corrieri Veneti, e in seguito quella di San Nicolò dell’Arte dei Cimadori o Cimolini e Sopressadori de panilani. Accanto a queste c’era anche la Scuola dell'Annunciazione che associava Galineri e Butiranti, e quellla della Madonna del Carmine per le devozioni dei Biavaroli.

Nel 1484 si sospesero per 2 anni tutti i convogli delle Galee diretti nelle Fiandre e in Inghilterra a causa delle scorrerie incontenibili del pirata e corsaro Colombo che catturò le Galee capitanate da Ser Bartolomeo Minio.


Nel 1491 si costruì la Pescaria Nuova con un fondaco per il taglio e la vendita delle carni. I banchi di vendita, che non dovevano superare gli 8 piedi, venivano affittati periodicamente a privati per 15 ducati annui con obbligo di deposito anticipato variabile fra 4 e 8% ... Le botteghe e volte di Rialto non affittate venivano utilizzate come magazzini ...L’anno seguente si pose sotto al portico di Rialto ai piedi del Ponte ligneo la “Stagiera Pubblica” … La famiglia Bianchi della contrada di Sant’Aponàl teneva sopra al Ponte bottega da piombi e ferramenta “all'Insegna della Madonna” ... e si autorizzò l’apertura della “Naranzeria”posta sotto e fra il Palazzo dei Camerlenghi e la chiesa di San Giacometto. L'Arte dei Naranzeri era un “Colonnello”riservato ai soli Veneziani che dipendeva dall’Arte dei Fruttaroli.


Nel Mercato di Rialto,comea San Marco sul Ponte dietro alla Zecca, sorgeva la Casarìa” dove sivendevano “cacio e grassina” in 30 “inviamenti”venduti ai Casaroli dalla Repubblica per 62 mila ducati.Nella “Mariegola de l’Arte o Consorzio de Casaroli”,che si radunava nella chiesa di San Giacomo di Rialto dove gestiva l'altar maggiore, si legge nel 1436:


“ … nessuna persona, sì casarol come altra persona, non osi comperar caseo, né carne, né altra grassa per rivender per sé né per altri, se non ha botega del Comun di Venezia, cioè in Rialto, dentro la Ruga di Casaria, o in San Marco; che in quella vender possino e non in altro luoco, sotto pena di Lire 10 de piccoli per cadauna volta contrafaranno …”


A pianoterra del Palazzo dei Camerlenghi dove risiedevano: Consoli, Sopraconsoli e Magistrati, c’erano le “Prigioni dei debiti”. Si trattava di tre stanze con basse finestre inferriate prospicienti la fondamenta, visibili ancora oggi. Sulla facciata del palazzo c’è scolpito ancora oggi un capitello con un uomo seduto con un pene fatto ad unghia, mentre più sopra una donna seduta mostra la “sua natura” arsa dalle fiamme. Secondo tradizione popolana si raccontava che era talmente improbabile che il Ponte di Rialto venisse costruito in pietra, che si diceva: “Voglio che se ciò si farà, mi nasca un'unghia fra le coscie!”, oppure:“Voglio che le fiamme m'abbrucino la natura!” ... Nello stesso palazzo, nel giorno di San Giacomo del 1560, Giovan Battista dalla Terra di Lavoro entrò con chiavi false e rubò uno scrigno con 8.000 ducati. Catturato e processato, gli fu tagliata la mano destra davanti allo stesso palazzo e poi fu impiccato sempre sulla Piazza di Rialto.


Nel 1500 secondo il Cronista Garzoni, il gestore dell’ “Osteria del Gambero” era un “… ladro …”,mentre quello dell’ Osteria al Moro” era “… un infedel saracino …”, quello della locanda “Al Sole”era “… un che si scotta sul vivo senza toccarsi punto …”, quellodelle “Tre Spade”: “… un Briareo che non perdona alcuno…”. L’Oste dell’“Osteria del Corno” era:“… un vero cornuto …”, mentre il gestore dell’ “Osteria all’Angelo”: “ … era un autentico Diavolo”, e quello della“Campana”: “… un morgante pronto ad accopparti …”


L’“Osteria al Sol”fu attiva a Rialto fra 1514 e 1799, e si trovava verso la Contrada di Sant’Aponal in direzione del Campiello delle Scoazze.Inizialmenteapparteneva alle Monache di San Servolo che la vendettero ai NobiliVenier che la ingrandirono inglobandovi un Botteghin e casa affittato a Bortolo Lioni, e delle piccole case adiacenti affittate a Giacomo Miotti, Francesco Zanga e Zuane Casarini.L’Osteria era segnalata come quella“Alla Scoa”, come una delle pubbliche“Osterie a pluri” veneziane, che avevano l’esclusiva di offrire vini puri di Romania, Candia, Malvasia, Ribolla e Trebbiano. Le altre “osterie a minori” offrivano, invece, vini terrani a basso prezzo e si rivolgevano a clientela popolare di bassa condizione.


Carlo de Zuane Oste dell’antica“Osteria all'insegna delle Spade al ponte in legno sul rio delle Beccherie” nel 1488 era Gastaldo della Confraternita degli Osti, solita radunarsi nella chiesa di San Mattio.

Il catasto del 1566 ricordava:

“… l'Osteria delle do Spade a San Mattio con due botteghe sottoposte appartiene alla Nobile Famiglia dei Foscari, ed è appigionata ad un Oste di nome Battista …”

Infine, esisteva già a Rialto la rinomata “Osteria a pluri de la Donzella”, di ragione del Monastero di Santa Maria dell’Umiltà in fondo alle Zattere del Sestiere Dorsoduro ... Nel 1506, quando in Contrada di San Mattio vivevano 370 persone e solo il 15% delle case erano abitazioni, un violento incendio distrusse la locanda Osteria del Bo’ coinvolgendo solo in parte le vicine “Fruttaria”e “Casaria”dove accaddero furti di beni e pietre.


Nel censimento del 1509 ordinato dal Consiglio dei Dieci e condotto da 2 Commissari per Sestiere, le “persone utili” registrate nelle Contrade di San Giovanni e San Matteo di Rialto erano solo 89 su un totale di 8.339 persone residenti nelle 4 Contrade del Sestiere di San Polo ... Le botteghe di Rialto messe all’incanto procuravano allo Stato 107.000 ducati, più altri 30.000 ducati per lo scarso numero di acquirenti, a cui si aggiunsero ancora 70.000 ducati provenienti dalle botteghe concesse ai Giudei-Ebrei.


Nella chiesa di San Mattio di Rialto aveva sede la Scuola di Devozione dell’Arte degli Osti sotto il patrocinio di San Giovanni Battista. Una legge del 1318 obbligava gli Osti a tenere sempre preparate due camere a quattro letti “…honorifice et decenter fornitis pro qualibet camera …”dove la Serenissima potesse ospitare Ambasciatori, Ecclesiastici importanti, e altre persone di rango che potessero capitare a Venezia meritando d’essere ospitate decentemente. Fino dal 1355 le Osterie a Venezia erano 24 con 960 letti, ma il Senato le ridusse a 13 nella zona di San Marco e San Giovanni in Oleo, e 8 a Rialto. In tutte le Osterie si potevano trovare stalle e cavalli, perché la Legge prevedeva che gli Osti dovevano percepire:“… 6 soldi di piccoli al giorno per ogni cavallo ospitato, fornendo fieno, paglia, servizio di stallaggio e un quartarolo di biada ...”


All’inizio del 1500 Venezia movimentava almeno 22 Galee commerciale di cui almeno 16 erano d’investitori privati. Era inoltre diventata anche un centro manifatturiero perché possedeva 20.000 telai attivi per la seta, produceva 20.000 pezze di lana annue, assieme a rasi, velluti e scarlatti che esportava sia in Levante che in Ponente.Ma c’era crisi nell’aria e novità sorprendenti da oltre i mari che facevano traballare i monopoli e il successo commerciale di Venezia La Mercatura forniva ancora ampli guadagni, l’aumento del prezzo delle Spezie fruttò a Venezia un utile di 200.000 ducati dei quali 40.000 andarono ai soli Nobili Grimani … il Banco dei Pisani aveva 40.000 ducati investiti nei viaggi di Ponente … mentre Donato Da Lezze raccontava che in uno scontro con i Turchi alcuni comandanti di Galee da mercato si rifiutarono di attaccare per non rischiare i soldi e le merci che trasportavano a bordo … Il Banchiere Andrea Garzoni aveva investito 85.000 ducati non rientrati ritrovandosi con un debito complessivo di 200.000 ducati ... e i Nobili Lippomano erano indebitati per altri 119.000 ducati … Un operaio addetto alle riparazioni di Palazzo Ducale percepiva in quegli stessi anni circa 100 ducati annui.


Nell’agosto 1498 una delle Galee di Venezia dirette in Fiandra e Inghilterra aveva caricato da Rialto oltre 100 balle di spezie, 280 botti di vino, 328 coffe di rami lavorati destinati alla Sicilia, 160 casse di sapone, qualche balla di panni per la Sicilia ed altre cose minute. Venezia esportava: spezie, panni di seta, camelotti, cotoni filati, fustagni veneziani e cremonesi, bassette, uva passa greca, zafferano, galla e guado e allume di rocca, sapone. Di passaggio per la Sicilia aggiungeva ancora: zuccheri, coralli, cotone, seta greggia e zolfo.


Nel 1501 Girolamo Priuli raccontava delle novità giunte a Venezia, e dell’arrivo a Lisbona in Portogallo del primo carico di pepe dalle Indie circumnavigando l’Africa, e tralasciando il Mediterraneo e le classiche vie carovaniere.


“ … E’il principio di la ruina del Stato Veneto…” commentava.


Siviglia in Spagna divenne il centro commerciale più importante della Castiglia dove affluivano Genovesi e Fiorentini per partecipare al commercio con le nuove colonie Americane e imbarcare merci per la nuova rotta delle Indie e di Malacca servite ormai annualmente da ben 4-5 navi ... In seguito il controllo dei traffici e dei commerci passò quasi del tutto a Cadice in Portogallo.

Tempo indietro il pepe costituiva in certi anni i 9 decimi del totale delle spezie importate dai Veneziani a Rialto, e il suo prezzo oscillava dai 22 ducati “al Cantaro” (60kg) con apici nei momenti d’oro di 45-70 ducati.


Fu l’inizio della crisi per Venezia … anche se ancora nel 1506 un corsaro napoletano catturò la nave da 200 botti di Matteo Priuli diretta a Costantinopoli trasportando stagni, panni di seta, lana e merci per un valore approssimativo di 30.000-40.000 ducati … Nello stesso tempo, il Nobile Pietro Bragadin impegnato in una carica ufficiale della Repubblica Serenissima ricordava al figlio che curava i beni di famiglia a Venezia: “… De uno ducato fanne due si tu poi…che ne senti beneficio et honor, et io contento …”


Nel 1504 la Galea “Contarina” fu allestita in Arsenale spendendo 516 ducati per realizzare un viaggio in Fiandra ed Inghilterra per poi ritornare carica all’Emporio di Rialto. Si era appena stipulata la pace col Turco, e quindi era un momento propizio per le spedizioni e i commerci.


A febbraio le Galee della Muda-convoglio di Alessandria erano rientrate a Venezia senza carico di spezie, cosa mai successa a memoria d’uomo. In precedenza erano partite da Venezia con 40.000 ducati in moneta, 268 coffe di rami e poche altre merci, e in Egitto avevano trovato pochissime spezie a prezzo troppo alto. Fra gli appaltatori di quel viaggio sfortunato c’era anche Francesco Contarini, che fingendosi esasperato, implorò il Senato d’essere esentato dall’obbligo di pagare all’Arsenale un sospeso di 500 ducati a causa di quella spedizione che l’aveva “rovinato” … Anche a marzo le Galee dalla Siria avevano portato solo seta greggia e grano dopo essere partite senza contanti e con un solo carico di panni lana ... A Venezia, dove Mercanti e Nobili Senatori avevano magazzini pieni o mezzi vuoti, s’era sparsa la notizia che a gennaio erano arrivate in Inghilterra da Calicut 5 carichi Portoghesi che avevano provocato forti ribassi.


A maggio la nuova Galea “Contarina” era pronta, e dopo vari tentativi andati a vuoto perché la Serenissima esigeva troppo, fu presa all’incanto a ribasso per 800 ducati da Francesco Contarini di Alvise a nome di Piero Pesaro che era “caratista” per 1/6 della spedizione, mentre altri 8 carati appartenevano a Nicolò da Pesaro, 8 ad Alvise Priuli e 4 ad Alvise, Bernardo e Zuan Priuli tutti Nobili Mercanti di Venezia.

Il Contarini, quindi, era solo il Patròn e appaltatore della Galea, e per questo ottenne un compenso di 200 ducati.

Nello stesso giorno si appaltarono anche altre 2 navi ad Antonio Leoni per 1.100, e al fratello Giovanni per 910 ducati a cui subentrò Federico Morosini in quanto la legge proibiva affari in società fra fratelli.


Nello stesso mese arrivarono notizie contrastanti dall’Inghilterra dove c’era una nave in partenza, e un carico di 300 balloni di lana greggia rimasto invenduto a terra. Imperversava carenza di grano, tanto che il convoglio trasportò barili pieni di granaglie invece che di vino siciliano ... Il Portogallo esportava in Fiandra 2.000 cantera di meleghetta e altrettanti di pepe dalla Guinea ... Il mercato veneziano delle spezie sopravviveva solo perché vendeva pepe di qualità migliore rispetto a quella portoghese, così come lo zenzero dei Veneziani importato da Beirut era migliore di quello venduto a Lisbona.


La “Contarina” partì in convoglio ai primi di agosto 1504, e fece subito una sosta a Pola per spalmare gli alberi di sego … Alla partenza da Venezia, aveva registrato le merci trasportate, e pagato Dazio per 17 sacchetti di denaro, e 12 casse di libri a stampa ... Dell’equipaggio facevano parte: Dalmati, una decina di Veneziani e 8 di Terraferma, alcuni Greci, Albanesi, Montenegrini, Turchi, 1 Serbo e 1 Saraceno reclutati tutti a Venezia per 4 ducati a quadrimestre, tramite un banco d’arruolamento in Piazza San Marco pagando trombettieri, pifferi, bandierine, mance ed elemosine, e mandando anche un vessillo in giro per le chiese per attirare volontari.

La paga poteva essere integrata dalla “portata” ossia dalla possibilità di caricare in esenzione di nolo una quantità di merci proprie di ½ quintale per i rematori, fino a più di 6 quintali per l’Ammiraglio, Uomini del Consiglio, Comito, Scrivani e Patron.

Quel che è davvero curioso, è che a bordo della “Contarina” era imbarcato un gruppo davvero eterogeneo di “periti di mare”. Al Patròn, i 4 Ufficiali e 1 Scrivano, seguivano: 1 Marangon o Mastro d’ascia, i Calafato, un Remer o Mastro Remaio con 8 Compagni per 137 Rematori, 2 Pennesi per le vele, 6 Prodieri e 6 Portolatti, 8 Bombardieri e 14 Balestrieri per la difesa, 1 Cuoco e 1 Scalco, 1 Cantiniere, 1 Barbiere, 1 Pescatore.


In settembre la Galea Veneziana arrivò a Messina dopo aver caricato a Palermo “pan biscotto” venduto da un veneziano, e aver perso vele, antenne e merci caricate in coperta durante una tempesta. Sempre a Messina incontrò le Galee partite l’anno prima di ritorno a Venezia, e imbarcò un pilota esperto di navigazione del Tirreno che la portò per Maiorca e Gibilterra fino a Cadice ... Lì salirono a bordo altri due piloti per il Mar di Spagna, e il 7 novembre la “Contarina” arrivò a Southampton in Inghilterra dopo 3 mesi di navigazione, ragginta dalle Galee “Charity”e “Julian” che scaricarono 436 botti di Malvasia creando problemi con i traffici e gli affari locali.

Da Southampton con l’aiuto di uno speciale pilota per superare il banco di Santa Catarina, si proseguì per Flessinga alla foce della Scheda occidentale, da dove con l’ennesimo pilota locale si giunse per Natale ad Anversa dove la Galea si fermò affittando per 2 mesi ed 8 giorni un magazzino per attrezzi e gli Ufficiali, raddobbando lo scafo, e acquistando per la ciurma 16.500 pagnotte di pane fresco usate 2 al giorno per i suoi 128 rematori. Si pagò anche un Cappellano e dei cantori che si presentarono a cantare il giorno degli Innocenti secondo l’usanza locale ... Durante tutto il viaggio la “Contarina” pagò 306 ducati fra Dazi e tasse pagate nei vari passaggi, pilotaggio, porti e canali.


La Fiera di Anversa di quell’anno non fu una delle migliori occasioni per far affari, e la “Contarina”ripartì con poco carico, anche se qualcuno caricò in proprio merci proibite, come tele di lino, che gli inglesi in seguito sequestrarono. A Remua presso Middemburgo la “Contarina” caricò 2 battelli di zavorra e fece sosta, mentre a Flessinga salirono i soliti piloti per la Scheda ed il banco di Santa Caterina, e il 1 aprile era di nuovo a Southampton sede del Console della Repubblica di Venezia.

Lì s’affittò dal 4 aprile al 5 giugno un magazzino e casa e camere per gli Ufficiali e la ciurma di 128 uomini che consumò stavolta 17.000 pagnotte fresche. La “Contarina” fu riparata e spalmata di sego e sapone nero, e le stive vennero finalmente riempite di merci per 17.000 ducati. Si caricarono: 9.000 pezze di panni di lana pagando Dazi e Tasse per 5.000 ducati.

Regalando ai doganieri Inglesi: acqua di rose, susine e altre regalie, i marinai della “Contarina” ottennero la restituzione delle tele contrabbandate, e partirono, ma tornarono presto indietro nel porto di Huie o Wight a causa di forti venti e correnti contrarie nel Canale della Manica e sull’Atlantico.

Solo alla fine di luglio, la “Contarina”arrivò e si fermò 6 giorni a Cadice dopo aver fatto spese a Villa Bruxà, Torres in Galizia, e si assoldò il pilota del Mar di Lion che portò la Galea fino a Messina dove si fece un grosso rifornimento di biscotto rimanendo fermi 4 giorni. Ripreso il mare, e dopo aver sostato altri 12 giorni a Palermo, la “Contarina” finì dispersa da una tempesta nelle acque della Sicilia, così che alla fine di ottobre le atre due Galee giunsero a Venezia da sole. La “Contarina”arrivò a portare il suo carico all’Emporio di Rialto solo dopo 4 giorni dopo aver fatto scalo a Corfù, Curzola, Lesina e Parenzo.

La spesa del viaggio di 14 mesi della “Contarina” per la Fiandra costò 9.254 ducati fra allestimento, incanto, paga del Patron, Nobili, Ufficiali, Rematori, Piloti, Portolatti, tasse portuali, riparazioni, manutenzione, “panatico” dell’equipaggio e aceto per disinfettare l’acqua di bordo.  Inoltre, a Sounaphton si comprarono 8 botti di vino di Romania, 1 botte di Malvasia e 3 pipe di Guascogna ... Di solito una spedizione simile costava molto di più.


Giunta a Venezia la “Contarina”fu soggetta a contestazione e controversie perché aveva caricato merci sotto e sopra coperta in parti della nave proibite dalla legge. Inutilmente in dicembre Marcantonio Contarini provò a giustificarsi davanti al Doge. I 3 Patroni della Galea“Contarina” furono condannati a 10 anni di esclusione dalle funzioni di Capitano di nave (poi ritirata), e ammenda di 300 ducati con versamento di noli indebitamente percepiti per il carico irregolare.


In parallelo al movimento mercantile di Rialto, a Venezia imperversava ancora il contrabbando anche del Sale, soprattutto al confine con Padova ossia al Bottenigo e Gambarare. Ma si contrabbandava fino a Caorle, Burano, Mestre e Cannaregio e San Piero di Castello a Venezia anche provenendo da Pirano, Capodistria, Pago e risalendo perfino i fiumi Livenza e Piave ... La pena per i contrabbandieri era la confisca di barche, carri e cavalli, la multa di lire 400 di piccoli + 8 mesi di prigione e 3 scassi di corda in pubblico, cavato un occhio e fino all’impiccagione nei casi più gravi. Per contrabbandi minori la pena era di lire 100 di piccoli e 2 mesi prigione e se non si pagava si veniva frustati e condannati da 4 a 6 mesi di prigione ... ma il contrabbando fioriva ugualmente incontrollabile.


Le cronache raccontano che già nel 1515, quando quel ricchissimo mondo commerciale di successo sembrava all’apice del suo “grandore”, i Veneziani andarono a rifornirsi di Spezie direttamente nella relativamente vicina Lisbona in Portogallo e non più attraversato il mare in Oriente, nel Levante o in Siria, Costantinopoli e Alessandria d’Egitto. Era terminato il monopolio marittimo dei Veneziani su quei preziosi prodotti, e finito il controllo assiduo che esercitava sui commerci del chiuso mondo del Mediterraneo, e su tutto ciò che da Venezia si spandeva a macchia d’olio per tutto il resto dell’Europa ripartendo per nave o risalendola con zattere e un nugolo di carri e carretti, via fiume o via terra per l’intrico infinito delle strade e dei canali.


Non si può non ricordare la presenza degli Oreficio Oresi nell’Emporio di Rialto dove il Maggior Consiglio con Deliberazione del 23 marzo 1331 li costrinse ad operare, mercanteggiare in oro e argento ed aver bottega nella “Ruga Vecchia di San Giovanni” chiamata appunto:Ruga degli Oresi o degli Anelli”. Agli Oresi, associati in Corporazione nella chiesa di San Giacomo di Rialto con i Gioiellieri” e Diamanteri” sotto la protezione di Sant’Antonio Abbate, fu concesso il raro privilegio di avere in chiesa un sepolcro-arca o tomba privata, per il quale offrivano ogni anno due pernici al Doge nel giorno di Santo Stefano.

In Ruga degli Oresi a Rialto, gli Orefici organizzavano varie volte all'anno, ma specialmente il Giovedì Grasso, una “Caccia dei tori”, e lavoravano “Armille o Manini” che un tempo si chiamavano “Entrecosei o intrigosi”perché fatti di sottilissime pagliuzze d'oro intrecciate insieme. Per poter essere ammessi all’Arte, da cui erano esclusi gli Ebrei, si doveva superare una prova apposita di abilità ... distinguendo l’Arte nei rami di: “legature di gioje alla Veneziana o alla Francese”, “catenelle d'oro”, “filigrani”, “catene d'oro massiccio”, “argento alla grossa”, “coppe e bacini”, “calici e arredi sacri”, “posate”, “minuterie”, “bottoni di filo”, “sbalzo a ceselli”. Inoltre “Oresi” e “Diamanteri”sfaccettavano diamanti, cristallo di monte, rubini, smeraldo, granati, fondevano a luto ed a staffa, dipingevano a smalto, e intagliavano a bolino.


Nella Ruga degli Orefici a Rialto, nel gennaio 1340, fu condotto legato con gioielli falsi al collo l’orefice Leonardo Rosso, che fabbricò oreficerie e argenterie false di bassa lega, vendendole e spacciandole per metallo buono. Reo confesso, fu trascinato da San Marco a Rialto, e costretto a proclamare pubblicamente le sue colpe. In seguito non poté più esercitare la professione di orefice in Venezia e in tutto il territorio Veneto, e fu messo in prigione per un anno.


A Rialto, inoltre, c’erano “l’Erberia” e la“Cordaria”.L'“Erberia” esisteva fin dal 1200 e fu tutta selciata in pietra dal 1398. Era una Fondamenta dove approdavano erbaggi e frutta provenienti dalle isole e dalla Terraferma, che venivano vendute all’ingrosso dall’“Arte degli Erbaiuoli”, “Colonnello”dell’Arte dei Fruttarioli, che operava in 122 botteghe, 11 posti chiusi, ed 89 inviamenti, ritrovandosi per le devozioni e le decisioni dell’Arte accanto all’altare loro concesso nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, vicino a San Marco.


La“Cordaria”dei fabbricatori di corde, invece, occupava 17 piccole botteghe presso Rialto. I Cordaroli erano consociati dal 1450 con l’Arte riservata ai soli Veneziani dei “Filacanevi” o filatori di canapa, e si radunavano per devozione nella chiesa di Santa Chiara sotto il patrocinio di Sant’Ubaldo. Per non danneggiare gli affari dei Cordaroli, i “Venditori di Tele” non potevano vendere in proprio corde e spago, perciò i Venditori di Tele Agostin Casson, Giacomo Nascimben e il figlio Gerolamo dovettero chiedere e ottenere una speciale licenza da parte della Giustizia Vecchia per poter vendere “corde e spago” nel Fondaco dei Tedeschi, alla condizione di comperare tali merci dai “Filacanevi”. Ancora nel 1773 l’Arte contava 210 botteghe in città con 300 capi maestri, e 42 garzoni attivi.


La chiesa di San Giacometto racchiusa dai portici di Rialto era un formicaio di gente disparata raccolta e congregata in Scuole, Confraternite e Compagnie d’Arte, Mestiere e Devozione ...e fin dal 1310 presso la stessa chiesa patrocinata direttamente dal Doge, c’era una scuola pubblica di Filosofia.


Sempre in quella chiesa, dove esisteva fin dal 1382 la Scuola di Devozione dedicata a Sant’Antonio Abate dell’Arte degli Oresi, Zogielieri e Diamanteri, dal 1414 si ospitò anche la Fraglia dei Bastazi della Dogana de Terra, e dal 1436 la Scuola di San Giacomo dell’Arte dei Ternieri e Casaroli. Cinquant’anni dopo circa, s’aggregò la Scuola di Sant’Antonio Abate dei Luganegheri trasferitasi dalla vicina chiesa di San Salvador, e la nuova Fraglia del Traghetto della Loggia dei Camerlenghi.


Dal 1538 s’aggiunse la Scuola di San Giacomo dell’Arte dei Pesadori dell'Ufficio della Pubblica Stadera, e pochi anni dopo s’aggregò la Scuola dell'Assunta "della Sendrina" riservata agli oriundi della Val Cedrina. Nel 1529 arrivarono gli uomini consociati del Traghetto dei Barileri, e poi quelli del Traghetto al Ponte di Rialto. All’inizio del 1600 s’inaugurò la Scuola dell'Annunziata dei Garbeladori o Criveladori, Ligadori e Bolladori de Comun, a cui s’aggiunse nel 1609 la Scuola della Madonna del Carmine dell’Arte dei Biavaroli. A seguire giunse quella di Sant’Antonio da Padova dell’Arte dei Travasadori da Ogio, laFraglia dei Bastazi della Dogana da Mar, e il Sovvegno della Concezione dei lavoranti Pistori ... Insomma, era tutto un andirivieni senza sosta che movimentava migliaia di Veneziani sotto le volte e i portici di Rialto.


Nel gennaio 1514 un violento incendio spinto dal vento, scoppiato forse nella bottega da Corderia di Antonio Zuliani e Zuan Maria Malipiero o forse in quella di Telerie detta “Del diamante”, distrusse in meno di sei ore gran parte dell’Emporio di Rialto e ben trenta Uffici della Giudicatura, il Fondaco della Farina, e la chiesa di San Giovanni Elemosinario arrivando fino alla Contrada di San Silvestro.


Se non fosse stato spento dalle Maestranza accorse dall'Arsenale, sarebbe andato fino a Sant’Aponal e saria andato fino a San Polo ...ll quale incendio fu di tanto danno … si persero molti libri pubblici, denari, e robe di mercadanti ch'erano nelle volte … oltre che si aveva dubbio di qualche suscitatione di qualche ghiotto, talché furono istituite guardie, e per li sestieri, e attorno Rialto, e massime acciocché le robe dalle ruine non venissero tolte …”

La perdita si quantificò in ricavi persi per almeno 35.000 ducati fra le botteghe affittate da 1 a 20 ducati ch’erano il 43% del totale, e quelle con l’affitto superiore ai 40 ducati, che erano il 20%. La ricostruzione iniziò due giorni dopo guidata dal Provveditore Daniele Renier e su disegno dello Scarpagnino ... il Piovano di San Giovanni Elemosinario cedette alla Signoria alcune botteghe nei pressi del campanile, la Drapperia fu rifatta in forma bellissima, il Senato effettuò tutta una serie di risarcimenti aiutando chi non era in grado di riedificare per conto proprio e cacciando chi aveva occupato abusivamente i posti ... Tuttavia, ancora a 18 anni dall’incendio, la rifabbrica di Rialto era ancora da ultimare e continuò fino al 1537.


Nel censimento dell’area dello stesso anno, la Contrada di San Giovanni Elemosinari contava 219 unità in totale, fra cui 17 case ridotte a 6 dopo l’incendio, 98 botteghe, 104 volte con magazzini. La Contrada di San Mattio, invece, constava in 166 unità in totale, fra cui 24 case, 97 botteghe e 45 volte con magazzini … I nobili Contarini, Dandolo, Da Canale e Querini supplicarono lo Stato di clemenza, disposti a rinunciare persino al titolo nobiliare, in quanto oppressi dai debiti contratti con la perdita di 12.000 ducati di una loro nave affondata carica di botti, e soprattutto a causa delle perdite dovute all’incendio di Rialto.


Gli eredi di Zuan Paolo Gradenigo erano ancora i massimi proprietari della zona di Rialto Novo, Casaria, Corderia e Fruttaria dove possedevano botteghe, volte e magazzini con rendite tra 18 e 98 ducati ciascuna ... I Morosini conservano proprietà in Riva del Ferro e a Rialto Novo, i Sanudo possedevano “l’Osteria della Campana” e 3 botteghe sottostanti salvatesi dall’incendio per le quali percepivano 290 ducati come nel 1514 ... In quegli anni aumentarono per tutti gli affitti delle botteghe.


Fino dal 1341 si faceva memoria dell“Osteria della Campana o delle Varote”in Pescharia Novadetta anche Ospizio dei Varotieri retta da Zanino di Lorenzo ed in seguito da Antonio a Varotis. Era nominata come l’ “Osteria del Cavalletto”, l’ “Osteria alla Colonna”, l’ “Osteria alla Corona” come uno dei lupanari di Rialto, ed era un’altra delle“Osterie a pluri” pubbliche di Venezia, di proprietà dei Nobili Sanudo che con il famoso Diarista Marino la descrivevano così:


“… El stabele qui è molto caro ... Testi siamo noi Sanuti che in Pescharia nova habiamo un'Hostaria chiamata di la Campana. Sotto tutte botteghe, ed è picciol luogo, e tamen di quel coverto si cava più di ducati 800 di fitto ogni anno, che è cossa maravigliosa del grande afitto, e questo è per esser in bon sito l'hostaria; paga ducati 250 che paga più chel primo palazzo della terra …”


Racconta ancora, che nell’Osteria, all'epoca di Cambrai, furono trattenuti come ostaggi alcuni cittadini di Cremona, che poi fuggirono ... e che il 26 gennaio 1507 essendosi contratto matrimonio di una figlia di Leonardo Grimani con Alvise Morosini, ascritto alla “Compagnia della Calza detta degli Eterni”, ed avendo il Grimani dimostrato poca splendidezza nell'allestire il banchetto nuziale, gli Eterni si vendicarono andando a Rialto dopo aver fatto danni in casa Grimani e prelevati due bacini d'argento da parte di Stefano e Domenico Tagliacalze.


“… Questi andarono gridando d’essere stati maltrattati nel pranzare, e per altro senza aver incontrato donne invitate ... Perciò volevano impegnare quei due bacini d’argento per cenare in allegrezza vendendone uno per illuminare con torce, e l'altro per mangiare bene presso l'Osteria della Campana ...”


Circa cinquant’anni dopo, tutta l’isola di Rialto venne “risalizzada” ossia pavimentata dal Traghetto di Ca’ da Mosto alla Calle dei Toscani, e dalla Riva del Canal Grande fino a San Mattio ... In autunno il Consiglio Dieci emise un bando per costruire le Fabbriche Nuove di Rialto su di un’area di 254 piedi veneziani e 31 di profondità, liberata abbattendo stazi, volte provvisorie e ripari in legno sulla Riva del Canal Grande. Il progetto prescelto di Jacopo Sansovino prevedeva un edificio in 25 campate con 28 volte affittabili a 8-10 ducati annui, e 4 botteghe la cui rendita si prevedeva essere almeno di 150 ducati annui, per un totale di 380 ducati annui circa a favore dello Stato. Se poi si fossero venduti al 4%, se ne potevano ricavare 9000 ducati.

Nell’agosto del 1524 crollò per intero la rampa del Ponte verso Rialto provocando due vittime. Le preziose botteghe subirono ingenti danni e furono tutte sgomberate ... Immediatamente i Provveditori al Sale presentarono in Collegio un nuovo modello di ponte in pietra, seguito da un secondo e da un terzo.


E vennero gli anni del 1527 e 1528 che furono storicamente difficilissimi per Venezia. Le possibilità d’importare grano dai soliti paesi si ridussero drasticamente, e il prezzo crebbe fino a 4 volte … A Venezia si era alla fame. Drammaticamente Marin Sanudo descrive nel dicembre 1527, a meno di una settimana dal Natale, la scena della gente affamata che convergeva a Venezia in cerca di cibo ed espedienti per vivere.


“… ogni sera in piazza San Marco, sulle vie della città, su Rialto è pieno di bambini che gridano ai passanti: “Pane ! Pane ! … Muoio di fame e freddo !” E’ terribile ... Al mattino, sotto ai portici dei palazzi vengono trovati cadaveri ...”


Sempre il diarista Marin Sanudo continuò a descrivere la città all’inizio del febbraio seguente, in tempo di Carnevale.


“… La città è in festa, sono stati organizzati molti balli in maschera e al tempo stesso, di giorno e di notte, è immensa la folla dei poveri ... A causa della gran fame che regna nel paese, molti vagabondi si sono decisi di giungere qui, insieme ai bambini, in cerca di cibo…”


A fine mese le cose non erano cambiate.


“… Devo annotare qualcosa che rammenti che in questa città regna continuamente una gran fame ... Oltre ai poveri di Venezia che si lamentano per le strade, ci sono anche i miserabili dell’isola di Burano, con i loro fazzoletti in testa ed i bimbi in braccio a chiedere l’elemosina ... Molti arrivano anche dai dintorni di Vicenza e Brescia, il che è sorprendente ... Non si può assistere in pace ad una messa, senza che una dozzina di mendicanti non ti circondi e chieda aiuto … Non si può aprire la borsa, senza che subito un poveraccio non ti avvicini, chiedendo un denaro ... Girano per le strade persino a tarda sera, bussando alle porte e gridando: “Muoio di fame !”


Fra 1535 e 1569 nessuna Galea da Mercato partì più da Venezia per Beirut o per Alessandria, mentre i Francesi di Marsiglia stipularono un accordo commerciale diretto con Solimano il Magnifico, saltando la mediazione di Veneziani e Ragusei, e prendendo residenza ad Aleppo in Siria antico capolinea della Via della Seta.


1545 a San Giovanni Elemosinario era sorta una Scuola d’abaco “… a costa del muro della giesia ...”, e si pagava 12-15 ducati annui per l’organista, altri 12 ducati “… alli cantadori delle compiete della Quadragesima et per accompagnar il Sacramento nel Sepolcro et Venerdi’ Santo.” Nel marzodello stesso anno,nella vicina Parrocchia di San Mattio di Rialto il pittore Lorenzo Lotto fece testamento “in volta alla Corona”, ossia nell'Osteria della Corona, disponendo fra le altre cose di venir sepolto per concessione dei Frati Domenicani a SS. Giovanni e Paolo senza alcun dispendio, in benemerenza di aver loro dipinto la pala con Sant’Antonino.


Per avere un’idea precisa della situazione, dovete pensare che la fabbrica del Ponte di Rialto visibile ancora oggi risale al febbraio 1588, quando si affidarono ad Antonio Da Ponte i lavori per un nuovo ponte in pietra. Cinque anni dopo, 1593 si erano già spesi traendoli dalla Zecca di Stato di San Marco: 245.537 ducati, il 43 % dei quali era stato utilizzato per espropriare e comprare botteghe e case presenti nella zona limitrofa della Contrada di San Bartolomeo.


Nel 1571 circa, il Patriarca Trevisan ordinò di non concedere benefici a chi abiurava dal Protestantesimo, ordinò anche ai Neoeletti Piovani di prendere possesso al più presto della Parrocchia altrimenti avrebbe provveduto lui direttamente, proibì l’apertura serale delle chiese “…oltre i Secondi Vespri del giorno …” sotto pena di 10 ducati, e bandì alcuni Preti perché indegni ... compreso il Piovano di San Mattio di Rialto Ermete De Bonis perché trovato incapace di leggere e spiegare il Catechismo Romano e comprendere “le lezioni” del Breviario durante l’abituale esame Canonico di controllo.

In quegli anni, San Mattio di Rialto nella cui Contrada vivevano 632 persone, venne così descritta.


“… piccola chiesa … ben costruita a tre navate, con tetto decorato e pavimento in pietra solida, squadrata … Una sacrestia piccola, ma sufficiente ad un unico sacerdote, un piccolo cimitero che non può essere chiuso per non ostacolarne l’accesso … una torre campanaria con le sue campane … una buona chiesa, insomma ...”


Lì dentro si consociavano gli Stagneri della Scuola di San Giovanni Evangelista, i Caneveridella Scuola di San Giovanni Battista, gli Spezieri da Grossodella Scuola di San Gottardo, i Lavoranti Pistoridel Sovegno della Concezione … che s’aggiungevano ai devoti già presenti della Fraterna dei Poveri, quelli della Sacra lega di San Giuseppe, della Scuola della Beata Vergine del Rosario, e quelli del Suffragio del Morti e del Crocefisso… e altri ancora …come accadeva in tutte le chiese di Venezia dell’epoca.


Quando nello stesso anno, i Veneziani e gli alleati vinsero contro i Turchi a Lepanto, le cronache raccontano di feste che i Tedeschi organizzarono nel loro Fontego di fronte a Rialto, accanto al Ponte.


“… i Tedeschi per tre sere continue acconciarono il Fontego di razzi, e accomodarono di dentro e di fuori per diversi gradi, lumiere, dal primo corridore fino alla sommità del tetto, che rendevano dalla lunga una veduta quasi di un cielo stellato ... Da prima sera fino alle 5 hore di notte, si udì di continuo suono di tamburi, di pifferi e di trombe squarciate, e sopra i pergoli del Fontego si fecero diversi e rari concerti di musica con spessi tiri d’artiglierie ... Et attorno a tutte le Fabbriche Nuove della Piazza di Rialto, cominciandosi dal Ponte fino alla Ruga predetta, furono tirati panni finissimi di scarlatto, vi si attaccarono di sopra con uguali distantie bellissimi quadri di pitture, di imprese, di ritratti, e d’altre diverse historie … quadri meravigliosi del Giambellino, di Giorgione da Castelfranco, di Bastiano del Piombo e d’altri eccellenti pittori. La prima mattina si cantò la Messa Solenne sopra un palco dinanzi alla chiesa di San Giacomo con musiche meravigliose ... Dopo terza si fece la Processione col Crocefisso innanzi, precedendo piffari, trombe squarciate e tamburi ... Dopo mangiare si dissero i Vespri con le musiche medesime e cominciatisi tardi finirono alle due hore di notte ... Il restante del tempo si consumò in harmonie con variati concerti …”


Accanto al Fondaco dei Tedeschi teneva “Stazio” ossia sede, il “Traghetto dei Ruffiani o del Buso”di Rialto. Era denominato così forse per essere collocato in un “buso” o posto ristretto proprio sotto al Ponte di Rialto. Ma altri maligni o forse meno forbiti spiegavano che il nome andava inteso in senso femminile e osceno, perché avendo il Governo Serenissimo bandito da Venezia tutte le prostitute, fu costretto a richiamarle in fretta a causa di gravi disordini e proteste che ne derivarono. Quando le donne ritornarono in massa in città, passarono il Canale Grande in gruppo attraverso lo Stazio del Traghetto di Rialto, che perciò dai popolani venne scherzosamente fregiato col nome riferito “… all’allegro lavoro della brigata delle meretrici …”


Emblematico fu che nel 1544 i Cinque Savi agli Ordini, tanto importanti nel passato, venissero considerati di bassa considerazione da Gasparo Contarini che si lamentava in quanto la carica veniva data “… a giovani et huomini di prima barba … poichè l’imperio di Terraferma crebbe ed i nostri cominciarono a voltare l’animo alla Terra. I Savi di Mare perderono la loro riputazione ed i Savi di Terraferma l’acquistarono …”


Non che mancassero le opportunità commerciali, perché nel solo 1564 sul Mar Rosso entrarono 30.000 quintali di pepe e l’anno seguente più di 20 bastimenti arrivarono a Gedda dall’India carichi di 129 some di spezie destinate soprattutto ad Alessandria d’Egitto ... Sette carovane settimanali arrivavano dalla Mecca e Persia, e tre da Bassorah fino al porto di Aleppo in Siria trasportarono complessivamente 50 some di cannella, 60 chiodi garofano, 295 di noce moscata, macis, indaco, zenzeri, pepe, mirabolani, assafetida, cassia, cardamomo e valanga.

Oltre alle spezie c’erano 189 some di seta greggia siriana e persiana, cotone da Cipro, Aleppo e Hamah in Siria. La seta era grossa o sottile in relazione alla pesatura, e si pagava un’imposta sul peso: il “Diritto di baldanza” che consisteva in “deremi 6 per rotolo grosso e deremi 12 per rotolo sottile”… e cinque anni dopo si poteva esportare moneta di contrabbando dalla Turchia in Persia evitando i Dazi, guadagnando il 20% sull’argento, 40-50% sull’oro e 10-20% sul rame.


Erano i profitti ch’erano scesi di molto, e la concorrenza era aumentata in maniera spropositata … Un mercante reputava conveniente partire da Venezia per andare a commerciare su piazza estera soltanto per un giro d’affari di almeno 100.000 ducati, mentre cento anni prima bastava un capitale di 500 o 1000 ducati … Portoghesi e Spagnoli con le loro flotte e nuove rotte avevano rivoluzionato l’intera logica del Mercato Mediterraneo e Atlantico ... e gli Olandesi possedevano ormai una flotta da 200.000 tonnellate.


I Portoghesi e gli Spagnoli avevano spaccato il mondo, e aperto rotte impossibili che disegnavano un mondo nuovo. Nuove terre, nuove vie, nuovi guadagni e commerci, nuovi prodotti, nuovi orizzonti su cui operare. Era davvero cambiato il mondo … e non era finita lì, perché stavano emergendo potenze nuove e nuove rivalità e concorrenze commerciali. C’erano gli Olandesi, gli Inglesi che bussavano alle porte mercantili in maniera diversa ... A dire il vero, erano sempre stati presenti nello scenario economico Europeo, ma ora erano diventati più potenti, consci di se e soprattutto intraprendenti e capaci di sovvertire gli equilibri commerciali di sempre.


Venezia si trovò improvvisamente spiazzata da tutte quelle novità, e non le rimase che adeguarsi e cercare in qualche maniera di far buon viso a cattiva sorte salvando il salvabile. Da numero uno esclusivo si trovò ben presto ad essere solo un’alternativa di riserva e secondaria sul palcoscenico dei grandi movimenti e guadagni delle vendite e acquisti e degli affari del mondo.


E poi … era iniziata l’era del The, del Caffè e del Cioccolato che divennero presto beni d’elite e di consumo ambiti, preziosi e solo per pochi. Proprio all’inizio, meno di mezzo chilo di the e caffè costavano rispettivamente 1.500 euro e 2.000 euro ... Era iniziato il tempo in cui in Cucina iniziava a vincere il gusto Naturale e il Prezzemolo e la Cipolla nostrana andavano a sostituire la montagna millenaria finora invalicabile dell’uso e gusto esotico delle Spezie. Si cominciò a preferire il gusto della carne e selvaggina “selvatico”coperto solo dagli odori dell’orto, dai gusti genuini e semplici dei campi, e non più speziato … A Rialto rimase tutto il resto: gli avori, le lane, le perle, i vini … il che non era poco, Ma non fu più come prima, s’era come rotto qualcosa. Quel mirabile miracolo commerciale s’era come inceppato e iniziò un lento, inarrestabile e progressivo declino della fortuna economica Veneziana. Non che le navi andassero e tornassero vuote … ma si erano perse certe rotte e preminenze, e soprattutto s’era smarrita una certa voglia e senso d’andare.


Per fortuna Venezia non fu l’unica a trovarsi in quella situazione, per cui si trovò a spartire quella sua situazione di involuzione economica anche con altri ex protagonisti di quel mondo di scambi e affari. Si riuscì a conservare in qualche maniera, seppure ridotta a minimi storici, anche quella via di commerci che era stata protagonista per secoli dei mercati. Ma non era più come un tempo … Tutto era cambiato per sempre.


Quel che è incredibile, è che Venezia visse per altri trecento anni in questa situazione … non un anno, trecento !


Si adagiò in quella sua fisionomia secondaria, vivendo quasi di rimbalzo e all’ombra dell’antico prestigio di un tempo ... Noi siamo abituati a considerare Venezia decadente durante il secolo del 1700, soprattutto dopo la prima metà, ma non è così. Il suo declino è iniziato molto prima, secoli prima ... seppure in maniera molto mascherata e mitigata. Fu un declino lento, progressivo ma inesorabile che la portò ad essere piccola potenza secondaria sullo scacchiere Europeo, poi Governo neutrale, e infine Stato fragile da inglobare e annettere alla prima occasione buona ... e Napoleone ne fece un sol boccone.


Tornando alla metà del 1500, i Francesi quasi regalavano la carta sul mercato, tanto che i Veneziani furono costretti a ribassare per vendere qualcosa, e furono indotti a inventarsi sotto giuramento un cartello fra loro per non vendere sotto prezzo anche lo stagno. Il valore della canfora crollò da 4 ducati a 40 grossi perdendo il 40% del suo valore perché il mercato era stato già saturato dalle forniture oceaniche di Lisbona. Un mercante veneziano fu costretto a ritirare l’ordinazione fatta a un ebreo … Lo zibibbo si vendette a Lione a soli 12-13 franchi, mentre a Marsiglia precipitò a soli 6-7 franchi.


A nulla servì abbassare dal 5% al 4% il Dazio sulle merci in uscita da Venezia, mentre rimase invariata la spesa del 4-5% per imballaggio e spese varie prima dell’imbarco … Per i contrabbandieri la pena divenne la voga in Galea per 5 anni, il bando da tutti i territori della Serenissima per 10 anni, e 100 ducati di premio per il denunciante.


Divennero perfino precari o disertati i 200 e più posti riservati per legge a bordo delle Galee di mercato a favore dei Nobili poveri per formare nuove leve marittime e commerciali. Più di qualcuno accettò l’incarico ma lo rivendette ad altri meno Nobili per ricavarne denaro immediato e senza prospettive ulteriori ... La via del mare per Venezia rimase un’opportunità importante, ma non più l’unica … Nel solo Padovano, secondo quanto riportava il Podestà Bernardo Navagero, i Veneziani su 400.000 campi arativi ne possedevano ormai 66.000, e nel vicentino i vari Patrizi Veneziani: Badoer, Bernardo, Bon, Contarini, Diedo, Dolfin, Foscarini, Priuli, Sagredo e Sanudo avevano acquistato per 500.000 ducati ... il Nobile Michele Legiso figlio di Antonio preferì andare a studiare Diritto e Filosofia a Padova piuttosto d’occuparsi dei commerci familiari a Candia e trattare vino con Fiandre e Inghilterra. Inutilmente e senza successo il padre l’aveva collocato presso i Nobili Mercanti Pisani di Venezia per imparare l’antica Arte Mercantile ... Infatti, lo stesso Vettor Pisani di Zuane fondò una Banca con Girolamo Tiepolo, e piuttosto che andare per mare si occupò di un suo feudo a Bagnolo nel Vicentino dove fece costruire da Palladio immense barchesse intorno ad un’aia grande come Piazza San Marco per ospitare i prodotti di una sua risaia estesa per centinaia di campi.


Nel 1576 la peste si presentò di nuovo a Venezia, dove spazzò via circa 40.000 persone. Si contavano a Venezia 7.209 mercanti ossia il 5,3% dell’intera popolazione (i nobili erano più di 6.000) ... Nel maggio seguente, Paolo Priuli di Gerolamo che possedeva 377 campi a Marcon e produceva manifatture a Bassano, raccomandava ai figli per testamento di non andar per mare ma: “… laudo et prego miei fioli dolcissimi che alli suoi tempi volgino lavorar de lana come ha fatto molti anni li quondam miei fratelli e me medesimo.” …  Un processo civile viene sospeso perché uno dei Giudici si deve allontanare dal Venezia per dedicarsi al raccolto sui suoi campi di Terraferma ... Fra dicembre e gennaio ad Aleppo in Siria si tennero solo 62 “marchadi” fra pagamenti in contanti e baratti con spezie e moneta. Di questi contratti solo 37 furono con Veneziani.


Aleppo in Siria, con 200.000 abitanti stabili, era capolinea della Via della Seta. Lì risiedevano anche altri 100.000 mercanti provenienti da molte nazioni dell’Europa per commerciare in sete, spezie, endeghe, gottoni, pannilani e molto altro … I Veneziani la raggiungevano ed erano presenti con una flotta mercantile di 42 grosse navi da carico, e muovevano affari per almeno 2 milioni di ducati d’oro annui.  All’Emporio di Rialto a Venezia giunsero: cotone da Cipro, olio da Candia e dalla Puglia, uva da Zante e Cefalonia poi spediti in Inghilterra, cera dalla Turchia e zucchero dall’Egitto.


Nel maggio-giugno 1580 ad Aleppo in Siria ci fu la peste con centinaia di vittime giornaliere e affari praticamente sospesi. Solo in luglio partirono per Venezia le navi mercantili: “Costantina”, “Rumina” e “Gratariola”tutte appartenenti al mercante Annibale Rotta residente in patria, che commerciava tramite Francesco De Rossi e Guglielmo Rubbi. La “Muda di Stato” di settembre imbarcò solo 18.000 “ormesini di seta” da Damasco, mentre alcuni mercanti veneziani preferirono immagazzinare per 2-3 anni la noce moscata in attesa che crescesse il prezzo.


L’anno dopo giunse ad Aleppo, dove c’erano ancora 16 case mercantili veneziane attive (ma senza nobili), un “bertone” inglese carico di “farisee inglesi” che vendette a somme irrisorie facendo cadere i prezzi, e alla fine dell’anno i baratti veneziani rimasero paralizzati per l’arrivo di un’altra nave inglese con un carico di 3.000 pezze di “farisee”, 400 cantera di stagni e tanto altro che rovinò il valore di tutte le merci presenti sul mercato ... Una nave olandese precedette di molto una veneziana dimostrando superiorità tecnica nella navigazione ... Due navi Francesi arrivarono a Tripoli di Siria con un carico di 100 pezze di panno, 300 carisee, 2 barili di cremese, 15 colli di gripola e con 100.000 scudi reali spagnoli da spendere ... Ad Hormuz i prezzi delle spezie venute da Goa erano così alti rispetto a quelli di Rialto a Venezia che non conveniva comprare e imbarcare. Solo la cannella meritava d’essere comprata seppure ad alto prezzo, perché non c’era disponibilità né a Baghdad né ad Alessandria, e in Europa i magazzini erano sforniti.


La Serenissima e il Doge erano proprietari di gran parte dell’area commerciale di Rialto, e ogni anno a San Michele il 29 settembre affittavano a pubblico incanto le tabule dei Banchi dei Cambiatori ... Nel 1584 fallì il Banco Pisani-Tiepolo e i Pisani-Tiepolo furono estromessi dal Maggior Consiglio non più considerandoli Nobili. Sembra che in quell’epoca siano falliti 96 “banchi di scritta” su 103 ... Jacomus Bricola di 66 anni, figlio del defunto Matthei, che “…per avanti soleva esser Fattor de Marca davanti de le Becharie…”, si mise a insegnare in proprio a “… Lezer, scriver e abbaco … a 16 alunni, spiegando: “…la Tavola, il Salterio, il Donao, il Fior de le Virtù, la Vita Cristiana, il Libro de Passion et Evanzelii vulgari …”


Accadde anche tutta una serie di disastri marittimi, e si recuperò dalla nave “Gagliana” naufragata e sommersa a 18 passi di profondità gioielli e groppi di denaro, e Guglielmo Helman riuscì ad ottenere dagli Uscocchi la restituzione di 100 pezze di “cambelotti”riservandosi di ricorrere all’Arciduca Carlo per recuperare il resto ...  Paolo Contarini Provveditore di Terraferma non trascurava i suoi traffici con Costantinopoli ... mentre il Doge Leonardo Donà raccontava che le entrate fiscali di Venezia avevano procurato 400.000 ducati dai Dazi delle Mercanzie e 600.000 da quelli dei viveri che nascono dalle mercanzie “… le quali fan sì che il popolo mangi ...”


Dai porti della Dalmazia giungevano in media fra 11.000 e 17.000 colli di merci, dalla Siria s’importarono fra 1.000 e 1700 balle l’anno di seta, mentre le importazioni annue di olio da Candia e dalla Puglia passarono da 10 a 15 milioni di libbre.


Dal 1587 Tullio Fabri, ragioniere ufficiale della Serenissima Repubblica, colse l’occasione del lavoro di rappresentanza per esercitare anche una buona Mercatura accompagnando a Costantinopoli il Nobile Bailo Moro, e poi il Nobile Zaccaria Contarini Ambasciatore Straordinario di Venezia a Roma. Si portò dietro molte gioie e preziosi sperando di venderli bene, e si spinse fino a Napoli per un’operazione commerciale. Consociato col fratello trafficava in perle, rubini, smeraldi ma anche panni di seta, cotoni greggi, cera, pellami, importando a Venezia perfino frumento nei momenti più propizi di carestia. Mentre presentava un memoriale alla Repubblica per eliminare l’evasione delle tasse consolari, acquisto e armò una nave “da 700 botti”per un viaggio sotto il segno di San Marco da Costantinopoli a Venezia, dove insieme alle casse con la contabilità del Bailo Venier portò a diversi Mercanti dell’Emporio di Rialto: gioie, perle e merci varie da vendere per diverse migliaia di ducati.


Nello stesso anno, sotto le volte di Rialto si sottoscrissero “Polizze d’Assicurazione e Securtà” su viaggi, navi e merci per 3.600.000 ducati con un guadagno per le casse della Serenissima di 3.000 ducati ... Il monopolio del Sale ammontava a 250.000 ducati … e il Dazio del 5% in Uscita su 4.170.000 ducati di merci dirette in Terraferma o per Mare procurò allo Stato 208.532 ducati, mentre il Dazio del 6% in Entrata su 458.000 ducati di merci dal Levante procurò 27.481 ducati.


Gli assicuratori intascarono tra 216.000 e 288.000 ducati, pagando premi circa per 150.000 ducati ... Le ex Prostitute ospitate alle Convertite della Giudecca percepivano obbligatoriamente lo 0,08% ossia: 2 grossi ogni 100 ducati d’assicurazione sui commerci di tutti i Mercanti, in cambio di preghiere per il buon viaggio e il sano arrivo delle merci e delle navi della Serenissima.

Ebrei e mercanti Genovesi e Fiorentini assorbivano fino a 1/3 di tutti gli affari sulla “Piazza di Venezia” formando certe Compagnie Mercantili che contavano fino a 19 soci assicurati.


Presso il “Sottoportico del Banco Giro” di Rialto c’era e c’è ancora un antico tronco di colonna mozzata sormontato da una lastra di marmo con scaletta sostenuta da una statua ricurva detta il “Gobbo di Rialto” scolpito da Pietro da Salò nel 1541. Da lì si bandivano le Leggi al tempo della Repubblica e non solo ...


La cronaca “Barba” della Marciana racconta.

Jera costume in Venetia che quando era terminato un per ladro over per altro, ad esser frustado da San Marco a Rialto… Li malfattori come erano in Rialto andavano a basar il Gobbo di pietra viva che tien la scala che ascende alla colonna delle grida … Fu terminado a dì 13 marzo 1545che più questi tali non andassero a far tale effetto, et però fu posto in la colonna sopra il canton, sotto il pergolo grando in Rialto, una pietra con una croce, et uno San Marco di Sopra aciò li frustadi vadano de cetero a basar …”

Nel 1584 nacque il “Banco di Giro” di Venezia sotto garanzia dello Stato per evitare nuovi fallimenti dei privati.


Codesto banco si poteva più propriamente intitolare Banco di Depositi, dappoiché non emetteva biglietti pagabili al presentatore, ma trasportava le partite da un nome all'altro, e restituiva ai privati i loro depositi quandunque avessero voluto, avendo il Governo destinato a tal uopo fino dal principio i capitali occorrenti ... Un senatore, col nome di depositario ne teneva la presidenza, e tutti gl'impiegati avevano obbligo di prestar sicurtà. Il banco aprivasi sul mezzo giorno, e nel corso dell'anno si teneva chiuso straordinariamente quattro volte per fare i bilanci generali, nel qual tempo il danaro serbavasi nella pubblica Zecca ove lo si portava processionalmente lungo la Merceria; e tutti i bottegai, durante quel trasporto, dovevano star ritti sulla porta con picche ed alabarde in mano per esser pronti alla difesa del tesoro. La scrittura di banco tenevasi per lire, soldi, danari. La lira corrispondeva a dieci ducati d'argento; ma siccome la moneta di Banco godeva l'aggio del venti per cento, così valeva dodici ducati. Il soldo corrispondeva a lire 4, soldi 16, della moneta corrente, ed il danaro a soldi 8 comuni. Per rendere più difficili alterazioni nei giri del Banco, si facevano con apposite cifre, dette dagli scrittori d'allora figure imperiali, e trattandosi d'un giro a debito dello Stato, nol si poteva eseguire se non dietro speciale decreto del Pregadi ...”


Solo quattro anni dopo, il Banco di Rialto aveva un passivo di 546.082 ducati, e nel 1594 raggiunse il passivo non trascurabile di 705.889 ducati ... Non era cambiato niente dal tempo dei fallimenti delle Banche private dei Nobili Veneziani.


Nel 1587 il Senato, su pressione del Piovano di San Giacometto, autorizzò un restauro della chiesa per 150 ducati per salvare il luogo dall’acqua alta innalzando il pavimento. Era l’epoca del cantiere del Ponte nuovo in pietra di Rialto ... Nel 1590 arrivarono a Venezia come gli anni precedenti 1600 balle di cotone (vent’anni dopo diverranno solo 1/5). La nave “Santa Maria di Grazia”in partenza dalla Riva degli Schiavoni di Venezia diretta a Tripoli di Siria, con a bordo: 2 balle contenenti 10 pezze di panno e 10 casse con 10.000 libre di conterie, pagò 7 ducati di tasse ossia il 10% del valore del carico e un 6-7% di assicurazione.


Viceversa, un’altra nave veneziana in partenza a dicembre da Tripoli di Siria per Venezia, trasportava un carico di: 225 colli da 90 kg ciascuno di seta greggia, 30 colli di cotone, 109 colli di filati, 2 balle di bottane o tele ordinarie di cotone, 1 balla di tappeti, 26 colli di noci di galla, 20 di pistacchi, 2 di pepe, 5 di noce moscata, 1 di rabarbaro, 3 di macis, 1 di tuzia, 2 di gomma arabica, 7 di seme santo, 4  di scamorrea, 2 di droghe, 1 di merdoni, 36 fardi di vischi, 13 buste di zibibbo, 1 collo di pelli di montone e 14 di cordovani.


L’anno dopo, Venezia attivò lo scalo marittimo di Spalato, dove con carovane convergevano merci dalla Turchia, Persia e India lungo strade garantite libere e protette dagli stessi Turchi. Tutto questo in netta opposizione alla politica antiturca del Papa, del Granduca di Toscana, Spagna e Imperatore, ma soprattutto vincendo la concorrenza commerciale dei porti di Ragusa, Ancona e indirettamente di Firenze.


“Le economie e gli affari prima di tutto …” si diceva fra i Nobili e i Mercanti a Venezia,“le alleanze e le “amicizie” vengono dopo…”


Da Spalato arrivavano all’Emporio di Rialto: prima 12.000, poi 15.000, e infine 25.000 colli di cera, zambellotti, pellami, indaco, seta e lana; e ripartivano navi cariche di panni, seta, riso e sapone.

Sul finire del secolo però, a Londra non c’era più nessun Mercante né Console veneziano in attività, se non un “mercanterello” originario dalla lontana isola Mediterranea di Zacinto. Gran parte dei Mercanti Veneziani si servivano dal Fiorentino Bartolomeo Capponi … mentre Piero Ventura Mercante Veneziano di panni e gioie, fratello del Profumiere “All’insegna del Giglio”, decise di mandare solo uno dei figli Zuan Maria a commerciare a Costantinopoli, mentre pensò bene d’inviare il minore Agostino a studiare Logica a Padova. Diversi Mercanti Veneziani partivano ancora per la Siria con grossi capitali e numerose commissioni, riuscendo ancora a piazzare 10.000-12.000 pezze di “panni veneziani” in Siria, 3.000 a Costantinopoli, 4.000 al Alessandria e 5.000 nella Bosnia. Dalle vetrerie di Murano si spedivano vetri pregiati ad Aleppo in Siria per 20.000 ducati, per 10.000 a Costantinopoli, e per 5.000 ducati ad Alessandria d’Egitto.

Per trasportare merci da Venezia a Costantinopoli sulla Galea “Perasto” si pagava un tasso del 6% su ogni merce caricata ... Si pagava, invece, il 7% per utilizzare la nave “Silvestra”, mentre si risparmiava l’1% rispetto alla Galea “Agazi” caricando sulla nave “Pirona” tenuta in cattivo conto dagli assicuratori di Venezia dove i Sensali percepivano 4 grossi per ogni 100 ducati assicurati.

Il Nobile Mercante Zuan Francesco Priuli protagonista del risanamento del debito pubblico di Venezia di quell’epoca, spedì fra il 1577 e 1594: “ … panni di lana della sua bottega, roba squisitissima e panni di seta comprati con molta diligenza...” al suo agente di commercio residente a Pera … Ottavio Fabbri abbandonò un importante incarico presso la Corte del Duca di Ferrara mettendosi in società col fratello Tullio con buone prospettive di guadagno … Iseppo da Canal subaffittò ad altri il suo lavoro come Fante al Fontego dei Tedeschi a Venezia, e si trasferì a Costantinopoli per esercitare la Mercatura.


In autunno, una delle Galee di ritorno a Venezia sulle stesse rotte portò a Rialto: “… 223 cai di pepe, 1 cao di peverello, 3 di noce moscata, 2 di chiodi di garofano, 3 di gomma lacca, 1 cassa di cassia, 3 cai di indaco, 1 di asfor o cartamo tintorio, 6 di zenzeri, 3 di aloe, 1 di pennacchi, 1 di penne d’avvoltoio, 3 di senna, 10 di macis, 5 d’incenso, 4 di lingue, 5 di legumi e 4 balle e 1 fagotto di tappeti”Un Mercante Veneziano Savioni scrisse e raccomandò al fratello residente ad Aleppo di spedire in tutta fretta e segretezza delle pelli d’asino preparate con la granulazione dello zigrino perché vendendole a Venezia si poteva ricavare un guadagno del 100 ... Per Venezia ogni anno passava un milione di ducati d’oro investito in 20.000 panni di lana e 200.000 braccia di panni di seta destinati prevalentemente alla Germania ... Antonio Priuli del Consiglio dei Dieci commerciava in diamanti per migliaia di ducati ... Da Venezia partivano Galee per Tripoli con un carico del valore di più di 2 milioni d’oro. Metà erano contanti e il resto erano: pannina, panni di seta e altre merci ... il Capitano di Galea Uladi s’arricchì frodando l’assicurazione della Segurtà simulando un naufragio ben congegnato ... Sulla piazza di Aleppo alla fine del 1500 il rabarbaro era così numeroso che un mercante doveva affrettarsi a raccomandare ai corrispondenti di Costantinopoli di non comprarne per timore che a Venezia crollasse il prezzo. L’arrivo dele carovane da Baghdad e dalla Mecca era un evento economico, perché scaricava ancora 220 some di chiodi garofano, 200 di noce moscata, 230 di cannella, 230 d’indaco, 70 di macis, 50 di droghe varie, 30 di telerie, 30 di cordovani e 20 di porcellane.


Il 6 marzo 1592: “… una povera cercante morta ne li necessarii de Rialto et non è conosciuta da niuno, di età di anni 26 et è stata molti giorni lì in teco …”


Però, c’era ormai un però, un grosso però … Già nei primi anni del 1600 Leonardo Donà osservava:


“… il commercio col Levante è ormai in man de Inglesi, Francesi e Olandesi e qualche parte anche de Fiorentini…”


Il Nobile Zorzi Emo in una sua relazione dalla Siria accennava a un affare per più di 1 milione e mezzo di ducati annui che nel 1611 era sceso a soli 400 ducati annui per il decadimento della piazza ... Un vascello fiammingo arrivò in Siria con più di 100.000 scudi di reali da spendere sbaragliando la concorrenza ... A Tripoli giunsero 3 milioni d’oro fra roba e contanti, di cui solo la metà era dei veneziani, e mezzo milione ciascuno apparteneva a Francesi e Inglesi che riversavano su Tripoli ingenti quantità di “farisee”, pezze di lontre, cuoi ed altre pelli, e grossi carichi di stagno che saturarono l’intera carovana di 1.100 cammelli ottenendo in cambio: spezie, seta, merci, oro e argento.


Venezia aveva perso quasi completamente il traffico delle spezie e dei prodotti mediterranei, i Francesi avevano messo le mani sulla seta greggia, il cotone era gestito dai mercanti Inglesi e Olandesi che trattavano direttamente le merci con i Turchi e controllavano del tutto la via delle Indie.


I Fiamminghi si erano stabilmente insediati a Venezia con Guglielmo Helman e suo fratello Carlo da dove controllavano e gestivano tutti i traffici e le rotte per Amsterdam-Moscovia-Danzica e l’Inghilterra caricando: riso (7.000 quintali provenivano in gran parte dalle barchesse delle ville patrizie Venete costruite in riva al Brenta e agli altri fiumi che sfociavano nella Laguna di Venezia), uva passa, olio, specchi, vetri e seta grezza … Erano mercanti furbi, accorti e agguerriti: ordinarono, ad esempio, a un agente di Costantinopoli di vendere subito anche in perdita tutti gli smeraldi che aveva in deposito in modo che un concorrente che si stava imbarcando a Venezia con una notevole quantità di quelle stesse merci trovasse tutti i negozi già forniti, e fosse così costretto a disfarsene sotto costo o tornarsene indietro senza mercanteggiare.


Circa trenta velieri olandesi arrivarono a Venezia stracolmi di: lane, stagno, merci varie, e di un ingente quantitativo di pepe … mentre venti navi inglesi scaricavano annualmente a Venezia: colori, tessuti, spezie, 900 quintali di pepe e piombo con cui rifornire anche tutto l’entroterra padano.


Durante il 1600 una settantina di Nobili popolava e animava Rialto con i loro incontri d’affari inventandosi faticosamente la “Mercandia”.

Provando ad individuarli, erano i Sangiantoffettimercanti provenienti da Crema, i Flangini da Cipro come i Finich’erano anche avvocati. I Gheltoff, invece, arrivavano dalle Fiandre come i Van Axel, i Sandi da Feltre, i Manfratti da Padova, mentre i Cottoni erano commercianti Greci.

Mercanti d’Oro e Argento erano i Romierie Rizziveneziani, assieme ai Bergonzi da Bergamo mercanti di seta e oro ... Del mercato meno nobile dei minerali e dei metalli, rame e ferro, si occupavano i Widmann da Villach in Germania, come i Lombria dall’Umbria, i Crottada Belluno, i Giovanelli mercanti da Bergamo, e i Rezzonico da Como.

I Bonfadini dal Tirolo si occupavano di spezie e droghe, come i Lin da Bergamo.

Erano tutti mercanti di seta, i Cassetti da Brescia, Benzoni dalla Lombardia, i Veneziani Contento, Castellie Polveroche vendeva e comprava anche rame. Dello stesso genere della seta s’interessavano i Gozzi da Bergamo, Beregan da Vicenza, Rubinida Asolo interessati anche al sapone come i Veneziani Zolio, che erano anche mercanti di olio, come gli Albrizzi di Bergamo ... Commerciavano dell’antico genere della lana i Veneziani Catti, con i Martinelli da Bergamo, Statioda Milano, Giupponi e Pasta da Padova, Laghidai Grigioni, Fonseca dalla Spagna, e Bonvicini da Brescia.

I Veneziani Raspi mercanteggiavano in panni e soprattutto in vino come i Bettoni da Bergamo, e gli Zambellida Bassano che si occupavano anche di lana. I Manzoni, mercanti provenienti da Padova, per diversificare vendevano e compravano ferramenta, vino e lana ...I Toderini veneziani erano mercanti di merletti e panni, come i vari: Pelliccioli, Persico, Bellotto, Tasca e Maccarelli tutti provenienti da Bergamo.


Cambiando genere ancora una volta, i Curti originari di Milano importavano bestiame, i Minelli da Bergamo vendevano salumi da Bergamo, i Veneziani Cellini mercanteggiavano uva passa veneziani, i Semenzi-Premuda biade, e i Lucca dalla Toscana immettevano zucchero sul mercato come i Bonlini da Brescia.

I Nobili Acquisti erano appaltatori di munizioni provenienti da Bergamo, mentre i Lazzari da Trento fabbricavano spade … I Morelli mercanti da Murano commerciavano in vetro, come i Carminati da Bergamo in conterie. Sempre e ancora da Bergamo provenivano i vari: Fonte, Zanardi, Maffetti, Navee i Correggiomercanti di cuoio.


Tutta questa gente con un notevole patrimonio e capitale investito sulla “Piazza di Rialto”, finirono tutti col diventare Nobili Patrizi residenti stabilmente a Venezia, diventandone a tutti gli effetti cittadini originari, membri influenti nel Maggior Consiglio, e investiti d’incarichi dello Stato al pari delle antiche Vecchie Casate di Venezia.


Tuttavia, il traffico delle 5 Dogane della Serenissima diminuì di quasi di ¼, nella Dogana da Mar giunsero merci solo per 94.973 colli da 300 libbre l’uno … La Serenissima decretò perfino l’esenzione dal “Dazio sull’Uva Passa” se il carico fosse passato per Venezia invece che per Livorno … il Porto di Venezia divenne terzo per volume di traffico di merci dopo Livorno e Genova ... Arrivarono a Venezia dalla Spagna 13 navi cariche di lana greggia di cui solo 3 erano veneziane, e l’anno dopo, a causa di un naufragio di una delle tre, l’intera lana giunta a Venezia fu trasportata da stranieri … Non c’erano più navi di Venezia sulla rotta Londra-Livorno-Corfu’-Ragusa-Venezia ... Si perse il monopolio dell’Olio Adriatico a causa del contrabbando sulla via Pontevigo-Ferrara-Germania ... Venezia introdusse inutilmente nel 1617 la “forza speciale” degli Zaffi d’Acqua per combattere i contrabbandi.


Si contrasse sempre più l’attività imprenditoriale ed amatoriale, le navi grosse da carico veneziane erano ridotte solo a 27 ... Tuttavia negli stessi anni, Almoro’ Tiepolo fondò una Compagnia di Commercio della Seta assieme all’ebreo Salomon Annobuono, mentre il nipote del Doge: Domenico Contarini insieme ai fratelli Foscolo investì 2.000 ducati in traffici mercantili ... Antonio Grimani investì 12.000 ducati in un saponificio … Zuanne Dolfin, Agostino Nani e Alessandria Paolo Paruta esercitavano la Mercatura con la Siria; Alvise Mocenigo e Zuan Francesco Priuli con Costantinopoli; Giacomo e Giovanni Battista Foscarini dei Carmini commerciavano in panni di lana; Nicolo’ Longo di Francesco vendeva seta; Nicolò Donà commerciava grano; Zorzi Corner di Giovanni I grani e bestiame, e Antonio Priuli e i Loredan di Santo Stefano ricavavano in media 850 ducati annui dalla vendita del legname … Una lista riporta i nomi di 83 nobili che ancora commerciavano in Levante ... L’industria laniera di Venezia raggiunse la produzione annua di oltre 28.000 pezze, erano in attività più di 2.000 telai che producevano seta, continuava l’attività manifatturiera dei tessili, vetrai, orefici, conciapelli, fabbricanti di saponi, raffinatori di zuccheri e di cera... Per contrastare il controllo degli Asburgo sull’intero commercio europeo, Venezia stipulò un trattato con la Confederazione delle Leghe servendosi della Strada di San Marco o della Priula per incrementare il traffico di latticini, animali, salnitro, grano bavarese ... L’editoria che stampava un numero di libri 3 volte e ½ superiore a quelli pubblicati a Milano, Firenze e Roma messe insieme, trovò grave ostacolo nell’istituzione da parte del Papa e dell’Inquisizione dell’ “Indice dei Libri” ...In soli quattro mesi nel 1595, si ridussero da 125 a 80 i torchi da stampa dei librai.


Nel luglio 1610 fu triste ed emblematica la relazione dei Cinque Savi alla Mercanzia.


“… figura del tutto estinta la Mercanzia e la navigazione del Ponente … scarsa è quella del Levante … Le poche merci giunte a Venezia stentano a trovare acquirenti … Resta poco meno che annichilato l’importantissimo commercio della città un tempo ricolma di tutte le cose mercantili che d’ogni parte del mondo concorrevano in essa con partecipazione di tutte le nazioni …”


A causa dell’inflazione le Banche Veneziane falliscono a catena, soprattutto i ricchi Banchi storici dei Priuli e dei Pisani. S’istituì un Banco Pubblico a Rialto, ma si finisce ben presto a utilizzare i depositi dei clienti.

Nel 1665 una legge veneziana provò a incentivare l’afflusso del grano all’Emporio Realtino di Venezia istituendo la “Decima Verde”. Si proponeva ai Patrizi latifondisti della terraferma di non pagare fino a 2/3 delle imposte consegnando il loro frumento al Magistrato dei Provveditori alle Biave di Venezia che l’acquistava ad un prezzo superiore di almeno 2 lire per staro.


Nel marzo 1629, il Senato aumentò le tasse d’urgenza per impellenti bisogni di governo imponendo due nuove “Decime” su tutta Venezia e Dogado ... e otto giorni dopo aggiunse un “prestito obbligatorio allo Stato” sotto forma di altre due “decime” e due “tanse” da pagarsi in agosto e febbraio da tutti coloro che erano presenti in Venezia, senza sconti né esenzioni.


Una prima tassa doveva essere pagata: “… da patroni sopra livelli perpetui, stati, inviamenti de Pistorie, magazeni, forni, poste da vin, banche di beccaria, traghetti, poste, palade, passi, molini, foli, sieghe, instrumenti da ferro, battirame, Moggi da carta, dadie, varchi che si affittano e si pesano, decime di biave, vini ed altre robbe, fornari, hosterie et ogn’altra entrata simile niuna eccentuata…”

La seconda tassa fu imposta: “… sopra tutti Livelli francabili fondati su case, campi o altri beni in qual si voglia luoco, fati con chi si sia ...”


Chi pagava entro aprile aveva in condono un’esenzione del 10%, chi pagava più tardi un aggravio uguale.


Nel 1633 si ricostruì l’Altar Maggiore rialzato, e il presbiterio e la sottostante cripta di San Giovanni Elemosinario. I parrocchiani erano solo 150, ma la chiesa era un gioiellino ricco d’opere d’arte per il gran numero di botteghe, stazioni e volte che vi si trovavano in zona e contribuivano alla vita della Parrocchia associandosi in Arti, Congreghe e Scuole.

I Gallinai o Gallineri e i Buttiranti o Pollaioli, Polameri, Pollaroli e Venditori di Uova o Ovetari che contavano 198 botteghe, furono autorizzati dal Doge Marino Grimani a riunirsi con 190 capimaestri, 30 garzoni e 80 lavoranti nella Scuola Annunciazione davanti all'altare dell'Annunziata dove avevano anche un'arca per seppellire i confratelli defunti. In cambio offrivano al Doge ogni anno “… doi para de fasani"il giorno della loro festa patronale, quando ogni Confratello riceveva "pan et butiro" invece che il tradizionale "pan et candela"delle altre Scuole. In seguito si preferirà donare al Doge una più pratica somma di 99 lire e 4 soldi.

Sebbene l’Arte fosse molto considerata dalla Serenissima perché forniva quei generi di sostentamento necessari alla popolazione più povera, la Schola fu abolita nel 1752 per la scandalosa speculazione operata dai Confratelli sui prezzi di vendita dei prodotti.


Secondo la Promissione Dogale di Giovanni Soranzo, i più di 450 iscritti con 200 Capimastri e 300 Garzoni degli Ovetarii: “…I venderigoli e venderigole non possano vendere altre ova che fresche…”,avevano l’obbligo di fornire al Doge un paio di buone oselle grandi e 30 denari a Natale, una buona gallina a Carnevale, e una buona colomba di pasta farcita da 14 uova a Pasqua.


Assieme a loro si consociavano i Biavaroli o Fonticariis”nella Scuola della Beata Vergine del Carmine.


Fin dal 1200 esistevano a Venezia da 2 a 5 Magistrati o Signori o Ufficiali al Frumentoo Provveditori alle Biaveche sopraintendevano all’annona. Non dovevano avere interessi in navi o in frumento o mulini, ed erano attivi nei Fondaci sia a Rialto che di San Marco sorvegliati da 10 Fanti pagati 50 soldi al mese, raddoppiabili dopo i 60 anni, dove una volta alla settimana controllavano lo stato di conservazione delle biade e dei granai.

Utilizzando disciplina, armi, scrivani e carcere, stabilivano i prezzi del grano, noleggiare navi, ricevevano e controllavano i conti dei Fonticari e la produzione del “pan biscotto”, riscuotevano denaro e ricorrevano a prestiti, inviavano agenti in altri paesi per comperare e vendere. Ogni mese davano in nota al Doge e alla Signoria la quantità di frumento e di biade esistente nei Fondaci, e potevano chiedere che si radunasse il Maggior Consiglio se fosse stato necessario. In caso di carestia il Doge imponeva dazi e tasse su prestiti e interessi che ricevevano in cambio farina.


I Provveditori alle Biade del Fontego della Farina, dove il Comune teneva sempre 80.000 staia di miglio in deposito, acquistavano annualmente per conto pubblico da Verona, Vicenza, Padova e Treviso ... ma anche in Lombardia, Ferrara, Romagna, Istria, Schiavonia, Sicilia, Candia, Alessio, Durazzo e Scutari … mentre in Turchia si comprava la fava che si mangiava in Quaresima, e cece bianco a Salonicco, orzo a Chairenza, biada, fieno e paglia a Capodistria la biada e …“… e frumenti, segale, orzo, farro, splelda, rene, riso…fuba, cicere, cicerotis, fasiolis, miiliis, sorgis, linis, rupelis, panniciis …” pagando spesso col cambio in sale.

Distribuivano il frumento ai Pistori e Fornai e lo mandavano a vendere al Fontico Pubblico, e i loro “soprastanti”ispezionavano ogni 2 mesi tutte le botteghe dei Pistori controllando che usassero solo frumento fornito dal Comune, e 2 volte al mese passavano a pesare il pane che doveva essere di buona qualità e del peso prescritto.

Il grano pessimo si faceva macinare dopo “crivelladura”, e la farina veniva data ai poveri a poco prezzo, o per il pane dei Carcerati, per l’Arsenale e per le elemosine a Santa Maria della Misericordia, allo Spedale Domus Dei o Ca’ di Dio e al luogo di San Lazzaro.


I Mercanti Veneziani non dovevano trattare grano e biade se non per portarli a Venezia, pena la perdita del 50% del valore, e sequestro della nave e della biada stessa. Chi portava grano, giunto a Cavarzere o Loreo doveva presentarsi ai Podestà o Rettori per registrare tipo, quantità, venditori, e mulino di macina: Loreo o Bebbe unici autorizzati dalla repubblica per la zona di Padova, Ferrara, Lombardia e Romagna. Il frumento acquistato veniva collocato nelle caneve, registrato il venditore, costo, e quantità di ciascun magazzino, che non si usava prima di averne vuotato un altro.

L’eccesso di frumento veniva smaltito entro 8 giorni con l’acquisto forzato da parte dei Capi Contrada dei Veneziani, che dovevano ripartire in tre giorni fra gli abitanti della propria Contrada il frumento ricevuto dagli Ufficiali al Frumento. Si dava a ciascuno una quantità conveniente a giusto prezzo da pagare entro 15 giorni pena una multa di 5 soldi per staio, non dandone ai poveri né a Pistori. A chi non voleva il frumento glielo si poneva davanti alla porta di casa, eccetto ai Notai del governo che spesso erano in viaggio, aumentandone il prezzo per il trasporto e la consegna forzata. I Cittadini e i Nobili spesso non pagavano, perciò venivano sgridati dal Doge che li escludeva da Uffici e Benefici e dal partecipare al Maggior Consiglio finchè non avessero pagato, mentre i Capisestiere anticipavano le spese e facevano catturare i cittadini che non pagavano, dilazionavano i pagamenti, ed emettevano tessere per le distribuzioni tirando a sorte.


Nel 1612 l’Arte dei Biavaroli con i suoi 400 iscritti e le sue 174 botteghe attive, lamentava difficoltà per la difficile congiuntura economica veneziana. Per questo ottennero dal governo uno sconto d’imposta del 25% passando da 24 ducati a 20 ducati ... nel giorno della festa patronale della Madonna del Carmine, che si celebrava a Rialto e San Marco, tutte le botteghe da Biavarol dovevano restare chiuse.


Sempre nella stessa chiesa, i Corrieri Veneti e per Roma si consociavano nella Scuola di Santa Caterina, i Telaroli nella Scuola della Santa Croce, e i Cimadori in quella di San NicolòDopo che l’Arte dei Libreri da Carta bianca e da Conti abbandonò come propria sede la zona di Rialto per trasferirsi vicino a San Marco, intorno agli anni 50-60 del 1600, nella chiesa di San Mattio di Rialto fiorì una serie di Scuole nuove d’Arte, Mestiere e Devozione. Quella dei Cartoleri, e quella di San Giuseppe e San Mattio dell’Arte dei Pestrineri, la Scuola del Rosario, il Suffragio dei Morti sotto il titolo di Gesù Cristo Crocifisso, il Sovvegno della Concezione dell’Arte dei lavoranti Pistori ... quando in Ruga degli Spezieri a Rialto, presso la Calle del Bo, Giovanni Maria Laghi teneva bottegada“Specier al Bo d'Oro” e … Battista fiol de Zuane faceva l’Ochialer in Contrada di San Mattio” dove c’era la Corte dei Pii o Piedi dai piedi di manzo, vitello e castrato, soliti ad essere cucinati dai Luganegheri chestanziavano in una casa di loro proprietà.


Nel 1680 Venezia perdette Candia col mercato della produzione dell’olio e del vino ... Resistette, invece, il mercato veneziano a Costantinopoli … Buono fu anche quello a Smirne con 20-25 nevi annue ... ma più del 45% degli 85.000 colli giunti a Venezia e Rialto via mare furono portati dal Ponente da navi Inglesi e Olandesi.

Rialto non era più il grande Emporio Mediterraneo che riforniva l’Europa intera, ma era diventato solo un porto regionale di transito per il Levante, Germania meridionale, entroterra padano, e per approvvigionamento interno di Venezia e della vicina terraferma.


Nell’ottobre 1697 la“Marciliana Veneta” dal nome “Beata Vergine del Santissimo Rosario e Sant’Iseppo”,del Capitano veneziano Padron Paulo Penzo, partita da Venezia con un carico di telerie fece naufragio su una secca presso San Giorgio all’imboccatura del porto sullo Scoglio dei Guardiani vicino all’isola di Cefalonia ... Nel novembre seguente, un’altra “Marciliana Veneta” col nome di “Beata Vergine di Loreto”, del Capitano Paron Anzolo Carli in rotta verso il Peloponneso con un carico di foraggi ed altri pubblici materiali perse tutti gli alberi in una tempesta nei pressi della spiaggia di Corinto.


Brutti presentimenti e presagi …


All’inizio del 1700 il traffico commerciale col Ponente e col Levante passò stabilmente in mano a 30 bastimenti Inglesi e 15 Olandesi. Cannella, pepe, chiodi di garofano e molte altre droghe non furono più considerate necessarie, ma addirittura si affermò che danneggiassero la salute ...  Coronelli nella sua “Guida dei Forestieri per la città di Venezia”, considerava la “Locanda alla Fortuna” fra le 11 migliori di Venezia insieme a quelle di Rialto “Al Gallo”, la “Serena”, il “Gambero”, “Sturiòn”,“Alla Scoa”,“Alla Torre”, “Alle Due Spade”, “Alla Scimmia”, “All’Anzolo”, “Alla Campana”, e quella dei “Re Magi”.


All’inizio del 1700, il Sopragastaldo del Monastero delle Monache degli Angeli di Murano acquistò metà bottega e una volta nella Contrada di San Zuanne Elemosinario di Rialto dove esistevano 549 botteghe (che trent’anni dopo divennero 682) gestite da 234 padroni ... Il Mercato di Rialto si ravvivò un poco, con scarse novità rispetto ad un tempo.

Da Bergamo giunsero i mercanti Fracassetti insieme ai librai Baglioni, e ai Cavagnis mercanti d’oro come i Vezzi da Udine, e i Veneziani Spinelli che erano anche Notai. Dalla vicinissima Chioggia arrivarono i Veronese mercanti d’olio, e i famosi Grassimercanti e appaltatori. Infine, i Veneziani Zini vendevano lana, e i Codognolamercanteggiavano non si sa bene che cosa … forse un po’ di tutto, o quel che capitava.


La nave Veneta “Santa Giustina” del Capitano Anzolo Memmo partita da Venezia con un carico di merci e passeggeri fece naufragio innanzi allo Scoglio dei Guardiani presso l’isola di Cefalonia ... mentre la “Clecchia Veneta” del Capitano Antonio Premuda da Lussino, partita da Smirne per Tripoli in Barbaria con un carico di 800 pezze di tela bambagina, 9 pezze di panno, 20 conce salate di manzo, 18 mazzette di seta, 1 cassa di strazze di seta, 500 legni pregiati e varie altre telerie naufragò sempre a Cefalonia, e ancora presso il maledetto Scoglio dei Guardiani.


A Venezia lo storico Zanetti riferiva:


“… per Decreto del Senato Veneto furono cresciute con nove barche d’Officiali le Guardie che sorvegliavano le pubbliche lagune per i Dazi e pochi giorni prima s’erano armate altre barche con l’oggetto d’impedire i contrabbandi…”


La barca Veneta del Capitano Padron Marco Calichià della Villa di Ploggià di Erso, partita da Santa Maura o Preveza con un carico di grano; il “Caicchio Veneto” del Capitano Padron Panagioti Calicchià da Pgià, partito da Cacogilo diretto alle fortezze di Preveza e Vonizza con un carico di 130 pagliazze d’olio e 50 bozze di vino; e il “Caicchio”del Capitano Padron Caravoghiro Grigori Maurochefalo partito da Leucade per Cafalonia con un carico di passeggeri, subirono tutti l’aggressione da parte di un “legno corsaro” Maltese allo Scoglio di Petalà ... mentre un bastimento partito da Argostoli in Morea subì un’aggressione da parte di una “Galiotta barbaresca ossia lancia Dulcignota corsara” sempre presso l’isola di Cefalonia un tempo sicurissima base navale della Serenissima Venezia ... ma ora in balia di se stessa.


I Patrizi Veneziani Vincenzo Cappello di Andrea, i Gritti di San Marcuola, i Crotta e i Mocenigo possedevano 33 delle 49 cartiere nel Veneto ... il Nobil Homo Benedetto Giovannelli commerciava olio col Trentino ... mentre il ricchissimo Pietro Corner di Giovanni Battista del ramo di San Polo, già Bailo a Costantinopoli, aprì una raffineria di canape a Venezia ... Su un 357 ditte mercantili iscritte sulla Piazza di Venezia solo quattro appartenevano a Patrizi Veneziani: Boldù, Corner, Martinengo e Baglioni ... Sempre il Senato Veneto incentivò la lavorazione del “Corallo Istriano” ai margini della laguna. Il futuro Doge Marco Foscarini ne impiantò una fabbrica nella sua villa di Pontelongo ... Nicolo’ Tron nella sua fabbrica di Follina produsse in un solo mese 3.253 libbre sottili di seta bianca e gialla ...


Nel 1712 in Contrada di San Mattio si contavano 161 botteghe, e nella chiesetta che possedeva una rendita annuale di 200 ducati da beni immobili siti in Venezia, si vestiva una Madonna del Rosario con abiti e ori ... Francesco Massarini, “ … che dipingeva per vivere figure oscene su ventagli, e in avorio sopra e dentro a scatole da tabacco, comprate avidamente in Merceria da forestieri …”, accusò ingiustamente Prè Nicolò Palmerino Piovano di San Mattio di: “… carteggiare coi Principi Esteri in rilevanti materie di Stato …”  Il povero Prete fu arrestato, torturato più volte, e condannato a carcere perpetuo. Ma dopo tre anni, si scoprì la calunnia infondata tramite la confessione fatta ad un Frate, e per ordine del Tribunale Supremo il Massarini venne strangolato nei Camerotti e attaccato alla forca, mentre il Piovano venne scarcerato e ricompensato.


In venti anni, il numero delle botteghe scese a 148, come le rendite della chiesa che divennero di 100 ducati annui in totale ... Matteo Biscotello, appaltatore di sego in Cannaregio, celebrò il matrimonio di tre sue figlie sempre in chiesa di San Mattio di Rialto abbellita da 3 bei costosi lampadari di cristallo di Murano, dando loro per dote 2 mila ducati ciascuna testa.


Era il 1740, quando l’ “Osteria alla Donzella” era condotta da Piero dei Pieri che gestiva in Contrada Sant’Aponal un’altra Osteria con lo stesso nome di proprietà del Nobil Homo Filippo Donà … Nel 1743, Carlo Salchi Fattor dell'Arte dei Luganegheri, fu bandito da Venezia per essersi impossessato di gran parte della cassa della sua Arte d’appartenenza … al tempo in cui lo scultore Francesco Gaj con moglie e 3 figli abitava vicino alla chiesa di San Giacometto pagando 36 ducati annui. Lì vicino abitava col fratello, madre, ava e zia anche Domenico Lovisa stampatore e libraio, che aveva “bottega da librer” sotto ai portici pagando 50 ducati annui al Nobil Homo Morosini del Pestrin.


Secondo “Il Giornale” di Gasparo Gozzi, in un mercoledì d’ottobre del 1760 era accaduto che:


“ … poche settimane fa un certo Giacomo Compagnon Oste in Venezia all’ “Insegna della Campana” venendo da Vicenza con 1.200 ducati in una cassetta, fu assalito da 3 rubatori sulla strada ... La cassetta dei denari, oltre ad essere robusta per se, era conficcata nelle assi del calesse con due occulte e fortissime viti. Affaticavansi due dei ladroni per sconficcarla ed il terzo minacciava con l’arme. Intanto il postiglione, uomo animoso per se e che conoscea il fuoco e il cuore de cavalli suoi, diede ad un tempo con una scuriata a traverso agli occhi dell’assassino che tenea in punto l’arme, e con gli sproni punse il cavallo che sotto avea tanto che le due bestie si mossero con tal furia improvvisamente che due degli assassimi cadettero a terra malmenati dalle ruote, il terzo si rimase con le mani agli occhi … e il calesse sparì loro davanti, lasciandone due malconci e mezzo spallati e uno balorodo e quasi cieco …”


Nell’aprile 1773 in Ruga Vecchia di San Giovanni Elemosinario di Rialto, dove abitavano 1057 persone di cui 388 non Nobili e abili al lavoro, scoppiò un grosso incendio nella bottega d'uno speziale di proprietà dei Frati di San Nicolò del Lido ... Nello stesso mese, il Magistrato alle Beccarie di Rialto fece un proclama a stampa sulle “regalie” solite fatte arrivare a Venezia  per le feste di Pasqua, cioè agnelli, vitelli, capretti e simili. Si vietò sotto rigorose pene che col pretesto d’essere regalie non si facesse contrabbando di carni, cosa largamente praticata.


Giacomo Casanova raccontò nei suoi “Memoires”, vero o falso che fosse, che una sera di Carnevale del 1745 con un Nobilhomo Balbi avevano adocchiato una bella popolana da San Giobbe che beveva col marito e altri due amici in un magazzino in Contrada della Croce. Desiderosi di possederla, escogitarono fingendosi Pubblici Funzionari del Consiglio dei Dieci di farsi seguire da quel marito e amici di seguirli fino all'isola di San Giorgio in Alga. Lasciatili là, i due tornarono a Venezia e ritrovarono la donna lasciatala in custodia ad altri loro compagni. Allora la condussero all'Osteria delle Spade dove: “… dopo aver cenato insieme, si diedero a buon tempo con essa per tutta notte, prima di rimandarla a casa ...”


Nel 1780 circa, a San Giacometto di Rialto:

“… ad imitazion della Cappella Ducale di San Marco si retribuì con lire 87,20 per cantare e suonare alla Messa Solenne col suono dell’organo il giorno di Natale gli stessi cantori e suonatori del Doge, che giunsero con: violon, violoncello, violetta, primo violin e due violini, un oboe, 2 trombe e il primo tenor, 5 cantori, e un Maestro per Messa e Vespro.” ... Dentro a San Zuan Elemosiniero, intanto, si radunavano gli uomini dell’Arte dei Casteleti e dell’Arte degli Stadieri assieme a quelli della Compagnia di San Giuseppe per la Buona Morte, della Congregazione dei Sacerdoti della Beata Vergine, e della Compagnia dei devoti di Sant’Elena.


In un ultimo sussulto commerciale nel 1787, approfittando della paralisi dei porti francesi e di Marsiglia, s’inaugurarono a Venezia alcune Società d’Assicurazione Marittima. La prima fu la Compagnia Veneta di Sicurtàcon 800 azioni da 500 ducati l’una. Nicolo’ Erizzo ne comperò: 25, Alvise Emo: 20, Antonio Duodo, Ludovico Manin, Pietro Vettor Pisani, Francesco Pisani, Vincenzo Tron, Zuanne Pesaro, Francesco Morosini ne acquistarono:10 ciascuno. Sebastiano Zen e Girolamo Ascanio Giustinian: 5, infine Almoro’ Daniel Pisani solo 1.


“ ... solo 126 azioni su un totale di 800 ? … i Nobili Patrizi di Venezia sono per davvero in totale declino ...” fu il commento di un mercante esperto e navigato.


Fu la fine, perchè non senza una certa mestizia nel 1811 si demolirono a Venezia più di cento navi mercantili per mancanza di mezzi per manutenzione e restauro. Una certa Venezia non esisteva più … e anche l’Emporio di Rialto taceva ormai quasi del tutto ... disertato e silenzioso.

Sempre all’inizio del 1800, quando in Contrada di San Mattio vivevano più di 800 persone, di cui 303 abili al lavoro, nella zona esistevano 148 botteghe di 113 padroni, e due Pubblici Postriboli … e 2 Levatrici. I Preti di San Mattio vivevano in una casa cadente, “poveri”e senza rendite perchè ancora soggetti economicamente al Juspatronato dell’Arte dei Macellai.

Tuttavia, il Parroco-Piovano possedeva entrate per 703 ducati, doti di Mansioneria, 366 ducati dalla Cassa dei Minuzzadori, e altri 80 ducati da “incerti di mestiere”, spendendo in uscita: 309 ducati in totale, di cui 60 li dava al Curato, 32 all’Organista, 10 al Sacrestano, 12 ai Sacerdoti o Zaghi che circolavano nella chiesa, 30 ne spendeva per il vino da Messa, 6 li dava al Portacqua e 30 al Coro dei Cantori durante la Settimana Santa.


Ogni anno, lo stesso Piovano Prè Giovanni Antonio Stoni, che s’interessava anche di predicare di frequente e d’istruire la gente di Rialto sulla Dottrina Cristiana, faceva celebrare in San Mattio 2.400 Messe Perpetue, avanzandone da celebrare 54, 7 Messe Esequiali per i Morti e le Anime Derelitte, e 135 Messe varie e avventizie. Durante tutte quelle Messe si organizzavano almeno 5 tipi diversi di questue per i bisogni della chiesa ... il Piovano ci teneva molto che alcune Messe fossero “Solenni e Cantate”, ed esponeva il “Santissimo in Adorazione” tutte le feste, cantava la Novena di Natale e l’Ottavario per i Morti, e guidava una processione l’8 settembre per tutta la Contrada di Rialto.


Nel gennaio 1817 il Capitolo di San Zuanne de Rialto possedeva un reddito annuo di lire 989,82. Il suo Vicario, Prete Paolo Trevisan, percepiva una Congrua di 246 lire annue di rendita provenienti dall’affitto di una casa ad uso Osteria in Corte della Cerva a San Bartolomeo, 105 lire annue da una bottega in Campo Sant’Aponal, 41,24 lire annue da un fondo di casa in Contrada di San Silvestro riscosse dal signor Giovanni Giacomo Costa commissario del fu Costantin Martora, 50 lire annue da un Livello esigibile dal Parroco di San Giacomo dell’Orio, e 76,8 lire annue da una bottega in Calle della Mandola nella Contrada di Sant’Angelo da un affittale … che non pagava mai.


Giunto su Venezia “il tornado” Napoleonico, la chiesetta di San Mattio fu chiusa e i beni indemaniati. La Parrocchia venne soppressa e incorporata a quella di Sant’Aponàl al cui Piovano andò una “dote d’esercizio” di 368 ducati annui corrisposti dal Ceto o Arte de’ Macellai … che però non pagavano più, anzi, si rifiutavano di pagare.


Nel 1820 si pensò bene di demolire la chiesetta trasformandola in abitazioni private, in cui ancora oggi è visibile (al n° 880 del Sestiere di San Polo e nel Ramo Astori), la porta principale e 2 finestroni laterali della scomparsa chiesa di San Mattio.


Dal 1884 smise di suonare dopo secoli la campana “Realtina” di San Giovanni Elemosinario. Da ottobre al Mercoledì Santo la campana “…per consuetudine antica dava il segno delle veglie …”sempre alla stessa ora di sera, alla terza ora di notte per dare il segno di spegnere i fuochi ... Venne sostituita molte volte perchè “spezzata” nel 1491-1500, 1544, 1572, 1597, 1733 e 1775, e il campanaro era anche il Responsabile dei Fuochi dell’area del mercato ... La Pescheria fu rifatta con una barocchissima copertura in ferro ... Alla caduta della Repubblica i Pescatori erano migliaia, ma i “Compravendi pesce” erano solo centocinquantotto. Il mestiere era riservava ai soli pescatori della povera Contrada di San Nicolò dei Mendicoli e dell’isola di Poveglia, dopo che avessero pescato faticando per almeno 20 anni, o avessero compiuto i cinquanta d'età sfidando il mare.



Basta ! Mi fermo … altrimenti mi mandate tutti “a quel paese”Queste sono solo alcune delle tantissime cose la cui eco si può ascoltare risuonare ancora oggi sotto le volte di Rialto ... con un po’ di fantasia. E’ solo un’eco lontana che rimbalzando di volta in volta e sotto ogni arco, lentamente va spegnendosi confondendosi con lo sciabordio dell’acqua del vicino Canal Grande ... e più in là e oltre sopra i tetti di tutta la nostra Venezia ... disperdendosi nelle acque lisce e calme della Laguna … forse inascoltate, o quasi …


“DI PASSAGGIO PER VENEZIA …”

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"Una curiosità Veneziana per volta."- n° 60.

“DI PASSAGGIO PER VENEZIA …”


Come abbiano ricordato più volte, Venezia è sempre stata città di mondo, porto aperto, tutto un andirivieni di gente e personaggi. Per secoli ha fondato la sua identità nell’essere emporio marittimo internazionale, una specie di ponte di raccordo quasi obbligato fra Oriente e Occidente e viceversa.

Martino Da Canal, nel 1200, descrive Venezia.


“ … le merci scorrono per quella nobile città come l’acqua dalle sorgenti … da ogni luogo giungono merci e mercanti, che comperano le merci che preferiscono e le fanno portare al loro paese …”


Tuttavia, si giungeva in Laguna non solo per mercanteggiare, ma anche diretti a visitare i “Luoghi Santi”, o di ritorno sulla via di Roma, Assisi, Loreto, il Santuario dell’Arcangelo Michele sul Gargano, e più di tutti: la Terrasantaoltremare.


I vecchissimi documenti narrano che ai pellegrini giunti a Venezia si vendevano i materiali per proseguire il viaggio: 

“ … cappelli per la pioggia e il sole, bordoni per i passi scoscesi, pellegrine da indossare, zucche per conservare l’acqua …”  

Per la strada si offriva loro: trippe e minestre calde a buon prezzo, e poi anche un buco dove andarsi a rifugiare, seppure sempre con una certa dignità … ma anche taverne, gioco e donne … Ai Pellegrini e Pellegrine servivano anche bagni, un focolare per scaldarsi, qualche luogo sicuro per posare la testa rilassati e sicuri, qualcuno fidato con cui scambiare i loro soldi stranieri ... E serviva altro ancora …


“Sono pur sempre uomini e donne vivi sti’ pellegrini e pellegrine ... No ?”


A Venezia oltre agli “Uomini alla cerca di Dio”, giungevano anche tante donne temerarie e coraggiose ... Mentre Treviso era crocevia strategico, una sorta di spartiacque sulla via dei “Romei” diretti a Roma, o dei “Michaelici” che si spingevano giù giù fino al Santuario dell’Arcangelo Michele sul Gargano di Puglia.


Di passaggio per l’Europa e per l’Italia i pellegrini attraversavano territori, paesi e città di cui rimanevano ammirati oppure sconcertati. Vedevano città sporche e fatte di legno e fango, ma anche città ricche, ben curate e governate. Giungendo e attraversando l’Italia erano ammirati dai campi coltivati, dai boschi verdi e dalle spiagge litorali piene di sabbia e sole. Erano, invece, provati dal valicare le Alpi innevate, nebbiose e piene di gelo, che procuravano loro molte insidie, smarrimenti di strada, incidenti … ma anche episodi curiosi. Come quello raccontato da un pellegrino in un suo diario in cui scrive d’essere stato portato giù a grande velocità per un pendio scosceso e ripido da un “marrone” pagando “una palanca”. Fra divertito e disperato raccontò di essere discesocon gran pericoloe intraprendenzasopra a delle lunghe tavolette di legno (sci, una slitta?) evitando un lungo giro che avrebbe dovuto intraprendere sulla neve.


Quelli che arrivavano in Laguna, erano però anche persone stressate e provate da un viaggio lungo e difficoltoso. Più di qualche volta i Pellegrini avevano dovuto attraversare e subire difficoltà che manco immaginavano quando avevano deciso d’intraprendere quelle imprese considerandole, a torto, solo di natura interiore e spirituale.


“Quel che i pellegrini ignorano, o non considerano a sufficienza, è che il mondo è pieno di lupi … La terra è aspra e selvaggia, le genti avide e vogliose di guadagno …  I Principi e i Signori sono desiderosi di gravare con le loro gabelle su chi transita per le loro terre … i Monaci sono ansiosi di pretendere il pedaggio da chi attraversa ponti, strade, acque e fiumi … Sono inderogabili nell’esigere il balzello da chi macina nelle loro rogge e molini, poco compatibili con i motti e le moine dello spirito, e la penitenza austera dei corpi … Ogni indulgenza e indulto ha un prezzo, ogni benedizione una sua logica da tradurre in moneta sonante … Ogni cantata diretta agli Angeli necessita di una controparte in obolo da versare, in cere da offrire, o orazioni da fare recitare … O se si vuol meglio dire con garbo: “L’elemosina è per la salvezza dell’Animo proprio, a favore dei Morti o dei vivi più cari … o per implorare il favore Eterno, porgere caritade ai miseri, sanare i deboli infermi e la melanconia dei derelitti … Ma la realtà del camminare è tosto diversa …”


Sulle strade della Marca Trevigiana le cronache antiche raccontano di Ospizi in luoghi pantanosi e ostili, superaffollati e luridi, di locande in cui si veniva maltrattati, ricovero d’ubriachi e mezzo bordello o tutto intero.


“Più che taverne erano tane di osti … “latrones et deppredatoris Romipetrorum” … Fossemo mal tratati, et ben pagassemo … Erano posti luridi, biscacie, luoghi di raggiro, d’estorsione e spogliazione, dove s’usavano monete e pesi falsi, e ogni genere di prodizione, inganni e intrallazzi …”


Gli Osti del Padovano e Ferrarese raggiungevano i Pellegrini Tedeschi e Danubiani fin sul Piave in territorio Trevigiano, e li dirottavano e spingevano con lusinghe, astuzie, e soprattutto per interesse sulla via diretta e alternativa dell’itinerario Padova-Rovigo-Ferrara, facendo di tutto per evitare che passassero per Venezia.


Venezia dopo tante traversie e incertezze, doveva presentarsi ai pellegrini come un’oasi sicura di pace e di ristoro.

Molto spesso i Pellegrini la descrivevano nelle loro carte in maniera entusiastica.


Il pellegrino Felix Faber la definiva:

“ … la città più mirabile, anomala e peculiare mai vista in tutta la Cristianità ...”


E Bertrando de la Broquiere, pellegrino giunto a Venezia per imbarcarsi per la Terrasanta:

“Venezia è una città molto buona, molto antica, bella e adatta alla mercatura, tutta circondata dal mare che pasa per la città e fra le sue isole … E’ governata molto saggiamente, perché non si può essere del Consiglio né ottenere cariche importanti se non si è gentiluomini e nativi della città. C’è un Doge, che quando muore viene sostituito da un altro eletto che sembra essere il più saggio e colui che ha più a cuore il bene comune …”


Non male come opinione sulla Venezia del 1432 !


Venezia, infatti, pullulava di ospizi e ostelli d’ogni sorta. Quasi tutti gli Ospedaletti sparsi per le contrade veneziane sono stati in origine strutture d’ospitalità nate per accogliere i pellegrini in transito per Venezia. E non solo in città, ma anche nelle isole circumvicine Monaci, Monache e Frati arrotondavano le rendite non sempre ricchissime fornendo appunto ospitalità, trasporto e sostentamento di qualche tipo a quella schiera periodica più o meno numerosa di devoti e devote in transito. L’isola di San Secondo, quella di San Giorgio in Alga, San Clemente, San Lazzaro degli Armeni solo per ricordare alcuni nomi … Posti diventati poi Lazzaretti, luoghi di contumacia o di riparo provvisorio sia per mercanti, che per soldati, religiosi, legazioni straniere o appestati di turno.


Ieri come oggi Venezia ha sempre avuto una vocazione disponibile e turistica e d’aperta ospitalità.


Venezia che possedeva: “… per pavimento il mare, per mura le onde, per tetto il cielo, per strade l’acqua marina …” , era considerata una tappa irrinunciabile di tutti quegli “Itinerari Santi”, e i Veneziani, da bravi opportunisti che sono sempre stati, hanno approfittato al massimo di quell’evenienza amplificando più che potevano il significato e i motivi per prolungare il più possibile la sosta a Venezia e in Laguna.

La Serenissima aveva abilmente racchiuso solo dentro a certe date e stagioni, e speciali “condizioni ambientali”, il “passaggio” per nave e per mare dei Pellegrini, costringendoli perciò a soste prolungate in città ... anche di mesi. Per far questo, Venezia si era organizzata alla grande, e per ingannare l’inevitabile attesa aveva creato dentro di se e delle sue Contrade una specie di Gerusalemme e Terrasanta Veneziana “fai da te e in miniatura” utile ad anticipare e qualche volta sostituire quanto di prezioso si desiderava raggiungere oltre le insidie costose del mare.


Esistevano tanti luoghi accuratamente sparsi e riconoscibili in tutta la città e la Laguna dove si ripeteva, ricordava e perpetuava tutto quanto era accaduto nella terra Biblica ed Evangelica. Moltissimi Monasteri, Oratori e chiese cittadine erano ricche d’insigni e autentiche Reliquie di ogni momento della Passione del Christo, ma non solo ... Erano fornitissime di “Memorie e resti” di ogni Santo e Martire, e della stessa Madonna Santissima … Nei giorni della lunga attesa dell’imbarco si poteva facilmente vedere, riconoscere, toccare con mano, celebrare e prolungare nei riti quanto si possedeva di caro nello Spirito.

Non c’era nulla oltremare che i Pellegrini in qualche maniera non potessero trovare già a Venezia. Anzi, qualora le loro risorse si fossero affievolite troppo durante quella lunga attesa per ripartire, si poteva perfino rinunciare al viaggio difficile e periglioso accontentandosi di soddisfare in qualche maniera il proprio proposito di Pellegrinaggio sostando solo a Venezia. A Venezia non mancava nessuno degli ingredienti utili per soddisfare i requisiti imposti dai voti del Pellegrinare. C’era abbondanza d’Indulgenze, possibilità di convertirsi e far penitenza, di praticare ogni Beatitudine ed elemosinare i poveri, e compiere ogni opera di evangelica memoria.


A Venezia c’erano folle di poveri e bisognosi che si potevano aiutare, migliaia di Preti, Frati, Monaci e Monache disposti a celebrare, condurre processioni e funzioni a cui ci si poteva aggregare. C’era tutto insomma, il massimo del desiderabile per soddisfare un impaziente e devoto Pellegrino.


Vi dicevo che Venezia era accorta e furba …


Accanto al “Santo”, a Venezia non mancava di certo anche il “profano”, per cui ci si poteva procurare per pochi o tanti soldi, secondo tasca e borsa, di che mangiare, bere, riposare e divertirsi “col corpo” e nello spirito, in attesa del ritorno in patria … ammesso che si avesse voglia e desiderio di tornare. Venezia formicolava di Locande, Osterie, Taverne e luoghi d’incontro per giocare, sostare e accompagnarsi con donne d’ogni prezzo, e magari procurarsi qualche buon affare commerciale ... Venezia era già allora Venezia, ossia un’occasione “ludico-economica” da non perdere.


A dire il vero, quella non era novità esclusiva della città lagunare. E’ risaputo che lungo tutta la Via Francigena che percorre e attraversa l’Europa, e lungo tutte le Vie e i percorsi di pellegrinaggio (vedi ad esempio tutte le strade per Santiago di Campostela e Finisterrae) esisteva tutta un’attività di sostegno che si prestava anche a compiere scambi ed attività di ogni tipo, commerciali e no. Pellegrinare avanti e indietro per l’intera Europa poteva diventare anche un’occasione di business ...


Consapevole di tutto questo, e non a caso, la furba Serenissima si premurava d’organizzare ogni anno la grande “Fiera della Sensa”(dell’Ascensione) in Piazza San Marco, che in qualche maniera segnava la riapertura stagionale delle rotte marittime e della Via per la Terrasanta. Venezia sapeva sposare abilmente il mare sua “materia prima” su cui contava, ma sposava altrettanto argutamente il portafoglio di tutti coloro che passavano per le sue Calli, Corti e Contrade ... grandi o piccoli che fossero … economicamente intesi.

Qualche esempio:


Gennaio 1390. “ Per venire incontro alle esigenze dei Pellegrini e dei viandanti, e in deroga alla delibera del 1377 che permetteva loro di svolgere le attività nelle festività solenni a partire dal primo giorno di Quaresima fino all’Ottava dell’Ascensione, il Dominio autorizza i prestatori che hanno i loro banchi in Piazza San Marco a tenerli aperti in tutti i giorni festivi fino alla fine dell’anno giubileo ricco di grandi indulgenze …”


Che sensibilità di Stato ! E che premura nei riguardi dei poveri Pellegrini e viandanti ! … e che guadagni per i Veneziani, soprattutto … Venezia era davvero sensibilissima e accogliente.

Nella prima metà del 1300 la Serenissima lasciò partire per recarsi in pellegrinaggio fino a Roma congedandoli per qualche giorno dal loro incarico: Fantino Dandolo Podestà di Torcello, il Consigliere della Repubblica Giovanni Contarini, Marco Istrigo Ufficiale-capo delle Saline di Chioggia, il Podestà di Rovigo Rizzardo Querini, Prete Bartolomeo della Contrada di San Simeon Profeta Scrivano presso gli Ufficiali Sopra Rialto, Giovanni Fontana “Ponderator ad stateram Rivolati”a patto che gli Ufficiali della Messeteria trovassero qualcuno capace e in grado di sostituirlo,  Guecello Premarino e Marino Ferro “Ufficiali agli Ori” desiderosi di lucrare un’indulgenza, il “Patrono dell’Arsenale” il Nobile Jacopo Dolfin, il maestro e medico chirurgo Bertuccio Da Ponte, Bartolomeo scrivano presso i “Signori di Notte”, perfino Jacopo Massaro dell’Arte dei Beccheri di Venezia, e  Bertrando Cervella Connestabile a Treviso “… per andare a Roma e restarvi un anno onde visitare tutte le chiese, e soddisfare voti e promesse per la salvezza dell’Anima soa”… e diede ordine di non importunare più riducendogli lo stipendio a Ecelino di Giordano, scrivano della Ternaria di Rialto che si era recato Pellegrino a Roma ... e questi sono solo alcuni casi, presi un po’ alla rinfusa fra i tantissimi disponibili.

Nell’aprile 1340, invece, gli Ufficiali del Catavere di Rialtofermarono un certo Samisso Ebreo Tedesco che era venuto dalla Germania fino a Venezia, e stava cercando un imbarco intorno alle Rive di San Marco per Cipro e per Giaffa con lo scopo di recarsi poi Pellegrino dalla parti di Gerusalemme .


“Un Ebreo pellegrino ?” si dissero incuriositi, ma non più di tanto alcuni Veneziani …

“Non c’è di che meravigliarsi …” fu la risposta degli Ufficiali di Rialto … “Anche per loro Gerusalemme è luogo Santo … come pure per i Saraceni … Sono gente devota pure loro …”

E infatti, gli trovarono nascoste appresso: 4 cinture d’argento, 12 vasi e piatti d’argento, 2 brocchette e 4 coltelli d’oro e d’argento, delle stoffe sempre d’argento per un valore di 80 ducati d’oro.  Ne derivò tutta una contorta trafila economica oltre che fiscale … che i Veneziani seppero gestire con disinvoltura e meticolosità.

Nel 1362, Nicoletto di Maffeo e Giovanni Longo detto il Giovane furono denunciati perché avevano trasportato clandestinamente sulle loro navi dei Pellegrini diretti in Terrasanta fra cui alcuni “propinqui” del Re d’Inghilterra.

Fra dicembre 1375 e febbraio 1376 si svolse la vicenda curiosa del trasporto andata e ritorno di un “cassone” da Treviso a Bologna passando per Venezia. L’aveva spedito un tale Notaio di Treviso Pietro da Piombino ai suoi figli Bartolomeo e Giovanni residenti come studenti a Bologna. Un fatto insignificante e qualsiasi, di normale amministrazione quotidiana, se non fosse stato per la serie di spese eccessive che si vennero ad accumulare, tanto che si finì tutti davanti ai Giudici del Tribunale di Treviso, compreso Giacomo Pietramala da Rimini che accompagnò il cassone per tutto il viaggio.

La lista presentata ai Giudici fu lunghissima, e bisogna ricordare che la giurisdizione del Podestà di Treviso giungeva fino alla gronda lagunare di Mestre, ossia fino al confine della Palada di San Zulian sul bordo estremo della laguna di Venezia.

La prima voce indicava le spese del barcarolo conduttore di burci che portò Pietramalla da Treviso fino a Venezia. Chiese 12 soldi di piccoli, e nell’occasione si pagarono altri 4 soldi piccoli alla Palada di controllo della Cigaya per l’entrata nella Laguna di Venezia ... Subito dopo, fu necessario far passare e valutare il “cassone”alle Tre Tavole del Dazio di Rialto dove si pagarono altri 6 soldi piccoli di tassa d’entrata. Per far poi portare il “cassone”da Rialto fino alla Riva di San Marco per l’imbarco in un altro burcio, si pagarono per trasporto con relativo carico e scarico altri 6 soldi piccoli.

Il noleggio del burcio, col carico del solito “cassone”, costò: 1 libbra e altri 16 soldi piccoli, e Pietramalla giunti al confine veneziano della Torre delle Bebbe, chiese come compenso delle ore utilizzate per accompagnare quel trasporto: altri 4 soldi piccoli. Giunti alla Torre Nova, si dovette procedere al pagamento di altri 9 soldi per il trasporto o Muda, associati ad altri 4 soldi per le spese da contribuire al solito Pietramala, che ne richiese nuovamente altri 6 giunti a Loreo.

Arrivati alla Catena di confine di Corbole di Sotto, si pagarono ancora per il trasporto al cambio 4 Aquilani e altri 3 Aquilani andarono di nuovo a Pietramalla. Giunti a Polesella, il “cassone” fu fatto scaricare dal burcio e caricato su di un carrettone da dei bastazi (facchini)che chiesero come compenso: 8 Aquilani, mentre Pietramalla intascò altri 3 Aquilani per le sue ore lavorate.

Il noleggio della “carettera”che portò il “cassone” fino a Ferrara costò 5 Aquilani, così come il visto d’entrata di Pietramalla in Ferrara costò 1 Aquilano, e la Gabella di Ferrara sul “cassone”richiese: 8 Aquilani ... Di nuovo, per condurre il famoso “cassone” dalla Gabella di Ferrara fino a un altro burcio in partenza per Bologna, si spesero altri 3 Aquilani fra carico e scarico, e per il nolo della barca che portò Pietramalla col “cassone” fino a Bologna, all’arrivo si pagarono 34 Bolognesi.

Alla “barriera”Bolognese di Bitifreddo, presentando i documenti di trasporto rilasciati a Ferrara, si pagarono altri 2 Bolognesi di tassa, e Pietramalla si pagò altri 2 degli Aquilani rimanenti per il lavoro svolto fino a lì, e spese 3 Bolognesi per cenare a Pegolla.

Sulla strada del ritorno, Pietramalla spese 10 Aquilani per pagare il burcio che lo portò da Bologna fino a Ferrara, aggiungenso altri 3 Aquilani come suo compenso, alla “barriera”di Bitifreddo ne aggiunse ancora 3, e per rientrare a Ferrara ne pagò ancora un altro. A Ferrara Pietramalla mangiò e dormì in un ostello spendendo in tutto 4 Aquilani per dormire altri 3 per mangiare “Alle fornaci”.

Per rientrare a Venezia, Pietramalla spese 16 soldi piccoli di noleggio di un burcio, pagò 3 Aquilani per passare a Corbolla di Sotto, e 5 soldi piccoli per cenare finalmente a Chioggia.

Insomma ! Quel “cassone”per viaggiare accompagnato fra Treviso e Bologna via Venezia spese più che una “cifra”. Forse un po’ troppo …

Nell’agosto 1398 il Doge Antonio Venier scrisse preoccupato a Giovanni Zorzi Podestà di Treviso invitando a reperire rapidamente, anche presso privati e con adeguata ricompensa, almeno dieci cavalli forniti di finiture e bardature da mettere a disposizione di tre Ambasciatori di Venezia che si voleva inviare incontro ad Alberto IV Duca d’Austria figlio di Alberto III diretto a Venezia per imbarcarsi come Pellegrino verso il Santo Sepolcro.

Fra 1300 e 1400, Francesco e Antonio Michiel erano proprietari di Galee che si occupavano di traghettare 150 per volta i circa 600, ma forse ben di più, Pellegrini presenti a Venezia e diretti in Terrasanta, e di reimbarcarli dopo circa dodici giorni di ritorno da Giaffa sullo stesso itinerario per una cifra di 30-40 ducati tutto compreso andata e ritorno (vitto, alloggio, tassa al Califfo, pedaggi … mentre eventuale ricorso ad una cavalcatura si pagava a parte e a carissimo prezzo).

Fra agosto e dicembre del 1406, il Senato di Venezia e il Doge Michele Steno si attivarono più volte coinvolgendo il Podestà di Treviso Giovanni Contarini per onorare degnamente il figlio del Re del Portogallo di passaggio per Treviso e Venezia diretto al Santo Sepolcro in Terrasanta con una comitiva di 25 persone e 120 cavalli.

Era importante l’amicizia col Portogallo per l’economia mercantile e marinara di Venezia. Era il “Portus Galiae”, il Porto per le Galee di passaggio sulle rotte dell’Atlantico, le Fiandre, l’Inghilterra, il Grande Nord e viceversa ...

Si concesse una deroga alla Legge del 1398 che vietava il trasporto di pellegrini non sudditi di Venezia sulle Galee di Mercato dirette ad Alessandria e Beirut in Siria, concedendo al Principe Portoghese di salire sulla Galea del Patròn Andrea Cappello facente parte della comitiva o Muda per “Baruti” ossia Beirut. Per l’occasione gli sarebbe stata riservata l’intera Galea liberandola dall’ingombro dei soliti mercanti.

Saputo che il Portoghese illustre sarebbe giunto a Venezia di sabato pomeriggio, si convinse il Podestà di Treviso di trattenerlo un po’ per farlo giungere a Venezia di domenica pomeriggio e riceverlo così in “pompa magna” come meritava.

Sarebbe stato necessario mettere a disposizione l’intero Palazzo del Vescovo, o in alternativa quello del Capitano di Treviso, “... provvedendo letti e suppellettili, arnesi e tutto quanto fosse stato necessario …”

In dicembre il Principe stava facendo ritorno dalla Terrasanta a Venezia, perciò lo stesso Doge fece richiesta urgente allo stesso Podestà di Treviso di organizzare alcune battute di caccia nel Trevigiano per procurare un buon quantitativo di cacciagione da utilizzare per l’ospite illustre. Sarebbe servita a Venezia, a dir del Doge, una buona quantità di: pernici, fagiani, cinghiali, lepri e caprioli.

Fra 1440 e 1450, prima il Doge Francesco Foscari e poi il Doge Pasquale Malipiero, saputo che i Pellegrini Romei (diretti a Roma) stavano pensando, malconsigliati, di preferire l’accesso diretto a Ravenna attraverso i luoghi di Padova e Ferrara saltando perciò la tappa lagunare, scrissero preoccupati prima a Giovanni Malipiero e poi ad Alvise Baffo Podestà di Treviso perché facessero il possibile per impedirlo. Non era veritiera la notizie che a Venezia e Ravenna c’era la peste, era solo una “trovata” per ridurre gli introiti veneziani, e secondo il Doge era essenziale, impensabile il contrario, che per Pellegrinare fino a Roma si dovesse per forza passare e sostare a Mestre e Venezia.

Infine, una chiesa scomparsa e cancellata nel Sestiere di Castello …

Fondata in periodo medievale, esisteva con annesso convento, riedificata nel 1500 in forma rinascimentale. Tutto è stato però demolito da un certo Napoleone nel 1810, come di frequente, assieme ad altre costruzioni della zona dove ora sorgono gli ameni Giardinetti Pubblici di Castello a Venezia.

La chiesa in questione, di cui rimane il solo arco della Cappella Lando, salvato (in realtà lasciato per 15 anni demolito e abbandonato a terra) perché ritenuto opera di Sansovino, è quella di Sant’Antonio di Castello dei Canonici Regolari ... Non Sant’Antonio da Padova … ma Sant’Antonio Abate detto anche Sant’Antonio di Vienna.

Per essere precisi, con la scusa di far posto ai Giardinetti i Francesi pensarono bene di demolire: chiesa e convento di San Domenico dei Domenicani, chiesa e convento delle Canonichesse di San Daniele, il complesso di San Nicolò di Bari che comprendeva anche un Seminario e una serie di Ospizietti dei Marineri e Capotteri, la Scuola degli Schiavi della Madonna del Soldo … Sì proprio “schiavi”, non Schiavoni, che in realtà raccoglieva in Fraterna alcune Maestranze dei Calafati dell’Arsenale … (schiavi spirituali quindi non privati di libertà, anche se a Venezia esistevano anche quelli)… e l’Hospedàl intitolato a Missier Gesù Christo.


Un bel “botto” non c’è che dire, per costruire un bel giardinetto pubblico. E bravo Napoleone ancora una volta !


Tornando a San Antonio Abate … Sulle stampe e mappe antiche si osserva un bel chiesotto con campanile, chiostri del convento, vigne e orti accanto e intorno cinti da alte palizzate, con ampia “cavanna” per le barche …

Vi cito questa chiesa distrutta non solo perché ci rimane un quadro di Vittore Carpaccio (visibile all’Accademia) che raffigura l’interno della chiesa, (quello che ho inserito in cima a questo post) … ma soprattutto perché sembra che da lì s’imbarcassero i Pellegrini per la Terrasanta dopo aver ricevuto (a pagamento ovviamente) l’ennesima benedizione alla fine di una solenne Processione alla quale partecipavano portando croci e indossando il loro costume d’ordinanza.

All’inizio, prima dell’anno mille e a cavallo fra storia e leggenda, quella zona di Castello a Venezia era detta Piombiola, ed era abitata dalla nobile famiglia Pisani imparentata col Doge Pietro Orseolo. Stanchi della gentaglia che viveva e occupava quel posto, di professione: banditi e malavitosi, col consenso del Doge si cercò di estirparli abbattendo tutte le loro casupole e rifugi, e costruendo sul luogo una chiesetta di legno dedicata a Sant’Antonio Abate … Riordino urbanistico, insomma … già allora.

I documenti storici invece, ricordano che con un rogito dell’agosto 1334 Marco Catapan e Cristoforo Istrigo ottennero dal Maggior Consiglio un appezzamento di terreno di 40 passi sull’estrema punta orientale della città di fronte all’isola di Sant’Elena“… affinchè l’avessero ad imbonire e palificare ...”

L’Istrigo la offrì a Fra Giotto degli Abbati, Fiorentino dei Canonici Regolari di Vienne per fondare chiesa e monastero sotto il titolo di Sant’Antonio Abate con cospicui aiuti e donazioni da parte delle nobili famiglie di Venezia: Lion, Pisani e Grimani.

Nel successivo 1346, il disinteressato e devoto Vescovo di Castello Nicolò Contarini diede il suo benestare per la costruzione della nuova chiesa e convento, aggiungendovi l’obbligo per i Canonici Regolari di Sant’Antonio di contribuire ogni anno, in perpetuo, offrendo ai Vescovi di Castello nel giorno della festa di Sant’Antonio il 17 gennaio: 1 libbra di cera e 2 grosse anfore di buon vino ... A sua volta, l’Abate di Ranversa da cui proveniva il Priore Fra Giotto, gli impose l’obbligo di pagare all’Abazia di provenienza una pensione annua di 20 fiorini.

Sorse perciò la chiesa, durante il dogado di Andrea Dandolo, a tre navate e con archi a sesto acuto uniti da catene di ferro nascoste dentro a travi decorati e dipinti ... Esisteva anche un Coro centrale sopraelevato e intarsiato, che divideva in 2 metà l’intera chiesa. Di sotto il Coro era sorretto da una serie di altari in legno che permettevano a più Frati di officiare più Messe contemporaneamente secondo le esigenze dei pellegrini in partenza.

Tre anni dopo, accadde il primo allargamento dei terreni del monastero ... e nel 1359 lo stesso Frate Giotto pagò 200 ducati a Marco Moro per un ulteriore terreno vendutogli l’anno prima.

Altri tre anni ancora, e Papa Urbano V concesse Indulgenza Plenaria a tutti coloro che visitassero la chiesa di Sant’Antonio di Vienne in Venezia: “… facendo opportuna e devota elemosina ...”

L’anno dopo, il Senato di Venezia concesse ai Canonici un ulteriore appezzamento di terreno paludoso di 40 x 25 passi con obbligo di costruirvi una buona palizzata, bonificare il paludo, e corrispondere al Doge 100 libbre di carne porcina annue … Il solito Frate Giotto venne eletto Rettore e Maestro dei “bailaggi” di Venezia, Marca Trevigiana, Grado, Chioggia, Torcello, Equilio (ossia Jesolo), Caorle, Vicenza, Padova, Ceneda, Feltre, Belluno, Concordia, Aquileia, Istria, Croazia, Dalmazia con pensioncina annessa di 500 Fiorini annui ... Però quel Frate Giotto !

Ancora nel 1380, sarà ancora lui, l’eterno Frate Giotto, a contestare alla Serenissima il pagamento di una Decima di 50 ducati richiesta da parte del Monastero ed Ospedale di Sant’Antonio Abate di Castello. Secondo lui i Frati dovevano al Doge al massimo 20 ducati, e non di più. Frate Giotto morì finalmente l’anno dopo, seguito nel Priorato di Sant’Antonio di Castello da Frate Ogerio Calusio, che venne subito usurpato da Frate Girardo Bolliaccio eletto dall’Antipapa Clemente VII di Avignone.

La Serenissima non ci pensò su due volte, e cacciò via l’usurpatore nel giro di un anno. A Venezia si sa bene chi comandava … altro che l’Antipapa di turno !

A dire il vero, quei Frati Canonici inizialmente erano simpatici ai Nobili, al Doge, ai cittadini, e perfino ai popolani Veneziani (il che era raro e difficile) per il loro modo schietto e smaliziato d’operare, tanto che in confidenza alla maniera tipica di Venezia li soprannominarono sinteticamente i “Frati del Porsèo” o “Porselètti”.


Infatti, non solo per la vicinanza alla riva per l’imbarco e al molo di San Marco, i Pellegrini li scelsero sempre come beneauguranti e adatti a benedire la nuova fase del loro itinerario verso la Terrasanta affollando la loro chiesa. I “Porseletti” erano famosi per la loro attenzione verso i miseri e gli ammalati soprattutto di malattie cutanee e della pelle, che sapevano abilmente curare con “complessi manufatti e unguenti” tratti dai loro maiali. Erano perciò sinonimo di efficace protezione dal Cielo, e di buon viatico per intraprendere il nuovo viaggio oltremare non privo d’inside e pericoli, primo fra tutti il naufragio.


Vittore Carpaccio rappresenta bene sul suo dipinto la chiesa dei “Porseletti”piena di ex voto, candele, oggetti da pellegrino, e perfino modellini di navi come memoria di traversate marine benedette andate a buon fine. Erano altri tempi … e per i Pellegrini certe cose contavano molto (rischiavano spesso la vita per il loro andare in giro per il mondo penitenziando). Non a caso prima di partire da casa facevano testamento davanti a un buon Notaio.


“… Chi poteva garantire loro di rientrare al loro familiare ostello ? … dovendo attraversare monti, mari, e tanti mali non ultimo i feroci corsari Cristiani o Saracini, che più che infedeli erano briganti da strada interessati più di ogni altra cosa alla borsa dei denari piuttosto che alla difesa e riconquista delle Porte Sante e dei Luoghi del Cielo …”

Nel 1408 Papa Bonifacio IX conferì il Priorato di Sant’Antonio di Castello a Bartolomeo Canali che dovette pagare 4000 Fiorini di arretrati per la sudditanza all’Abazia di Ranversa, e fu costretto a severe visite di controllo da parte dei superiori dei Regolari di Sant’Antonio ... A Venezia intanto era cresciuta la fama e la potenza economica dei Canonici. Il Doge emise una proibizione che vietava al Monastero di lasciare vagare liberi i loro maiali per la Contrada danneggiando orti e terreni … e perfino mangiando un bambino ... Tuttavia il Doge allo stesso tempo confermò la licenza data ai Frati“… di questuare liberamente a favore di Sant’Antonio in tutto il Dominio di Venezia …”

Cinquant’anni dopo, il Monastero di Sant’Antonio acquistò ancora una casa “… in Riello” accanto ad uno squero e a casette già di sua proprietà.

Negli anni 60 del 1400, Pio II obbligò tutte le Congregazioni compresi i Regolari di Sant’Antonio di Venezia a pagare metà delle loro rendite in aiuto alla nuova crociata da lui ideata. E già che c’erano, dovevano pagare alla Camera Apostolica il giorno dei Santi Pietro e Paolo ogni anno 1 libbra di cera lavorata ... I Canonici abbandonarono chiesa e monastero, e lo concessero a quelli di San Salvador che unificarono i loro due monasteri accettando di pagare 5 Fiorini annui alla solita Abazia di Ranversa ... I Papi ovviamente confermarono indulgenze, rendite e privilegi ... mentre il Monastero ottenne in eredità da parte di un certo Tedesco: tre nuove case e un terreno vacuo a Castello nella contrada di San Pietro.

Durante una peste nel 1511, dopo che un Frate malato s’era portato a morire lì, si chiuse il Convento di Sant’Antonio Abate … Gli altri Frati isolati finirono anche per soffrire per carenza di viveri quotidiani … Nel 1518 i Canonici furono esentati da dazi sia sulle elemosine che sui redditi delle possessioni ... mentre nel 1520 Papa Leone X concesse ai Canonici per un anno tutti i redditi delle questue Veneziane destinate a Roma … Il Monastero diventò a due piani con chiostro centrale e pozzo ... Si costruì un nuovo dormitorio, dei nuovi magazzini sulla riva, e si iniziò la costruzione delle foresterie per gli ospiti … Vettor Grimani depositò nella Procuratoria de Supra prima 500 ducati, e poi altri 122 ducati, e ancora 200 ducati per far costruire la tomba di Antonio Grimani nel presbiterio della chiesa di Sant’Antonio Abate. Per convincere la Serenissima e i Frati a concedergli quello speciale permesso, fece presente che la chiesa era stata fatta costruire dai suoi antenati nel lontanissimo 950 ... Leandro organaro figlio di Andrea Vicentino, residente a Venezia, assieme allo zio Giacomo rifecero l’organo di Sant’Antonio Abate di Venezia ... Si  supplicò la Serenissima perché concedesse il permesso di palificare l’intero orto del Convento.

E trascorrono altri anni …

Di nuovo nel 1644, i Padri Canonici affittarono a 70 ducati annui l’orto piccolo e grando a Mastro Bastian Mauricij … Il Monastero in quel tempo possedeva una rendita annua di 77 ducati proveniente da beni immobili posseduti in Venezia ... Giunti al 1666, si affittò a Mastro Antonio Mazzucconi la “caneva”(cantina) del Convento per 33 ducati annui, e il “granaro” sopra la caneva a Simon Burbon per altri 28 ducati annui ... Cinque anni dopo, la Serenissima proibì ai vascelli ed imbarcazioni di approdare sulle rive prospicienti il Monastero per non disturbarlo.

Raggiunto il 1712, il Monastero giunse a possedere rendite annue di 428 ducati da beni immobili posseduti in Venezia. Un bel incremento di rendite da immobili, non c’è che dire ! ... Tre anni dopo, i Fatebenefratelli che gestivano l’Ospedale di Messer Gesù Christochiesero al Papa di usare anche il vicino Monastero di Sant’Antonio Abate per accogliere feriti e soldati reduci dalla guerra col Turco dopo la perdita di Candia.

Infine, dopo alterne vicende, la Serenissima nel 1768 soppresse il Monastero facendolo diventare di Jus Pubblico, e i Canonici ritornarono alla fine delle Mercerie di San Salvador … I Querini acquistarono alcuni beni provenienti dai monasteri soppressi, compresi quelli del Monastero di Sant’Antonio di Castello, che poco dopo divenne Istituto di Luigia Pyrker Farsetti per raccogliere 70 povere figlie della città e istruirle nell’Arte di filare e tessere.


La zona di Sant’Antonio veniva chiamata dai marinai di Venezia: “Punta Verde” ed era un riferimento per il transito della navigazione Veneziana nel Bacino di San Marco e in entrata-uscita dal Porto di Venezia ... Con l’arrivo dei Francesi, il Convento ormai in disuso divenne ospedale e caserma della Marina Militare … Il resto lo sapete già. Ultima notizia: ancora nel 1817, il dipinto “Sposalizio della Vergine” di Palma il Giovane proveniente da Sant’Antonio di Castello realizzato per un altare dei Nobili Querini fu acquisito dal Demanio ... Poi silenzio e pietre abbandonate in mezzo all’erba dei Giardinetti Pubblici ... insieme ai ricordi degli antichi Pellegrini che vi passavano e ripassavano in quei posti cancellati, dentro a un tempo andato trascorso per sempre …



“IN CONTRADA DI SAN APONAL … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 61.


“IN CONTRADA DI SAN APONAL … A VENEZIA.”


Sapete com’è … da cosa nasce cosa. Giorni fa alcuni amici Veneziani di Facebook fra i tanti post inseriti ogni giorno ne hanno messi alcuni sulla chiesa di San Aponàl nell’omonima Contrada di Venezia. 
Dopo un po’, mi son detto: 

“Che potremmo condividere in più di curioso su questa zona di Venezia ? … La chiesa è un’altro dei tanti gioiellini chiusi accanto alla quale spesso transitiamo per gli affari nostri rimanendo ogni volta col naso all’insù ? … Come sempre questi monumenti di Venezia sono uno scrigno più o meno ridotto male, che contengono però quasi sempre una Storia vissuta … spesso curiosa …”


Allora ho frugato fra le mie cartacce virtuali ed ecco qua qualche piccola nota … per saperne tutti un pochino di più.


San Aponàl ovviamente è Sant’Apollinare detto alla veneziana, ed è stata una delle chiese antiche di Venezia.

Come il solito, a cavallo fra Storia e Leggenda, si racconta che sia stata fondata nel 1034 dalle nobili famiglie Sievolo e Rampan provenienti da Ravenna. Quel che però è interessante notare è che Sant’Aponàl si trova a due passi dall’Emporio di Rialto, anzi ne è il naturale prolungamento. Di conseguenza è sempre stata una zona vivissima dove fervevano tutte le caratteristiche della Venezia Mercantile e Mediterranea.

Per la vicinanza poi, di un solo centinaio di metri con la chiesa di San Silvestro, sede secolare del Patriarca di Grado, ne ha spesso subito l’influsso e la giurisdizione come da chiesa Matrice, sebbene in altro tempo sia dipesa invece dal Vescovo Veneziano di  San Pietro di Castello.


Nel gennaio 1106 e nel 1149, Sant’Aponal per una “botta di c … o di fortuna”, oppure quasi miracolosamente, si salvò per ben due volte dagli immensi roghi e incendi che bruciarono gran parte di Rialto e una notevole fetta di Venezia. In quelle occasioni andarono distrutte o subirono ingenti danni le Contrade e le chiese di Sant’Agostin, San Cassian, Santa Maria Materdomini, San Zan Degolà, San Stàe, San Giacomo dell’Orio, Santa Croce, San Simeòn Grande e San Simeòn Piccolo, Sant’Agata (ossia San Boldo), San Stìn, perfino Santi Apostoli al di là del Canal Grande ... ma furono anche raggiunte dal vento le lontane Contrade di San Basègio, Anzolo Raffael e San Nicolo’ dei Mendicoli. Autentici disastri per l’intera Venezia dell’epoca, Sant'Aponàl, invece, niente ...venne risparmiata dalla sorte pirica.


Nel luglio 1177 quando proprio a Venezia si stipulò la pace fra il Barbarossa ed il Papa Alessandro III, si racconta che il Papa fuggiasco, sporco e malandato abbia trovato rifugio a Venezia mettendosi a dormire sotto al Portico detto della Madonna proprio accanto a Sant’Aponàl, prima di andare a chiedere ospitalità e conforto in incognito ai Canonici di Santa Maria della Carità ossia l’attuale Accademia. La leggenda racconta perfino che il Papa sia rimasto lì nascosto per almeno sei mesi svolgendo le umili mansioni di Cappellano o perfino quelle di uomo di fatica e lavapiatti. Solo dopo gli venne riconosciuta identità e titolo e fu perciò accolto a Palazzo Ducale e ospitato nel palazzo del Patriarca di Grado a San Silvestro a due passi da Sant’Aponal finchè alla fine del conflitto andò a firmare la pace sotto gli archi della Basilica di San Marco.

A memoria di questi fatti, i Veneziani, per secoli, hanno tenuto sempre acceso un lumino nel Portico della Madonna a Sant’Aponal dove si rappresentò una statuetta con un “prelato dormiente”. Il Papa riconoscente da parte sua definì il luogo “… degno e adatto” per lucrare Indulgenza Plenaria recitando un Pater Noster e un’Ave Maria ... e magari aggiungendo un buon obolo d’elemosina per i poveri di Venezia e della Contrada ... Andate a guardare sul posto in Calle e Corte del Perdòn a Sant’Aponàl ! C’è quasi tutto ancora nel Capitello del “Dormi, Papa Dormi …” sotto al Portico della Madonna ... E' una curiosità veneziana visibile, non solo scritta ...


Nel 1186 accadde una furibonda lotta per questioni di Decime da percepire fra i Canonici di San Pietro di Castello e i Piovani di San Pantalon, San Giovanni Crisostomo, San Silvestro e appunto Sant’Aponàl … Dovette addirittura intervenire il Papa Urbano III per sedare la lotta e ripristinare diritti e doveri dei “buoni e devoti” Preti.

Nel settembre di quattro anni dopo, i coniugi Domenico e Garsa Vidal abitanti nel Confinio di Sant’Aponal donarono una loro proprietà presso il Rio Piccolo ad Amabile Badessa di San Giovanni Evangelista di Torcello.


Le cronache veneziane continuano raccontando che nel marzo 1224 Johannes Storlato del Confinio di San Thomà presentò fidejussione per Jacobo Galvano del Confinio di Sant’Apollinaris per acquistare 10 miliaria di fichi da spedire a Brescia ... Oppure ricordano che nel settembre 1252 davanti a Marino Notaio e Prete di Sant’Apollinaris, Nicola Sirano del Confinio di San Martino di Gemini ricevette a prestito lire 200 da Martino Gisi del Confinio di San Geremia per commerciare ovunque dietro corresponsione di ¾ dell’utile.

Dieci anni dopo, Papa Urbano IV residente a Orvieto, designò con lettera proprio Pietro Correr Piovano di Sant’Aponàl in Venezia per difendere i beni del Monastero di San Maffio nell’isola di Costanziaco da alcuni Chierici e Laici che se n’erano impadroniti impunemente … Doveva essere abile e sveglio il Piovan Correr, perché in seguito divenne Canonico di Verona, Rettore di San Maurizio e infine addirittura Primicerio della chiesa Dogale di San Marco.


Dal secolo 1300 si viene a sapere di un brutto periodo economico che attraversò la chiesa e Parrocchia di Sant’Aponal finita come Commenda in mano del Vescovo Giovanni di Caorle ... che ne percepiva le rendite disinteressandosi completamente del resto. 
Fin dall’inizio del secolo nella chiesa di Sant’Aponal si iniziò ad ospitare la Scuola dei Santi Quattro Martiri Coronati dell’Arte e Fraglia dei Tagiapiera (guardate a sinistra nella calletta accanto alla facciata della chiesa) e la Scuola di Santa Maria dei Mercanti … mentre solo a fine secolo si aggiunse la Scuola di San Gottardo che in seguito divenne Patrono Protettore dell’Arte dei Mandoleri di Venezia.


Nel settembre 1342, il Maggior Consiglio graziò di metà della pena l’Oste Nicoletto Moro di Sant’Aponal condannato a pagare due multe di 3 e 10 lire perché teneva in osteria “…pane foresto e un recipiente di vino non bollato dal Comune ...”

Al tempo del Doge Andrea Contarini e della guerra di Venezia contro i Genovesi che invasero e presero Chioggia, gli abitanti della Contrada di Sant’Aponàl contribuirono alle spese di guerra della Serenissima offrendo nell’insieme lire 185.500.In quell’epoca in Contrada risiedevano 14 Nobili Homeni, fra cuiSjer Zuanne Corner che offrì allo Stato 20.000 lire, Sier Federigo Corner quondam Andrea che contribui’ con 40.000 lire, e Sier Lunardo Falier  e fratelli che versarono 24.000 lire.

E’ interessante notare che anche altre 26 persone della Contrada furono considerate abbienti e degne di nota per l’eventuale contribuzione“volontaria”. Fra questi c’erano:Maffio Giuda, Albertin Dente, il Varrotter Agostino de Pellegrini, lo Spicjer Alberto da Vola, il Coltrer Bonaventura, Francesco Spader, Lorenzo Roso Pelizzer, Maffio di Lazzaro Cimador, Nicolo’ de Rizardo dalla farina, Nicolo’ Bochesin Frutarol, Piero dalle Stagliere, Zuanne Corteler, Julio Miedego, e i fratelli Laneri di Zuanne di Bello ... Bel quadretto dell’epoca !


D’altra parte in Contrada abitavano diverse famiglie Nobili di Venezia con i loro palazzi: Cà Bernardi, Cà Bollani fin dal 1296, Cà Bonomo Albrizzi CasatoNobile di 2° classe come i Barzizza. Dal 1365 c’era anche Cà Coccina Tiepolo poi Papadopoli, nobili di prima classe, … e i vari Diedo dal 1345 che furono spesso Guardian Grandi della Scuola dei Mercanti, i Donà della Madoneta, iMolin Cappello nella cui casa nacque nel 1548 la famosa Bianca Cappello che sposò Francesco De Medici morendo avvelenata con lui, i Salviato Banchieri Fiorentini del 1500, e i Valier, i Pepoli poi andati in Contrada di San Vidal oltre il Canal Grande ... e i Tamossi, i Sansoni, i Todeschini.

La Contrada di Sant'Aponal era una "zona bene" di Venezia.

Quando a Sant’Aponal venne conferito il titolo di “Collegiata”con tre Preti titolati, un Diacono e Suddiacono, fra 1407 e 1430 i Piovani Francesco Pavoni e Marco De Piacentini restaurarono la chiesa ponendovi sei nuovi altari e fecero erigere il campanile attuale ... In Contrada, intanto, la rivendita del pane era gestita da Antonio de Zane, e sempre in Sant’Aponàl s’inaugurò una stranissima Scuola di devozione quasi unica nel suo genere dedicata a San Giona, quello della Biblica Balena… (andatevi a vedere la storia curiosa).


Sappiamo poi, che nel 1509 in Contrada di Sant’Aponal vivevano 1.858 persone, e l’anno dopo il solito famoso diarista Marin Sanudo racconta che in dicembre:


“… Adi 19 fo portato in Collegio uno mostro nato qui in Venexia in Campiello di Santo Aponàl da uno povero erbaruol …  Erano uno puto et una puta che si tienevano insieme davanti, con do teste, quattro braxe et quattro gambe … el qual nacque et vixe una hora, et furono batezati la femena col nome de Maria, el puto Zuane … Furono portati poi dal Patriarca et in Collegio Serenissimo, et cussì molti andono a caxa a vederli, et pagavano uno soldo, et furono imbalsamati. Et, cossa mostruosa, hanno un corpo solo…”


Nel 1529 il Piovano di Sant’Aponal Giacomo Grassolario Notaio nella Cancelleria Dogale venne citato dal Patriarca Quirini per non aver ottemperato alla sua proibizione di utilizzare nelle chiese durante le feste dei titolari e dei Patroni delle Scuole: “… suonadori con trombe et corni, con canti inonesti ...”

Erano trombe, pifferi, tamburi e tromboni degli uomini e Confratelli della Scuola della Natività di Santa Maria dell’Arte dei Farinanti o Fontegheri Venditori da Farinaospitati in Sant’Aponal fin dal 1529 quando fecero dipingere da Palma per il loro altare la “Nascita di Maria”.


Nel 1536 il Piovano di Sant’Aponàl spese 15 ducati per far sistemare l’organo, al cui organista si pagavano di solito fra 8 e 12 ducati annui, mentre di dava 1 ducato al putto che "menava i folli per l’aria", e altre spese si facevano per stipendiare cantori e strumentisti per la festa patronale.


Nel giugno 1581 alla Visita Apostolica eseguita in Contrada di Sant’Aponàl, si rilevò che gli abitanti erano 1.889 con 2 inviamenti da forno con casa e bottega ... In chiesa c’erano il Piovano, altri 3 Preti, 1 Diacono e 1 Suddiacono che percepivano annualmente 285 ducati ed altri “incerti di stola” non quantificabili, e l’utilizzo di una casa propria.

Nella stessa chiesa di Sant’Aponal, dove si conservavano e veneravano con i Pellegrini diretti in Terrasanta alcune preziose Reliquie della Passione con soprattutto una Spina della Santa Corona del Christo, molte ossa dei Santi Innocenti Martiri Bambini, la testa del Profeta Giona, il dito di Santa Caterina e il braccio di San Sigismondo Re, e parte dei Precordi di San Filippo Neri … presenziavano e officiavano anche altri 7 Chierici, e si celebravano 8 Mansionerie per 78 ducati e ½ annui ... Si ospitavano i devoti e i Confratelli e Consorelle aggregati nella Scuola del Santissimo, in quella della Santissima Croce, dell’Annunziata, e in quella del Redentore dell’Arte dei Mercanti da Cordoani.


Giunto il 5 maggio 1606, quando in Contrada vivevano 2.016 persone, il Senato Terra autorizzò il pagamento di ducati 24, 19 grossi, e 10 piccoli a Mastro Alvise Stramasser a Sant’Aponàl per confezionare “… 24 stramazzetti di cordami damaschini e 4 di raso cremesin pontadi, fiochadi e distesi compreso spago, cordon da inserire nel Nuovo Bucintoro del Doge…”

Tre anni dopo, nella stessa Contrada morì da febbre in giorni otto il pittore Alvise Benfatto detto Dal Friso nipote di Paolo Veronese … Arrivato il gennaio 1616, il Magistrato alle Acque ordinò:


“ … Si levi la scoazzera a Sant’Aponàl … ed allargata quella di San Silvestro … servirà per l'una e per l'altra contrada ...”


Era accaduto che in quel luogo quadro e aperto di Contrada dove si era soliti raccogliere a cielo aperto la spazzatura pubblica poi evasa fuori città dai “Burchieri”,posto squallido più di qualche volta fonte di timore per i popolani, ci fossero stati alcuni giovanotti capricciosi che s’inventarono la presenza di un orco, o per divertirsi si fingessero fantasmi spaventando la gente della Contrada.


Nel luglio 1630 dopo la famosa peste che strapazzò Venezia, si riconsacrò la chiesa da parte del Patriarca Giovanni Tiepolo … in Contrada esistevano 76 botteghe … e si consumarono 4.489 stara di farina nella Pistoria di Sant’Aponàl ... mentre in chiesa esisteva una Madonna del Carmine di legno vestita con abiti preziosi e molti oggetti d’oro ... Nell’attuale Corte Petriana proprio accanto a Campo Sant’Aponàl, nel 1651 – 1660 si eseguivano opere in musica nel Teatro di Contrada Sant’Apollinare o Sant’Aponàl ... sempre affollato.


E siamo già al 1712, quando Angelo Tassi Piovan di Sant’Aponàl era Conservatore dell’Officio della Bolla Clementina e imponeva controlli sull’elezione dei Capitoli e la gestione dei benefici e delle Commende in Venezia … in Contrada esistevano sempre 76 botteghe ...  e la “Gallinera” ossia Angela Trevisan esercitava in zona "l’antica professione del mondo" in maniera così spudorata da ricevere insieme in casa sua: Cristiani, Ebrei e perfino le Figlie del Pio Ospedale della Pietà ... Il Proto Giovanni Scalfarotto rilasciò una scrittura di spesa di 3.250 ducati per la rifabbrica di alcune case a Sant’Aponal in Calle del Campanile, e il Murer Poppo Giovanni Battista ne rilasciò un’altra per la spesa di 2.500 ducati per la stessa rifabbrica.


Nel 1725 presso il Ponte dei Meloni a Sant’Aponàl aveva bottega il barbiere Bartolammeo Baggietta che venne accusato da un suo garzone d'aver tagliato col rasoio la testa a un forestiere e d'averla poi seppellita nella bottega gettando il cadavere in Canal Grande. Il barbiere fu messo subito in prigione, ma scopertolo innocente, si procedette ad arrestare il garzone calunniatore.

Nel dicembre 1758, invece, Giovanni Millerti da Capodistria di anni 45 Sartor da donna a Sant’Aponal in Calle del Volto, fu preso in “contraffazion di bando” per aver privato di vita Antonia Bardi sua benefattrice rubandole tutto ... Per questo fu decapitato e squartato per ordine del Consiglio dei Quarante ... Quattro anni prima, nel giugno 1754, Pietro Gradenigo nei sui “Notatori” e P. Cecchetti annotavano:


“… Si lavora la cantoria per il nuovo organo di Sant’Aponal dopo terminate varie cavillose differenze tra Clero di quella chiesa e Scuola del Santissimo … il disegno è di Angelo Soavi, e l’istrumento dei fratelli Bazzani. Costo nel complesso lire 7.000 … le portelle furono dipinte da Alvise Del Friso con fuori: “Madonna nel deserto” e dentro: “Sant’Apollinare e San Lorenzo …”

Tutto verràdisperso e perduto nel 1810 ...


Alla fine del 1700, in Contrada vivevano 1.816 persone compresi i Nobili, di cui 719 fra 14 e 60 anni erano abili al lavoro, esclusi i nobili ovviamente ... Si restaurò ancora la chiesa di Sant’Aponàl che ospitava i devoti delSuffragio della Beata Vergine del Carmine, quelli dellaConfraternita dei Sacerdoti di San Filippo Neri, e quelli dellaCompagnia di Sant'Adriano, detta di Sant’Eufemia di Mazzorbo … In Contradac’erano sempre 70 padroni in 73 botteghe … in Campo Sant’Aponàl era attiva la Spezieria da Medicine“Li tre Monti”… Per aiutare Venezia a difendersi dall’arrivo dei Francesi, Gian Domenico Tiepolo di Sant’Aponàl offrì alla Serenissima 18.000 ducati … mentre in chiesa il Piovan Don Inchiostri il giorno di Pentecoste interpretò i principi democratici portati dai Francesi alla luce del Vangelo invitando i Veneziani ad osservarli in quanto Società e Religione potevano benissimo convivere insieme.

Pochi giorni dopo, fu costretto a far recitare un’omelia di ringraziamento da un suo Alunno di chiesa perché invece ci fu il ritorno degli Imperiali Austriaci a Venezia, e dal pulpito sottolineò: “…le ragioni dei mali e le cure necessarie per liberarsi dagli errori perniciosissimi e tanto dannosi …” proposti dai Francesi.


E’ del settembre 1803 l’ultima immagine viva della Parrocchia di Sant’Aponàl. Il Patriarca Flangini visitandola la descriveva così:


“Contrada di 2.000 abitanti, con 2 levatrici … I Giuspatroni della Fabbriceria di Sant’Aponal sono i proprietari degli stabili ... La Fabbriceria della chiesa possiede annualmente in entrate per 56 ducati e spende 38,08 ducati in uscite … i Preti possiedono rendite per 458,06 ducati … la Sacrestia di Sant’Aponal ha rendite per 620 lire, e spende 316 lire per il vino, ostie, particole, incenso e carbone … Il Piovano Bartolomeo Dr.Fulici possiede entrate di 994,12 ducati da affitto di 13 case e 6 botteghe e da “incerti di stola”, con uscite di 437,08 ducati di cui 40 spesi per restauri, 121 in tasse, 30 per cere della Festa della Purificazione… i Chierici percepiscono 132,03 ducati, 12 ducati si danno al Maestro di Canto e 50 ducati ai chierichetti per frequentarne la scuola. 21 Preti fra cui alcuni Mansionari frequentano la chiesa. Alcuni provengono da San Giacomo di Rialto, dai Frari e da fuori diocesi: 2 sono piemontesi e 1 è Modenese ...  In Sant’Aponal si celebrano 5.172 messe perpetue, e restano 19.758 lire per messe ancora da celebrare; 42 sono le Esequie e gli Anniversari di Morte, e 2.677 le Messe Avventizie …”


Su alcuni Chierici di Sant’Aponàl il Patriarca precisava:


“… il Diacono del Capitolo Don Marcoliano Gabriele di anni 52 celebra la messa troppo in fretta: 8 minuti con scandalo dei presenti … il Piovano ne sollecita il richiamo …”


Tutto questo accadde fino a quando i Francesi giunsero a bussare alla porta di Sant’Aponal con l’intento di scassarla del tutto. Fino a quel giorno in Sant'Aponàl si gestivano ancora i proventi e le rendite provenienti da diverse Commissarie come quelle di don Carlo Gavazzi, don Bernardino Gavazzi e don Ottavio Ziliolo legate all’obbligo soprattutto di celebrare tutta una serie di Messe ... mentre ancora nel 1770 i Padri di Santo Spirito in Isola si portavano fino a Sant’Aponal per “officiare”una certa Mansionaria lasciata e pagata da un certo Serafini ... "Pace all'anima sua sia data !"


Nel 1807, infatti, accadde il “Napoleonic Storm”,e Sant’Aponàl cessò d’essere Collegiata, e venne incorporata inizialmente alla ex Parrocchia di San Giovanni Elemosinario di Rialto.

Nel 1810 in una seconda concentrazione di chiese, Contrade e Parrocchie, Sant’Aponàl venne definitivamente soppressa come Parrocchia, il territorio inglobato a quello di San Silvestro, e la chiesa chiusa al culto e spogliata di ogni suo opera. Fu convertita e utilizzata prima come ricovero notturno per poveri, poi divenne officina, magazzino di mobili, sede di mulini a mano durante la carestia del 1813-1814, falegnameria, carcere per detenuti politici, deposito e spaccio di carbone, infine bottega di rigattiere di David Zacuti.


Dopo il 1840, quando in Contrada di Sant’Aponàl venne interrato il “Rio della Scoazzera”, il Demanio Austriaco pose all’incanto come bene rovinoso quel che restava dell’antica chiesa di Sant’Aponàl. Fu comprata per 8400 lire da Angelo Vianello di fu Carlo detto Chiodo, che la rivendette ad una Pia Società sorta con l’intento di recuperare il monumento e riaprirlo al culto. E così accadde che nel giugno 1846 Sant’Aponàl fu riconsacrata da Giovanni Antonio Farina Vescovo di Treviso, e riaperta al culto e riofferta ai Veneziani della Contrada.


Giacomo Bazzani costruì un nuovo organo e lo collocò sulla porta d’ingresso … Il Cardinale Jacopo Monico Patriarca di Venezia benedì nuove campane ricollocate sul campanile … Nella stessa occasione si collocò sulla porta centrale un arco lombardesco tolto dalla chiesa di Sant’Elena, parte di un monumento del 1480 dedicato al Generale da Mar Vittore Cappello. Il Comando della Marina tramite l’Ingegner Casoni portò a Sant’Aponàl lo splendido altar maggiore in marmo della ex chiesa di Santa Giustina di Castello ... Alla provvisoria e illusoria riapertura, più di qualcuno si adoperò per riabbellire e riaddobbare e arredare i muri vuoti della chiesa ... La contessa Loredana Morosini Gattemburg fece dipingereda Lattanzio Querena e offrì alla chiesa il“Martirio di Sant'Apollinare”. Pietro del Turco offrì un altro quadro per una cappella di sinistra … Un’atra Contessa, Clementina Spaur Mocenigo dipinse e regalò una “Natività di Maria”, mentre la Contessa Teresa di Thurm dipinse e offrì “San Ferdinando di Castiglia”. Jacopo Treves de Bonfili donò una statua di “Mosè”di Gaetano Ferrari, e su commissione di Giuseppe Antonelli, Azzola eseguì una copia di un “San Lorenzo Giustiniani”del Pordenone. Lattanzio Querena aggiunse un suo “San Pietro Orseolo”, e un omonimo moderno di Giovanni Bellini realizzò un’ “Assunta”. Infine, si collocarono e aggiunsero un pulpito di Angelo Soavi, una “Madonna” in marmo di Gaetano Ferrari, e una “Vergine del Carmelo” di Giambattista Carrer.


Sembrava tutto a posto, tutto passato ... Ancora nel 1853 in Sant’Aponàl ogni mercoledì’ pomeriggio si recitava il Rosario con le “Allegrezze della Beata Vergine Maria” e durante la Quaresima si predicava quotidianamente con gran afflusso di gente “il Quaresimale”come in altre 37 chiese di VeneziaNel luglio1860 Sant’Aponàl venne ridotta e declassata a solo Oratorio Sacramentale con esclusione e trasporto del Santissimo nella vicina San Silvestro.

Il resto delle vicende di Sant’Aponàl … Accadde lachiusura definitiva al culto, la chiesa divenne magazzino e archivio comunale sgomberato in questi ultimi anni per motivi di sicurezza statica ... Sono notizie che sapete già.


Finisco ... ricordando quel che fra 1861 e 1865, W.Dean Howells console americano presente nella Venezia austriaca diceva:


“… Ogni campo a Venezia è una piccola città, chiuso in se ed indipendente. Ognuno ha una sua chiesa, della quale, nei tempi più remoti, esso era anche cimitero; e ciascuno entro i suoi confini, comprende uno speziale, un merciaio, un negozio di tessuti, un fabbro ed un calzolaio, un caffè più o meno elegante, un erbivendolo e un fruttivendolo, una drogheria … No, c’è anche un negozio di oggetti usati dove si compra e si vende ogni sorta di cose vecchie al minimo prezzo. Ci sono di sicuro un ramaio ed un orologiaio, e quasi certamente un falegname intagliatore e doratore, mentre nessun campo potrebbe preservare la sua integrità o tenersi informato delle novità del giorno, sociali e politiche, senza un barbiere ...”



Così era anche della Contrada di Sant’Aponàl di un tempo … come oggi rimane, ma solo nella nostra fantasia e memoria …


“VENEZIA … TOP SECRET …”

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“Una curiosità veneziana per volta” – n° 62.


“VENEZIA … TOP SECRET …”


Esistono a Venezia certe zone per la verità scarsamente o per niente accessibili, e in un certo senso un po’ “top secret”. Niente di misterioso e arcano, vi deludo subito, ma solamente aree di pertinenza oggi militare, quindi precluse ai comuni mortali e in un certo modo anonime e quasi assenti.

Ciò non significa però che quei posti non siano esistiti affatto, e che soprattutto in altre stagioni storiche non abbiamo vissuto momenti importanti e ospitato eventi davvero significativi … e come piace dire a me, appunto: “curiosi e da ricordare”.


Fra i tanti posti finiti ormai da secoli totalmente “in pasto” al Demanio ossia allo Stato, ve ne cito un paio che si trovano proprio nel cuore di Venezia, a pochi passi dalla mitica Piazza San Marco. Mi riferisco al complesso del Monastero di San Zaccaria, e al vicino ex Convento del Santo Sepolcro.

Di San Zaccaria, oltre alla splendida chiesa ancora fruibile e aperta, si sa e si è detto tantissimo, anche se i suoi splendidi chiostri rimangono preclusi, non visitabili, e riservati ai militari. Si conosce molto bene che San Zaccaria era uno dei più ricchi e potenti Monasteri Femminili di Venezia, forse il primo in assoluto, dove le famiglie Nobili più in vista e lo stesso Doge amavano ed erano soliti rinchiudere le loro prestigiose fanciulli in ritiri doratissimi, spesso comodi … e talvolta licenziosi e trasgressivi.


Il secondo posto, invece, era un Convento ancora Femminile. Quindi fin già dalla titolazione comprendiamo che apparteneva ad una categoria di posti per Monache di levatura economica, politica e sociale sicuramente di rango inferiore. Non che le Francescane Clarisse del Santo Sepolcro fossero delle morte di fame, ma certamente sfiguravano di molto a confronto con le “toste” e pingui Benedettine di secolare e potente memoria residenti nel San Zaccaria … Quelle stavano di certo a un livello superiore, anzi, qualche livello più su.


Ma che cosa possedeva di così curioso quell’ex Convento ? … Provo a scrivere qualcosa per ricordarcelo.


Qualche giorno fa, ho detto che Venezia Serenissima è stata maestra, al pari di altre città Italiane e straniere, nel ricreare al di qua del mare Mediterraneo le atmosfere, “le qualità” della Passione del Christo, le copie dei Luoghi Santi e dei Riti che si sarebbero potuti incontrare ed esperimentare giungendo all’agognata Terrasanta. Senza bisogno di affrontare la difficoltà sostanziosa della traversata impervia del mare, si potevano trovare a Venezia “montagne” di buone reliquie, con tutto quanto era loro concesso in termine d’indulgenze da lucrare e spezzoni di Salvezza da conseguire per se e per altri.


Non dimentichiamo, ad esempio, che i Pellegrini erano entusiasti di recarsi fino a Venezia, perché lì trovavano anche le insigni reliquie di San Marco. Per chi l’avesse dimenticato, San Marco era il numero “2”nella gerarchia dei Santi importanti, e veniva subito dopo San Pietro (e guarda caso subito dopo la gloriosa Roma del Papa … che furbi i Veneziani !).


Roma comunque aveva ben poco da temere dalla concorrenza di Venezia … perché batteva tutti in quantità di Reliquie originali e importanti, prima fra tutti quella della famosa “Veronica”, che attirava da sola migliaia di Pellegrini da ogni parte d’Europa … ma questa è un’altra storia.

Dal punto di vista devozionale quindi, recarsi a Venezia non era una faccenda di secondo piano, ma era certamente per diversi motivi una convenienza, e di certo un gran privilegio.

Si aggiunga, che passare per Venezia era estremamente comodo per i Pellegrini anche per almeno altri due o tre motivi. Primo e importante, un notevole taglio della strada da percorrere a piedi o per i pochi fortunati a cavallo. Andarsi a imbarcare per la Terrasanta a Venezia significava tagliar fuori dal proprio itinerario praticamente tutto lo stivale dell’Italia … e non era poco per chi proveniva da molto lontano, dal Nord della Germania e dell’Europa o dall’Inghilterra, o dall’Irlanda.


Il secondo motivo per passare per Venezia era sostanzialmente un motivo di sicurezza.

Venezia oltre ad essere splendida e fabulosa, ospitava lungamente e degnamente i Pellegrini e sapeva proteggere adeguatamente anche i convogli delle Galee che li trasportavano fino in Siria e Palestina, oppure Alessandria d’Egitto. Si sapeva bene che i Veneziani non regalavano niente … Però visto che pur partendo in fondo dall’Italia, giù in Puglia e a Bari, Otranto e Taranto, in ogni caso si doveva viaggiare almeno trenta giorni per mare per raggiungere la stessa meta di Alessandria, tanto valeva farlo con i Veneziani, insieme a una certa sicurezza d’arrivarci almeno intatti e con la testa ancora sul collo, sebbene con le tasche mezze o del tutto vuote.


Non era stato certamente un pettegolezzo la vicenda corsa di bocca in bocca fra le folle dei Pellegrini d’Europa, e puntualmente scritta nei suoi Annales da Lamberto di Herfeld, che raccontava di un’occasione in cui una comitiva di 7000 Pellegrini Tedeschi guidati dal Vescovo di Bamberga erano partiti ingenuamente per la Terrasanta seguendo la via Balcanica e Anatolica di terra. Il Pellegrino disse e scrisse, che:


“… i Pellegrini furono molestati dagli Ungheresi, attaccati dai Bulgari, messi in fuga dai Turchi … insultati dagli arroganti Greci di Costantinopoli. E giunti in Asia, la loro vicenda finì tragicamente perché molti di loro finirono uccisi dalla furia rabbiosa dei Cilici, e poi nei pressi di Cesarea divennero preda di un’orda di fanatici Infedeli che ne uccise ancora altre centinaia …”


Il racconto e l’immagine non erano certamente incoraggianti per i futuri Pellegrini. Perciò: “passare per Venezia sarebbe stata in ogni caso buona cosa …”, anche per via di quell’intesa mercantile e politica che i Veneziani coltivavano da sempre col Turco interessato a cui i Pellegrini pagavano un “testatico” di una moneta d’oro per entrare in Gerusalemme ... E chissà, forse anche con i pirati del Mare e Golfo Adriatico i Veneziani avevano qualche cosa a che fare ...

Non dispiaceva, infine, considerare quella voce che s’era sparsa in giro per l’Europa, che a Venezia certi armatori di Galee erano ben disposti verso i Pellegrini bisognosi, tanto da trasportarli ugualmente oltremare a una tariffa ridotta di soli 30 ducati “pro capite”, tutto compreso e andata e ritorno (significava in ogni caso quanto era guadagnabile in un anno di lavoro da parte di un lavoratore o artigiano medio).


Precisato questo, torniamo ai posti e ai luoghi di Venezia di cui andavamo dicendo.


Le Suore che fondarono il Convento del San Sepolcro l’edificarono … fatalità … proprio a pochi passi dal Molo di San Marco da dove partivano le Galee per la Terrasanta, in quella che oggi si chiama ancora la Riva degli Schiavoni. Un luogo del genere non poteva che essere una vera e propria “manna” per i Pellegrini di ogni genere giunti a Venezia.

Già nel gennaio 1410 Elena Celsi vedova di Marco Vioni lasciò per testamento presso il Notaio Gaspare di Mani, una casa grande sulla Riva degli Schiavoni ed altre prossime casette in Contrada di San Zuane in Bragora perché dovessero servire in parte ad abitazione di alcune povere, e in parte a Ospizio per le pellegrine dirette o di ritorno dalla Terrasanta.

Solo nel 1482 però, le due Patrizie Veneziane Beatrice Venier e Polissena Premarin fuggite da Negroponte conquistata dai Turchi e rifugiate a Venezia diventando Pizzòcare di San Francesco, si trasferirono da San Francesco della Vigna ad abitare nell’Ospizio dando origine al primo nucleo del Convento del Santo Sepolcro.


Furono loro due ad avere l’idea di costruire nel 1484 in mezzo all’Oratorio: “… un Sepolcro in marmo e pitture, in tutto simile e misura, e a imitazione di quello presente in Gerusalemme ...da aprirlo alla visita devota dei Pellegrini giunti in Venetia …”


E per far le cose per bene, affidarono la commissione a Tullio Lombardo, un artista fra i migliori, e di buonissima fama dell’epoca. Il “Sepolcro” riprodusse quindi in tutto e per tutto il disegno dell'edicola del Santo Sepolcro sito in Gerusalemme, ed era costituito da un'enorme finta grotta in pietra grezza a grandi blocchi. Dentro alla "grotta"si trovava sorretto da quattro angeli un altarolo di marmo policromo, e ancora più all'interno della "grotta"si scendeva sotto per una scaletta fino a un ipogeo, considerato il “Sepolcro” vero e proprio. Lì c’era disposta una figura del “Cristo Passo”ossia morto dopo la Santa Passione.


Quel posto fu da subito considerato una “meraviglia” dai Pellegrini che passavano per Venezia, e la fama di quel “Special Sepolcro del Christo posto in Venetia …” si diffuse presto per tutta la Cristianità incrementandone l’afflusso.

Sulla porta d’ingresso del Sepolcro stava scritto: 

“… QUALE ITER AD CHRISTI TUMULUM ? SI SCIRE LABORAS LUMINA CIRCUNFER, MOLES INSCRIPTA LOQUETUR …”


S’insinuava il dubbio su quale potesse essere l’autentico Sepolcro del Christo che valeva la pena di visitare. Non era forse più che sufficiente contornare quello di Venezia con tutte le sue storie raccontate, senza doversi recare per forza fino in Palestina ?

Di certo l’input dell’indecisione dubbiosa veniva percepito dai Pellegrini, visto tutto ciò che vedevano, provavano, toccavano, veneravano, pagavano, compravano, elemosinavano, pregavano e lucravano durante la loro lunga permanenza in Venezia.


Giunto il secolo 1500, le Monache ottennero da Papa Alessandro VI la facoltà d’ingrandire Convento e Chiesa ...  In Contrada di San Cassian presso Rialto vendettero 2 case che erano state lasciate al Monastero assieme a 15 campi di terra a Camposampiero, comprando tutta una serie di edifici e botteghe attigue al Convento, fra cui per 2000 ducati il “… Palazzo Molin dalle Due Torri con Corte et Horto …”. Già che c’erano, le Monache ottennero dallo stesso Papa anche l’esenzione dall’obbligo di dar ospitalità alle pellegrine tradendo perciò lo scopo originario del luogo ... Ma c’era ben di più a disposizione che gestire solamente quattro letti pulciosi per le donne di passaggio … Il posto quindi si trasformò da Ospizio in Convento … e iniziò la lunga trafila dei lasciti dei Veneziani a favore del neonato Convento o Monastero del Santo Sepolcro.


Girolamo Gabriel, Patrizio Veneto, lasciò per testamento a Prete Alvise suo figlio naturale, e a Paola Paradiso sua cugina, alcuni stabili posseduti in Contrada di San Marcuola, che dopo la loro morte sarebbero diventati proprietà del Monastero a  patto che si celebrassero 2 belle Messe quotidiane per la sua Anima ... I Preti della vicina chiesa Parrocchiale di San Giovanni in Bragora, ingolositi dal “giro”spirituale dei Pellegrini, o forse più dal giro d’affari che si stava realizzando intorno al Sepolcro, pretesero di avere giurisdizione su chiesa e Convento, e fecero  perfino ricorso direttamente al Papa per ottenerlo.

Alla fine, facendola breve, il Patriarca Donà sentenziò che il Monastero del Santo Sepolcro doveva rimanere autonomo e libero, e che San Giovanni in Bragora si sarebbe dovuto accontentare solo di un “censo annuale di quattro doppieri di cera bianca” offerto ogni Venerdì Santo da parte delle Monache del Sepolcro.


Che disdetta per San Giovanni in Bragora … e che affari per le Monache divenute ormai 60 ! 
Nell’occasione s’allargarono ulteriormente non senza una certa acuta furbizia … Per ottenere, ad esempio, l’ultima casetta vicina al Monastero, le Monache presero come Monaca la figlia del Nobil Homo Zan Andrea Morosini proprietario della casa, percependo invece dei previsti 300 ducati di “dote monacale”, solo 70 ducati e la casetta che interessava a loro.

Nel 1546, il Convento passò dalla dipendenza dai Frati Minori di San Francesco della Vigna a quella diretta del Nunzio e Legato Apostolico residente in Venezia ... Lo zampino a Venezia del lontano Papa si faceva sentire, quando c’era nell’aria odore di qualche guadagno ... Infatti piovevano le donazioni sul Sepolcro: Giacomo Gajetano Dottor Fisico lasciò suo erede il Nobil Homo Piero Cocco con l’obbligo per lui di pagare per far celebrare Messe quotidiane al Santo Sepolcro dove volle essere sepolto, e dare 12 scudi d’oro annui al Cappellano che le celebrerà investendo il capitale al Monte del Sussidio che gli pagherà le rendite ... Fu così che nel 1577, quando nel Sepolcro vivevano ormai stabilmente 80 Monache Clarisse, Piero Cocco offrì al Monastero per pagare quel Mansionario di Messe senza fine, la proprietà di 2 casette a pianoterra in Contrada di Sant’Antonin in Corte del Diner, dalle quale si poteva percepire un affitto annuo di 7 ducati ciascuna ... E così anche le Messe furono pagate adeguatamente.


Anche Girolamo Mezzalingua di fu Damian, di professione: Calafatto in Arsenale, volle essere sepolto in chiesa al Santo Sepolcro. E per procurarsi questo, lasciò alle Monache gli affitti della sua casa grande e di altre piccole case attigue che possedeva in Contrada di Sant’Antonio di Castello. Prima ne avrebbero usufruito i suoi famigliari e parenti in vita, e poi metà delle proprietà sarebbero andate al Sepolcro, e l’altra metà, invece, alla Scuola di San Giorgio degli Schiavoni.


Nel 1567 nacque un putiferio nel Monastero.

Si destituì la Priora cercando di eleggere Suor Daria Navager candidata presentata non dalle Monache ma dai Frati di San Francesco della Vigna rifattasi avanti e sotto nella gestione del Sepolcro. Si riteneva doveroso il cambio della Badessa, perché quella in carica Michaela Beltrame andava considerata responsabile della fuga di una giovane Meneghina dal Convento del Santo Sepolcro, e inoltre aveva litigato con la Nobile Famiglia Navager a causa della costruzione di un balcone privato che andava ad aprirsi sulla clausura del Convento. I motivi sembravano tutto compreso banali, ma si raccontò di prepotenze e pressioni dei Frati per intimorire il Capitolo delle Monache, di Monache che abbandonavano l’assemblea conventuale rifiutandosi di rientrare, di Frati che strapparono il velo dalla testa delle Suore nel gesto di volerle destituire ... Un gran casìno, insomma, finchè si giunse all’eccesso dell’eccesso. Fu rimossa la vecchia Badessa Michaela Beltrame che venne rinchiusa nella sua cella “… perché l’andava facendo intender ogni cosa a seculari …”; e i Frati s’intrattennero nel Convento per ben 17 giorni banchettando lautamente, mentre le monache “contrarie” stavano relegate in penitenza e ristrettezze: “… caponi, colombini, torte, cui de late, malvasia e vin dolce … contro fagioli e olio grezzo che i Frati disdegnavano…”


Andò a finire come spesso le cose andavano a finire a Venezia … A un certo punto si presentò un messo del Doge accompagnato un paio di robusti Fanti, che consegnando un bigliettino di poche parole ai Frati, e sussurrando agli orecchi di qualcuno le parole giuste … in breve tutto fu risolto rimettendo ciascuno al posto che meritava. La vecchia Badessa continuò a governare il Monastero, i Frati in fretta e furia rientrarono a casa propria ... e la giurisdizione e il controllo diretto sul Santo Sepolcro finì nelle mani del Patriarca in persona ... (togliendolo quindi anche all’influenza Papale).


Chissà che cosa avrà mandato a dire il Doge in quella circostanza ?


Intanto, oltre ai fiumi di umani Pellegrini che transitavano per il Sepolcro, “… atquisendo Santo Merito per l’Animo ogni giorno …”, anche il medico Giambattista Peranda ucciso da un parente per gelosia sul Ponte dei Greci che allora si chiamava Ponte della Madonna di San Lorenzo, lasciò un’altra ricca Mansioneria da celebrare al solito Convento del Santo Sepolcro ... Le Monache fecero un prestito considerevole girando una partita di banco a Rialto ad un abitante di Villorba nel distretto di Camposampiero ... Il Patriarca Priuli in visita alle Monache del San Sepolcro si indignò non poco, perché alcune Monache allevavano galline che scorrazzano liberamente nei dormitori del Convento. Le Monache da parte loro denunciarono al Patriarca incredulo: “… povertà, fondi insufficienti, scarsità di pane … spifferi e umidità …” Ma girando lui per le celle le trovò tutte arredate con coperte raffinate, biancheria ricamata, casse di abiti e gioielli, credenze piene di cibo e vino.

Suor Lippomano capeggiava una combriccola di Monache che “… mangiavano sempre fuori del refettorio la sera …” preferendo mangiare in gruppo separato. Al Patriarca destavano preoccupazione le “giovani Converse”delle Monache: “… ch’ogni anno si mandavano fuori a far la “cerca” fino a Porto Gruaro, due in Paduana verso Este, e talvolta in Trivisana a un luoco del Monastero detto Rovese per sunàr alcune entrade delle Monache …”


Le Monache in realtà vivevano nel lusso, ed erano opulente ... Tanto è vero che subito dopo provvidero a nuovi abbellimenti della chiesa e del Convento, ricevendo contributi anche dalla Famiglia Grotta o Crotta, mercanti di ferro da Bergamo ammessi al Patriziato di Venezia pagando la non indifferente quota di 100.000 ducati. Furono loro a pagare le spese per far costruire in chiesa del Sepolcro un nuovo Altar Maggiore dedicato all’Assunta.


E siamo all’inizio del 1600, quando il Monastero del Santo Sepolcro era in perfetta sintonia con le “mode comportamentali” delle religiose di quell’epoca, e le cronache cittadine ricordavano che “… In San Sepolcro si suonava l’arpicordo e si ballava specialmente a Carnevale ...”

Consenzienti indiretti erano i facoltosi Nobili e la Serenissima che anche nel 1610 non mancarono di regalare alle Suore un sussidio di 36 stara di grano.


Nel 1618, Suor Graziosa Raspi scappò dal Convento pagando un barcaiolo per un cambio di abiti da uomo e un passaggio in barca fino alla Terraferma. In seguito spiegò che voleva recarsi al Monte Rua sui Colli Euganei dagli Eremiti Camaldolesi per condurre una vita più austera … Per questo fuggì dal convento portandosi dietro un crocefisso, un Officio della Madonna, due libri di devozione, un cilicio ed una disciplina ... e il denaro per il barcarolo. Ma non si travestì bene, e “… poverina mi e meschina mi … fui tradita …”


Nello stesso anno, s’intentò causa contro Alessandro Branazzini che entrò più volte in contatto con le Monache del  Santo Sepolcro, tanto che per le sue nozze: “… il Sior Alessandro venne là anco in gondola colla sua noviza, et perché vennero a fenestra quasi tutte le Muneghe per vederla …”

Come spesso si diceva anche a Venezia, “Tanto tuonò e lampeggiò … che alla fine accadde il temporale …”, e il Patriarca Tiepolo in visita al Monastero del Sepolcro rimise tutto in ordine, decretando fra le altre cose di rimuovere dalle celle “…alcuni quadri privati di donne in atto et vista davvero lasciva …”


A Venezia andò di moda, e fu considerato molto onorevole farsi seppellire nella chiesa delle Monache del Santo Sepolcro. Lì si feceseppellire la Famiglia Raspi di Pasquino e GianMaria, mercanti di sapone e cordovani venuti da Bergamo a Venezia dove si comprarono il Patriziato pagando allo Stato i soliti 100.000 ducati, e acquistarono inoltre dai Bettinelli il Palazzo al Ponte dei Sansoni a San Cassian vicino all’Emporio di Rialto. Quando morì GianMaria Raspi, lasciò pagata al Sepolcro una Mansioneria di 3 Messe alla settimana ... mentre anche Giovanni Busca lasciò sempre al Sepolcro un suo Legato del valore di 100 ducati.


A metà del 1600 il Convento del Santo Sepolcro ospitava 55 Monache Professe, e ricevette ancora dal Governo Serenissimo 36 staia di buon grano essendo considerato fra i 4 Monasteri più poveri dell’intera città di Venezia insieme a quelli di Santa Maria Maggiore e Santa Croce nel Sestiere omonimo, e a quello “… poverissimo più di tutti …”delle Francescane di Santa Maria dei Miracoli a Cannaregio.


Forse per questo, nel 1660, quando il ricchissimo cittadino mercante Jacopo Galli morì lasciando la somma ingente di 120.000 ducati per far costruire le nuove facciate della chiesa di San Salvador sulle Mercerie, quella della Scuola Grande di San Teodoro, e quella dell’Hospedale di San Lazzaro dei Mendicanti … si ricordò anche di lasciare“un bonus” di 6.000 ducati … alle Monache misere del Santo Sepolcro …”


In realtà non è che le Monache fossero proprio così economicamente “malmesse”,perché l’anno seguente si segnalò un altro “giro di Zecca” di ducati 1.720 proprio a favore del Monastero del Santo Sepolcro che possedeva anche una rendita annuale di altri 208 ducati provenienti dall’affitto di alcuni immobili siti in Venezia.

Infatti, negli stessi anni il Murèr Antonio Visetti, e il Tagjapiera Giacomo da Par costruirono alcune case in Contrada di San Giovanni in Bragora per conto del Monastero di San Sepolcro che sorgeva proprio lì vicino ... Morendo il ricchissimo mercante Donato Damiani figlio di Ludovico, abitante in Contrada di San Cassiano presso Rialto, lasciò erede per metà della sua sostanza il Monastero del San Sepolcro dove viveva sua sorella Claudia, mentre l’altra metà dei suoi beni la destinò all’Ospedale della Pietà di cui era Governatore lui stesso. In aggiunta dispone anche d’essere seppellito nella chiesa del Santo Sepolcro, e per far questo lasciò altri 500 ducati, e per finire lasciò al Monastero ancora 60.000 ducati con obbligo di “ … far celebrare ogni giorno una Messa per lui, et a sua memoria, et per la salvezza dell’ Anima soa ...”


Fra i tanti, e sempre al Santo Sepolcro, volle farsi seppellire il ricco orefice Giorgio Rizzi di Benedetto e Sebastiano, “… che possedeva un palazzo in Riva a Santa Maria Maggiore e una bottega d’orese a Rialto all’insegna del Naranzer ...”, e divenne Patrizio Veneto con fratelli, zii e discendenti dal 1687 pagando alla Serenissima sempre la bella somma di 100.000 ducati in contanti ... E si fece seppellire anche Sjor Vincenzo Colla di fu GianMaria che lasciò al Monastero del Sepolcro una Mansioneria pagata di 5 Messe annue, insieme a un prezioso Cristo d’argento che teneva in casa sua ... e perfino l’intera Famiglia Cittadinesca Combi da Bergamo che si arricchirono a Venezia commerciando libri tanto da comprarsi diversi stabili in giro, e un intero Palazzo in Contrada di Santa Caterina a Cannaregio.


Nel 1700 negli inventari delle Monache del Santo Sepolcro presentati al Patriarca Barbarigo si cita presente in chiesa anche il simulacro di una Madonna Annunziata in legno:


“… vestita con scarpette e abiti bianchi e d’oro uguali a quelli dell’Angelo, e con altri 7 vestiti in garzo d’argento e broccato d’oro. Alla stessa appartenevano anche numerosi gioielli: un fiore e una crocetta di diamanti, perle da collo con pietre preziose, manini d’oro, passetti di zaffiri, e corone d’argento ...”


Il Monastero che ospitò Nobil Donne Monache illustri come Beatrice Venier, Orsola Visnago, Chiara Bugni e Maria Da Canal, possedeva una rendita annuale di 522 ducati provenienti da immobili posseduti in Venezia ... si ampliò il parlatorio, e si restaurarono i muri perimetrali spendendo 2.500 ducati … Gaetano Callido costruì un nuovo organo facendosi pagare 480 ducati  … Il ricco negoziante in Calle degli Orbi nella Contrada di Santa Maria Formosa Girolamo Zanadio di fu Francesco, beneficò per testamento con 50 ducati il Monastero di Santo Sepolcro dove viveva come Monaca sua Sorella Giovanna Maria, e chiese di essere sepolto in chiesa davanti all’Altare del Santissimo … Ancora nel 1770, i musicisti Furlanetto, Galuppi e Grazioli musicarono diverse Cerimonie di Vestizione delle Nuove Suore Professe del Monastero Francescano del Santo Sepolcro.


Nel 1775 il Monastero possedeva ancora: “ … due chiusure di buona giacitura e di terreni mezzani e bassi, con vasta fabbrica e corte, estese 16.1203 campi e accatastate presso Fiesso.”  … e le cronache ricordavano come viva e attiva la tradizione dei Veneziani di recarsi il giorno di Pasqua in pellegrinaggio presso la chiesa delle Monache del Sepolcro ... i Pellegrini erano però ormai spariti da un pezzo.


E giunse, infine, anche per il Convento del Santo Sepolcro la solita bufera Napoleonica distruttiva e devastante.

Infatti, nel luglio 1806, le 35 Monache Francescane rimaste vennero espulse dal loro chiostro, e concentrate prima nel Convento di Santa Chiara nell’isola di Murano, e poi sparse un po’ in quello del Corpus Domini (demolito poco dopo per edificare l’attuale Stazione Ferroviaria) e in altri luoghi incamerati tutti dal Demanio, come ad esempio il Convento di Santa Maria dei Miracoli nel Sestiere di Cannaregio.


La Badessa Maria Rosa Brighenti del Monastero di Santa Maria dei Miracoli scriveva, infatti, in agosto, che i locali angusti del suo Convento potevano ospitare solo 36 persone, o al massimo 40, ma non potevano offrire spazio sufficiente anche per le 35 Suore Francescane del Santo Sepolcro che il Governo vorrebbe fare risiedere da loro ad ogni costo ... E poi c’erano anche altri problemi di stile, regola e ordine interno fra le monache, in quanto alcune non si trovavano a loro agio nel Convento.


“… si segue la medesima regola ma con più rigide accentuazioni… Sommamente ristretto è l’angolo di fabbricato in cui sono state confinate … L’isola era una plaga insalubre … maggiori erano le difficoltà di ricevere aiuti da Venezia … Le Monache chiesero allora d’essere trasferite per situazione più confortevole almeno al San Lorenzo di Venezia a Castello ...”


AlcuneMonache presentarono una Supplica al Governo raccogliendo anche firme false. Alcune rimasero, altre partirono, altre ancora ottennero di cambiare Ordine diventando Domenicane per poter traslocare più comodamente nel Monastero del Corpus Domini a Cannaregio. Una confusione insomma … uno sfacimento totale.


Nel 1808 la chiesa intera, compresa la “grotta del Sepolcro” venne demolita per farne un cortile, e il Convento venne chiuso e adattato a diventare quello che è ancora oggi, ossia la “Caserma Aristide Cornoldi” ... Infine, è del 1832 la notizia che utilizzando le pietre della chiesa e del Santo Sepolcro demoliti si fabbricò un nuovo torrione militare sul Lido di Sant’Erasmo, e in parte si posero come fondamenta di un laboratorio pirotecnico nella zona di Quintavalle presso la Contrada di San Pietro di Castello.



Fu sfasciato tutto insomma, e rimase di quell’idea e di quel posto solo l’altarolo di Tullio Lombardo (quello della foto in cima a questo post) che venne salvato dalla furia distruttiva Napoleonica facendolo finire nel 1807, non si sa bene perché e per come, in chiesa a San Martin di Castello dove sta tutt’ora ... Unico pezzo rimasto di quel complesso originale e certamente curioso, di quell’angolo della Venezia Pellegrina e ospitale di quel tempo andato inesorabilmente perduto ... eccetto che nel nostro comune ricordo.


“UN HOSPEDALETO SCOMPARSO … E UNA CJESA DE SUORE …”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 63.


“UN HOSPEDALETO SCOMPARSO … E UNA CJESA DE SUORE …”


L’Ospedaletto in questione è quello antico e andato perduto di cui certo avrete sentito parlare dei “Testori Todeschi dei Pannilani” di Venezia, mentre la “cjesetta”, persa anch’essa dopo un’esistenza storica di ben tre secoli, era quella del “Gesù e Maria e Giuseppe” soprannominata dai Veneziani “L’Addolorata delle Monache Eremitane Servite” o forse meglio delle “Muneghette Agostiniane”.


In quella zona della piccola Contrada oggi praticamente inesistente a pochi passi da San Simeon Piccolo, vicino ai Tolentini e all’Università d’Architettura, esistono ancora certi nomi di Calle che ricordano all’indifferenza dei più ciò che è stato un tempo quel posto.


Alzando gli occhi si può facilmente leggere: “Calle e Campiello e Rio delle Muneghette”, “Calle del Gesù e Maria”… così come i toponimi recitano: “Campo della Lana”,“Campo delle Chiovere”, “Calle e Ramo dei Bergamaschi”, e “Fondamenta delle Secchere” dove un tempo l’acqua che si ritirava con la bassa marea lasciava un’ampia area di fangoso asciutto … Era quella infatti una zona popolare e periferica della Venezia di un tempo, chiamata dai Veneziani confidenzialmente: “al Gesù e Maria”, tutta dedita e occupata dall’attività degli Artigiani della Lana di Venezia che stendevano ad asciugare appunto nelle loro “chiovere e chioverette” i loro preziosi e colorati manufatti.


Prima ancora, quel Campo Veneziano dove sorgevano appunto una chiesa e Convento del “Gesù e Maria” oggi totalmente scomparso, era chiamato anticamente il “Businello”, forse per presenza di una famiglia di quel nome poi trasferitasi in un palazzo sul Canal Grande in Contrada Sant’Aponal acquistato dai Giustinian.


Ne esisteva una, infatti, d’origine Padovana o Lombarda di un certo Marcantonio che possedeva una prestigiosa collezione con diversi Tintoretto. Era una di quelle famiglie tutte dedite alla causa della Cancelleria Dogale di cui per ben due volte furono Cancellieri Grandi, e per generazioni impegnati nel Senato come Segretari della Serenissima.


Si raccontava perfino, quasi al confine con la leggenda, che uno dei Businello rappresentante di Venezia a Mantova, catturato dagli Imperiali si sia mangiato il codice cifrato segreto usato per corrispondere con la Serenissima piuttosto che lasciarlo finire nelle mani dei nemici. I Businello erano di certo benestanti, perché ancora nel 1450 figuravano nell’elenco di coloro che possedevano e gestivano almeno 70 campi ciascuno a Zuanigo presso “la Bastia” di Mirano… dove anche i Dolfin, i Giustinian, e i Falier avevano dei molini sulla “Fovea Musonis” e sulle acque della Tergola. Quei Nobili di Venezia avevano inoltre: case e ville o “Domus Magnae”, il controllo dei pascoli e delle “poste per le pecore”, delle osterie, delle fornaci, dei boschi residui, fino ad esercitare diritti di Decima sui contadini e su chi risiedeva sul posto.


Da notizie incerte e un po’ confuse, si viene a sapere che solo in seguito la zona divenne la “Contrada della Lana” perché iniziarono ad abitarvi alcuni Lanaioli in alcune caxette prima abitate da certe Monache Agostiniane che avevano una loro vecchia chiesupola dedicata al “Gesù e Maria”.

Già un Decreto della Serenissima del 1272 concedeva alloggio gratuito a tutti quei lavoranti della Lana che fossero venuti ad esercitare la professione nella città di Venezia ... perciò arrivarono in Laguna molti Lanaioli da vari paesi, fra cui la Germania, stabilendosi ad abitare nelle Contrade della Croce, di San Simeone Grando o Apostolo, San Simeone Piccolo o Profeta, San Giacomo dell'Orio, e San Pantalon e lavorando sotto il controllo dei Magistrati e Lanaioli della “Camera del Purgo”.


Si era, invece, nel 1566, quando Voltier de Voltier, Gastaldo di Thodeschi dell'Alemagna Alta, et della Scuola della Madonna Santa Maria de Carmeni notificò che la sua Confraternita possedeva “…in contrà de Sancta Croce in Venetia, in loco detto “il Businello” … varie casette, ed un locale con tre camere le quali habitemo noi Thodeschi con la nostra famiglia …”


Viceversa, la “Cronaca Veneta Sacra e Profana”racconta che la chiesa ed il Convento del Gesù e Maria furono fondati nel 1620 o 1623:


“… da due Patrizie Venete Angela Maria e Lucia Pasqualigo sorelle reduci da Candia, le quali con altre sedici donzelle pur nobili, si ritirarono in una casa con terreno vacuo, di ragione dell'Ospitale de' Tessitori Tedeschi, posta in contrada della Croce, in Campo della Lana, in un luogo detto il Businello, ch'ebbero ad affitto dalli Procuratori sopra gli Ospitali …”


Che all’inizio abbiamo comprato il terreno e le caxette le Monache dai Testori o viceversa, poca importa, certo è invece, che il Patriarca Giovanni Tiepolo consacrò la chiesuola del “Gesù e Maria” nel 1623 ponendovi Cherubina Balbi, già tre volte Badessa al Sant’Andrea della Zirada, come nuova Badessa del Monastero. Diventate ben presto 20, leMonache, che i Veneziani soprannominarono subito confidenzialmente “Muneghette”, non mancarono, come il solito, d’allargare le loro proprietà in direzione del Rio dei Tolentini e del Rio e Rielo della Croxe, edificando una nuova chiesa, un Convento con parlatoio, e un bell’orto da coltivare. I Tessitori di Panni Tedeschi da parte loro, edificarono un Ospizio per “Compagni poveri o inabili al lavoro”riattando alcune loro basse caxette, seguendo le regole e con la sorveglianza dei Magistrati appartenenti ai Provveditori Sopra gli Ospedali, Lochi Pii e Riscatto delli Schiavi”.


Dopo gli anni tristi della peste, le Monache erano rimaste 10, con 6 converse e 3 “fìe a spese” ossia educande ... il Monastero possedeva rendita annua di 40 ducati da beni immobili in Venezia ... e nel giro di pochi anni tornarono nuovamente ad essere: 22, con 9 converse, e le solite 2 educande a spese.


Anche nel 1712 il Monastero possedeva una rendita annua di 50 ducati da pochi beni immobili posseduti e affittati in Venezia ... niente a confronto con le pingui rendite di cui erano dotati tanti altri Monasteri insigni e famosi. Infatti, il Monastero del Gesù e Maria era nella lista di quelli considerati “miseri” a cui la Repubblica riservava una fornitura gratuita d’acqua come per gli Ospedali cittadini.


Nel 1775 Gaetano Callido costruì uno dei suoi famosi organi per la chiesa delle Monache del Gesù e Maria … che avevano raggiunto l’invidiabile rendita annuale di 82 ducati.


Nel maggio 1784, proprio sul finire della storia della Serenissima Repubblica, l’Inquisitore alle Arti Andrea Tron, considerò “in Pregadi” a Palazzo Ducale:


“…il lanificio è decaduto grandemente fra noi …le fabbriche di lana che nei secoli andati producevano sino a 28.000 pezze di panno, e sino al 1559 si riguardavano come il principale sostentamento di Venezia, sono ora ridotte al segno che nel corso d'un anno di lavori producano al più soltanto 600 pezze di pannilana lavorati ...”


Circa una decina d’anni dopo, quando la Venezia Repubblica cadde, e giunse a visitarci quel certo “Napoleon Franzese”, le 23 Monache del “Gesù e Maria” non se la passarono all’inizio di certo molto bene, perché vennero concentrate con quelle del non lontano Monastero di San Andrea della Zirada (la chiesa chiusa accanto al People Mover di Piazzale Roma di oggi). Tre anni dopo però, nel 1810, accadde il peggio a causa della soppressione degli ordini religiosi, e le poche Monache rimaste nel Convento vennero senza tante maniere eleganti secolarizzate e cacciate via. I locali vennero chiusi e venduti a privati che li adattarono a magazzino.


Solo nel 1821, su interessamento del Piovano di San Cassiano Domenico Bazzana, il piccolo complesso religioso venne riaperto al culto introducendovi sette Monache Servite Eremitane col nuovo titolo dell'Addolorata.


Le Monache “raccogliticce”, fra cui c’erano 2 ex Suore Francescane, 1 ex Suora Domenicana ed 1 ex Monaca Carmelitana disperse dalla bufera napoleonica, ma ancora desiderose di proseguire per quella “strada”, decisero che la dote necessaria per monacare eventuali nuove Suore era di 6.000 lire italiane … Il riacquisto del Monastero dal Demanio dello Stato era costato al Parroco 11.000 lire venete, e altre 8.000 lire si dovettero spendere per il rifacimento del muro dell’orto abbattuto da un nubifragio, e ben 31.000 lire per la costruzione d’infermeria, cucina, refettorio e 18 camere per le Monache ... Tuttavia, più della metà di quelle somme risultarono già pagate in quello stesso anno.


Quando nel 1830 il Patriarca Monico visitò il Monastero, ne descrisse “l’andamento” nelle sue carte.


“…Le monache sono in tutto 36: di cui 15 professe, 14 converse, 4 novizie, la Badessa, la Vicaria e la Maestra delle Novizie. Inoltre ci sono 2 oblate. Il Monastero, che non accoglie educande, impegna le Monache in una vita corale di preghiera per 10 ore al giorno, lasciando il resto a “Lavori devoti”. La dote necessaria per la professione di una nuova Monaca è di 1.400 lire venete, e le monache vivono “povere”. Se avanza qualcosa in pane ed in denaro si dona ai familiari indigenti ... Le entrate di un semestre sono state di 17.540 lire venete di cui: 9.635 dalla cassa pensioni, 2.008 dalle doti, 807 da elemosine di benefattori, 993 per saldo di dote, 1.240 per professione. Le uscite sono state, invece, di lire 15.830 di cui 3.619 per vestiario ed arredamento, 2.265 per carne e pesce, 2.454 per vino e farina, 2.265 per spese di casolìn e per legna, 171 per medico e medicine ... Nella chiesetta si conserva con decenza il Corpo di Santa Savina Martire, e altre preziose e Sante Reliquie … e in essa è attiva e si raduna fin dal 1653 la “Compagnia di Devozione della Scala Santa”, e dal 1747 anche la “Compagnia di Sant'Adriano del Suffragio per i Morti” che si recava ad Officiare in Laguna nell’isola di San Ariàno la prima domenica di ogni mese di giugno, prima che il Magistrato abolisse nel 1785 le 22 Compagnie interdicendo l’accesso all’isola …”


Non doveva essere brutta la chiesetta del Gesù e Maria, perché aveva su diversi altari pitture di Pietra Mera, un soffitto e altri quadri vari di Angelo Venturini, un'opera “alla maniera di Giovanni Bellini”, e una “Vergine con Sn Giuseppe, Sant’Anna e San Giovanni Battista” dipinto da Domenico Tintoretto.


Ancora nel 1853 quando le Monache del “Gesù e Maria” erano 18, chi visitava in un giorno qualsiasi la povera chiesetta del Gesù e Maria “recitando un solo Pater e un Ave Maria”, poteva guadagnare un’indulgenza non plenaria di 50 giorni per se stesso, per i vivi e per i Morti … mentre se l’avesse visitava devotamente e con elemosina nei venerdì’ di Quaresima, l’indulgenza conseguibile sarebbe stata quella totale ossia “la plenaria”.



E siamo giunti ai giorni nostri, tanto è vero che possediamo addirittura alcune foto di quella chiesa che non esiste più ... Ed è stato solo nel 1955 che la chiesetta venne demolita per consentire l’ennesima speculazione edilizia di un certo Cicogna, che demolì caxette ed edifici religiosi per sostituirli con delle belle abitazioni popolari "moderne" visibili tutt’oggi ... in quel che resta dell’antico “Campo della Lana”.


“LA CONTRADA DI SAN PROVOLO … OVVIAMENTE A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 64.


“LA CONTRADA DI SAN PROVOLO … OVVIAMENTE A VENEZIA.”


E’ stato lo stimolo di una “stampa insospettabile” postata su Internet da tale “amico Veneziano Gianni” che mi ha indotto ad andare frugare nelle “cose” della dimenticata e antica Contrada di San Provolo vicino al ben più famoso Monastero di San Zaccaria. Come sempre accade oggi, a Venezia di San Provolo è rimasto ben poco, quasi niente. E’ restata la memoria di un toponimo, di un luogo, attraverso il quale di solito si passa per recarsi altrove … o al massimo si cita per richiamare un locale ristorante, una botteguccia di Musica, o forse il Liceo che sorge proprio dove un tempo sorgeva l’antica chiesa.

San Provolo è uno di quei posti di Venezia in cui bisogna proprio fare uno sforzo con la fantasia e l’immaginazione per “inventarsi e raffigurarsi” ciò che è stato, perché di visibile resta niente, se non le cose invisibili che scappano via dietro gli angoli, o s’arrampicano su per i muri, viste solo da chi è appassionato per davvero di Venezia e della sua storia. San Provolo attualmente è uno di quei campielli tipici in cui i turisti si soffermano a “disnàr”che sarebbe a mangiare “mettendo le gambe sotto la tavola” dei numerosi ristorantini i cui camerieri t’accaparrano rincorrendoti per strada.

Un tempo, lo sapete meglio di me, non era così. Come vi accennavo, la piccolissima Contrada di San Provolo è sempre stata nascosta e offuscata dal prestigio infinito e dalla sontuosa ricchezza del potentissimo Monastero di San Zaccaria di cui un portichetto e andito d’ingresso sorgeva proprio accanto a San Provolo, a una sola ventina di metri. Quel che è stato San Zaccaria a Venezia è difficile riassumerlo in poche righe. Basti ricordare ch’era il Monastero delle figlie dei Dogi e dei più insigni Senatori e Nobili Patrizi della Venezia di sempre. Si aggiunga, solo per farsene un’idea, che le proprietà di quel Monastero andavano a comprendere praticamente tutta la cittadina e la collina di Monselice poco lontano dai Colli Euganei ... vi par poco ?

Poco distante poi da San Provolo sorge Piazza San Marco, le Prigioni e Palazzo Ducale, quindi era in ogni caso una chiesupola oscurata del tutto dallo splendore indicibile di quei colossi di bellezza e Storia.

Tornando, allora a San Provolo … Se si fa attenzione e si alza lo sguardo giunti nel campo, ci si accorgerà subito di qual’era la sua antica chiesa. E’ quell’edificio bianco a sinistra, tutto traforato oggi da una ventina circa di finestre e finestrelle ben disegnate. Lo noti subito il cornicione lungo e diritto, un po’ eccessivo per essere di normale palazzo, ma per chi non lo sa, è una normale linea edilizia di un’architettura qualsiasi di Venezia a cui s’è sovrapposto un bel pergolo, aperto spazio di botteghe e molto altro. L’ex chiesa di San Provolo è oggi quasi irriconoscibile, insomma.

Anche dal punto di vista dei documenti non è che di San Provolo sia rimasto moltissimo. C’è giusto una manciata di carte e qualche inventario, come per chiesette tipo l’Anconeta di San Marcuola, Santa Giustina, San Rocco e Margherita e altre ancora conservati negli scaffali semidimenticati degli Archivi del Patriarcato o in quelli dell’Archivio di Stato dei Frari.

E’ del 1172 la notizia che il Doge Vitale Michiel II° venne ucciso da Marco Cassolo proprio in Calle delle Razze nel Confinio di San Provolo mentre il giorno di Pasqua si recava come da “Tradizione” in visita al Monastero di San Zaccaria. L'assassino finì ovviamente impiccato, e le case della Calle delle Rasse in cui si nascose per tendere l’agguato furono rase al suolo, e si proibì di costruirne altre di pietra sullo stesso posto … Per sicurezza e “ … per onta del luogo”, mai più il Doge di Venezia sarebbe transitato attraverso quella calle.

Già quasi un secolo prima, esisteva però un’attestazione di un vecchio Prete Martino, e di un altro Prete Albertus entrambi di San Provolo che certificavano presso la Badessa del San Zaccaria circa la questione dell’uso di una siepe esistente attorno o accanto al Monastero in prossimità di una vicina “piscina d’acqua”.

A quell’epoca sembra che la Parrocchia e chiesa di San Provolo esistesse già da un paio di secoli, e che forse con la “Calle delle Rasse” fosse proprio uno dei nuclei e degli insediamenti più antichi della zona mercantile Veneziana insediata sull’asse Rialto-San Marco.

Infatti, per espressa Legge del Consiglio dei Dieci: “… dalla Calle delle Rasse verso Palazzo Ducale, come pure nell'Osterie della Piazza San Marco non possono abitare meretrici …”

A cavallo con le solite leggende, sulle cronache cittadine si può leggere che San Provolo sia stata fondata nell’850, e allo stesso tempo donata al contiguo Monastero Benedettino femminile di San Zaccaria dal Doge Angelo Partecipazio che l’aveva fondato. San Provolo quindi apparteneva alle Monache, che per questo sceglievano, delegavano e pagavano sempre due Preti-Cappellani “… per officiarla e curarne l’Anime ...”

Nel 1105 San Provolo o Procolo subì le fiamme di uno dei soliti incendi devastanti di Venezia che: “… se la divorò completamente”. Ovviamente le Monache del San Zaccaria non persero tempo e la ricostruirono immediatamente ... e sembra che proprio in San Provolo, forse per la posizione strategica, tenne sede per lungo tempo una delle più frequentate e antiche, nonché abbienti, “Congregazioni di Preti e Piovani” di Venezia.

Giunto il 1389, San Provolo cadente e rovinosa venne rinnovata e riaddornata, e sembra che in quell’occasione sia stata nominata Parrocchia autonoma dal Cancelliere Dogale Amedeo Buonguadagni, emancipandola seppure parzialmente dalle Monache del San Zaccaria … San Provolo doveva godere di un certo prestigio nel 1455, se Giovanni Rizzi suo Prete, divenne poi Piovano di San Vito e Modesto a Dorsoduro, Cancelliere Dogale, Vicario Generale e perfino Arcidiacono del Capitolo di San Pietro di Castello ... carica nobilissima, e molto agognata da tanti ecclesiastici.

A dimostranza che le Monache del San Zaccaria “… non avevano mollato il loro osso”, dal 1477 al 1504 la Badessa Lucia Donà finanziò e guidò tutta l’impresa del restauro dell’intera chiesa di San Provolo ... Nella Contrada di San Provolo abitò fino al 1539 il potente Segretario del Consiglio dei Dieci della Serenissima GianGiacomo Caroldo, scrittore anche di “Cronaca veneta”, più volte Ambasciatore di Venezia, e nominato anche Conte Palatino da parte dell’Imperatore Massimiliano.

Il Nobile Malipiero scriveva nei suoi “Annali” nel 1498.

“El mese de Mazo … se ha descoverto la peste in alguni luoghi della terra, e i Proveditori della Sanità ha prohibido la Festa della Sensa, ma i Schiavoni no l'ha saputo, e son venuti con le sue rasse, e i Lombardi con le sue tele. E intesa tal prohibitione, i son andati a la Signoria, e alegando i so gravami, ha suplicà de poder vender per la terra, e son sta esaudidi, ma ghe è devedà de vender in Calle delle Rasse per non far assunanza, e se ha reduto verso Santa Maria Formosa, sulla Salizà de San Lio …”

Sempre in Contrada di San Provolo, in una casa affittata dalle Monache di San Zaccaria, abitarono nel 1564 i due fratelli Francesco e Valerio Zuccato, famosi per aver mosaicato sapientemente una gran parte delle volte dorate della Basilica di San Marco ... Così come le Monache affittarono un’altra loro casa nello stesso posto al Letterato Paolo Ramusio, nipote del Paolo Ramusio da Rimini che, diventato Veneziano, persuase nel 1503 Pandolfo Malatesta a cedere Rimini alla Repubblica Serenissima ... In cambio e premio ottenne dal Doge il “modico regalo” di 600 campi nei pressi di Cittadella.

Nello stesso anno, i Cappellani di San Provolo percepivano come stipendio dalle Monache di San Zaccaria: 10 ducati annui, e nella chiesa si celebrava la Festa del Patrono ad anni alterni dando altri 3 ducati: “… per conto de lemosina alli Preti che cantano Primo Vespero, Messa e Secondo Vespero in San Procolo …”

In poche parole, gran parte della Contrada di San Provolo apparteneva, e in qualche modo serviva e seguiva i desideri delle Monache di San Zaccaria.

Secondo l’analisi effettuata dalla Visita Apostolica del Nunzio Papale residente in Venezia nel luglio 1581, San Provolo continuava ad essere Parrocchia e Cappellania del Monastero di San Zaccaria. In Contrada abitavano 1200 persone, di cui solo 550 s’accostava alla Comunione ... Nella chiesa dove c’erano 5 altari e si celebrava in perpetuo una “Mansioneria quotidiana” che valeva 15 ducati annui, c’erano attivi i 2 Cappellani Curati che guadagnavano 62 ducati, diverse regalie e altri “Incerti di stola”, e utilizzavano una casa appartenente sempre alle stesse Monache. Esisteva anche un Sacrista, che percepiva 5 ducati annui, usufruiva a sua volta di una casa, e anche lui era oggetto di varie regalie e offerte varie da parte delle solite Monache.

A fine secolo la popolazione della Contrada di San Provolo si ridusse progressivamente a circa 880 persone, perché al posto della case abitate si preferiva tenere Botteghe, Locande e Taverne, essendo prossimi al Molo di San Marco utilizzato e frequentato in continuità da: “… Marineri, Pellegrini, Mercatanti, Soldati, Bastazi, Religiosi, Donne, Naviganti e viaggiatori … nonché miserevoli vagabondi.”… Le Monache di San Zaccaria riattarono nuovamente la chiesetta.

Dopo il primo decennio del 1600, sempre in Calle delle Rasse a San Provolo in una casa di Francesco Orio,c’era la Stamperia Ducale di tale Rampazzetto. Costui falsificò un mandato con tanto di nome del Cassiere e del Segretario del Collegio, fu scoperto e condannato ad un'ora di pubblica berlina e a tre anni continuativi di voga coatta al remo in Galea coi ferri ai piedi. Qualora fosse risultato o diventato inabile, la pena della voga gli sarebbe stata permutata in quattro anni di reclusione nella “Prigion Forte” di Palazzo Ducale.

Uguale a oggi vero ?

Verso il 1630, subito dopo gli anni della terribile peste che decimò Venezia, un bel giorno credo che la Nobile e potente Badessa del San Zaccaria sia sobbalzata se non ribaltata dal suo confortevole e lussuoso seggiolone.

A causa, infatti, delle campagne militari della Serenissima (che fra l’altro non andavano per niente bene) vennero imposte in Venezia sempre nuove tasse ed esazioni che andavano a colpire sempre di più chi era ben fornito ed equipaggiato di rendite, possedimenti, proprietà e soldi in genere.

L’ultima tassazione prevedeva l’aggiunta di: “… 1 soldo per Lira a tutti i Dazi esclusa la Gabella del Sale, e a tutte le gravezze a vantaggio dell’erario da pagarsi a cura di tutti gli abitanti del Dominio compreso quello da Mar ...”

Subito dopo, il Senato impose altre 2 Decime urgenti su Venezia e Dogado da pagarsi una: “… da patroni sopra livelli perpetui, stati, inviamenti de Pistorie, Magazeni, Forni, Poste da vin, Banche di beccaria, Traghetti, Poste, Palade, Passi, Molini, Foli, Sieghe, Instrumenti da ferro e battirame, Moggi da carta ed altri, Dadie, Varchi che si affittano e si pesano, Decime di biave, Vini ed altre robbe, Fornari, Hosterie et ogn’altra entrata simile niuna eccentuata …”

Le Monache di San Zaccaria possedevano in quantità ampia parte delle cose contenute in quella lunga lista.

L’altra Tassa-Decima imposta era ancora peggio, perché era applicata: “… sopra tutti i livelli francabili fondati su case, campi o altri beni in qual si voglia luoco, fati con chi si sia ...”

Chi pagava subito entro aprile di quell’anno, ossia entro due mesi, aveva diritto a un condono del 10%, chi pagava in ritardo, invece, avrebbe subito un aggravio della stessa proporzione ... E già che c’era, 8 giorni dopo, il Senato di Venezia aggiunse un altro “prestito obbligatorio” sotto forma di altre 2 Decime, e altre 2 Tanse da pagarsi “senza fretta”, ossia solo entro agosto dello stesso anno, o entro il febbraio seguente da tutti coloro che a Venezia erano soggetti a gravezze, in buona valuta o in moneta corrente (che sarebbe costato un quinto in più), senza alcun sconto né esenzioni per chiunque. Eravamo allo spasimo fiscale …

A fine giugno del 1629, il Senato pressato dagli eventi e dai rivolgimenti bellici fissò un termine perentorio di 15 giorni per denunciare ai 10 Savi alle Decime tutti i livelli perpetui e francabili e ogni altra fonte di reddito presente in Laguna, e commissionò a dei Commissari Straordinari di reperire denaro entro un mese in ogni modo possibile, ricavandolo in tutto lo Stato aggiungendo ulteriori Decime su: campagne, testatici o simili scegliendo la maniera più utile e veloce che permettesse alla gente di pagare ...

Vitaccia quindi ! Proprio tempi duri per chi a Venezia era ben dotato … Altro che oggi ! … Altri tempi.

Solo ad agosto dello stesso anno, la Signoria Serenissima decise di esentare da quel fiume d’imposte straordinarie chi a Venezia e Dogado era davvero povero e impossibilitato a pagare ulteriormente. Sarebbe stato inutile racimolare poco spiccioli e attorniarsi di una folla di morti di fame, debitori e questuanti da mantenere.

“Sarà cosa opportuna per le sorti della Serenissima Repubblica lasciar alcuni galleggiare e guazzar nel proprio stagno ... senza per forza indurli a saltar sulla Terraferma secca e senza alcuna possibilità di sopravvivenza …”

Solo nel 1642, sotto la Badessa Angelica Foscarini, sembrò essere tornato “il sereno” ed essere finalmente trascorsa quell’epoca di pene, restrizioni e bufere economiche. Perciò le “Bone Monache” si determinarono di nuovo a sborsar soldi, e a ricostruire o per lo meno risistemare per l’ennesima volta la chiesa malridotta di San Provolo ... Qualcuno lasciò detto che la chiesuola, di fatto, venne rifabbricata di sana pianta ... Quasi nello stesso tempo, Sante Gariboldi, Speziale all'insegna del San Domenico in Calle delle Rasse di San Provolo, venne decapitato e bruciato in Piazza il 30 luglio 1641 perchè aveva abusato di due bimbi di sei anni nel Convento di San Giobbe nel Sestier di Cannaregio.

In quegli anni, in Contrada di San Provolo c’erano 59 botteghe, un forno da pane, e una Pistoria ... Nel 1712 le botteghe giunsero ad essere ben 77 … e giunto il 12 luglio 1735, si sviluppò un grande incendio scoppiato in casa del Droghier Antonio Biondini in Calle delle Rasse, che in breve tempo rovinò tutti i fabbricati, le botteghe e le caxette più vicine ... Ancora nel 1737 si continuava a riparare e rimediare ai danni e alle tracce lasciate in zona da quel terribile evento nefasto e distruttivo.

Verso la fine del 1700, “… ormai al calàr delle ultime sorti di una Serenissima ormai fragile e decadente Repubblica …” in Contrada di San Provolo abitavano circa 900 persone. Si contavano 230 persone abili al lavoro, che s’arrabattavano ogni giorno in 87 botteghe, esclusi i Nobili (il 23% dei residenti in Contrada) ch’erano ovviamente esentati da quella “… vile mansione per loro non adatta…”

Secondo le cronache, le Monache del San Zaccaria, “… in salute nel corpo e nella borsa, come non mai …”, investirono ancora sulla chiesetta di San Provolo sostituendo i vecchi altari vetusti di legno, con nuovi altari più belli in marmo. Quando tutto fu pronto, chiamarono anche il Patriarca Federico Maria Giovannelli perché impartisse alla chiesetta “… una buona, quanto opportuna e santificante Benedizione …”


L’ultima “foto storica” della Contrada di San Provolo “la fece” mettendola per scritto nelle sue carte il Patriarca Flangini nel settembre 1803 durante una sua Visita Solenne alla Contrada di San Provolo.


“Tutto appartiene come sempre al Monastero Benedettino di San Zaccaria … Le anime sono 1.000, le rendite dei 2 Cappellani pagati dalle Monache sono sempre di 51 ducati annui più l’usufrutto di una casa … Le Monache inoltre spendono 123,3 Lire perché venga insegnata un po’ di Dottrina Cristiana ai Veneziani della Contrada; finanziano inoltre con altre 80 lire il culto e la devozione in chiesa per San Pietro d’Alcantara; contribuiscono offrendo 22 lire per  “le Agonie” celebrate dai Confratelli della Scuola del Santissimo, che rende loro di rimando 11 lire annue.

Viceversa, le stesse Monache spendono all’anno 24,16 Lire per mantenere il Sacrestano di San Provolo con la sua famiglia; per comprar particole per la Messa, riscaldare a legna la Sacrestia; fornire di candele e cera ciascun altare secondario, mentre per a quello Maggiore veniva riservato lo stesso trattamento di qualità e abbellimento usato per gli altari che si trovano dentro al Monastero di San Zaccaria.

Intorno e dentro alle attività della chiesetta di San Provolo “girano e ruotano”7 Sacerdoti, di cui uno è infermo. Uno di quelli è l’Abate dei Servi di Maria del lontano Convento di Sant’Elena di Castello, ci sono poi diversi Preti Altaristi e Mansionari che provvedono le 2.279 Lire delle Messe Mansionarie delle Monache ... C’è anche un certo Suddiacono forse ordinato:


“… tale Condulmer Alvise già Monaco Benedettino dalla Professione dichiarata nulla, non frequentante i Sacramenti neanche a Pasqua, vestito da secolare e col pessimo concetto di costume, che fece anche un contratto di matrimonio, e fu richiamato inutilmente dal Vicario e dal suo padre …”


Durante l’anno si celebrano 1.442 Messe perpetue; 3 fra Esequie e Anniversari; 2 Messe Cantate e Solenni il Giovedì Santo e il Corpus Domini, e 20 Messe avventizie, ossia pochissime: una o due al mese. Da segnalare come meritevole che il Monastero offre 20 ducati annui per la celebrazione della “Messa pro Populo” ... Le Monache fanno celebrare anche una Novena per la festa di San Pietro d’Alcantara, si curano che in chiesa ci sia una decente Predicazione, e Istruzioni e Catechismi degni a tutte le feste ... esiste anche un lascito apposito di 246, 6 Lire annue per la Dottrina Cristiana per i fanciulli …”


L’anno dopo, il famoso Gaetano Callido e figli costruirono commissionati dalla Monache di sempre proprio a San Provolo la loro ultima opera prestigiosa rimuovendo un vecchio organo del 1700 ...  Un paio d’anni dopo era “Cappellano Amovibile da parte delle Monache” don Giorgio Piazza, che si curava della popolazione di 1.000 Anime della Contrada ... Dagli inventari rimasti, e da quel che raccontano “i Veneziani di ieri”, si evince che le Monache di San Zaccaria non avevano per niente trascurato la loro chiesetta di San Provolo:


“... rendendola in nulla simile a una bucolica e miserrima chiesupola di campagna ...”


Fra le varie opere che abbellivano San Provolo, c’erano: un “Gesù morto con Angeli” di Palma il Vecchio, che aveva dipinto anche un “Sacrificio d’Abramo” per l’Altar Maggiore, e anche un: “Angelo che appare ad Elia”, “Un Santo Vescovo con Santi” e una“Storia dell’Antico Testamento”. Inoltre c’erano diversi altri dipinti del Lazzarini, di Peranda, Cellini, Pietro Liberi, altre tre pitture di Antonio Aliense, e altre otto dello Scozia. Un tesoretto insomma … San Provolo era insomma un’altra di quelle chiese “coccole” di Venezia piene di belle cose e ricche di Storie.


Per ricordarvi ancora quanto un tempo era vitale e attivo quell’angolo di Venezia, già abbiamo detto come apparteneva alla Contrada di San Provolola famosissima“Calle delle Rasse o Rascianum vicum”, che sorge ancora oggi poco distante dalla famosa Riva degli Schiavoni col Molo di San Marco. La “Rascia o Rassa” era un panno di lana grezza e ordinaria di manifattura artigianale col quale si era soliti coprire le gondole e i loro “Felzi”, importata e imitata a Venezia dalla Serbia o Servia. Ancora alla fine del 1700, il Capomastro dei Tintori della Serenissima Dominante Giovanni Barich, ricordava con un suo manifesto che quei prodotti si vendevano proprio in “… Calle delle Rasse nelle botteghe all'insegna del San Girolamo e del Sant’Antonio da Padova ...”

Poi tutto andò brutalmente rimosso, smantellato e distrutto … l’Altar Maggiore di pregio trasferito nella chiesa di San Zaccaria, così come vennero disperse tutte le suppellettili della chiesa che venne chiusa e poi demolita per farne abitazioni e locali ad uso commerciale e privato ... Rimase per un po’ di tempo una “certa Cappellina in memoria”… poi sparì anche quella, forse ridotta a solo “Capitello” ... Chi sarà stato mai l’autore di tale scempio ?

La Contrada di San Provolo fu inizialmente associato e unita insieme a quella di San Severo alla poco distante Parrocchia e Contrada di Sant’Antonin ... In seguito si decise invece di associare il “territorio di San Provolo” alla neonata Parrocchia di San Zaccaria e Sant’Atanasio da dove erano state espulse le favolose Monache del San Zaccaria che venne soppresso e chiuso anch’esso per sempre.

“… essendo San Provolo nei tempi addietro mantenuta da San Zaccaria porta spesa al Demanio e per questo va chiusa non essendo necessaria … Tanto più che non possiede alcuno di quei caratteri né di magnificenza, né di nobile architettura per cui si possa meritare una spezial contemplazione …”

E questa fu la fine di San Provolo.

Nel corso del 1900 nei locali e negli spazi più volte riattati e riciclati dove sorgeva un tempo San Provolo, si è allestita la Scuola Professionale Femminile Vendramin Corner ... dai cui muri ancora oggi sciamavano fuori alcune giovinette allegre, petulanti e speranzose di Venezia. Entrano ed escono dalla loro Scuola, ignare di recarsi in quella ch’era una chiesa, esistita come punto di riferimento di tanti Veneziani che per secoli hanno occupato e vissuto quella microscopica Contrada.

In tempi più recenti la zona di San Provolo a Venezia è balzata alla cronaca perché un povero calzolaio artigiano, che da sempre lavorava sul “Ponte dei Carmini” aggiustando anche i sandali ai Frati, è stato pestato selvaggiamente come un tamburo per rubargli i quattro “marci”spiccioli che possedeva. A poco gli è valsa la protezione garantita dal Capitello veneratissimo della Madonna che sorge lì accanto sull’angolo … già centrato “… da infallibile e precisa saetta in una terribile bufera del 1756 …”. Se n’è parlato per qualche giorno, poi non s’è detto più niente, e l’ometto dopo tanto lavorare ha chiuso bottega per provare a finire i suoi giorni un po’ più serenamente … lasciando il locale alla solita rivendita anonima di souvenir per i turisti spensierati.

Finisco dicendo come la Contrada di San Provolo è tuttora uno di quei posti ameni di Venezia, zeppa di Calli lunghe e Callette strette, angoli tipici e ombrosi, e piccole Corti nascoste un tempo industriose. Conserva ancora quella soffusa sensazione romantica e caratteristica tipica della Venezia che piace.Se ci si porta lungo le Fondamenta dell’Osmarin e di San Provolo ci si potrà smarrire volutamente, finendo con l’imbattersi in un giovane Mastro Artigiano che continua coraggiosamente la vecchia attività del Remèr e Forcolaio di un tempo. Si potrà finire infine col ritrovarsi poco dietro nella Corte del Tagjapiera, dove un tempo dall’alba al tramonto si picchiava sulla pietra, e rimanere affascinati e avvinti dall’atmosfera ammaliante di quello spicchietto di Venezia nascosta, seppure corrosa e consumata dal tempo.


Poco c’interesserà sapere che in quelle case mute:


“ … Adì 10 marzo1680, morì Francesca relitta (ossia vedova) del quondam Francesco Osmarin d'anni 65 in circa, da febbre maligna giorni 8, senza medico, farà sepellìr Missier Battista suo fratello - San Antonin …”



Sarà come un sussurro insignificante che non percepiremo affatto, recitato e disperso nel vento che zufola leggero fra le caxette e i tetti della Contrada di San Provolo che non esiste più …


“SANT'ARIAN … ISOLE … ISOLE …”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 65.


“SANT'ARIAN … ISOLE … ISOLE …”

Parlar di isole per i Veneziani fa un po’ sorridere, perché sull’argomento ne sappiamo un po’ tutti … chi più e chi meno. Molti di noi stanno vivendo da una vita intera in un’isola, come è vero che Venezia è una “isola di isole”, e la nostra storia accade tutta dentro a un Isolario che nel mondo ha poco paragone e somiglianza.


A riprova di questo, se vi dico: “Murano !” mi risponderete subito: “Vetro !”… così come se vi dirò: “Burano !” mi direte immediatamente: “Campanil storto, colori e merletti …” Quanti di noi non sono mai andati a San Erasmo e alle Vignole: “ … i celebri orti ameni di Venezia”… E chi non si è perso almeno una volta in vita spingendosi fino in fondo alla laguna Nord sostando almeno per qualche ora a Mazzorbo, o nell’arcaica Torcello semiabbandonata e fascinosa, o nei silenzi contemplativi di San Francesco del Deserto ?


Non conoscete per caso San Michele: “l’isola dei Morti ?”… di sicuro. Mentre non conoscerete molto dell’isola di San Cristoforo che in San Michele è stata inglobata e assorbita fino a perdere ogni traccia.


In molti starete accennando di “sì” con la testa … Posti belli, e un po’ovvi, isole famose e conosciutissime.


Le nostre conoscenze, invece, caleranno un po’ di consistenza e tono se inizieremo a citare isole diverse come quelle storiche della peste e delle contumacie: i Lazzaretti Vecchio e Nuovo, San Lazzaro degli Armeni… o Povegliain questi ultimi tempi tornata alla ribalta.

Annuiremo ancora un po’ diventando però curiosi quando parleremo della collana di isole delle segregazioni, della pazzia e degli isolamenti sanitari più recenti: San Clemente, San Servolo, Sacca Sessola e Santa Maria delle Grazie ... mentre diverremo interessati quando nomineremo altre isole ancora, sempre “corpose” ma ormai semidimenticate, come San Giorgio in Alga, San Angelo delle Polveri, San Giacomo in Paludo, Santo Spirito… la lista sarebbe certamente lunga.


Di altre isole ancora avremo appena sentito parlare, o citare appena il nome: San Secondo, Madonna del Monte. Di alcune è rimasto poco o niente, come l’isola di San Andrea della Certosa, oppure sono rimaste delle solitarie rovine appena emergenti dall’acqua … o forse peggio solo delle motte fangose emergenti dalle acque ricorrenti della marea.


Di sicuro avremo sentito parlare della Salina di San Felice, di Caroman, Crevan, Buel del Lovo, La Cura e Santa Cristina. Chi non ha mai sentito parlare almeno qualche volta delle famose isole scomparse di Ammianae Costanziaca? … e delle isole di Boccalama ?


Ogni estate guide provette ed entusiaste conducono in laguna a visitarne i resti, identificarne i contorni, ascoltare mille storie, e ad apprezzare le poche spoglie e vestigia che talvolta solo la fantasia riesce a dare un qualche volto. Conoscete bene ad esempio il “Centro Studi Torcellani” solo per citare qualcuno, o le iniziative di “Isole in rete”

Sapete ancora bene dell’esistenza dei numerosi “Ottagoni”sparsi per la laguna (più o meno bene conservati o abbandonati), delle antiche “Batterie e Polveriere”reduci del 1800 e delle Guerre Mondiali, come delle varie “Motte” ossia quelle piccole emergenze sparse che però hanno anche loro un nome e qualche spicciolo di storia.


E se improvvisamente vi dicessi ed elencassi le isole di: Aleghero ? Sgomento … “Che è ? … Dov’è ?” vi chiedereste … E se aggiungessi le isole: Albiola, Basegia, Castrasia, Centranica, Falconera, Gajada, Marcelliana, Olivaria, Verni… e altre isole ancora.


“Ferma ! Ferma ! … Dove ? Come ? Quando ?”mi direste di sicuro, perché certi nomi per molti di noi vengono a suonare nuovi o poco familiari. Infatti è così. 
Certe isole sono andate perdute per sempre, o quasi del tutto. Di certe rimane appunto un nome, qualche leggenda, o il titolo di una Valle salmastra o di un ampio spazio acqueo sperduto in un angolo nascosto e dimenticato della Laguna. Solo certi anziani pescatori, isolani o “valleggianti” hanno dimestichezza con certi posti, con certe vicende e certe zone … Così come certi studiosi e appassionati “topi d’archivio” sanno scovare informazioni e ricostruire eventi in modo da mettere un qualche confine fra storia reale accaduta e fantasiosa leggenda.


Detto questo, solo per curiosare un po’ nelle pieghe del tempo … ricordo che quand’ero adolescente il giovane Viceparroco della mia isoletta di Burano quasi impazziva preoccupatissimo accorrendo in fretta dopo un annuncio di qualche pescatore dell’isola. Certi “goliardici e sacrileghi giovinastri” della zona s’erano divertiti a scavalcare il muro di cinta dell’Isola Ossario di Sant’Ariàn … e avevano lanciato in acqua e sparso per la Laguna: crani, ossa e cose simili con l’intento di spaventare e divertirsi alle spalle di qualche passante o di qualche vecchierella affacciata sulla “Fondamente e Rive” dell’isola di Burano. Il povero Prete ebbe il suo bel da fare a raccattare quei poveri resti con l’aiuto di qualche volonteroso, e rincrebbe non poco quel gesto “esagerato e spudorato” che offese la sensibilità delle genti delle lagune. I giovanotti forse si divertirono in quel modo … ma forse non tutti, soprattutto quelli che vennero in seguito identificati.


L’Isola di“Sant’Arian dei Morti”o di“San Adriano di Costanziaco e di Torcello”, a noi Veneziani di oggi ricorda e suggerisce ben poco.

Era diverso per i Veneziani di qualche secolo fa, perché anche se si ricorda e se ne scrive poco, i Veneziani di Venezia centro storico erano soliti recarsi ogni anno un’intera giornata in pellegrinaggio dalle loro Contrade e Parrocchie proprio fino all’isola di Sant’Arian. Era una ricorrenza amena, per certi versi molto simile a una “gita fuoriporta”, ma conservava di fondo ancora quello scopo devozionale di un tempo legato al Suffragio dei Morti di Venezia.


A differenza di oggi in cui l’isola di Sant’Ariàn è un’isola-ossario chiuso e dimenticato, cinto da un certo muro e cancello rugginoso, fin dal 1700 i Provveditori alla Sanità autorizzarono la formazione in moltissime Contrade di alcune Compagnie di San Adriano i cui unici iscritti erano autorizzati a sbarcare nell’isola omonima. Ogni Compagnia poteva ricevere al massimo 33 iscritti, “… a ricordo degli anni di Nostro Signor Gesù Cristo …”, pagavano ciascuno lire 15 e soldi 12 annui, e potevano recarsi in isola rispettando un rigoroso turno stabilito dai Provveditori in una determinata domenica d’estate e fino all’autunno inoltrato.

Giunti in isola, i devoti celebravano alcune “Messe lette”, o una “Messa Esequiale”più solenne, recitavano insieme l’Ufficio dei Morti, compivano una processione intorno all’isola con una specifica benedizione ad ogni angolo, finendo infine recitando o cantando il famoso “De profundis”.

Fatto questo si consumava un pranzo con “modico cibo” per il quale non si doveva spendere più di 20 ducati, e ciascuno si doveva portare da casa tovagliolo e posate, seguiva “un conveniente riposo”, e quindi si ripartiva in barca per Venezia compiendo un’unica sosta nell’isola della Madonna del Monte. Lì si recitava una “terza parte del Rosario” e si cantavano “le Litanie della Madonna”e un altro “De Profundis”… giungendo infine a Venezia cantando in coro un bel “Te Deum”.


La Compagnia di San Adriano più famosa di Venezia era quella delle chiesuola di San Gallo vicino a Piazza San Marco. Era organizzatissima con tanto di Gastaldo, 2 Consiglieri, 2 Cassieri, 2 Sindaci, 2 Scodidori e 1 Conservatore delle Leggi. Facevano celebrare ben 33 Messe di Suffragio per ogni Confratello iscritto e Defunto, per il quale ogni Confratello era tenuto a recitare personalmente: “33 Pater Noster e 33 Ave Maria”. Nel corso dell’anno la Compagnia faceva recitare altre 10 Messe il 2 agosto, 2 il giorno “del Transito di San Giuseppe”, altre 2 il 2 novembre dopo le quali entro 8 giorni ne dovevano seguire altre 22 più un Esequiale solenne; 3 Messe ancora in gennaio il giorno di San Pietro Orseolo con panegirico ed Esposizione Solenne del Santissimo … una trafila immensa di celebrazioni insomma.

A questa Compagnia era toccata in sorte la seconda domenica di giugno per recarsi all’isola di San Ariano con tre barche dei i 33 iscritti e con l’aggiunta di altri 10 sacerdoti e 1 chierico. Lì eseguivano tutto quanto era previsto per il pellegrinaggio in isola.

Una Compagnia di San Adriano detta “di Valverde” esisteva anche nella Contrada e chiesa di San Zulian. Secondo il turno si recava in isola la terza domenica di agosto usando “4 peate”spinte ciascuna da 4 vogatori. Passavano per Murano e facevano tappa al Monastero di Valverde di Mazzorbo dove prelevavano e poi riportavano una loro speciale “reliquia della Croce”conservata dalle Monache.


Un’altra Compagnia di San Adriano era presente a San Biagio di Castello, ma questa si recava in pellegrinaggio alla più vicina isola di Santa Maria delle Grazie dove “l’oste della Rizza” preparava loro anche un buon pranzetto. Un’altra ancora era presente nella Contrada di Santa Ternita, Santa Marina(turno: prima domenica di settembre), San Lio, e Santa Maria Formosa nel Sestiere di Castello; San Giovanni in Oleo, San Bartolomeo che andava poi a Santo Spirito in isola, San Gimignano, San Vidal(turno: prima domenica di giugno), San Angelo, San Beneto (turno: domenica agosto), San Paternian(turno: terza domenica di giugno), San Luca, San Salvadore San Fantin nel Sestiere di San Marco. Quest’ultima si recava agli Incurabili o a Santa Croce della Giudecca invece che in isola, e negli ultimi anni era segnalata “… come dai costumi molto rilassati …”tanto da venir soppressa.

A Cannaregio una Compagnia di San Ariàn si trovava in Contrada di San Geremia, Santa Fosca, Santa Maria Nova. A San Polo ce n’era una a San Tomà, San Stin, Sant’Aponal… A Santa Crocenell’omonimo Sestiere.


Dopo il 1750 alcuni Veneziani preferirono recarsi per le loro devozioni di Suffragio dei Defunti in isole della laguna più vicine a Venezia, come Santa Maria delle Grazie e Santo Spirito, oppure in alcune chiese cittadine … e infine nel 1785, siccome certe gite in barca fino a Sant’Ariano finirono per diventare: “… occasione di bisboccia e mangia e bevi … contravvenendo allo spirito iniziale di tale peregrinaggio …” due decreti del Consiglio dei Dieci chiusero tutto e proibirono ogni accesso all’isola.


C’è da aggiungere che nell’sola situata a nord di Torcello e a Nord-Est di Burano e a circa 11 Km da Venezia, un tempo forse fin dal VI secolo sorgeva un Monastero di Monache Benedettine. A Est l’isola oggi ossario era delimitata dal Canale della Dolce che la separava dall'isola della Cura e dalle barene, ed è raggiungibile percorrendo il Canale Bisatto, Scomenzera e San Giacomo.


E’ del 1160 il primo documento che parla della fondazione del Monastero Femminile di Sant’Ariano di Costanziaco da parte della Beata Anna Michiel moglie del Beato Nicolò Giustiniani del Monastero di San Nicolò del Lido ritornato Monaco dopo aver generato con lei 9 figli. Accolse tra le sue mura numerose nobili veneziane e godette di molte rendite. Durante il 1200 Sant’Arian venne beneficato per testamento dal Doge Pietro Ziani, e da Maria vedova di Giacomo Gradenigo … nel 1289 una figlia Bartolomea della Beata Anna si fece monaca con la madre e dopo aver vissuto con lei tornò a Venezia per fondare il Monastero di Santa Caterina.


L’anno 1349 fu, invece, terribile per la storia del Monastero di Sant’Arian perché il Nobile Marco Barbaro denunciò al tribunale della Quarantia Criminal che sua figlia Cantaruta fattasi Monaca in Sant’Adriano di Torcello, era stata rapita e violentata dal Nobile Franceschino Loredan che venne condannato a 1 anno di carcere e a una pena di 300 ducati, mentre il suo aiutante Vittore Dolfin venne assolto ... nello stesso mese di giugno, anche Donozoli da Verexelo venne imputato e condannato a 2 mesi di carcere e multa di 200 ducati per aver rapito un’altra Monaca del Sant’Adriano ... in ottobre il Nobile Pietro Grioni venne condannato a 2 mesi di carcere per aver fatto irruzione nello stesso Monastero baciando la monaca Viza Zen e scambiandosi insulti con la Badessa.


Il Monastero di Sant’Ariano venne soppresso dal Papa a causa dell’aria malsana e delle serpi che infestavano l’isola nel 1438 quando una sua casa con terreno posta in Lio Minor passò in proprietà alle Monache di Sant’Angelo di Zompenigo di Torcello a cui fu unificato, e poi a quelle di San Girolamo di Venezia nel 1549.


In quella stessa epoca i Monasteri di Sant’Ariano e San Giovanni di Torcello assieme a Santa Caterina e San Maffio di Mazzorbo possedevano centinaia di campi di bosco a Musestre e a Meolo nella così detta Zosagna di Sotto del Trevigiano dove un certo Nobile Simone Valier era proprietario di:“… campagna magna inculta et vigra” ... ossia possedeva a Melma 2 poste da mulino con 11 ruote e “… unum batirame non completum, sed inceptum de novo…”, una sega e un mulino a Nerbon sulla Melma, un mulino a Spercenigo sul Sile, un mulino a 4 ruote e 1 follone con 8 pile sul Sile a Cendon, dove possedeva un centinaio di campi.


Alla fine del 1400 il Priore commendatario Giovanni Giusto di Ossero diede ancora in affitto alle Monache di Sant’Adriano di Costanziaca il Monastero di San Cornelio e San Cipriano di Burano, mentre all’inizio del 1500 le rovine dell’isola erano spesso covo di ladri che venivano sgomberati a forza dai Fanti della Serenissima ... nel 1517 i Quaranta condannarono a 2 anni di carcere e pena pecuniaria “Valerius ingenierus advocatus monachinus” entrato in monastero per incontrare una certa Monaca Filipa ... nel 1544 le Monache del Sant’Ariano litigarono per una questione d’immobili con quelle del Monastero di San Zaccaria di Venezia ... Pochi anni dopo le acque dolci del Sile e di altri fiumi furono fatte sfociare in mare deviandole dalla Laguna di Venezia diventata insalubre ... il Sant’Adriano di Costanziaca con le sue pertinenze di Sant’Angelo di Zampenigo di Torcello si unì e trasferì al Monastero di San Girolamo di Venezia a Cannaregio.


Nel 1565 il Senato della Repubblica eresse il grande ossario con piccola chiesa sulle rovine dell’isola rimasta deserta per raccoglier i resti provenienti dai numerosi cimiteri soppressi che sorgevano spesso intorno alle chiese di Venezia nei così detti Campi ... Non fu una buona idea, perché ancora nel 1612 gli Esecutori alle Acque relazionarono alla Serenissima affermando:


“… si vide il canal di Sant’Arian intestato da una parte con palificata, con una porta sopra et dall’altro capo con grisuole a foggia di valle, nel quale luoco hanno anco fabbricato un cason di legname …”


E anche un secolo dopo i cadaveri erano ancora ammassati alla rinfusa nell’isola e lasciati allo scoperto.

Nell’agosto 1664 si decretò finalmente:


“… cadaveri insepolti siano sotterati, spese vengano supplite da colpevoli che si rileveranno dal processo, sia eretta nel luogo una croce di legno. Sopra piè de stallo in cui venga scolpito un San Marco e le armi de Provveditori … Si portino nel luogo li scopacamini ... Scavino una fossa fonda, in essa ripongano i pezzi de’ cadaveri insepolti ben soterrandoli. Le ossa arride siano stivate. Eseguito lavoro, avvertano Magistrato per essere soddisfatti …”


L’anno dopo il Senato approvò il progetto del Magistrato alla Sanità di costruire un muro di cinta lungo tutto il circuito dell'isola per nascondere i cumuli di molti cadaveri ancora insepolti. Per far questo s’istituì una tassa di 10 ducati ciascuno da far pagare ad ogni Piovano di Contrada, Abate e Badessa di Monasteri, Priori di Conventi e Guardiani di Scuole Grandi.

Per tutto il resto del 1600 e l’inizio del 1700 si obbligò a versare settimanalmente per ogni morto una contribuzione nella cassa di Sant’Ariano per celebrare lì ogni giorno una Messa per tutti quei morti lì raccolti e per le suppellettili della chiesetta.


“… per cadaun morto sepolto con capitolo siano riscossi soldi 32, con mezzo soldi 18 di volta in volta al caso di licenziarli… cassa suddetta per conto capitoli e mezzi capitoli sia saldata di mese in mese da reverendi pievani in pena di ducati 10 da essergli irrimissibilmente levata…”


Nel 1751 si decretò:“… permesso a Confratelli Compagnie, che ogni anno si portano alla visita chiesa suddetta, riparare alla di lei rovine, dilatare anche il recinto. Rimesse nell’uso funzioni sacre et ufficiatura solite Mansionarie …”


Nel 1776 si stipulò un accordo per 10 anni con Giorgio Trapolin e Valentin Valentini per provvedere di “terra da saponeri” e “viva calce” i 4 cimiteri pubblici e per il trasporto delle ossa e ceneri all’isola di Sant’Ariano che nella Podesteria di Torcello era considerata ancora Abbazia secolare con Cappellano Curato a cui erano soggetti i 100 abitanti delle isole di Santa Cristina e della Cura.



Passati secoli nel 1933, nell'isola venivano ancora portate le ossa in esubero del cimitero di San Michele … Nel 1980 si asportò dalla Cappellina dell’ossario un fregio romanico … L’isola venne a lungo frequentata da cercatori d’ossa per le Facoltà di Medicina di Padova con remunerativo ritorno economico ... Infine nel recente 1997, furono restaurati la Cappellina, il muro di cinta, le lapidi, quanto rimane dell’antico ossario e dell’imbarcadero a spese dell’Arciconfraternita di San Cristoforo e della Misericordia di Venezia … mentre tutto quanto è accaduto in quel posto diventa sempre più smunto e cancellato dal tempo.


“STIORERI, SEMOLINI, GALLINERI E BUTTIRANTI … A VENEZIA OVVIAMENTE.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 66.


“STIORERI, SEMOLINI, GALLINERI E BUTTIRANTI … A VENEZIA”


I Veneziani di un tempo di certo non mancavano d’iniziativa e ingegno, e dove non esisteva un mestiere andavano a inventarselo spesso dal niente facendolo diventare piano piano un’Arte riconosciuta e regolata. Una di queste era la curiosissima Arte degli Stioreri che riuniva gli artigiani che fabbricavano: stuoie, cannucci, corde di paglia, sporte, sedie impagliate. Era di certo un’Arte povera, nata dall’idea di “arrangiarsi per sopravivere”.Infatti, andare a raccogliere in laguna e nel fango delle barene canne palustri per poi intrecciarle era considerato un lavoro infimo, faticoso e di poco profitto … In realtà era un’attività con poca spesa viva per procurarsi le materie prime, bastava la disponibilità a vogare e tagliare canne e “scjore” ... L’unica difficoltà eventuale era rappresentata dalle: “… saltuarie schioppettate caricate a sale se per caso entravi a frugare e prendere canne nelle acque dei Canonici o del Vescovo … Ma si metteva nel conto anche quello …”


Gli Stioreri si consociarono in Arte e si riunirono davanti a un loro Altare nella chiesa di San Silvestro a due passi dall’Emporio di Rialto, dove ancora nel 1790 versavano ogni anno: 8 lire ciascuno d’iscrizione.A dire il vero, l’Arte inizialmente si congregava obbligatoriamente l’ultima domenica di ogni mese nella chiesa della Contrada di San Antonìn nel Sestiere di Castello di cui infatti assunse San Saba come Protettore.


Dichiarava il Piovano di San Antonìn nel 1564: “… la casa della residenza antichissima è tutta marza … in una parte della quale è situata la Scola del Santissimo et San Sabba quale son tutte due una Scuola istessa, la qual mi da ducati 4 all’anno con questo carico di tener continuamente una lampada accesa dinanzi San Sabba et di dirgli 2 Messe alla settimana …”


Sembra però che la prima Fraglia degli Stioreri sia nata nel lontano 1399 forse nell’estrema Contrada di Santa Ternita: una delle più povere e periferiche dell’intera Venezia … Nel giugno 1610, l’Arte delle Stuore pagava 700 ducati annui per 10 anni per mantenere la Flotta da Mar della Serenissima … prolungati prudentemente dalla Signoria per altrettanti 10 ... Ancora nel 1634 ogni giovedì gli Stioreri facevano celebrare una Messa Esequiale all’altare di San Saba a Sant’Antonin per tutti i loro Morti.


Nel 1773 a Venezia esistevano ancora 55 persone che praticavano l’Arte dello Stioriere in 43 botteghe, di cui 3 erano Garzoni di almeno 12 anni d’età, e 52 Capimastri. Erano ancora associati in Arte e Scuola con tanto di Gastaldo, Vicario, Scrivano e 10 Decani, per associarsi pagavano una “Benintrada” iniziale di1 ducato, e versavano in seguito 16 Soldi annui più 8 Soldi di Luminaria per pagare le spese delle candele usate nelle Funzioni religiose e nell’accompagnate i Morti durante i Funerali.


Quella degli Stioreri tuttavia non era l’unica Arte-Mestiere povero di Venezia … Ce n’erano diverse altre con caratteristiche e iniziative simili, sempre senza gloria e con poca Storia illustre. Arti da “contadini e campagnoli” dicevano i Veneziani di un tempo, poco Veneziana … ma che in realtà aveva una sua precisa fisionomia e utilità dentro al poliedrico Emporio di Rialto e soprattutto negli equilibri economici e vittuari del sostentamento popolare dell’intera città lagunare.


Ad esempio, oltre agli Sturieri, esisteva anche la Scuola dell’Annunziata dei Gallinài o Gallinèri e Buttirànti o Pollaioli, Pollaròli o Polamèri o artigiani “Venditori di Uova o Ova” che si occupavano anche di procurare oche, cacciagione e ovviamente burro e affini. Anche questa era un’Arte legata non solo alla Terraferma e all’allevamento di bestiame minuto da cortile, ma soprattutto era un’arte collegata a quella di andare a cacciare con l’arco in laguna o nelle valli da pesca. Si usavano barchette leggere dal fondo piatto, oppure si cacciava “uccellando” ossia  stendendo delle reti sugli alberi o sui cespugli.


Un’antica legge Veneziana del 1173 vietava l’acquisto della selvaggina dagli “uccellatori forestieri” per poi rivenderla, anche se la cacciagione proveniente dal Trevigiano non pagava Dazio per entrare in città. L’acquisto e vendita era prerogativa riservata ai Gallinai e Gallinarie di Venezia che poi rivendeva nelle loro botteghe ... dove tuttavia i Gallinacei non potevano essere tenuti al chiuso e al coperto, ma solo sotto a cesti o “Caponarie”obbligatoriamente aperti sui lati …

Già dal 1312, secondo quanto racconta la Promissione Dogale del Doge Giovanni Soranzo, Galineri e Ovetari (venditori di uova) avevano l’obbligo di fornire e omaggiare il Doge con: “… un paio di buone oselle grandi e 30 denari a Natale, una buona gallina a Carnevale, e una buona colomba di pasta farcita con 14 uova a Pasqua ...”

Gallineri e Buttiranti erano considerate un’Arte di Vittuaria.


A Capodistria nel 1347, le galline si compravano a 2 Soldi l’una, i Polli a 1 Soldo e le uova a 1 denaro l’una, mentre fra 1459 e 1464, secondo un listino ufficioso del Mercato di Rialto:

·      Un paio di Colombi costava: Soldi 15, mentre un solo Colombo grosso valeva: Soldi 5.

·      Un paio di “anitrotti”: Soldi 16.

·      Un’anitra domestica o un paio di Anitre da cortile: Soldi 17.

·      Un paio di Polli piccoli ma grassi: Soldi 13.

·      Un’Oca viva e grassa costava Soldi 12, ma morta e spiumata ne costava 13 perché: “… il tempo è sacro”

·      Una Gru morta e grassa valeva: Soldi 16, mentre una Pollastra grassa poteva valere da 7 a 8 Soldi.

·      Un’Anitra selvatica: Soldi 6.

·      Un Cigno magro: Soldi 10, un Gallo selvatico morto: Soldi 1,09, un Faggiano: Soldi 1,06.

·      Un solo Francolino costava: Soldi 18, mentre 6 ottimi Tordi ne valevano 10 di Soldi.

·      Un paio di Quaglie valevano: Soldi 9, mentre un paio di Colombe selvatiche ne valevano: 4, un paio di “Capponelli”: Soldi 17, un paio di ottime Pernici: 19 Soldi, due “Arcaze” grasse: Soldi 10, due Pollastrelle: Soldi 9, un paio di “Gallinacce”: Soldi 12, un paio di Pavoncelli: Soldi 5, un paio di Totani: Soldi 3.

Negli stessi anni, e sempre a Rialto:

·      5 uova costavano: Soldi 2, ma in anni di magra con la stessa cifra potevi portare a casa solo 3. Se tuttavia ne compravi 20 spendevi solo 1 Lira. A fine giornata, poco prima di chiudere bottega … 50 uova potevano valere in tutto: 10 Soldi invece di Soldi 18. L’importante era che fossero uova fresche e non stantie o addirittura secche ossia:“ovis non rezentibus et siccis”, altrimenti il prezzo precipitava in basso.

I controlli della Serenissima erano severi, mentre le multe erano salatissime anche al solo rifiutarsi di aprire la porta per un’ispezione … Tuttavia, i Fanti che si presentavano a controllare si potevano in qualche maniera “addolcire e ammorbidire” … (ieri come oggi).Si raccontava che un Pestrinaio di Santo Stefano fosse furibondo contro i Fanti per le loro “cerche e indagini interessate”, e li avesse minacciati di ferrarli come i suoi cavalli, mentre quelli di rimando gli avrebbero risposto che l’avrebbero volentieri annientato.


Nel giugno 1502 si decretò:“…i venditori di ova o Gallineri non possano vendere cose simili appresso la Pescheria Vecchia in Rialto, permesso soltanto ad uomini e donne forestieri quali capitano alla giornata …” precisando nel novembre di quattro anni dopo che: “… venderigoli e venderigole non possano vendere altre ova che fresche …”


Come per gli Stioreri, quei lavoranti progressivamente si fecero riconoscere come Arte, e si consociarono anch’essi in una loro Scuola d’Arte con sede in San Giovanni Elemosinario proprio nel cuore dell’Emporio Rialtino a pochi passi dall’omonimo Ponte.

Negli ultimi anni del 1500 le Cronache e i documenti cittadini ricordano che i Gallineri:


“… ottennero licenza dal Consejo dei Diese di poter fondare la loro Schola e far Mariegola con un loro: Gastaldo, Aggiunti, Sindici e Scrivano …”, e il Doge Marino Grimani firmò la concessione alla stessa “… dell'uso dell’Altare dell’Annunziata, il primo a "man sanca" entrando in chiesadi San Zuane de Rialto, e dell'arca (tomba) ricavata ai suoi piedi dove poter accompagnare i loro Confratelli Defunti ...” Lì potevano celebrarvi la Festa Patronale il 25 marzo: “... dando in cambio al Dose ogni anno doi para de fasani".


1649 la Giustizia Vechia approvò la decisione assunta dal Capitolo dei Gallineri di contribuire alla spesa per l'acquisto dei damaschi per ornare la chiesa di San Giovanni Elemosinario ... e il 27 novembre 1727: dopo che il Collegio della Milizia da Mar aveva suggerito per incrementare il gettito fiscale di dividere le due Arti, un decreto dell’Eccellentissimo Senato di Venezia rilasciato in Pregadi a Palazzo Ducale confermò l’unione delle due Professioni che componevano l’Arte de Galineri e Butiranti. Non si voleva provocare un incremento dei prezzi di quei generi di largo consumo in città soprattutto da parte della porzione più povera dei Veneziani.


“Sopra il zelante suggerimento del Collegio della Milizia da Mar per coglier qualche profito nella rinnovazione della Tansa Insensibile sopra l’Arte de Galineri col separar questi dalli Mercanti e Venditori di Ovi e Buttiri, si sono intese le informazioni de Magistrati e Proveditori alla Giustizia Vecchia e Giustizieri Vecchi. Da quanto però resta in esse esposto, come non trova la Prudenza Pubblica motivo d’alterar ciò che anticamente fu stabilito dal Colleggio dell’Arti e da tanti giudizi dell’unione di quelle due Professioni, ma bensì di confermarla. Ben certo poi questo Consiglio che il Collegio della Milizia da Mar nell’incontro d’esaminare la Ritansa all’Arte stessa si regolerà bensì col riflesso al Pubblico interesse, ma col riguardo insieme alle forze della mederna, onde con un maggior aggravio non venga ad alterarsi l’abbondanza nella Città di tal specie di Vittuaria …”


Nel luglio 1752 il sodalizio venne abolito a causa di una sfacciata e scandalosa speculazione dei prezzi di vendita sul mercato da parte dei Confratelli Gallineri, ma fu riattivato subito nel maggio seguente dichiarandolo: “… Arte aperta a tutti ...”, ossia si liberalizzò l’offerta e la vendita in città di quel genere di prodotti da parte di chiunque.


Nel 1773 i Gallineri-Polameri e Butiranti sparsi per Venezia si contavano in 308, con 27 Garzoni, 86 Lavoranti e 195 Capimastri attivi in ben 198 botteghe che erano a volte dei negozietti graziosi e lindi, e altre, invece, botteguzze scure o poco più dei sottoscala bassi, bui e odorosi e luridi
Sul finire della Serenissima, gli iscritti all’Arte erano diventati perfino: 446, e tenevano il proprio Capitolo Generale annuale nei locali della Schola dei Oresi di Rialto, versando un contributo per l'uso e un piccolo compenso al Masser dei Oresi per "assettar il luogo" ... Dal “Libro cassa”dell’Arte si evince che pagavano tutti regolarmente la loro Benintrada” d’iscrizione, e una “Luminaria”annuale dilire 4 ciascuno ... Nella Festa Patronale annuale dell'Annunciazione ciascun Confratelli riceveva "pan et butiro" invece che il tradizionale "pan et candela"usato dalle altre arti cittadine … e al posto dell’antico omaggio annuale al Doge di due paia di fagiani gli versavano la più comoda e utilizzabile somma di 99 lire e 4 soldi.


Non pensate in ogni caso che quelle antiche Associazioni popolari siano state accozzaglie di lavoranti cenciosi e morti di fame. Recenti documenti scovati all’Archivio di Stato raccontano che anche i Buttiranti e Gallineri erano stati devoti e generosi. Alla fine della Storia della Repubblica erano stati in grado di trarre dal loro “Scrigno” e di fornire per le esigenze della declinante Serenissima (stava ormai iniziando il saccheggio Francese) un lingotto d’argento del peso di 346 once proveniente dalla fusione dei beni che i Confratelli della Scuola avevano offerto all’altare della Madonna di Pietà Annunziata della chiesa di San Giovanni Elemosinario e dai rivestimenti d’argento con cui avevano coperto il Libro della loro Mariegola.


Ancora nel 1825 si usava vendere cacciagione a “màzzo”o a “mazzòn”nelle botteghe di Venezia ma anche per le strade. Un insieme, un solo “màzzo” comprendeva:
  • 2 Masorini o Anare.
  • 1 Oca granda selvatica.
  • 1 Oca Faraonsina o Granaiola.
  • 1 Sarsegna o Alzavola.
  • 2 Chersi o Valpoca.
  • 2 Bajanti o Strolaghe (giudicati dalla carne infima e troppo amarognola, ma messi insieme per far numero).
  •  2 Serolòn o Smergo Maggiore.
  • 3 Cavriole o Svasso Maggiore.
  • 3 Sèrole o Smergo Minore.
  • 3 Asià o Codone.
  • 3 Arcàse o Chiurlo Maggiore.
  • 3 Ciossi o Fischioni.
  • 4 Campanèle o Quattrocchi femmina.
  • 3 Campanàti o Quattrocchi maschi.
  • 3 Monàri o Moriglioni.
  •  3 Penacini o Moretta o Magassetto Penacin.
  • 3 Magassi o Moretta Tabaccata.
  •  3 Pignòle o Canapiglie.
  •  4 Fòfani o Mestoloni.
  • 4 Morèti o Moretta o Orcheto Marìn.
  • 4 Magassèti o Gobbo Rugginoso o Magassetti foresti o Moretta Codona.
  • Da 4 a 6 Fòlaghe se erano troppo magre.
  • 3 Garzi o Aironi Bianchi, Cinerini o Rossi.
  • 3 Torobusi o Tarabusi.
  • Da 4 a 6 Pissagù o Anzolèti o Muneghette grosse o piccole ossia Pescaiole femmina.
  • 6 Sarsègne o Alzavole.
  • 6 Crècole o Marzaiole.
  • 6 Barùsole o Pivieresse.
  • 6 Paònsine o Pavoncelle.
  • 8 Sgambirli o Cavalieri d’Italia.
  • 12 Totani o Pettegole.
  • 24 Bisignini o Piro-Piro o Piovanelli.


Non c’è che dire ! Una vera e propria intera cacciagione per ogni “mazzo”. Erano in molti a recarsi "in Valle", soprattutto Nobili, per divertirsi a sparare e cacciare. Pagavano profumatamente per quelle prede e per gli accompagnatori che li seguivano nelle “battute”, e facevano a gara a chi ne abbatteva di più … cercando il record sensazionale.


Tornando alle “Arti povere”… Non è tutto ... Poco distante, proprio sui primi gradini del Ponte, in San Giacometto di Rialto esisteva la già più rinomata e considerata Scuola degli Scalchi ossia degli aiutocuochi e egli interni di Cucina, così come nella stessa chiesa di San Zuanne di Rialto si riuniva anche la Scuola della Beata Vergine del Carmine dei Biavaroli, e la Scuola della Natività di Maria dei Semolini e Cruscaroli che raccoglievano e vendevano crusca per Venezia, soprattutto  presso un Fonteghetto de la Farina che si trovava inizialmente in Contrada di San Fantin, distribuendola e vendendola ovunque  fino in Terraferma. 

Ancora nel 1797 i Semolini iscritti all’Arte erano 41, con un loro giovane Garzone-Apprendista e 40 Capimastri. In quegli anni a Venezia era considerata un’Arte ormai inutile, posta sugli ultimi gradini dei Mestieri di Meccanismo, ormai aperta a libero mercato e destinata a sciogliersi e sopprimersi per sempre.



Ci sarebbero ancora tante altre cose curiose da ricordare, potremmo continuare ancora molto … ma le righe scritte per oggi sono ormai tante … Venezia è come sempre un pozzo senza fondo …


“UN INSEGUIMENTO NOTTURNO IN LAGUNA …. NEL 1150 !”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 67.


“UN INSEGUIMENTO NOTTURNO IN LAGUNA … NEL 1150 !”


Potrebbe sembrare una di quelle scene da film triller … Una di quelle adrenaliniche che ti tengono col fiato sospeso inchiodato sulla poltrona o sul divano ... nella speranza che si concluda presto e possibilmente felicemente. Si potrebbe immaginarla tale, se non fosse che è il fatto è accaduto troppo tempo fa: nel 1150 circa anno più anno meno, cambia poco. 
Il set della scena rocambolesca è la Laguna Nord di Venezia … Sì proprio la nostra solita e familiare laguna a cui siamo molto affezionati. Era però una laguna bel diversa da come la possiamo vedere oggi, seppure il posto è sempre più o meno lo stesso.

Recandoci oggi “sul luogo del delitto” vedremmo ben poco, anzi, niente. Proprio niente, perché ci troveremmo di fronte solamente a un’ampia distesa d’acqua solitaria interrotta solo da barene grondanti, ghebbi e canalicoli tortuosi a volte quasi in secca o gonfiati dalla marea montante. Avremmo di fronte un luogo di silenzi e solitudini in cui sembra che il tempo si sia fermato e non accada mai nulla se non l’alternarsi delle stagioni, della luce e dei colori. Vedremmo il posto spazzato dalla pioggia e dal vento gelido dell’inverno, coperto di brina e erbe secche, così come lo vedremmo coperto da peluria fresca e nuova in primavera, da un tappeto soffice sorvolato da migliaia d’insetti d'estate, e da una girandola di tonalità cangianti e calde quando tornerà l’autunno.

Dico lo vedremmo, perché è un posto in cui non passa quasi mai nessuno, se non i lancioni traboccanti di turisti nella stagione estiva, qualche raro pescatore occasionale, e qualche ancor più raro amante degli spazi aperti e della laguna vivida e misteriosa capace di vedere anche quello che non c’è più.


Un tempo non era così, come potete immaginare … perché serve un po’ di fantasia per ricostruire i fatti. L'epoca è poi parecchio lontana, perché il 1150 non si trova proprio dietro l’angolo. Ebbene, tutto accadde in una notte.


Non so dirvi se era una notte chiara di luna piena o una notte oscura di buio pesto. So di certo che in laguna a quell’epoca non esisteva tutta l’illuminazione di oggi, i canali segnati dalle bricole illuminate con i catarifrangenti, tantomeno c'era la segnaletica attuale … Diciamo che i luoghi erano di certo più selvaggi, aperti e naturali, conosciuti bene solo da chi era avezzo a frequentarli spesso o ogni giorno.


E chi c’era ?


C’erano i protagonisti del fatto in questione, ossia da una parte alcuni Veneziani residenti proprio nelle mie Contrade in cui abito oggi a Venezia. Erano pescatori del Sestiere di Dorsoduro che avevano deciso di spingersi di notte, non credo per avventura ma probabilmente per necessità, fin nelle acque peschive che si trovavano dietro l’isola di Torcello. In quei secoli penso che la laguna fosse itticamente più fornita di oggi, e che una battuta di pesca notturna potesse anche essere fruttuosa, capace di provvedere al sostentamento di più famiglie, o capace d'indurti a presentarti all’alba al Mercato e Pescheria del nascente Emporio di Rialto o in Piazza San Marco per vendere e ricavare qualcosa. 
Le acque lagunari in quegli anni avevano di certo un valore molto diverso e superiore rispetto a quello odierno. Non erano aperte e di tutti come oggi, appartenevano quasi sempre a qualcuno, e venivano date molto spesso in concessione sia per pescare e cacciare, che per collocare molendini (mulini) ad acqua, e si pagava spesso anche solo per accedervi o transitare ... perché di proprietà privata si trattava. L’acqua lagunare in quanto tale era quindi un patrimonio da difendere e sfruttare. E chi al pari e più di altri poteva esserne padrone e acuto usufruttuario e amministratore ? 
I Monasteri e le Pievi ovviamente ... come i Nobili. Quegli spazi della laguna di Venezia in quelle epoche remote, infatti, erano punteggiati da costruzioni e piccoli conventi oggi totalmente scomparsi. Non grandi architetture di Monasteri e chiese sontuose, ma piccole realtà funzionali che però godevano di autorità e molti privilegi, e soprattutto di grandi rendite e possedimenti sparsi ben oltre la stessa laguna.


Sappiate bene che a volte certi Conventicoli e filiazioni di Monasteri e Pievi inizialmente contenevano solo un paio di Monache o poco più. Se poi le cose andavano bene le comunità si allargavano accogliendo novizie e converse, oppure si chiudeva tutto e si lasciavano le pietre e i ruderi tornando alla “Casa Madre” (rendite comprese) da cui si era inizialmente partiti. 
Per concretezza, basti sapere che nelle isole scomparse di Ammiana e Costanziaca, proprio accanto a Torcello, esisteva una cinquina ciascuna di queste chiesupole e conventini posti proprio a due passi l’uno dall’altro.  Nell’insieme saranno stati almeno una dozzina sparsi in quelle acque stagnanti al confine col paludoso. Oggi ci rimangono i nomi e un pugno di pergamene a ricordarci il tanto che è accaduto e si è vissuto in quegli anni lontanissimi.

Tornando ai pescatori Veneziani, per giungere a pescare in quei luoghi avranno dovuto vogare bellamente per almeno un paio d’ore a partire da dove abitavano. Il posto non si trovava proprio a due vogate dietro casa … E arrivati lì i nostri concittadini si sono messi alacremente a pescare utilizzando luci e lanterne per attirare e accalappiare il pesce. Avranno forse anche gridato, picchiato l’acqua o fatto inavvertitamente un po’ di casino … forse chiacchierato e anche riso e cantato dopo un buon bichierozzo di vino, questo non lo so. Sta di fatto che hanno immediatamente attirato l’attenzione di una di quelle persone diciamo un po’ energiche e decise che aveva il compito di sorvegliare la zona.

Me lo immagino questo personaggio, che si chiamava: Mastro Giovanni Leòn, il “Guardiano delle acque delle Monache”. Doveva essere un uomo determinato di carattere, muscoloso, biscottato dal sole e buon conoscitore dei posti. Sapete quelle persone che “dormono con un occhio solo”, e drizzano le antenne appena sentono un fruscio, uno sciabordio strano, o un rumore diverso dal solito. Ebbene era lui il concessionario della palude da parte della Monache e della Pieve di San Lorenzo di Ammiana che erano “i padroni” di tutto quel posto. 
Come vi dicevo prima, la gestione e lo sfruttamento delle acque in quegli anni era considerata una cosa seria, anzi serissima, per cui quelle paludi erano un “bene” e in quanto tale andavano salvaguardate e protette da intrusioni di eventuali ladri. E Mastro Leòn era lì proprio per questo.


Non se lo fece ripetere due volte, e appena avvertì la presenza degli intrusi estranei, si mise immediatamente in movimento. Pur essendo nel cuore della notte il Mastro non s’accontentò d’intimare “l’alt” al pescaggio abusivo, nè di mettere in fuga i pescatori, ma si mise al loro inseguimento per recuperare il pescato proibito, e addirittura per catturarli.


Immaginatevi i movimenti e la scena ... Di notte e in laguna, a remi, col buio ... I Veneziani di Dorsoduro ovviamente fuggirono sperando di farla franca e di mettere fra loro e il Mastro quanta più acqua fosse possibile. Ma non sapevano minimamente con quale “osso duro” avevano a che fare, perché nonostante loro fossero più di uno, quello non mollava d’inseguirli vogando, e anzi, man mano che scappavano si avvicina a loro sempre di più. Immaginate anche le barchette leggere, i muscoli tesi allo spasimo sui remi col ripetersi del ritmico movimento della voga, i vogatori sudati e paurosi da una parte e arrabbiati dall’altra. 

Scapparono per diversi chilometri … Avranno vogato in fuga almeno per un’ora, e sarà stata la scarsa conoscenza dei posti o forse la minor capacità di resistenza e di voga, o forse la barca più pesante, o l’incagliamento in qualche secca ... sta di fatto che Mastro Leòn li raggiunse e li acciuffò nei pressi di Lio Mazòr, sul bordo della Terraferma costiera, dove forse avrebbero potuto fuggire del tutto, nascondersi e mettersi in salvo.


E non finì lì, perché il Mastro non si accontentò di catturarli e strapazzarli a dovere, ma una volta raggiuntili, recuperò tutto il pescato, sfasciò la loro barca affondandola, e distrusse anche tutte le loro attrezzature per la pesca. Una furia ! … uno scagnozzo !

Doveva essere chiaro a chiunque che nessuno impunemente si doveva permettere di mettere mano sulle cose delle Monache. Vistolo all’opera, non ci doveva essere stato alcun dubbio.


La storia si concluse il mattino dopo, quando il Mastro ancora mezzo inviperito condusse i malcapitati Veneziani davanti ai “maggiorenti di Ammiana”, i proprietari delle acque, e probabilmente di fronte a una qualche Monaca Badessa del posto. I poveri pescatori malconci oltre a profondersi in doverose scuse, dovettero promettere solennemente che mai e poi mai più si sarebbero permessi di mettere piede, ovverossia barca e remo e tantomeno reti, nelle acque delle Monache.


Me li immagino tornare a casa pesti e “a bocca asciutta”, ma anche tremolanti e forse risollevati per lo scampato pericolo. Poteva andare loro peggio se quell’energumeno delle Monache si fosse scatenato ancor di più, e se la Badessa non fosse stata tutto compreso clemente con loro. Di certo avranno considerato attentamente di non tornare più a pescare da quelle parti.


Detto questo, un pensiero lo voglio fare anche sull’ipotetica figura della Badessa. Me la voglio immaginare un poco di rimbalzo a quanto le carte antiche raccontano e fanno solo vagamente intuire.

Se si serviva di “tipini”del genere per salvaguardare le proprie cose, doveva essere una donna altrettanto determinata e con un certo carattere, di certo poco remissiva e accondiscendente. Me la immagino: autoritaria, impettita nel suo abito da monaca, seriosa e austera, allampanata e forse rinsecchita dagli anni e dalla pratica dei rigori della regola monacale. Ma poteva anche essere, viceversa, cicciotta e ben in carne … perché di certo le Monache benestanti e Nobili a quell’epoca non si facevano mancare nulla. Grassa o magra che fosse, di certo era una donna molto attiva e di cultura, perché sempre leggendo le vecchie carte emergono delle sorprese inimmaginabili sulla sua figura.

Pensavo ingenuamente che quelle antiche Badesse fossero donne tranquille e ritirate, che rimanevano a vivere quasi come eremite in quelle isolette sperdute in fondo alla Laguna. Credevo che quelle donne: Hengelmote, Agnese, Berta, Maddalena e tante altre fossero donne placide, un po' 
qualsiasi.


Macchè ! Erano l’opposto. Sempre in movimento, in viaggio e a caccia di affari, incontri e novità. Pensate che sbirciando alcune vecchie carte, si può trovare la stessa Badessa intenta a firmare di suo pugno documenti di compravendita, affitti, lasciti e permute un giorno nella sua isola in laguna, un giorno dopo a Venezia stessa, quello seguente a Padova, quello dopo a Treviso e nello stesso giorno in altri villaggi sparsi nella Marca Trevigiana, fino a ritrovarla alcuni giorni dopo sempre intenta a prendere possesso d’altri beni su nella Vallonga del Trentino nei pressi di Bolzano dove venne accolta con grande festa e riverenza.


Altro che eremita !


E tutto quello che non riusciva a fare di persona, la nostra Badessa se lo faceva fare da tutto uno stuolo di Procuratori, Fattori, Notai e rappresentanti del Monastero che percorrevano a tappeto le zone del Veneto e oltre con lo scopo di difendere, controllare e favorire le rendite, le decime, i censi, le contribuzioni in denaro e natura esigibili dal “buon nome” dell’Istituzione Monastica. 

Erano potenti le Monache lagunari ! … alle quali non mancava quindi nulla. Sempre le stesse “antiche carte” raccontano che i contadini e i censuari delle Monache erano soliti provvedere a trasportare fino a Strà le cose per le Monache, e da lì, caricate primizie e altri beni in barca, prendevano la via del fiume fino a sfociare in Laguna per poi raggiungere il Monastero delle Monache dove portare “il dovuto”.

Oltre a questo, sempre le solite “vecchie carte” raccontano anche di liti furibonde fra Piovani, Preti, Monache e Monaci per il possesso, il controllo e lo sfruttamento di quelle acqua lacustri. C’era chi si prendeva avanti e imponeva censi e decime personali ai contadini e pescatori su proprietà che non erano neanche sue. C’erano soprusi, imbrogli, sottrazioni … e chi spostava i confini, abbatteva o innalzava sbarramenti, argini, muretti e “palate” per garantirsi questo o quell’introito. C’erano lasciti, testamenti, beneficenze, donazioni politiche lungimiranti con lo scopo di tutelare o essere a proprio volta considerati e riconosciuti … C’erano processi e vertenze che si trascinavano per decenni con risarcimenti, confische, proibizioni, multe e interventi della Serenissima a cui toccava far da paciere o di rimettere in sesto le cose… o prendersene una parte (con falso dispiacere). C’era anche chi s’arrabbiava, perdeva il controllo e menava la lingua e poi anche le mani … Dove oggi non c’è più nulla, esisteva quindi un microcosmo vivissimo ... e talvolta turbolento, ma condito anche di gentilezza e di preghiere.


Dico questo perchè c’è da considerare che la Badessa doveva essere anche una donna di cultura. Era molto interessata ai libri che in quell’epoca priva di internet, video e multimedialità, erano l’unica fonte preziosa del Sapere ... che pochi potevano concedersi. Pensate che in una certa occasione una delle nostre Badesse si è perfino fatta pagare un censo o una compravendita direttamente non in soldi ma in libri. Che donna !


Altri tempi fascinosi … di certo lontanissimo, sicuramente curiosi ... 

Attenti quindi ! ... Se vi verrà per caso voglia di recarvi in giro per la Laguna di Venezia per intrattenervi in un’amena battuta di caccia o pesca in acque aperte e sconosciute, tenete gli occhi bene aperti … perché da un momento all’altro potrebbe spuntare fuori da dietro un fascio di canne palustri il volto “spiritato” del Mastro Giovanni Leòn dei giorni nostri … pronto ad inseguirvi ed esigere da voi “quanto gli spetta” ... con la sua "poco garbata" maniera.


“UN “VISPO CASOTTO GRANDO” … A SAN MATTIO DI RIALTO.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 68.


“UN “VISPO CASOTTO GRANDO” … A SAN MATTIO DI RIALTO.”


Vi sfido da bravi Veneziani curiosi e affezionati cronici alla storia illustre e senza fine di queste “nobili isole”, a indicarmi subito con precisione dove sorgeva la chiesupola di San Mattio di Rialto … che oggi non esiste più.

Una chiesa in più o una in meno a Venezia … poco cambia, ce ne sono così tante. Però San Mattio era una delle Contrade che caratterizzavano il coloratissimo e vivissimo Emporio Realtino, perché si trovava proprio a ridosso, a pochi passi dal famoso Ponte. La Contrada-Confinio di San Mattio era famosa e ben conosciuta dai Veneziani perché era zona popolarissima, piena di locande, botteghe, e frequentatissima da mercanti, forestieri, giocatori, ciarlatani, affaristi, religiosi, “donne dell’antica professione”, e da tutti quei lavoranti e artigiani che possono saturare un mercato attivo come quello di Rialto in tutto simile ad un operoso alveare.

Venezia è sempre Venezia, e San Mattio si trovava proprio nel suo cuore pulsante ... e mai spento per secoli.


Era il 15 settembre 1429 … (non s’era ancora scoperta l’America) quando le Monache dell’isoletta di Sant’Adriano di Costanziaco che stava dietro a quella ben più illustre di Torcello, decisero d’incrementare le rendite provenienti dai loro possedimenti siti in Venezia. Era accaduto che la Serenissima s’era incamerata la gestione nonché gli introiti delle acque pescose adiacenti all’isola delle Monache rendendole pubbliche, perciò tassabili in esclusiva dallo Stato. Le Monache ne derivarono una perdita non indifferente, perché di colpo persero una fornitura annuale di ben 550 cefali che veniva loro donata dai pescatori lagunari affittuali il giorno della festa di San Michele ... e molto altro. Poco male … Le Monache non si scomposero più di tanto, visto che possedevano altre piscine d’acque, botteghe, case ed edifici vari sparsi in tutta Venezia per le Contrade di Santa Margherita, Santa Maria Formosa, Santa Maria Nuova, San Samuele, San Luca e soprattutto a San Zuanne e San Maffio o Mattio di Rialto.


Niente male vero ?


Non bastasse, le austere e poverissime Monachelle avevano anche altre proprietà e rendite situate fuori Venezia. Possedevano, ad esempio, delle proprietà fondiarie nella Terraferma di Treviso, 8 appezzamenti di terreno con 120 campi a Casale ... Non erano quindi così indigenti e sprovviste di mezzi, ma sapete com’è: “… gli affari sono affari … e da cosa nasce cosa … e bisogna fare di necessità virtù …”

Per di più il Monastero in isola aveva di recente subito un grave incendio, per sopperire ai danni del quale le Monache acquistarono il legname di un intero bosco. Ma tornando alla Contrada di San Mattio di Rialto, le Monache diedero lo sfratto esecutivo agli affittuali ed inquilini delle casupole e dei magazzini di Rialto, la maggior parte dei quali erano: “… meretrici et genti infami da cui esse monache non cavan utile alcuno …” per affidare le proprietà ad artigiani e commercianti più abbienti e danarosi… quindi più redditizi.


Immaginatevi quindi il gran subbuglio e l’immane “casino” e confusione che accaddero in quei giorni nella Contrada quando i Fanti della Serenissima e gli uomini delle Monache spinsero sbrigativamente e malamente in strada quelle “buone donne” con tutto il loro “circondario” di figli, amiche, protettori, vecchie carampane e mezzane varie.

Rialto divenne per qualche giorno un gran circone, una bagarre, una confusione superiore al solito con tutto un trasportare avanti e indietro di masserizie, barche, animali, bimbi e stracci. C’erano donne arrabbiate che urlavano, bambini che piangevano, donnacce consumate che sbraitavano, insultavano e qualche volta menavano anche le mani oltre alla solita linguaccia esperta. Ma poco tempo dopo tutto ritornò tranquillo … arrivarono i nuovi, e riprese la normale vita formicolante del mercato Veneziano di tutti i giorni. Venezia era sempre la stessa … assimilava tutto e tutti … spalancava sempre la porta a gente nuova e diversa, arricchendo soprattutto se stessa di nuove situazioni e identità cangianti.


A dire il vero, nella Contrada di san Mattio non era cambiato nulla, perché a Venezia quel che esce da una porta può rientrare prontamente da una finestra e viceversa. Certe presenze in città non vennero mai spazzate via del tutto durante i secoli. Si spostavano di un poco per riapparire intatte poco più in là, magari solo a un ponte e due Calli di distanza. La Contrada di San Mattio rimase quindi la stessa, con le sue numerose Locande zeppe di stranieri e mercanti e tutto il resto … Se ne contavano più di trenta fra Locande ed Osterie distribuite in poche centinaia di metri … Alcune erano antiche, altre nuove … alcune di prestigio, altre malfamate come tuguri di poco conto.

Chiunque Veneziano o no … aveva l’imbarazzo della scelta su tante cose.


Nel Confinio di San Mattio dentro al cuore del popolarissimo Sestiere di San Polo, era iniziato tutto circa nel lontanissimo 1156. In quell’anno il Nobile Patrizio Leonardo Corner donò “Per devozione verso Dio e come rimedio per la sua Anima e quella dei suoi familiari” un terreno di 70 metri per 45 sito in “capite Rivoalti” a Enrico Dandolo Patriarca di Grado per costruirvi sopra una chiesa dedicata a San Mattio Apostolo. E così accadde. Con l’aiuto economico degli abitanti della neonata Contrada e anche della Nobile Famiglia dei Gussoni ivi residente, fu realizzato quel desiderio e vi si introdussero dei Preti scelti dallo stesso Patriarca costruendo per loro una casa apposita grazie ad un’altra donazione di Sidiana Sanudo.


Ma quello che contava di più a Venezia era che in quella zona del mercato fervessero gli affari. E accadevano per davvero … Solo per farvi un idea, nel marzo 1224 Antolino Lugnano del Confinio di San Mattio presentò una fidejussione per Petrarca de Cumana che acquistò 3 miliaria di olio da trasportare a Como, mentre Filippo Mancavillano della stessa Contrada ne presentò delle altre per Vicentio de Cremona che acquistò 5 miliaria di fichi diretti alla sua città, e per Johannes Bellus che acquistò 1/2 miliario di formaggio da spedire nella sua Mantova.


Come dicevo poco fa, dove c’erano presenze di mercanti e d’affari sorgevano ovviamente anche servizi e locande per ospitarli e farli “divertire e star bene” in diversi modi.

Nel settembre del 1342 il Maggior Consiglio condonò a Corozato Oste da Modena attivo in contrada di San Mattio la pena di 3 lire inflittagli dai Giustizieri Nuovi perché avevano trovato durante un’ispezione nella sua Osteria una piccola quantità di pane non autorizzato ... ridusse a 100 soldi la pena di 30 lire imposta a Bilantelmo Oste “Alla Serpa” per aver alloggiato nella propria osteria 3 meretrici ... graziò Gerardo Faurino conduttore dell’Osteria alla Stoppa multato in 25 lire di piccoli per aver contravvenuto alle norme di chiusura, ma ridusse e declassò l’Osteria a semplice taverna dandola in gestione all’Oste Gunido … Lo stesso Maggior Consiglio ridusse a 40 soldi di piccoli la condanna di 10 lire impartita sempre dai Giustizieri Nuovi a Rosso Bon Oste in San Mattio di Rialto, per aver tenuto nella propria Osteria 28 letti invece di 30 ... autorizzò Giovanni Sacharola a condurre in San Mattio una taverna con apposita sala da ballo e 8 letti ... graziò Antonio Pisani conduttore dell’ “Osteria Al Gallo” multato per aver contravvenuto alle norme dei posti letto … ridusse a 8 lire la pena di 20 lire di piccoli inferta ad Anastasia Ostessadell’ “Osteria alla Zucca” in Rialto, multata per aver ospitato nella sua osteria due meretrici … concesse a Giovanni della Pigagnola di gestire la Caneva di Rialto momentaneamente vacante denominata “La Colonna”, famosa per essere presente nella lista dei più antichi “Lupanari di Rialto” al pari dell’ “Osteria alla Corona”…ridusse anche della metà la multa di 25 lire di piccoli inflitta a Guglielmo conduttore dell’“Osteria Al Sarasìn” per aver trasgredito agli ordini di chiusura. L’Osteria apparteneva ai Nobili di Ca’ Soranzo e fu gestita in seguito prima da Giovanni Boneto e poi da un certo Gambarla ... “L’Osteria del Bò o Bue” era retta da Rolandino nel 1372, ed era una delle Osterie segnalate nei tempi antichi e poi chiuse. Con “l’Osteria del Melòn”, “il Sarasìn” e “l’Anzolo” era uno dei luoghi di Rialto fuori dei quali sostavano le meretrici durante tutto il giorno a caccia di clienti.


Nel 1379 erano pochi i Nobili rimasti ad abitare in Contrada di San Mattio. C’era soprattutto Sjor Maffio Minio che regalò alla Serenissima 15.000 ducati al tempo della Guerra contro i Genovesi.


Fra 1436 e 1456, Papa Eugenio IV concesse lo Juspatronato sulla chiesa e la facoltà di poterne eleggere i Piovani all’Arte dei Macellai-Beccheri di Venezia che avevano da sempre provveduto al sostentamento e manutenzione dell’edificio e dei Preti di San Mattio. Fino ad allora il controllo economico della chiesa era stato in mano alla famiglia Querini di Ca’ Mazor che possedeva molti investimenti nella zona di Rialto.


Le cronache del stesso 1440 continuano a raccontare della presenza di ben 9 Locande di prestigio nella zona di Rialto … fra quelle c’era la Locanda “Al Pavone” frequentata da intellettuali e uomini di rango … Era del 1460, invece, la legge che invitava tutte le meretrici della zona di Rialto a concentrarsi nella “ruga di case” di proprietà di Priamo Malipiero in Contrada di San Mattio presso “l’Osteria del Bò o Bue” ... Nel 1514 Dionisio Malipiero, suo discendente, controllava “l’Osteria del Bò” e altre Osterie fra cui: “Al Gambero”, “Alla Croce”, “Alle Tre Spade”, “Al Sarasìn”, “Al Melòn”, “All’Angelo”, “Alla Stella” e forse anche altre gestendo un complesso e articolato quanto fruttuoso giro di ospitalità e prostituzione tollerato dalla Serenissima.


Giunto il 7 marzo 1478, con sentenza contumaciale si bandirono e condannarono a morire sulle forche in “Campo delle Beccarie a Rialto” qualora fossero stati rinvenuti in Venezia e nello Stato: Francesco Pincarella, Giovanni Gallina e Giacomo ab Azalibus “mezzani d'amore”, che ferirono “…cum uno gladio panesco” certi Fioravante e Girolamo da Brescia mentre con altri amici e conoscenti stavano giuocando a carte “ … nell’Hospitio Gambari in Rivoalto”derubandoli di tutto il denaro posto sul tavolo ... Il diarista Garzoni in quegli stessi anni argomentò: “il gestore del Gambero in Rialto … è un ladro, mentre quello dell’Angelo è un vero diavolo …”


Nel 1488, Carlo de Zuane era Hosto dell’antichissima “Osteria all'insegna delle Tre Spade” sul rio delle Beccarie a San Mattio di Rialto ai piedi di un ponticello in legno. Carlo era anche Gastaldo della Confraternita degli Osti di Venezia solita a radunarsi in quegli anni proprio nella chiesetta di San Mattio prima di trasferirsi in quella della vicina San Cassiano. L’osteria aveva anche due botteghe sottoposte, apparteneva alla Nobile Famiglia Foscari, e all’inizio del 1500 fu affittata a un certo Oste Battista ... che il solito diarista Garzoni definì: “… un Briareo che non perdona mai ad alcuno …”


Nei primi anni del 1500 quando in Contrada vivevano 370 Veneziani, scoppiò un violento incendio nella vicina “Locanda-Osteria del Bò” intaccando anche la chiesa che dovette essere parecchio revisionata. Alla fine dei restauri tutta la gente della Contrada e del mercato di Rialto assieme ai Piovani di San Mattio, San Zuanne di Rialto e San Giacometto portarono in processione la Santa Reliquia di San Liberio:“… per impetrare dalla Divinità Celeste: Misericordia e Liberazione da ogni male e calamità ...” Nella zona si censirono 166 unità funzionali di cui solo il 15% erano abitazioni. San Mattio era proprio area ricettiva e di mercato, lì sorgeva, infatti, la Fruttariae la Casariapiene di scambi, prodotti di prima necessità per l’intera vita cittadina.


Nella primavera del 1546, sempre in San Mattio di Rialto “nell’Osteria in volta alla Corona”,fece testamento il pittore Lorenzo Lotto che però fu seppellito ai Santi Giovanni e Paolo dove aveva dipinto la famosa pala dei “Poveri di Sant’Antonino”. Una trentina circa d’anni dopo, il Patriarca di Venezia Trevisan si arrabbiò non poco. Si sfogò ordinando di non concedere più benefici a chi avesse abiurato al Protestantesimo, e intimò ai Piovani eletti di prendere immediatamente possesso e residenza nelle chiese loro affidate altrimenti avrebbe provveduto lui a rimuoverli immediatamente collocandone degli altri. Sempre nello stesso anno proibì ai Preti sotto pena di 10 ducati di multa, di tenere aperte le chiese oltre i “Secondi Vespri” del giorno, e cacciò e bandì alcuni Preti da alcune chiese perché considerati indegni. Fra questi, fece dimettere immediatamente Don Ermete De Bonis Piovano di San Mattio di Rialto perché trovato all’esame incapace di leggere e spiegare il Catechismo Romano e soprattutto di comprendere le lezioni del Breviario su cui affermava di pregare, e le parole del Messale con cui celebrava numerose Messe.


Nell’agosto di dieci anni dopo si descrisse così la chiesa di San Mattio di Rialto: “… piccola chiesa piena di buone e sante Reliquie … ben costruita a tre navate e cinque altari, con tetto decorato e pavimento in pietra solida, squadrata … Conservava dentro pitture di Girolamo da Santacroce e Alvise del Friso … una sacrestia piccola, ma sufficiente ad un unico sacerdote, un piccolo cimitero che non può essere chiuso per non ostacolarne l’accesso … una torre campanaria con le sue campane … una buona chiesa insomma ... vicina al Campo delle Beccarie dove i Macellai espongono il loro Gonfalone con l’Apostolo San Mattio dipinto da Pietro Negri …”


Come tutte le chiese veneziane anche San Mattio ospitava diverse Scuole o Fraglie di Mestiere, Arti e Devozione. Oltre alla Fraglia di San Michele dei Beccheri erano lì presenti e si congregavano i Pestrineri, gli Stagneri, i Caneveri, i Pistori, gli Spezieri da Grosso, i Cartoleri e i Libreri da carta bianca e da conti … così come c’erano i Congregati della Scuola del Rosario, del Crocefisso dei Morti e del Santissimo.


Nei Necrologi del Magistrato alla Sanità del 12 ottobre 1619, si annotava: “… Nel Ramo e Calle Ochialera di Rialto, strade sottoposte alla Parrocchia di San Mattio, è morto da variole dopo malattia di 10 giorni Battista fiol de Zuane per l’appunto ochialèr di mestiere …”


Viceversa, nel 1661 in Ruga degli Spezieri a Rialto dove terminava la Calle del Bò proveniente da San Mattio,sorgeva la bottega con la figura di un bue inciso sugli stipiti di Giovanni Maria Laghi “Specier da confetture all’insegna del Bò d'Oro”.


Saltando in avanti nel tempo … Correva l’anno 1714 quando Francesco Massarini era dedito a dipingere “figure oscene in avorio” su ventagli e sopra e dentro a scatole da tabacco. Vendeva bene in Merceria, soprattutto ai forestieri, ma gli venne l’idea di vendicarsi del Piovano di San Mattio Nicolò Palmerino che lo rimproverava spesso e aspramente in pubblico per quei suoi disegni troppo “libertini” facendogli perdere i clienti. Il Massarini mise in giro la diceria che il Piovano: “… carteggiava con Principi Esteri in rilevanti materie di Stato …”, perciò la Serenissima dalle orecchie lunghe, caduta nell’inganno, catturò il Prete mettendolo alla tortura e poi condannandolo a prigione a vita. Dopo tre anni però, si scoprì la verità attraverso una confessione fatta dal Massarini a un Frate, fatalità, fratello del Piovano innocente ... E sempre per pura casualità “la cosa” giunse di nuovo agli orecchi della Serenissima che andò immediatamente ad acciuffare il Massarini di anni 44 e lo condannò col suo Tribunale Supremo ad essere strangolato nei Camerotti di Palazzo Ducale e poi messo in pubblica piazza a penzolare da una forca. Il Piovano Nicolò venne quindi scarcerato e ricompensato per quanto aveva patito ingiustamente.


A metà del 1700 circa, quando in contrada abitavano 763 persone fra i quali il 40% erano Nobili, per cui solo altri 279 erano considerati abili al lavoro, si contavano ancora 113 padroni in 148 botteghe attive. Si rinnovò completamente la chiesetta che venne riconsacrata dal patriarca Alvise Foscari, e la parrocchia risultava possedere una rendita annuale di 100 ducati da beni immobili posseduti in Venezia.

Gradenigo racconta nei suoi curiosissimi “Notatori” che nel 1761 Matteo Biscotello abbiente appaltatore di sego in Cannaregio, celebrò proprio in San Mattio di Rialto il matrimonio di tre sue figlie a cui diede 2 mila ducati in dote ciascuna ... In quegli stessi anni in chiesa dove c’era una Madonna del Rosario di legno rivestita con abiti e ori, s’installarono 3 bellissimi e altrettanto costosi lampadari di cristallo.


Nel 1743 fu posta una lapide d’infamia nella sala superiore di una casa di proprietà dell’Arte dei Luganegneri in Corte dei Pii sive Piedi a San Mattio di Rialto. Aveva preso il nome dai piedi di manzo, vitello e castrato, che i Luganegheri erano soliti cucinare stazionando in quella zona. L’iscrizione era relativa a Carlo Salchi, “Fattordell'Arte” che venne bandito per un gravissimo ammanco perpetrato alla cassa della medesima Corporazione.


Nel settembre 1803 quella zona presso Rialto era ancora sotto l’influenza e controllo-juspatronato dell’Arte dei Beccheri-Macellai. La chiesetta del Piovano Giovanni Antonio Stoni ufficialmente non possedeva nessuna rendita, sebbene ci ronzassero attorno ben 10 Preti che predicavano, istruivano e celebravano ben 2400 Messe l’anno per le “Anime Derelitte”. In contrada di San Mattio abitavano circa 1000 Veneziani, e c’era ancora aperto e attivo un “posto pubblico di donne” molto frequentato. I Preti di San Mattio organizzavano in continuità collette e questue di Suffragio e per i bisogni della chiesa, conducevano processioni in giro fra ponti e calli e campielli fra cui quella per portare l’acqua agli infermi dentro alle case, benedetta con la reliquia di San Liberale conservata in chiesa …e celebravano con gran concorso di gente popolana tutta una serie di “Ottavari per i Morti”, “Esposizioni per carta del Santissimo”, i “Nove martedì di Sant’Antonio da Padova”… e altre cose tradizionali.


Infine nel 1807 … come il solito … si chiuse e demolì tutto sopprimendo la Parrocchia rimasta senza Prete e non più sostituito. Se ne ricavarono abitazioni private presenti ancora oggi ... Dell’antica chiesa si può notare solo un sobrio portale inglobato in un palazzo ordinario con un paio di finestroni al n° 880 in Campiello di San Mattio e nel Ramo Astori … e forse qualche pietra e ornamento poco riconoscibile e inglobato in altri edifici.


Però … se un giorno vi recherete fra quelle calli e callette dove sorgeva un tempo San Mattio, e tenderete l’orecchio attentamente ascoltando il silenzio rimasto oggi … forse riuscirete ancora ad udire l’eco delle voci di quelle “donnette”di quegli anni lontani, arrabbiate fra loro e perché cacciate di casa dalle Monache, o incazzatissime con un bambino che non la smette di frignare, o viceversa “intente” a soddisfare qualche forestiero di passaggio o qualche veneziano annoiato dalle solite cose di sempre …


“LE AGNESINE … A VENEZIA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 69.


“LE AGNESINE … A VENEZIA.”


Fra le tantissime realtà minori ma singolari scomparse a Venezia ce n’è una davvero curiosa. A differenza di molte altre cancellate, avvilite e depredate dalla mano devastatrice del solito Napoleone all’inizio del 1800, questa si è, invece, “estinta ed esaurita” da sola ben molto tempo prima. Si tratta del Priorato di Sant’Agnesina, o Scuola e Ospizio di Sant’Agnese e delle Agnesine la cui sede si trovava sull’attuale fondamenta Gherardini sul Rio di San Barnaba al civico di Dorsoduro  n° 2829.

Le ultime vicende di quella particolare realtà, assistenziale per modo di dire, risalgono al 1664 quando per motivi imprecisati l'Ospissio-Ente cessò la sua attività di accoglienza e venne soppresso. Dieci anni dopo la sua sede fu data in affitto al Nobilomo Giuseppe Barbarigo per la somma annuale di 150 ducati il cui incasso venne devoluto allo scopo iniziale dell’opera che era quello di accudire alcune “povere garzone dette Agnesine”.
Povere mica tanto però, visto che si trattava quasi del tutto di ragazze Nobili e Cittadinesche. E allora ?

Allora lo scopo non era meramente il sussidio economico, ma, invece, un certo tipo di “Educazione esemplare”, una sorta di formazione umana, civile, religiosa di qualità impartita alle ragazze. Le Agnesine quindi, erano un po’ come “Le Marie”, delle piccole elette, delle “Putte speciali” formate dentro al cuore e “al modo” della Serenissima.

All’inizio di tutto però, nel lontanissimo 1325 circa, ossia parecchi secoli fa, ci fu un’aggregazione cittadina per soli uomini … Erano 550 per la precisione, mica pochi. Non erano una rarità per quei tempi, si trattava di una di quelle associazioni che anche a Venezia si definivano: Schole, che riunivano persone con un misto di scopi devozionali, civici, lavorativi, assistenziali e caritatevoli … e altro ancora.

Il luogo di riferimento dove s’aggregavano era il portico prospicente la chiesa di Sant’Agnese nell’omonima contrada popolare del Sestiere di Dorsoduro. Oggi quel portico con un quel loro “loghetto” per il cui uso gli iscritti pagavano un affitto ai Preti di Sant’Agnese di un ducato d’oro annuo con un contratto rinnovabile ogni 29 anni, non esiste più, mentre permane ancora la chiesa vetusta gestita oggi dalla Scuola e Congregazione dei Cavanis in fondo alle Zattere accanto ai Gesuati. Ma oggi è tutta un’altra cosa …

Ciò che è curioso, invece, è l’assiduità, la radicalità d’intenti con cui quegli uomini si radunarono insieme, e soprattutto il codice di vita austero, severo e rigido che abbracciarono. Oggi farebbe gridare al conservatore e al forte bigotto intransigente ... Solo che quelli facevano sul serio quella volta.

Se si va a sbirciare un poco dentro alla loro Mariegola che raccoglieva ed elencava come uno Statuto i loro regolamenti di vita, si scopre che quelli che si iscrivevano alla Schola lo facevano mettendosi in ginocchio e recitando un “Pater Noster e un Ave Maria”… ma si potevano iscrivere anche i Morti ! … I defunti ? Sì. Proprio loro … ecco perché c’erano tanti iscritti, forse. Infatti una delle prime preoccupazioni della Schola era proprio quella di far celebrare per tutti i Morti ogni mattina una Messa cantata (ossia di buona qualità) davanti all’Altare privato della Schola dove ardeva giorno e notte perennemente una lampada pagata e alimentata dai consociati.

Gli iscritti avevano l’obbligo dovunque si trovassero a vivere, quindi anche fuori Venezia o all’estero, di andare a “caccia” di poveri confratelli per visitarli e assisterli. Coltivavano un fortissimo senso d’aggregazione … quasi da setta … Tutti gli iscritti (Morti compresi che non mancavano mai all’appello) avevano l’obbligo di presenziare ogni seconda domenica del mese a una Messa-convocazione davanti all’altare di Sant’Agnese nella chiesa omonima ... Per chi era assente erano dolori: dopo sei assenze si veniva radiati e cancellati perdendo ogni privilegio e assistenza.

Veniva radiato, ossia “rassato”, anche chi litigava, chi non viveva in maniera esemplare rispettando le regole della Schola, chi incorreva in debiti di gioco e perfino chi tradiva la moglie … Tutto veniva puntualmente segnato dentro a un apposito “Libro dei difetti”.

Nel 1369 un apposito Guardiano passava di casa in casa visitando e informandosi di eventuali confratelli morti, ma soprattutto esigendo che fossero pagati i debiti “per le Messe e per recitare i 7 Salmi Penitenziali”. Per chi fosse stato in regola la Schola si sarebbe fatta carico di recitare “50 Pater-Ave” per i loro Morti di casa.

Si sa, ad esempio, che fra 1397 e 1398 il Lucchese Jacopo Tommasini, abbiente mercante tessile trapiantato a Venezia da Lucca, ricoprì la carica Gastaldo della “Nobil et Veneranda Schola”.

Chi veniva cancellato poteva essere riammesso “per Misericordia” dopo un anno di sorvegliatissima prova, ma sarebbe stato eternamente “in ira di Dio” chi avesse osato andar contro e “disfar” lo scopo della Schola.

Inizialmente, ossia per secoli, le donne furono accuratamente escluse da quel consesso, salvo permettere loro d’iscriversi dal 1457 quando scesero vertiginosamente le adesioni dei maschi: “… per evitare la rovina della Schola” fu la motivazione data ufficialmente.

I congregati che sapevano tutto di tutti non solo della gente della Contrada ma anche di buona parte di Venezia, si radunavano obbligatoriamente tre volte l’anno: poco prima di Natale, a Pasqua per le elezioni alle cariche interne, e all’inizio di Agosto.

Il giorno della festa di Sant’Agnese si consegnava ad ogni iscritto: “un pàn et candela” come era costume offrire anche in altre Schole cittadine.

E siamo giunti finalmente “al dunque”.

Nel 1376, precisamente il 21 ottobre, a cinquant’anni circa dalla fondazione, uno degli iscritti: il Nobilomo Angelo Condulmer, padre del futuro Papa Veneziano Eugenio IV, offrì alla Schola dei soldi e dei beni con lo scopo iniziale di costruire un Ospissio per dare accoglienza a dodici bambine veneziane orfane, indifferentemente Nobili o Cittadine, assistendole e mantenendole praticamente fino all’età di vent'anni.

Le “putte” selezionate accuratamente, dovevano essere di “buona famiglia” ed avere: “non meno di sette e non più di dieci anni”, e fatalità … erano quasi sempre figlie di iscritti o affiliati. Venivano affidate alle cure di una Priora che le “allevava”dando loro una “sana formazione” anche qualora fossero venuti a mancare e morire quelli di famiglia … (tanto seppure Morti rimanevano parte degli iscritti ugualmente).

La gestione delle Agnesine accadeva dunque sotto il controllo e l’alto patrocino della Schola de Sant’Agnese, che con ben 12 Governadori gestiva la situazione delle “povere garzone” aggiornando puntualmente tutti gli altri “Confratelli”.


“… debba esser Agnesine quelle povere garzone abbandonate dal padre, come apparirà più necessitose … le quali doveranno essere fie de boni homini e bone femine citadine de Venezia nate da legittimo matrimonio …”.


Ogni tanto, si voleva “mettere in mostra” le ragazze che erano tenute a presentarsi con la Priora ai riti sull’Altare di Sant’Agnese in chiesa a San Agnese, e per praticità d’uso si fece costruire e finanziare un altro altare anche a San Barnaba poco distante dal complesso dove abitualmente vivevano le “putte”.

Le ragazzine “in mostra” erano come un avatar, un pubblico e visibile sinonimo di gentilezza, educazione, finezza, morigeratezza, stile, cortesia, bontà interiore … “una somma incarnata delle più belle virtù”, donne idealizzate seppure in carne e ossa.  E per far lievitare queste loro doti interiori si concedeva loro anche una “dota” economica personalizzata derivandola dalle copiosissime elemosine che la Schola raccoglieva in giro per tutta Venezia. Il “Priorato et Schola di Sant’Agnesina”, infatti, provvedeva al loro mantenimento e forniva educazione ed istruzione. Provvedeva a: “… farle governare e spesare et insegnare arte sin che avevano 13 o 14 anni e anche più ...” Terminato il ciclo formativo trovavano sistemazione definitiva facendole sposare “honoratamente”con Nobili meritevoli, o trovando loro posto in qualche illustre monastero cittadino ... di cui Venezia certamente non difettava.

Nel 1526 il numero delle “Agnesine ospiti” era stato ridotto ormai da parecchio tempo a sei, per cui il beneficio dell’ospitalità, educazione e assistenza delle “putte” si protraeva quasi sempre oltre l’età prevista e fino al matrimonio o alla monacazione.


In gennaio il Diarista e Nobile Sanudo le descriveva così, come uno spettacolo da godere: “ … nella sua chiesa di San Barnaba vidi licet sopra un solareto le 6 pute di anno 8 in nove l’una, fiole di quelle de la Schola, qual vestite mezze bianche e mezze rosse, con caveli zo per spala ed una zoia de verdure in testa ... Stanno in caxa a San Barnaba dedicata a questo, con una maestra a la qual se li da ducato 40 all’anno; e a queste vien fatto le spese e insegnatoli lezer e lavorar fino siano a età perfetta de maridar o altro; e vien maridate di danari de la Schola per certo lasso quali Procuratevi scodeva … ma per parte presa quest’anno in Pregadi, il governo è stato dato a quelli de la scuola … e dieno tenir 12 pute, ma per adesso tien 6 qual si eleze di quelli de la Schola con certo ordine bellissimo ...”

Nel 1580 il “Priorato delle bambine” a San Barnaba venne ristrutturato su disegno di Giacomo Leoncini, e per coprire le spese dei restauri si riaprirono le iscrizioni alla Schola accogliendo altri “50 Cittadini honorati” che avrebbero pagato 1 scudo ciascuno. I cinquanta posti vennero occupati subito dai Veneziani, e andarono “bruciati” e pagati in pochissimo tempo …

Le Agnesine erano perciò “un fiore all’occhiello” per tutti i Veneziani, delle donne “di garbo”, quasi un monumento vivente di leggiadria, bellezza e buona maniera di vivere. Nel 1590 Acuzi Camilla quondam Sebastian consorte di Gerardo Cavanis lasciò morendo dei legati all’Ospedale dei Derelitti, alle povere Zitelle della Giudecca e all’Ospedaletto di Sant’Agnesina a San Barnabaal quale donò anche la casa dei Cavanis in Contrada di Sant’Agnese e diversi beni e terreni a Cordugno presso Noale.


Anche nel 1593 le cronache cittadine ricordano come le Agnesine, “Priora et Putte”, si “presentarono”puntualmente “secondo coscienza” alla Messa Ordinaria della Schola in Sant’Agnese.

Viceversa, qualche anno prima della soppressione, nel 1637, la Schola inscenò una lite furibonda che finì in tribunale contro la chiesa e Parrocchia di San Luca di Venezia dove s’era istituita una “devozione” parallela a Sant’Agnese a cui era stata concessa a certe condizioni un’Indulgenza Plenaria da parte di Papa Paolo V.

Era la concorrenza … e i soldi erano soldi ! … Se a Venezia giravano elemosine e lasciti intorno al nome di Sant’Agnese, dovevano per forza confluire a favore delle Agnesine e dei poveri della Schola e non nelle larghe tasche dei Preti di San Luca.

Per mettere fine alla lite dovettero intervenire come sempre il Doge e il Consiglio dei Dieci “… che ci misero lo zampino… per acquietare gli animi e metter a posto ogni cosa a favore delle Agnesine …”


Tuttavia nel 1664, non si sa bene come e perché, le Agnesine terminarono di comparire in pubblico e d’essere ospitate nel Priorato di San Barnaba. C’erano troppi maneggi e giravano troppi soldi in maniera non sempre ortodossa e pulita ? … Chissà ?


Continuò invece l’opera e l’attività della Schola, che nel 1683 per la festa patronale di Sant’Agnese spese ben 74 lire e 8 soldi per pagare dei Musici per allietare la festa ... così come qualche anno dopo pagò ben 6 ducati a Prete Nicolò Grasselli perché celebrasse: “… una bella Messa cantata per la Schola”,e offrì anche 40 lire al musico e cantore Pietro Luciani chiamato dalla prestigiosa Basilica Marciana per esibirsi a Sant’Agnese sempre: “ad honor della Schola Benedetta …”.


Nonostante la misteriosa soppressione del 1664, ancora nel 1740 il Priorato di Sant’Agnesina era attivo, vivo e vegeto, pagava lire 24 e soldi 16 annuali per la Festa Patronale di Sant’Agnese, e possedeva anche una rendita annuale di 346 ducati da beni immobili siti in Venezia.

Pur senza sede e residenza ufficiale, il Priorato di Sant’Agnesina di San Barnaba continuò la sua notevole attività fino a 1806 secondo quanto raccontano bene nel dettaglio 18 registri che ci sono pervenuti. Si conservano, infatti, un antico Catastico iniziato nel 1325 e diversi quaderni e giornali con scritture e parti della Scuola. I Governadori tenevano ancheun puntuale registro con l’elenco di tutte le donzelle graziate, un altro libro in cui si registravano i versamenti delle decime, delle affittanze, delle rendite e aggravi, e perfino un ultimo in cui si annotavano tutti “i ricoveri” a spese dell’Ente.

Tutto ciò che rimane oggi di quell’attività e di quel complesso curioso è un’unica scritta incisa sull'architrave di uno di quelli che furono gli ingressi dell'antico Ospissio oggi trasformato in accogliente albergo.


Solo un lampo di una Venezia di ieri l’altro scomparsa per sempre … che merita però un’occhiata, un “buttàr l’ocjo” almeno una volta.


“SAN GIACOMETTO DI RIALTO … SOLO UNA NOTA.”

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“Una curiosità veneziana per volta.” – n° 70.


“SAN GIACOMETTO DI RIALTO … SOLO UNA NOTA.”


Si potrebbero raccontare come il solito mille cose curiose sul magnifico Emporio di Rialto e i suoi dintorni. Mai si finirebbe di perdersi nei dettagli di tante storie che solo Venezia sa suggerire. Le vicende della chiesa di San Giacometto, quella proprio ai piedi del magnifico Ponte meriterebbero un lunghissimo racconto.

Ma questa volta ci risparmiamo la fatica di tirarla per le lunghe … e ci soffermiamo solo su un brandello di storia, solo un lampo tratto dal tempo andato che però non mancherà d’illuminarci con le sue vicende curiose.

Già in altre occasioni si è detto che Venezia era uno snodo internazionale importantissimo sulla strada per la Terra Santa e anche per i Pellegrini diretti anche a Roma o lungo la Via Michaelica che conduceva in fondo al Gargano di Puglia. Si è anche detto che Venezia era talmente ricca di proposte, spiritualità e concessioni di “grazia” tanto da riuscire a sostituirsi e mettere se stessa al posto di un vero e proprio Pellegrinaggio in Terrasanta. Non si trattava solo di un’idea e di una furbata Veneziana che induceva i Pellegrini Europei ad arenarsi in laguna invece di proseguire attraversando il Mediterraneo fino a Gerusalemme. Esistevano a Venezia i veri e propri presupposti per rinunciare felicemente a quel voto impegnativo, dispendioso e a volte anche letale.

Come ben sapete, non è che in quei tempi di andasse Pellegrini in giro per il mondo solo per spasso e per voglia di viaggiare. Pellegrinare era una cosa “seria”, gravissima, molto sentita e importante … e non solo per la spesa e per il tempo che s’impiegava a pellegrinare. (Per andare e tornare, ad esempio, dall’Italia fino a San Jacopo di Campostela nella Galizia Spagnola s’impiegava fino a un anno … Non era uno scherzo.)

C’era di più però. Molte volte si andava in Pellegrinaggio anche per condanna. Ossia pellegrinare non era solo una pulsione devota dello Spirito, ma spesso veniva imposta da un qualche Giudice Ecclesiastico di città e di Paese che imponeva il grande viaggio lontano dalla propria terra proprio come espiazione di un danno compiuto. Significava partire, abbandonare gli affetti, il lavoro, le proprie cose … Tanto è vero che prima di partire si faceva anche testamento, si consegnavano i propri beni … ed effettivamente molto spesso non si era certi di tornare vivi.

Mandare qualcuno in Pellegrinaggio era perciò spesso una maniera di liberarsi “santamente” di personaggi scomodi, e non è che i Pellegrini fossero tutti “santi uomini” e “bianca farina per far ostie”. Qualche volta erano criminali, ladri, malviventi destinati a percorrere strade in cui si poteva incorrere in “colleghi” affini a loro ben disposti a far loro “la festa”. E non è che si potesse facilmente fingere di partire, magari spostandosi in un paese poco lontano. Quel che decideva il Giudice Ecclesiastico veniva messo in atto dal potere Civile che era armato e usava i suoi mezzi spesso persuasivi.

Detto questo, se ci fosse stato un modo di scansare l’ostacolo e liberarsi da quel peso santo, chi avrebbe detto di no, e non ne avrebbe immediatamente approffittato ?

Ebbene, a Venezia esisteva concretamente e per davvero la possibilità di farsi sciogliere da certi voti e da certe imposizioni e condanne. Venezia era Venezia, no ? Non è che ce ne fossero tante di Serenissime in giro.

Ad essere pratici e precisi, accade per esempio nell’agosto 1516, che il Papa “Medici” Leone X concedesse privilegi ed Indulgenza Plenaria a chiunque visitasse la chiesa di San Giacometto di Rialto il Giovedì Santo di ogni anno. Si era al tempo del Doge Lorenzo Loredan, del Patriarca Antonio Contarini, e di Marino Georgio “Doctore clarissimo illustrissimo e oratore del Senato Veneto” che aveva procurato dal Papa quella “Grazia speciale” attraverso la supplica del Piovano della stessa chiesa di San Giacometto nonchè Canonico e Protonotario Apostolico: Natale Regia.

La tradizione dice che proprio nel giorno di San Giacomo il 25 luglio fu sancito proprio a Venezia  il trattato tra l’imperatore Federico Barbarossa e la Lega Lombarda capeggiata da Alessandro III.

E come non bastasse, nel marzo 1520 un nuovo Breve di Leone X concesse facoltà al Pievano di San Giacometto e ai suoi successori di poter deputare alcuni sacerdoti nel Giovedì Santo e nei tre giorni anteriori e posteriori per le confessioni dei fedeli che potevano essere assolti anche dai peccati riservati alla Santa Sede. Rimanevano esclusi soli i casi contemplati dalla bolla “in Cena Domini” con le censure riservate al Papa. Detti sacerdoti potevano anche commutare i voti, fra questi anche quello “oltremarino” cioè quello di andare in Terra Santa.

Bingo ! Bastava recarsi fino a Venezia ed il gioco era praticamente fatto ... anche se non è che l’Indulgenza Plenaria te la tirassero dietro gratuitamente dalla porta della chiesa. Diciamo che c’era un certo “iter” di ravvedimento anche economico, nonché “spirituale” da percorrere. Ma non era una cosa impossibile … Bastava darsi da fare in maniera conveniente.


A conferma della “specialità eccezionale” di tale situazione Veneziana, nel dicembre dello stesso 1520, un ulteriore “Breve Papale” sempre di Leone X concesse anche di poter celebrare una Messa in San Giacometto anche nella mattina del Sabato Santo, l’unico giorno dell’anno in cui la Messa era sospesa dappertutto fino alla mezzanotte di Pasqua.

E come non bastasse, si poteva celebrare una Messa in San Giacometto ogni giorno, anche nelle “ore antelucane” ossia prima del sorgere del sole: cosa assolutamente proibita altrove.


E’ curioso notare che queste “facoltà e privilegi” sono rimaste attive in San Giacometto fino al 1866.


Ah ! Dimenticavo … La chiesa di San Giacometto di Rialto non era una chiesa qualsiasi. Non era Parrocchia, né aveva parrocchiani … o meglio aveva come fedeli tutti i Veneziani, a partire dal Doge al diretto controllo del quale era affidata. San Giacometto era chiesa di Jurisdizione Dogale, soggetta al controllo del Primicerio di San Marco. (ossia il Cappellano del Doge).


Non meraviglia allora che quella chiesetta se la passasse abbastanza bene ... Nel 1531 lo stesso Piovano Natale Regia, quello delle suppliche al Papa per ottenere le “Bolle”dei privilegi e delle Indulgenze, provvide a un restauro radicale della chiesa che finiva troppo spesso inondata dall’alta marea. Il Piovano era già di suo un ricco Cittadino Originario, ma fu “autorizzato e sostenuto nell’opera” dal suo amico il Doge Gritti.


Nel dicembre 1542 la Signoria decretò anche l'erezione d'un pulpito di legno nella piazzetta di San Giacometto di Rialto ad imitazione di quello che già esisteva in Piazza San Marco. Lì doveva salire un religioso, a tale scopo stipendiato dal Doge, per predicare al popolo nel dopo pranzo. In seguito quell'usanza del pulpito continuò solo a San Marco dove si racconta che durante la baldoria del Carnevale le maschere prendevano il pulpito con le ruote e lo tiravano avanti e indietro in giro per la Piazza burlandosi ancora un poco di tutto e di tutti fino al suono del campanone di San Marco che metteva fine alle Feste e decretava l’inizio della Quaresima.


Venezia è sempre stata festaiola, trasgressiva, aperta e anche un po’ furbetta e interessata. Diciamo anche diplomatica e lungimirante … un po’ a modo suo, capace di vedere “i risvolti”delle cose e degli eventi.


Per dirne un’altra. Pochi anni dopo, nel 1571, le cronache cittadine raccontano delle feste che i Tedeschi del Fontego organizzarono per solennizzare la vittoria di Lepanto contro i Turchi. Si era sempre lì, accanto a San Giacometto, appena al di là del Canal Grande e del Ponte di Rialto.


“…i Tedeschi per tre sere continue acconciarono il Fontego di razzi, e accomodarono di dentro e di fuori per diversi gradi, lumiere, dal primo corridore fino alla sommità del tetto, che rendevano dalla lunga una veduta quasi di un cielo stellato. Da prima sera fino alle 5 hore di notte, si udì di continuo suono di tamburi, di pifferi e di trombe squarciate, e sopra i pergoli del Fontego, si fecero diversi e rari concerti di musica, con spessi tiri d’artiglierie. Et attorno a tutte le fabbriche nuove della piazza di Rialto, cominciandosi dal Ponte fino alla ruga predetta, furono tirati panni finissimi di scarlatto: e vi si attaccarono di sopra con uguali distantie, bellissimi quadri di pitture, di imprese, di ritratti, e d’altre diverse historie … Quadri meravigliosi del Giambellino, di Giorgione da Castelfranco, di Bastiano del Piombo e d’altri eccellenti pittori. La prima mattina si cantò la Messa Solenne sopra un palco dinanzi alla chiesa di San Giacometto con musiche meravigliose. Dopo terza si fece la processione col Crocefisso innanzi, precedendo piffari, trombe squarciate e tamburi. Dopo mangiare si dissero i Vespri con le musiche medesime e cominciatisi tardi finirono alle due hore di notte. Il restante del tempo si consumò in harmonie con variati concerti …”


Niente male !


Termino ricordando che chissà perché, il Doge “di turno” era sempre sensibile a quanto accadeva in San Giacometto di Rialto. Più che sensibile, era interessato a tutto quel manovrare d’Indulgenze, Perdonanze e Riti. Che avesse anche lui qualcosa da farsi perdonare o qualche voto da sciogliere ?

Sta di fatto che il Doge si recava annualmente in visita a San Giacometto di Rialto, proprio in quei giorni d’applicazione dei “condoni e del perdono” previsti dalle famose “Bolle Papali” d’Indulgenza.


Racconta, infatti, Giovanni Nicolò Doglioni nel1603 scrivendo nella sua opera: “Le cose meravigliose dell’inclita città di Venezia”.


“… et così terminati gli Officii di questa mattina (ogni annuale Mercoledì Santo), se ne và subito il Doge co’ piatti (sulle peate, le barche piatte) a visitar la chiesa di San Giacomo di Rialto per ricever il gran tesoro dell’Indulgenza Plenaria lasciata già tanti anni sono alla detta chiesa in simil giorno da Alessandro III Sommo Pontefice quando fu a Venezia …”



“IL LAZZARETTO VECCHIO ? … FUNZIONA ANCORA …”

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“Una curiosità veneziana per volta” – n° 71.


“IL LAZZARETTO VECCHIO ? … FUNZIONA ANCORA …”


Cappuccio in testa e passo lesto mi muovo dentro e sotto le ultime ombre lunghe della notte. Osservo un mondo tutto capovolto e traslucido dentro alle larghe pozzanghere dell’acqua di ieri. E’ domenica, tutto è immobile, non c’è nessuno in giro … solo un’automobile passa lenta, sembra pigra. Nella mia fantasia qualcuno la sta spingendo faticosamente a pedali.


“E’ la giornata giusta …” mi dico.


L’aria è pulita, sa di fresco e bucato. A Oriente, dietro alle sagome scure e cappellute degli alberi, il cielo sta sfoggiando tutto un album di tinte, tonalità e colori … sembra il manifesto della Primavera. Venezia si sta stiracchiando, ed è di nuovo pronta, fra poco ospiterà le migliaia chiassose della “Su e zo pei ponti”… ma io sto aspetto qualcos’altro. Affretto il passo mentre nel cielo si scatena un inferno di stridii e volteggi di rondini … uno spettacolo avvincente che danza sopra lo specchio lucido e quieto della Laguna … ma io aspetto altro.

Non vedo l’ora di scavalcare il turno di lavoro in ospedale, e l’impazienza diventa esagerata man mano che trascorrono le ore. Sarà perché è la prima volta in vita che metto piede nell’isola del Lazzaretto Vecchio, o sarà forse perché mi piace vedere quel che c’è stato un tempo e oggi quasi non c’è più ... Sta di fatto che non vedo l’ora di precipitarmi lì per la visita guidata dell’apertura straordinaria …


“E’ il primo ospedale Europeo, il più antico nel suo genere … certe cose le hanno inventate i Veneziani.” Ci spiegano. A differenza del Lazzaretto Nuovo del 1468, perso dentro alle secche, alle barene fangose e alla poesia amena della Laguna di Sant’Erasmo, l’isola del Lazzaretto Vecchio e più austera, tozza, grezza, quasi scontata a un passo com’è situata dalla striscia litoranea ed elegante del Lido. Sembra basti un salto in lungo per attraversare lo specchio d’acqua e arrivare ad infilarsi dentro a quello che mi è sempre apparso come un vero e proprio mondo recondito.


Il nome titolare della chiesetta originaria che sorgeva in isola era: Santa Maria Assunta … o più probabilmente Santa Maria di Nazareth da cui derivò la denominazione dell’intera isola come: “Nazarethum”,trasformato in seguito dai Veneziani in: "Lazzarettum o Lazzaretto", forse per via di San Lazzaro e della lebbra … Sta di fatto che il nome s’è affermato e diffuso ovunque, anche in giro per l’Europa … e lo utilizziamo tutti ancora oggi.


Le ore sono scappate, e perciò: “Eccomi qua !”… e mi sono ritrovato sulla Riva del Lido davanti al Lazzaretto Vecchio e ai variopinti traghettatori sulle sampierotte impavesate. Ci siamo ritrovati a centinaia tutti in fila come per entrare al cinema a vedere lo spettacolo di una “prima” stagionale. Solo che stavolta “il film” si chiamava “Lazzaretto Vecchio”. Seduto in attesa sui gradini della riva e provocato dal sole del pomeriggio, ho chiuso un attimo gli occhi. Non l’avessi mai fatto … o forse è stato meglio così. Li ho riaperti ed era cambiato tutto, niente era più come prima. Non c’era più l’oggi ma sembrava ritornato l’ieri. Un ieri un po’ strano, forse surreale, ma di certo piacevole, curioso ... forse quello che andavo cercando.


L’isola distesa lì davanti era la stessa, l’identico segmento galleggiante sulla Laguna. Però c’erano barche su barche intorno, tutte cariche di qualcosa. Niente motori, solo barcaroli curvi a spingere sui remi.

L’isola era cinta d’approdi e pontili tutti occupati da barche accostate in file sovrapposte. L’atmosfera intorno era vivissima, sembrava un vespaio, un formicaio brulicante di persone, vitalità e gente vociante.

Una sampierotta ha attraccato davanti ai nostri piedi e due nerboruti “Pizzegamorti” gentili e bruschi insieme ci hanno squadrato sornioni e un po’ grintosi inducendoci a salire in fretta con ampi gesti. Avevano “occhi di bragia”, sembrano tanti Caronte febbricitanti … ma della nostra stessa febbre.

Mi sono guardato attorno, eravamo in tanti, c’era coda e un po’ di ressa … Alti nel cielo volteggiavano i gabbiani di sempre ... In lontananza cantava un cuculo monotono, e alcuni merli zompettavano sul prato appena rinnovato dalla nuova stagione … E più in là ?  C’era solo tanto silenzio di una solita domenica veneziana qualsiasi.

Mi è sembrato un pomeriggio placido, tranquillo, ma non lo era per niente, c’era come una tensione nell’aria, una novità imminente, un pensiero inquietante che ci pervadeva e accomunava tutti su quella riva.


“Piano ! … Svelti ! … Senza scivolare in acqua … Attenti a quel gradino scivoloso e rotto …” Un “Pizzegamorti” mi ha preso per mano, mi ha accompagnato per il fianco e mi ha toccato e spinto leggermente per la spalla.


“E’ fatta ! Sono anch’io dentro alla barca … partiamo per l’isola ... forse senza ritorno … Sono i Pizzegamorti !” dico a me stesso, non privo di una certa inquietudine.


Fra i Pizzegamorti nel 1575 c’era il barcarolo Veneziano Francesco Ceola che s’era offerto come Pizzegamorti in cambio della concessione di una “Libertà-Licenza” del primo Traghetto disponibile che si fosse liberato per colpa della peste. Nel 1630, invece, i Pizzegamorti erano giunti ad essere fino a 300 di numero, e percepivano 20 ducati al mese anticipati … Venivano reclutati tra gli ex galeotti e i carcerati, ed erano spesso degli sbandati facinorosi, o vagabondi disoccupati e disperati. Provenivano dalla Terraferma, dall’Istria, Austria, Friuli e Lombardia, e furono protagonisti di ruberie, violenze e sciacallaggi di ogni tipo sui beni degli appestati Veneziani. Spesso ubriachi e alterati, erano attenti più alle prostitute obbligate al lavoro e all’assistenza nei Lazzaretti che alla cura dei malati e dei morti, gettavano persone ancora vive dentro alle fosse, trattavano in maniera sprezzante e vile ogni umano corpo ... desiderosi solo di saccheggio e di basso guadagno.


“A causa dei molti rischi di contagio personale fu introdotto di far riporre col mezzo di corde catramate e uncini di ferro li cadaveri infetti in certi carretti costrutti all’oggetto nella Casa dell’Arsenal, e ripor poi questi carretti nelle burchielle che furono fatte costruire parimenti all’Arsenal nel numero di cinquanta, che si scortavano al Lido dove giunti, erano condotti dai cavalli sino alle fosse già prima preparate; si tumulavano nudi i cadaveri e le vesti delle quali si trovavano coperti erano sul fatto incendiate ... altro opportunismo mezzo di preservazione è introdotto a questo Ufficio che giunge ad assicurar l’uomo attento che lo amministra ed è quello di coprire intieramente li Pizzicamorti con casacche di tela forte catramata con mistura e profumi di materie opportune; alla qual utile invenzione furono poi aggiunti li calzabraga e li guanti coperti dallo stesso catrame, che salvano dal contatto le parti esposte del corpo ...”


Di frequente i Provveditori alla Sanità li facevano facilmente fucilare dopo accuse sommarie.


Nel 1576 Il Notaio Rocco Benedetti e tale cronista Fuoli li descrivevano: “Portavano attaccati alle gambe sonagli e campanelli d’ottone alla guisa di saltatori mascherati per dare segno di se … Erano una turba di semincoscienti che calavano a Venezia allegramente come se fossero stati invitati a qualche solenne nozze … Inumani con i cadaveri ammassati sulle barche … corpi maltrattati da sepellitori, ch’oltre il cometter co’ viventi ogni più sceleragine carnale, non la perdonavano ne anco ai morti …”


Mentre traghettavamo il breve tratto del canale ho osservato l’acqua intorno … Ci sfilavano accanto barche cariche di viveri e derrate, una più grossa era carica di legna all’inverosimile tanto che l’acqua quasi le entrava dentro … Altre ancora tiravano dritto cariche di merci, colli, balle candide e tonde di cotone, botti, casse … Ritti a prua c’erano mercanti diretti all’Emporio e ai Fondaci di Rialto. La prua della nostra barca, invece, puntava dritta solo ad attraversare … I numerosi camini dell’isola fumavano tutti, anche quello sopra la casa del Priore con la sua elegante veranda coperta di glicini fioriti. Eccolo là il Priore, impettito nella penombra e con le braccia sui fianchi, stretto nel suo goffo abito azzurrino gonfio ed elegante insieme. Ci scrutava immobile accanto al suo scrivano ... mentre in lontananza continuavano a sfilare altre barche, navi, bastimenti, galee e cocche … la Laguna pullula di attività frammista alla presenza invisibile ma micidiale del morbo della pestilenza.


Il Priore dell’isola veniva eletto dai Procuratori de Citra che amministravano i fondi per l’Ospedale, mentre la struttura sanitaria era gestita secondo i provvedimenti e le disposizioni dei Magistrati alla Sanità che sorvegliavano e controllavano l’isola con frequenti sopraluoghi. La gestione dei Lazzaretti di Venezia divenne un modello da imitare da parte delle altre comunità locali e internazionali.


Nel luglio 1447 ritornò la peste e la Signoria ordinò che si facesse in Piazza una processione per ordine del Vescovo Patriarca Lorenzo Giustianiani. Dovevano intervenire obbligatoriamente: Clero, Religiosi, Scuole Grandi e Piccole, e i Battuti in cappa e scalzi che:“ … battendose la carne gridavano: “Alto Re della Gloria cazzè via sta moria …  Per la vostra Passion Habiene misericordia…”


Nella stessa occasione il Giustinani ottenne da Papa Nicolo’ V speciali indulgenze per quanti si fossero dedicati all’assistenza degli appestati.

Durante le pestilenze si consideravano “operazioni buone”:“… sbarrare le porte della città, isolamento di persone, purificazione e distruzione di mobili ed oggetti di case infette, accensione di fuochi per le strade, far sparare l’artiglieria, aprire porte e finestre e farle agitare facendo vento per muovere l’aria, mettere fuori città: merluzzi, sardelle, grani corrotti, carni infette, pesci corrotti e nettare fiumare, fontane e nettare contrade da fanghi, carogne, pezzi di corame e panni … mettere al bando le arti sordide dei lavoratori di cuoio, macellazione, pulizia di pozzi e latrine …”


Nel 1447 e soprattutto nel 1468 a causa dell’ennesime morie dovute alla peste, Venezia era come “…Valde evacuata” ossia tutti erano in fuga cercando di salvare almeno la pelle. Il Lazzaretto Vecchio funzionava a pieno ritmo. Nel 1462 il patrimonio del Lazzaretto Vecchio ammontava a 28.000 Ducati … e quattro anni dopo si licenziò e processò sebbene latitante il Priore Paolo da Genova fuggito da Venezia condannandolo al “bando in perpetuo”. Era accusato di aver maltrattato i malati, aver contato come degenti persone già morte o dimesse e bambini portati dalla città solo per essere allattati, e di aver venduto il vestiario dei morti invece di bruciarlo.

Dopo che nella “Vigna murata” affittata dai Monaci di San Giorgio era sorto anche il Lazzaretto Nuovo, nel febbraio 1482 si processò dichiarandolo colpevole anche il Priore Paolo Blancoper aver frodato gli Avogadori da Comun, per aver venduto in città i panni dei morti di peste, e per avere mal gestito le quote giornaliere di sostentamento di 12 soldi pro capite. Lo si dichiarò responsabile della morte di “… multos parvulos pueros et pauperes”, e si condannò all’ergastolo portandolo prima in giro per Venezia dichiarando in pubblico tutti i suoi misfatti.


Fu un gesto fatto dalla Serenissima per dare “l’esempio” perché in città esisteva molto commercio di vestiti infetti e soprattutto molta corruzione fra i funzionari che pretendevano denaro dalla gente per non essere inviati al Lazzaretto Vecchio ma lasciati malati in casa.

Nello stesso febbraio 1482 come diretta risposta ai casi clamorosi di frode e negligenza criminale da parte dei Priori, gli Ufficiali al Sal emisero dei Capitoli esposti pubblicamente in isola per amministrare equamente il Lazzaretto Vecchio. Fra le tante altre cose si legge:


“Il Priore appena subentrerà nell’incarico ed entrerà in isola dovrà redigere l’inventario di tutto quanto vi trova … In tempo di peste non dovrà allontanarsi da Venezia senza apposita licenza dell’Ufficio al Sal, ma provvedere assiduamente alla cura dei malati ... Accudirà gli uomini per un salario annuo di 120 Ducati d’oro, mentre la Priora o moglie accudirà le donne per altri 40 Ducati annui. Inoltre usufruiranno sia in tempo di peste che di normalità di altri 40 Ducati annui per il vitto.”

“Il Priore avrà facoltà di diminuire o aumentare il numero del personale secondo le necessità dell’isola … Dovrà tenere in ordine i registri degli stipendi e delle provvisioni e farli controllare periodicamente dai Provveditori ... Sarà tenuto a visitare quattro volte al giorno i malati maschi e femmine pena 25 lire per ogni visita mancata ...”


All’approdo ci stava aspettando una donna ben messa, piantata a terra. Accanto a lei c’era un inserviente con una berretta moscia messa di lato in testa. Era la Priora in persona, destinata ad occuparsi delle donne. Siamo scesi dalla barca, infatti, e subito siamo stati divisi e indirizzati in due file distinte: uomini di qua, donne di là.


“Il Priore doverà abitare nell’isola con la moglie o “cum altra dona da ben … Non avrà alcun rimborso per i bambini che verranno allattati, ma ci penserà la Priora insieme al Cappellano, Fra Manfrèo e il Medico.”


“Si ammisero, divisi in due parti, poveri di ambo i sessi e l’Officio del Sale doveva provveder loro vitto e medicine ... Quattro serventi si destinarono per gli uomini, quattro per le femmine, un Cappellano ed un Priore al quale correva l’obbligo di visitare almeno una volta al giorno gli infermi … e dovea aportare come i suoi dipendenti affisso al petto un segno bianco in forma di stella …”


Il controllo della Serenissima era severo e puntuale: nel 1458 si condannò la Priora del Nazarethum Vecchio Zentilina per aver lasciato morire di fame gli ammalati: “… facendo sibi dari poma et vinum novum et non bonum et carnes bovinas non bonas …”


Percorsi pochi passi sull’isola, ci siamo trovati davanti al portale d’ingresso dell’Ospedale del Lazzaretto Vecchio. Appariva come un monito l’opera del tagjapiera Guglielmo Bergamasco del 1525 con quel San Marco e i Santi della peste: San Rocco e San Sebastiano commissionati dai Procuratori di San Marco elencati pomposamente nei sette “stemmi-armi”di famiglia sottostanti.


“Non si scherza né con la peste … né con la Serenissima !” mi sono detto.


Giorni fa osservavo una vecchia stampa e alcune foto sbiadite dell’isola … Una foto mostrava dietro a una bianca vera da pozzo un tozzo campanilotto isolato che ormai il tempo s’è portato via abbattendo per sempre alla fine del 1800. Oggi al Lazzaretto sono rimaste alcune case con portici ombrosi invasi dalle edere, dai rovi e dalla sterpaglia … In altre foto l’isola appariva ancora abitata: alle finestre si notavano alcune pulite tendine appese … C’era gente seduta sotto ai portici e sull’aia antistante quasi il Lazzaretto fosse diventato una bucolica fattoria di campagna. Si notavano i possenti capitelli dei portici, le linee squadrate ed essenziali delle trabeazioni, le mura scalcinate erose dalla salsedine, le balaustre sbrecciate, alcune case rovinate e cadute, altre monche e mancanti .... Le piante facevano da padrone ovunque, s’incrociavano e sovrapponevano a volte, inglobavano e rivestivano le pietre, cancellavano le orme del passaggio, s’intrufolavano nei muri invadendo gli spazi rimasti incustoditi e abbandonati a se stessi. Sembrava che una mano ignota fosse passata a strapazzare e vilipendere quel luogo in cui erano rimaste imprigionate storie e vicende e cupi eventi.


La stampa evidenziava uomini piegati sui remi intenti a spingere barche cariche che “tiravano dritto”. Le acque intorno al Lazzaretto erano agitate sotto a cieli tempestosi che preannunciavano il peggio. Meglio non fermarsi là, perché quello non era affatto un “luogo benedetto”, ma di disgrazia e sofferenza, da esorcizzare almeno nella mente girando altrove lo sguardo. Da una parte della stampa però non c’erano nuvole nere e minacciose, tutto era come già accaduto e passato, e filtravano chiari raggi di sole mentre stormi d’uccelli volteggiavano sopra l’isola del Lazzaretto Vecchio cinto d’alte mura sormontate da camini spenti e porte rigorosamente chiuse. Ad un pontile stretto davanti ad una porticiola appena socchiusa e attentamente vigilata era ormeggiata una barca carica di vivande e generi di prima necessità … un’altra carica di legna, invece, rimaneva immobile in attesa di scaricare, con i rematori seduti sui trasti e i remi infissi come pali nel fango della laguna ... Infine un uomo placido stava intento a pescare in un angolo vicino a secche ciottolose su una barchetta grande poco più di un guscio di noce, coi remi “alla valesana” dimenticati e una vela floscia incredibilmente senza vento. Un’immagine convulsa e pacifica insieme, senza tempo … forse priva dell’angoscia della pestilenza.


Attraversiamo un’ampia ortaglia, mi sembra anche d’intravvedere qualche albero da frutto, un piccolo orto ben tenuto e coltivato. Ma non c’è tempo, bisogna entrare ... C’invitano a procedere ed addentrarci nell’isola in direzione di uno scrivano che ci attende con un registro aperto.


“Il Priore prenderà nota del nome e cognome e della Contrada del ricoverato. Se viene portato qualcuno senza segni della malattia: “sia messo da parte fino zorni tre”.  Per ogni infermo portato il Priore avrà diritto a soldi 12 di piccoli. Se in quei giorni appariranno i segni sia portato al Lazzaretto. Se invece non appariranno segni sia portato alla “Vigna murata” del Lazzaretto Nuovo.”


Mentre scrivono di noi noto un vecchio Frate curvo dalla lunga barba candida e con un zucchetto sulla testa calva che ci osserva in silenzio. “Fra’ Manfrèo !” qualcuno l’apostrofa salutandolo … Lui risponde solo con un cenno della testa, rimanendo immobile sul posto e senza dire una sola parola. Continuava ad osservarci ad uno ad uno con certi occhi acquosi e scavati, cerchiati immancabilmente di rosso. Pareva ci riconoscesse … ed aveva nello sguardo quella stessa febbre allucinata ma calma che c’era prima negli occhi dei Pizzegamorti della barca. Si capiva che lui sapeva bene ciò che pulsava e accadeva dentro all’isola. Conosceva il morbo subdolo, invisibile e insidioso … Sapeva tutto di quanto accadeva alle persone, di come la pestilenza le divorava da dentro trascinandole in fretta fino alla morte. Ma non tutte … perché molti sopravvivevano e ripartivano. C’era anche un guizzo di speranza dentro a quello sguardo, sebbene ovattata, nascosta, discreta, come da conquistarsi.


“Fra’Manfrèo ! … Quanti di quelli che sbarcano resteranno ? … Quanti se ne andranno ?” mi sono spinto a chiedergli, ma non mi ha degnato di una qualche risposta rimanendo immobile davanti al suo chiesotto spoglio e dal campanilotto tozzo e screpolato come lui.


“I nuovi ricoverati saranno confessati e comunicati ... Nell’isola ci saranno anche alle dipendenze del Priore un Cappellano-Piovano che guadagnerà 30 Ducati annui più vitto sia in tempo di peste che di normalità, e uno Zago che gli servirà Messa e seppellirà i morti per 12 Ducati annui più vitto…”


“Per prevenire il contagio della peste è necessario rispettare le sedici regole efficaci: Orazione, Elemosina, Digiuno, Suffumigi, Odoramenti, Custodia da venti, Prattica, Allegrezza, Purgazione, Comodità, Fuochi, Governo del vivere, Pillole, Acque, Eletuarj, Fontanelle …”


Mi sono allora voltato verso la Laguna aperta, quasi a cercare con lo sguardo una via di fuga. A una certa distanza continuavano a transitare ancora barche cariche di “stie” di pollame, barche di pescatori con le reti e il pesce viscido che guizzava dentro le ceste … Un fuoribordo con un potentissimo motore lanciatissimi sul pelo della laguna piene di giovanotti urlanti e ridanciani … Mi sfrego gli occhi … è solo un’apparenza impossibile … Intanto ci hanno richiamati e invitati a procedere oltre, altri stanno arrivando, bisogna sbrigarsi e andare oltre dentro al Lazzaretto.


Come spesso è accaduto nella Storia di Venezia certe isole della Laguna hanno assunto un volto e un senso quando verso il 1000 gli Ordini Religiosi e Monastici hanno pensato d’edificare un ennesimo luogo per dare ospitalità ai Pellegrini infermi o bisognosi di ritorno o in partenza per la Terrasanta. Al Lazzaretto c’erano inizialmente gli Agostiniani Eremitani che nel 1249 costruirono la chiesetta dedicata a Santa Maria di Nazareth benedetta da Pietro IV Pino Vescovo di Castello. Poi come spesso accade, gradualmente la comunità dei Frati e dei Novizi diminuì fino all’abbandono dell’isola. Nel 1423 era rimasto solo il Spoletano Fra Gabriele de Garofoli con 4 novizi patrizi Veneziani. Il Senato allora deliberò di mandarli all’Abazia di San Daniele in Monte (da dove torneranno in seguito in Laguna fondando stavolta nell’isola di Santo Spirito i Canonici Regolari di Santo Spirito) e destinare l'isola a ricovero e contumacia di persone e merci provenienti dall’Oriente o da paesi infetti. Di lì dovevano obbligatoriamente passare e sostare “in Quarantena” i convalescenti ancora infettanti.


Il Lazzaretto-Ospizio era formato da due isolette unite da un ponte: nella più piccola c'era il casello della polvere da sparo e una piccola guarnigione; nell’altra sorgeva il Lazzaretto vero e proprio, ossia un insieme eterogeneo di baracche e capanni di legno giustapposti agli ambienti che erano stati monastici. Solo più tardi vennero rifatti ed edificati in muratura. Per dare continuità al progetto,infatti, cinque anni dopo il Maggior Consiglio destinò la somma di un “Legato”lasciato per testamento da Antonio Ravagnino per aggiungere altre 80 stanzette singole al lazzaretto. E visto che l’idea era buona, lo stesso Maggior Consiglio decretò che ciascun testatore di Venezia facesse un lascito a favore del Lazzaretto.

All’inizio di giugno 1436 anche il Papa Eugenio IV per non essere da meno e poco solidale ci mise “del suo” allegando un’indulgenza alle donazioni fatte a favore dell’ospedale e confermando la soppressione del vecchio monastero.


Domenica pomeriggio ho respirato e annusato l’aria calda del Lazzaretti che sapeva di biscottato e cotto. C’era un intenso odore acre e pungente misto di cucina e profumo di pane appena sfornato. C’era una nebbiolina fumosa nell’isola, stavano bruciando ginepro ed essenze odorose per mitigare un gran fetore di organico e di morti che si mescolava con quello di purgato e soffumigato. In lontananza si avvertiva un lamento sommesso che trapelava da qualche parte, da dietro i muri e le porte chiuse, o da sotto tutti quei numerosi portici e le tese aperte all’aria su di un lato. Ovunque mi voltassi ad osservare vedevo cataste e mucchi di merci, simboli di mercanti, bastazi indaffarati che spostavano e riponevano, Fanti che controllavano, scrivani che annotavano meticolosamente, e gente, tanta gente che arrivava o andava. C’era una grande comunanza, un intenso vociare, una promiscuità fattiva che costringeva tutti a stare quasi gomito a gomito.


“Ci saranno inoltre: un Medico e un Barbiere pagati alla stessa maniera sia in tempo di peste che di normalità; 3 donne per l’assistenza alle appestate e per lavare i panni sporchi; 3 uomini per assistere gli appestati e scavare le fosse per i morti; 2 barcajoli per la “barca della Messa” obbligati anche a servire i malati; 1 fornaio, 1 cuoca, 1 “mamola” a disposizione della Priora. Per tutti costoro il Priore riceverà annualmente 14 Ducati annui per fornire a ciascuno il vitto e uno stipendio di 2 Ducati al mese, ad accezione della “mamola” che ne riceverà 1 soltanto.”


Un gallo nascosto da qualche parte si è messo a gridare il suo verso strozzato fuori orario … Alla mia destra un’inserviente rubiconda e pettoruta ha fatto cigolare la catena e la ruota dentro a una “vera” del pozzo. Ne ha estratto con un gesto abile un secchio grondante che s’è affrettata a distribuire dentro a boccali e caraffe e sangole che si era disposta tutto attorno. Ci sbirciava silenziosa di lato, continuando a lavorare determinata e seriosa … Sembrava che non le interasse nulla di noi e di quanto le stava accadendo intorno.


“Che sete ! ... Ho la gola riarsa … Signora ! Mi può dare un po’ d’acqua fresca per favore ?” ... ma non c’era più, e il pozzo era già chiuso e sigillato, interrato addirittura.

“Strano questo posto !” ho pensato mentre il sole del pomeriggio picchiava.


Ancora spinti ci siamo mossi in avanti. La nostra fila è passata accanto a un capanno col tetto forato da un grosso camino. Accanto alla porta spalancata stavano ammucchiate pile su pile di vestiti accatastati alla rinfusa. Alcuni erano abiti eleganti e raffinati, altri solo cenci luridi … ma tutti accomunati e contagiati dallo stesso morbo infame, destinati ad essere purificati dallo stesso fuoco. Un inserviente muscoloso a torso nudo se ne stava lì a far la spola fra dentro e fuori inforcandoli con un una forca bifida e appuntita. Aveva il volto sporco di fuliggine, il corpo sudato, e quel solito sguardo febbricitante che scappava fuori dagli “occhi di bragia” come quelli degli altri.


“Il Priore non dovrà spogliare i morti delle loro camicie né tagliare loro i capelli, ma seppellirli ad una profondità tale da non sentirne il puzzo. I vestiti siano portati in un magazzino e restituiti a quelli che sopravvivono, e bruciati, invece, per coloro che moriranno.”


Passando oltre sentimmo crepitare la fiamma, scoppiettare i ceppi della legna sul fuoco … e forse lui che zufolava e canticchiava una canzonaccia mentre procedeva in quell’insolito “rosteggiare”.


“Chi siete ? Da quale Contrada provenite ? … Sapete bene che luogo è questo.” Ci chiese di nuovo un altro scrivano seduto davanti a un altro grosso registro bisunto e spalancato. “Dovete depositare qui i vostri effetti personali e i vostri beni da quella parte … dentro a quel cassone e quelle ceste …”


“Il Priore è tenuto a comunicare all’Ufficio di Sanità sia il nome di tutti i ricoverati con ogni variazione, che dei morti. Se imbroglierà sul numero per guadagnare sopra i sussidi sarà multato di 200 Ducati d’oro e perderà il salario … Dovrà tenere un registro su cui verranno elencati tutti gli effetti personali in oro, argento e denaro dei malati. Un altro registro corrispondente deve essere tenuto dal Cappellano e dal Medico. In caso di morte dell’interessato i beni devono essere custoditi in una cassa comune le cui 4 chiavi devono essere tenute dal Priore, da Fra Manfreo, dal Cappellano e dal Medico. I beni vadano ai congiunti nominati dal defunto, o in mancanza di questi all’Ospedale di Sant’Antonio. Se i responsabili di questa custodia non rispetteranno le regole saranno puniti: “… con tre anni de prisòn forte a pan e acqua”, e dopo questo saranno banditi.”


Da due entrate laterali andavano e venivano, entravano ed uscivano vociando i Pizzegamorti. Due ridevano, scherzavano, canzonavano, bestemmiavano mentre trascinavano uno pesante portandolo per le braccia e le gambe. Altri ammassavano corpi uno sull’altro su di un improbabile carretto mezzo sfondato e cigolante traendoli da una betolina carica appena approdata nel canale. Due altri ancora conducevano a braccia una donna greve sotto ad una larga tesa scoperta. Li c’era un Medico che li stava aspettando tutto bardato e paludato sotto a un cappellaccio e dentro a un “naso lungo” farcito d’odori. Dietro a occhiali spessi osservava distrattamente quell’ennesimo corpo toccandolo quasi magicamente con una lunga bacchetta … Durò solo un attimo, perché una lunga fila di persone sedute o distese stava aspettando il proprio turno d’osservazione e valutazione.


Un documento del 1424 elencava una lista di letti, materassi e altre suppellettili fornite da un funzionario del Magistrato al Sal ad: “Angolo, Medico et Prior de Lazareto over Nazareto ...”


“Ai malati si somministrerà: … de carne de vedello e de pollo …”. Chi sarà incapace di mangiarla mangerà: uova fresche e “brodi consumadi et ogni altra cosa congrua a loro infermità …”


“Per preservarsi dalla peste e dal contagio necessita osservare una dieta sana: “… siano cibi facili da digerire e di buon nutrimento, come ova, pollastri, vitella e simile e soprattutto buon pane di formento buono, con altri semi e massime con l’oglio e sia il pane benissimo preparato con alquanto sale, vino meglio usarlo leggero ma stomacale…”

“Quelli poveri che saranno privadi dello intelletto e farnestici non siano dentro per alcun modo né legati ala colona, né posti in terra, né legati a pallo, ma siano posti in le tavole basse sopra gli stramazzi ligadi con alcune fasse et non con corde, et sieno attesi de dì e de notte con ogni diligentia azò non se guastino al volto o altro membro del corpo come in passato …”


“Nessuna persona dovrà ingiuriare, battere o contristare i ricoverati ...”


Un anonimo medico piemontese nel1642 disse e scrisse:“… due o tre cucchiai di sugo cavato dalli fiori o dalle foglie o dalle radici delli garofani domestici, si piglia con un poco di vino bianco. La feccia che avanza dopo aver spremuto il sugo si mette sui carboni, o buboni o antraci e li guarisce. Il detto sugo si può bere una volta al giorno tanto per curarsi quanto per preservarsi e se gli puol aggiungere un poco dell’osso del cuor del cervo. La conserva delli fiori serve anco molto per scacciare il veleno della peste …”


In giro per l’isola s’aggirava e s’accompagnava gente sfatta, cadente, provata. Sembravano residuati umani smunti e tristi, che come spettri febbricitanti zoppicavano intorno sospirando senza sapere che cosa andassero cercando ... forse delle tombe dove trovare finalmente remissione da quel loro gramo destino. Anche loro avevano quegli occhi rossi infuocati di bragia. Però non erano tutti sono così … C’era anche chi si era rialzato, chi dopo cinque giorni non indossava ancora i segni mortali del contagio, chi speranzoso scalpitava di continuare a vivere e lasciare al più presto quel gran cimitero a cielo aperto. Fra costoro c’erano alcune giovani fanciulle, dei bimbi, dei giovanotti forti che trovavano di nuovo e ancora la forza di sorridere e sperare. Non ne erano del tutto consapevoli … ma proprio in loro abitava il futuro di Venezia Serenissima di domani.


E’ curiosissimo un bilancio del marzo 1631.

“La Sanità della Serenissima provvide allo sgombero dei Lazzaretti considerando in fase di remissione il periodo di pestilenza ... Nei giorni precedenti erano state dimesse 800 persone, e ne restavano 150 di sospette al Lazzaretto Nuovo. Dei 2.000 iniziali e 300 al Lido si dovevano rilasciare entro una settimana, altri 2.000 tra Lazzaretto Vecchio e San Servolo erano sul punto di partire ... Lì c’erano ancora 400 poveri trattenuti perchè non sapevano dove recarsi, residuo di oltre 11.000 guariti ma reinviati ai Lazzaretti perché caduti in altre malattie ... A ottobre dello stesso anno erano rimasti al Lido solo 6 Pizzegamorti con il loro Capo per seppellire i cadaveri che continuavano ad arrivare giornalmente. Nei Lazzaretti Vecchio e Nuovo e nell’isola di San Clemente risiedevano ancora 585 persone tra ammalati e convalescenti, tra i quali 12 Pizzegamorti in contumacia ... Solo a metà novembre si concesse il permesso di riprendere a seppellire i morti nelle chiese, ed il 21 novembre si dichiarò ufficialmente terminata la pestilenza…”


L’ho intravvisto furtivo come un’ombra. Dagli angoli più disparati e sicuri, dall’alto della sua veranda, sbirciando appena dall’andito delle porte, dai portoni e dai cancelli, su tutto continuava a governare da dentro un continuo sferragliare di chiavi … Era il solito onnipresente Priore.


“Il Priore dovrà tenere tutte le chiavi del Lazzaretto, e di notte dovrà chiudere tutte le porte per evitare che i dipendenti del Lazzaretto importunino “le donne portade a dito luogo per conto de amalati …” I trasgressori saranno puniti con la perdita del salario, con una multa di 25 ducati e un bando di 5 anni da Venezia e Dominio.”


Aveva l’occhio furbo, lo sguardo severo e corrucciato … Doveva essere una persona determinata che badava al sodo della questione, interessato a far tornare i conti della situazione e capace d’intravedere dietro a tutto quel marasma umano e commerciale una qualche forma di profitto favorevole. Sotto al suo sguardo vigile le merci andavano e venivano in gran quantità come le navi per lo spurgo e lo sborro, e la quarantena e la sosta obbligata per i Veneziani ma anche per i marinai, i mercanti e i viaggiatori. Era tutto un andirivieni obbligato di uomini e cose, una specie di mercato strano, una kasbah ridotta ma ricca che brulicava d’intensa attività sotto gli occhi vigili degli Zaffi da Mar che vigilavano sia sull’isola che in barca lungo tutto il perimetro intorno.


“Chi vorrà visitare i malati dovrà farlo in barca rimanendo a debita distanza dall’isola. Se scenderà a terra verrà condannato a pagare una multa oltre ad essere inviato obbligatoriamente alla “Vigna Murata” per 40 giorni.”


Nessuno poteva sbarcare o ripartire impunemente dall’isola del Lazzaretto. Potevano farlo solo i patentati, gli esaminati e autorizzati … Per gli altri che osavano si poteva arrivare anche alla forca, alla prigione e allo strangolamento. Non era un luogo di vacanza il Lazzaretto, e neanche solo un luogo di pietà. Era un luogo di confine fra vita e morte, una porta spalancata sull’Inferno della Morte o sul Paradiso del continuare a vivere ... sempre sotto l’egida del cuore severo e amabile della solita Venezia Serenissima.


“Se ti andrà bene … fra qualche giorno ti porteremo al Lazzaretto Nuovo … Intanto rimarrai qua … Lì sarà tutto più aperto … più facile. Sarà solo una lunga Quaresima, una Quarantena … poi ritornerai alle tue cose e alla tua casa … Alla tua vita, ai tuoi affetti, e alle tue occupazioni di sempre, al lavoro in ospedale se ne avrai ancora la voglia …” mi ha suggerito ad un certo punto una voce autorevole alle spalle.


Mi sono volto immediatamente incerto fra meraviglia e apprensione. Quello che mi aveva parlato si stava già allontanando, ne intravvedevo solo la schiena e la coda dei capelli raccolti dondolante … Era una donna magra di media altezza che indossava una giubba viola e pesanti stivali neri. L’ho dovuta seguire fin dall’entrata … anche lei con quegli occhi vispi e accesi … Sembrava proprio saperla lunga su questo posto, su questa storia incredibile ma reale e mai finita.


Nel 1508 il patrimonio del Lazzaretto Vecchio era aumentato risultando di 100.000 ducati ... Fra 1521 e 1525 il Lazzaretto venne ulteriormente ampliato traendo fuori dal Fondo di guerra da 10.000 a 20.000 ducati, ma ancora dal 1545 al 1587 ci furono altri restauri. Sul portale del Lazzaretto sono infissi gli stemmi dei Procuratori de Citra benemeriti che “per pietà” avevano provveduto a costruire e risanare l’edificio. Erano : Marco q.Girolamo Grimani, Andrea q.Nicolo’ Gussoni, Giorgio q.Marco Corner, Alvise q.Pietro Priuli, Andrea q.Onofrio Giustinian, Marco q. Alvise Molin e Antonio q.Alvise Mocenigo … Le cronache ricordano che nel 1561 il Nobile Jacomo q.Agostin Venier: “… fornì piere travisane et coppi”, Ser Stefano Chartèr scavò il canale, e il Tagjapiera Andrea dalla Vecchia e Compagni “… costruirono le fondamenta a soldi 22 il passo.”… S’interrò parte della laguna contigua per ingrandire la superficie da destinare ai fabbricati del Lazzaretto.


Nel 1576 di nuovo scoppiò la tragica peste. Nuovamente le cronache cittadine raccontarono che: “… per la gran puzza non si potevano più bruciare i morti che crescevano di giorno in giorno, cosìchè in un camposanto del Lido in un luogo detto Cavannella vennero scavate delle fosse dove si mettevano una mano de corpi una de calcina viva et una di terra, et così di mano in mano fino a che ne potevano stare ... I morti di rispetto, invece, si potevano seppellire in casse a Sant’Ariano di Torcello ...”


Dieci anni dopo, i Lazzaretti avevano i buchi sui muri. Il murèr mastro Andrea q Daniel da Chiosa costruì una “cavana nuova” per le barche al Lazzaretto Vecchio e si rafforzò il Lazzaretto Nuovo bandendo 4 gare d’appalto per i lavori.

Nel dicembre 1630, Valerio Michiel e Andrea Cappello “Nominati Sopra ai Lazzaretti” comunicarono al Senato con una relazione che: “… dei 1.900 sospetti ricoverati dal 4 al 31 novembre al Lazzaretto Vecchio: 334 erano morti, 365 si erano appestati a causa della mescolanza con pericolo di contagio totale. Inoltre il frequente ricorso all’uso di grani e farine marci o adulterati aggravava la situazione alimentare e sanitaria dei poveri e poteva essa stessa essere causa di peste secondo alcuni medici ...”

I Provveditori alla Sanità certificarono che fra i mesi più travagliati di ottobre e novembre la cassa pubblica aveva sborsato: 67.448 ducati andati tutti spesi. Tommaso Massimi, uno dei Priori dei Lazzaretti, calcolò il costo necessario per accomodar un lazzaretto per 2.000 persone in 5.450 ducati, per pagar i Ministri: ducati 1.160 al mese, per assegnare soldi 24 di vitto al giorno ai ricoverati ducati 13.353 e soldi 12 mensili.


Ho continuato a guardarmi intorno smarrito, ad aggirarmi a lungo dentro e sotto a quelle tese ombrose, fra  viottole erbose, sotto alle pergole, attraverso i portici, l’ospedale, gli ampi camerotti … Ovunque andavo dentro a quell’intenso brusio e a quel denso carnaio di persone finivo sempre per ritrovare il bordo estremo e il muretto dell’isola ... Non c’era scampo, sembrava una trappola, una scatola cinese dentro all’altra … un labirinto contorto che forse non aveva più uscita.


Nel 1700 si costruì nella chiesetta un nuovo altare di marmo sul modello di quello della Basilica della Salute con le statue di San Sebastiano e San Rocco Protettori contro la peste ... Nel 1751 fu “moschettato”a Venezia, per ordine della Signoria il marangòn-falegname Francesco Lorenzetti di anni 47, lavorante al Lazzaretto Vecchio, “… per aver rubato un poca de seda ch’era in contumacia.”… Con la fine della Serenissima e l’arrivo dei Francesi del solito Napoleone, l’isola del Lazzaretto Vecchio venne abbandonata e indemaniata demolendo molti fabbricati: chiesa, chiostro, parlatorio, e utilizzata a scopo militare ... Infine dopo lunga assenza e silenzio, nel 1960-1965 i militari dismisero gli 8.400 mq dell’isola che divenne canile e gattaio custodito da volontari. Nel 1968 l’isola fu posta in vendita per 75 milioni in attesa delle ultime vicende attuali.


Sudo incastrato dentro ai miei pensieri fantasiosi nel pomeriggio tiepido della Primavera Veneziana. Chiudo gli occhi e li riapro … Non è successo niente. E’ tutto come ieri, come l’ho lasciato prima … è stato solo una visione, una fantasticata, un sogno da sveglio ... Mi ritrovo già tornato e traghettato sulla riva del Lido … Molti altri sono ancora lì in attesa per infiltrarsi curiosi dentro al quel mondo arcano e quasi magico del Lazzaretto Vecchio.


Non è morto e Vecchio del tutto il Lazzaretto perché la generosa disponibilità di alcuni lo stanno risvegliando dopo un lungo sonno e abbandono … In un certo senso il Lazzaretto è di nuovo in funzione e ritrovato. E’ giovane perché vorrebbe rivestirsi di una nuova identità museale cittadina da offrire ai pochi Veneziani curiosi rimasti e perché no?  … anche alle pingui folle dei turisti planetari.

Cala la sera sul Lido e la Laguna di Venezia, lentamente, piano piano dentro a un tramonto struggente, dopo questa domenica tiepida di sole … Sulla spiaggia si rincorrono ragazzi a torso nudo mentre qualcun altro ancora ben vestito e coperto passeggia chiacchierando delle proprie cose … Il mare è liscio e disteso, spalancato e placido in pendant con la Laguna che sta appena dietro, racchiusa, protetta, quasi nascosta e riservata con le sue sorprese e i suoi tesori carichi di Storia.


“Bello il Lazzaretto Vecchio … Lì il tempo si è fermato e riavvolto … Tutto è rimasto immobile e allo stesso tempo si è ripetuto come in quei tempi complicati …”


Osservo ancora la Laguna tranquilla e colorata … In lontananza passa pigro un veliero, anzi, un galeone lasciando sull’acqua una scia luminosa e scintillante … Richiama alla mente “cose antiche”, marinare, Mediterranee e Veneziane … ma è solo un natante falso e festaiolo. Non è falso invece l’entusiasmo irrefrenabile, la dedizione encomiabile e la voglia che anima i volontari dell’Archeosub con quel loro novello “Priore” in testa che ormai da molto tempo è interessato, preserva, e vuole il “bene”di certe “isole belle”.


Il Lazzaretto Vecchio è vivo e vegeto … solo un po’cambiato, invecchiato e un po’ sciupato e screpolato come la nostra vecchia matrona Venezia che ha sempre tanto da raccontare e mostrare. Dovrò ritornarci ancora … per riviverlo di nuovo … per guarirvi dentro un’altra volta.


“DUE OPINIONI DEL 1500 SUI VENEZIANI.”

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“Una curiosità Veneziana per volta.” – n° 72.


“DUE OPINIONI DEL 1500 SUI VENEZIANI.”


Sbirciando un poco dentro alla foresta intricatissima degli studi e degli infiniti scritti e saggi esistenti su Venezia, la sua Storia, gli eventi e i suoi personaggi … una vera e propria Amazzonia … capita a volte d’incontrare aneddoti e note curiose. Stavolta ne ho colte un paio che mi sembrano curiose perché sono due opinioni, due osservazioni sui Veneziani di quel tempo pronunciate non in maniera interessata o diplomatica, ma forse indiretta, magari spontanea, quindi prive di cercare ed ottenere un loro utile effetto.


La prima frase è del settembre 1510, ed è stata recuperata dai Veneziani catturando un Commissario-messaggero Pontificio che si stava recando dal Papa durante la guerra di Venezia contro gli Imperiali sotto alle mura di Verona. All’epoca, tanto per cambiare, il Pontefice era “nemico” e combatteva fieramente la Serenissima ... anche se continuava paternamente a benedirla di rimbalzo.

Si tratta dell’impressione provata sul campo vedendo i Veneziani in azione (soprattutto i Cavalieri, i Nobili, i Comandanti … ma sempre Veneziani erano.)


“ … Laudo quegli zentilhomeni Veneti, quali de dì e de notte tra le artillarie, stanno a sollecitar zente d’arme, fantarie, stratioti, turchi, vituarie … Mai l’avria creduto … Li Provedatori mai non dormeno, fanno un pasto tra il dì e la notte, hanno nature diaboliche che mai si consumano …”


La seconda opinione sui Veneziani proviene, invece, direttamente dalla bocca del Papa Pio II° in persona. Era … imbufalito e arrabbiatissimo contro i Lagunari per la “loro maniera” d’intendere la politica, l’economia, la vita e la Storia. E sapete com’è … quando si è inviperiti non si misurano molto le parole e si finisce per dire senza remore ciò che si pensa veramente:


“… Vogliono apparire Cristiani di fronte al mondo mentre in realtà non pensano mai a Dio e, ad eccezione dello Stato, che considerano una divinità, essi non hanno nulla di Sacro né di Santo … Per un Veneziano è giusto ciò che è buono per lo Stato, è pio ciò che accresce l’impero … Misurano l’onore in base ai decreti del Senato …”


Incazzatino in Papa ! … Anche se verrebbe da dire: “Da che pulpito provengono quelle parole ! … la sua maniera in fondo era la stessa …”Ma lasciamo perdere … la Storia non si cambia, e queste sono solo due opinioni, forse un po’ “rubate” e isolate da tutto il resto di un contesto molto più ampio.

Se l’equilibrio sta comunque e sempre in mezzo … i Veneziani di quel secolo dovevano essere perlomeno un compromesso fra quelle due opinioni catturate di “straforo” e probabilmente mai pronunciabili in pubblico. Venezia Serenissima doveva essere un miscuglio equilibrato di potenza, crudezza, opportunismo, spietatezza, determinazione e … forse benevola tenerezza.


Dico questo, e già finisco, perché intenerisce appunto leggere di un altro Veneziano raccontato dal solito Diarista Marin Sanudo: il Provveditore di Campo della Valtellina Giorgio Corner imprigionato, rinchiuso e torturato per sette anni dai Visconti Milanesi nei Forni di Monza. Quello non solo tacque e non rivelò i segreti di stato della Serenissima, ma sopravvisse fino a tornare libero a Venezia nell’ottobre 1439.


“… fu mandato in una burchiella lungo il Po, con la barba fino alla cintura, con una veste trista e amalato, dalla quale infirmità adì 4 decembre el morite …”



L’intera Signoria guidata dal Doge lo accompagnò al sepolcro fra due ali affollate di Veneziani … Venezia e la sua storia non si smentiscono.


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